multiverso 6 uguale

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L’UGUAGLIANZA È DIRITTO A PAROLE, DIRITTO A POSSED NON DIRITTO A ESSERE CON QUALCUNO DI SPECIALE, A CHIEDERE LO STESSO CHE NON CI SI PUÒ ASPETTARE LEGITTIMAMENTE, CI SI ASP


LLA DIFFERENZA, IN ALTRE ERE UNA DIFFERENZA, SIDERATO UN DIVERSO, PARTE, A CUI NON SI PUÒ AGLI ALTRI, O DA CUI LE STESSE COSE CHE, ETTA DAGLI ALTRI. Manuel Cruz, ‘Farsi carico’, Meltemi, Roma 2005, p. 20 (trad. it. di U. Bedogni).


Š Ulderica Da Pozzo


Gian Paolo Gri

gianpaolo.gri@uniud.it

Appunti per una etnografia dell’uguaglianza «Magnare a modo so, vestire a modo dei altri», dice un vecchio proverbio: dentro casa fa’ come vuoi e puoi; fuori, conformati ai vicini e inizia dal vestito. Gli storici dell’abbigliamento hanno descritto in dettaglio come il vestire soddisfi in maniera efficace il bisogno di uniformarsi, senza per questo negare il bisogno di distinguersi; hanno mostrato come l’abito crei comunità e permetta nello stesso tempo di affermare l’individualità, magari attraverso il solo gioco di alcuni dettagli. A privilegiare l’appartenenza collettiva, all’interno di una cornice che garantisce l’intreccio di aspetti funzionali e comunicativi, è soprattutto la categoria di abiti che caratterizza le istituzioni totali: costumi etnici, camicie nere rosse e verdi, divise e uniformi. Gli uguali si fabbricano; l’uguaglianza si afferma combinando la proclamazione esteriore garantita dall’abbigliamento con la comunanza obbligata di regole: stessi orari, stesso calendario, stessi spazi, stessi gesti, magari stesse aspirazioni. La dimensione rituale poi amplifica e sacralizza la costruzione dell’identità collettiva: mettere i piedi, in processione, dove li ha messi chi ci precede e dove li hanno messi i nostri antenati, cantare intonati lo stesso testo, uniformare il corpo allo stesso ritmo, mangiare lo stesso pane, condividere la stessa pipa o la stessa bottiglia, sedere in cerchio. L’abito è la seconda pelle. Quando il bisogno di affermare l’appartenenza comune diventa più forte ed esigente, allora lavorare sull’abito non basta. La ‘fabbricazione di ugualità’ investe il corpo stesso, lo segna, lo compromette. Le culture agiscono sul corpo e vi incidono l’identità comune. Intorno al corpo, «le società umane fanno veramente di tutto: aggiungono, tolgono, tagliano, inseriscono, dilatano, allungano, accorciano; ogni mezzo etnico e ogni materiale è buono per modellare, cambiare, trasformare il corpo. A quanto pare, le società umane si rifiutano


Soltanto i rapporti di differenza creano interdipendenza, ma abbiamo «difficoltà ad apprezzarla per via della rapidità con cui la trasformiamo in diseguaglianza». Accade così che il valore della differenza sia azzerato due volte: dalla disuguaglianza, prima, e dall’egualitarismo opposto a quest’ultima, poi. Luisa Muraro, ‘Oltre l’uguaglianza’ in ‘Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità”, Liguori, Napoli 1995, p. 133.

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© Costanza Maramotti, ‘Nudi di donna’, in ‘Visioni oltre il nero’, CRAF/Forum, Udine 2007, pp. 23-27.


I nostri genitori non giocheranno mai a tennis, a badminton, a golf. Non andranno mai a sciare. Non mangeranno mai in ristoranti raffinati. [...] I nostri genitori non andranno mai a un concerto di musica classica. In tutta la loro vita, non avranno mai un appartamento o una bella casa da qualche parte in Francia, in cui passare il resto dei loro giorni. [...] I nostri genitori non assaggeranno mai champagne, caviale o tartufi. Loro fanno la spesa al discount e al Lidl, e comprano tonno al naturale, patate, cibo messicano in scatola, fagioli, fagioli nani, semola, riso, pasta, bevande gassate, Coca-Cola e Orangina taroccate. Ahmed Djouder, ‘Disintegrati. Storia corale di una generazione di immigrati’, Il Saggiatore, Milano 2007, pp. 9-10 (trad. it. di X. Rodriguez).


Intervista di Francesco Marangon a Serge Latouche

serge.latouche@u-psud.fr francesco.marangon@uniud.it

Per uno sviluppo più egualitario: il modello della decrescita Francesco Marangon. Professor Latouche, lei

ritiene che l’attuale modello di sviluppo sia ormai ecologicamente insostenibile e ingiusto e che continui a generare sempre più disuguaglianza, alienazione e insicurezza. Da tempo lei propone una sorta di ‘diseconomizzazione’ della società. Cosa ci può dire, oggi, di una questione come quella dell’uguaglianza? Serge Latouche. L’economia ha cercato di risolvere il problema dell’uguaglianza proprio con la condizione dello sviluppo: più produciamo ricchezza più questa si diffonde. Con questo ragionamento si vuol far credere che con la crescita tutto sia possibile. Se non c’è oggi, l’uguaglianza ci sarà domani quando tutti, più o meno, potremo accedere ad un certo livello di benessere. La crescita è diventata la vera religione del nostro tempo. L’uomo così ha però tradito le promesse della modernità. L’Illuminismo e la Rivoluzione francese avevano posto le basi per una società in grado di emanciparsi non solo dalla trascendenza, dalla rivelazione e dalla tradizione, ma anche dal tiranno o dal sovrano assoluto. L’obiettivo era quello di creare una società autonoma – nel senso originario

della parola – che sapesse dare a se stessa le proprie leggi. L’uguaglianza diventava così una necessità, ma una società di persone uguali non è possibile e il liberismo, soprattutto attraverso il suo aspetto economico, ha trovato la propria strada: se si produce di più saremo tutti più ricchi, anche i più poveri. S’impone così una nuova eteronomia, che non è più quella della divinità o del re ma è quella dei mercati finanziari. Non è il risultato della volontà di potere di un uomo o di un altro, ma si tratta di una mano invisibile che assicura un ordine che fa dipendere ogni cosa dal mercato e dalla crescita. Francesco Marangon. Secondo lei, quindi,

credere che la crescita economica sia una soluzione ai problemi dell’equità e dell’uguaglianza è solo una mistificazione. Eppure, è un modello che porta con sé un messaggio positivo perché promette una possibilità per il futuro. Cosa ne pensa? Serge Latouche. Quando studiavo a Parigi, i

professori di economia mi parlavano a lungo dei circoli virtuosi della crescita. Era un momento favoloso, nel mezzo di quel periodo 21


versione di massa, un cambiamento totale, una forma di revisione laica per ritrovare il senso della civiltà, della misura, per rifondare una società umana. Per questo effettivamente non abbiamo tempo. Se non facciamo niente, fra una generazione – nel 20502060 – sarà la fine dell’umanità. Ai miei figli dico che quando avranno la mia età il mondo sarà completamente diverso perché, per esempio, non ci sarà più il petrolio, non si potrà più passare le vacanze alle Seychelles perché gli aerei non avranno carburante e perché le Seychelles saranno ormai sotto acqua. Basti pensare ai cambiamenti climatici, alla desertificazione, ai fondi marini, all’aumento delle temperature... Questi fatti ci suggeriscono che forse è meglio imboccare una strada diversa, quella di una società autonoma per la decrescita serena e conviviale. Sono fondamentalmente ottimista perché anche nelle condizioni difficili c’è la possibilità di cambiare e cercare la felicità. Un paradosso della felicità è che molto spesso sono le condizioni più ardue che fanno sì che gli uomini si sentano felici. Mi ricordo i racconti dei partigiani che mi dicevano che quando facevano la resistenza erano felici. Oggi siamo in una situazione di guerra contro la dismisura e questa resistenza può anche renderci felici. Francesco Marangon. A veder le cose come vanno sembra di essere sul Titanic, stiamo a far festa e a ballare e...

Serge Latouche. Sì è vero, ma questo movimento di resistenza è giovane, siamo solo all’inizio. Una piccola forma di resistenza per esempio è il tecnodigiuno. È una sfida con noi stessi. Possiamo fare a meno dell’impero della televisione e fare a meno di andare in vacanza alle Seychelles. Se già pensiamo che il mondo che vorremmo è totalmente diverso vuol dire che abbiamo già cominciato il percorso di resistenza, così quando le grandi catastrofi avverranno saremo già pronti. Francesco Marangon. Professor Latouche, per finire, può darci un’immagine della decrescita? Serge Latouche. Prendo a prestito la metafora di Ivan Illich sulla saggezza della chiocciola. La chiocciola costruisce la delicata architettura del suo guscio, aggiungendo una dopo l’altra delle spire sempre più grandi, poi cessa bruscamente e dà inizio ad avvolgimenti, questa volta decrescenti. La chiocciola si dimostra più intelligente dell’uomo perché capisce quando deve interrompere l’aumento della produttività, una sola spira in più aumenterebbe di sedici volte la dimensione del guscio e anziché contribuire al benessere la porterebbe al rischio di rimanere schiacciata sotto il peso del suo stesso sviluppo. Oltre quel limite lo sviluppo comincia a moltiplicarsi in progressione geometrica mentre le capacità biologiche della chiocciola, nella migliore delle ipotesi, non possono che aumentare in proporzione aritmetica.

La comunità e la democrazia possono giungere a piena maturazione solo laddove le persone siano riuscite a conquistare responsabilità individuale e libertà. È ormai tramontata l’epoca del paternalismo, della cieca fiducia nell’autorità, dell’accettazione passiva di esperienze o prescrizioni altrui, del potere ‘subìto’ e della delega del comando e della responsabilità ad altri, senza alcun controllo [...]. Anche sul piano sociale la responsabilità del singolo assume un peso sempre maggiore: basti pensare all’importanza (anche in politica) delle strutture sociali piccole e medie, le sole in grado di garantire il mantenimento delle particolarità e delle diversità all’interno di una comunità sempre più numerosa. Alexander Langer, ‘Il viaggiatore leggero’, Sellerio, Palermo 2005, pp. 40-41.

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Vittorio Foa, ‘Le parole della politica’, Einaudi, Torino 2008, p. 10.

Giovani e popoli si ribellano. È giusto. Il bisogno del diverso, di radicalità, di rottura è ineliminabile. Sentiamo il bisogno di rompere, sentiamo il bisogno di cambiare (e lo sente anche chi crede di poter continuare a vivere tranquillo), ma non riusciamo a definire il sistema di cambiamento, le sue modalità. Nella mia vita ho tentato varie volte di perseguire il cambiamento.

© Matteo Lavazza Seranto


© Luca Laureati


Intervista di Marco Iob a Riccardo Petrella

acqua@cevi.coop petrellariccardo@skynet.be

L’acqua: un diritto per tutti Marco Iob. Il 2008 è l’anno del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti

umani: in essa sono sanciti i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali e culturali di ogni persona. Rappresenta di fatto il ‘manifesto dell’uguaglianza’ tra le persone del mondo. Ma ciò che è uguale per una persona, una comunità, un popolo è uguale anche per altri, di altre culture e di altri luoghi? Riccardo Petrella. È chiaro che la caratteristica fondamentale di qualsiasi specie vivente è la

sua unicità; ciascuno di noi è unico, non ripetibile: per questo si può dire che la storia umana è diversa quando tu, Marco, ci sei rispetto a quando non ci sei. Come diceva Ibsen, ciascuno di noi è una parola di Dio che non si ripete più e che non si ripete mai. Da un punto di vista biologico, o ‘della natura’, la diversità è dunque la caratteristica fondamentale. Aggregazioni di individui unici diventano però tra loro uguali nei confronti di altre aggregazioni, per cui noi siamo uguali tra umani e diversi rispetto ad altre specie. Per quanto riguarda i diritti, è importante sottolineare che essi sono delle costruzioni sociali sia per ciò che attiene alla loro definizione, alla loro esistenza e alla loro pertinenza riguardo agli esseri umani, sia rispetto alle esperienze e alla loro concretizzazione pratica. Per cui, ad esempio, si può affermare che il diritto alla libertà è una costruzione sociale e, di conseguenza, che il soggetto che ha costruito il concetto di libertà è stato un determinato gruppo sociale. Ci sono società che hanno costruito delle definizioni di libertà fra loro diverse a livello teorico. La costruzione sociale del concetto di diritto e la sua concretizzazione varia da società a società e questo è l’elemento di diversità. Noi siamo diversi ma il diritto in sé non è diverso. Partendo dal concetto che in natura siamo tutti diversi, non si pone sufficiente attenzione al


considerare la diversità dell’altro come una possibilità di crescita umana, culturale, spirituale. Le diversità che si comunicano nella reciprocità diventano un arricchimento per entrambi i soggetti, per le tante e diverse culture e fedi religiose.

Possibile: con l’attenzione a liberarci dalla dose di fatalismo, di riduzione minimale di questa indicazione; con l’attivazione invece di tutte le potenzialità e possibilità ancora inedite e così spesso costrette e impedite da una visione dell’essere umano, della vita e della storia di per sé chiusa, ripiegata. Un nuovo mondo di uguaglianza è possibile Di uguaglianza: nel quale le dichiarazioni Nuovo rispetto all’attuale; nuovo nel significa- siano sempre seguite da scelte e da pratiche to pregnante di un futuro umano che comincoerenti personali e comunitarie, culturali, eticia nelle scelte dell’oggi; nuovo nel senso di che, politiche, legislative. profondamente nuovo, non aggiustamento e Personalmente avverto in tutta la sua forza il correzione di facciata di un presente disuma- significato del termine ‘utopia’, troppo spesso no che comunque continuerebbe aggravandichiarata come illusione, come impossibilità. dosi, appunto, con qualche correttivo per la Assumiamolo invece nella sua etimologia di sua accettabilità; il mondo inteso non come luogo non ancora abitato ma intravisto, abitaoggetto di studio, di sperimentazione, di utiliz- bile, verso cui muoversi insieme per poterlo zo, di sfruttamento: il mondo come eco-siste- abitare. Anche se non ci arriveremo e ci arrima di relazioni fra tutti gli esseri viventi, fra cui veranno altri compagni e compagne di viagl’essere umano; fra le diverse forme di energio è importante il tratto di strada percorso gie, in cooperazione pluralistica fra di loro. da ciascuna/o di noi e percorso insieme.

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© Erika Pittis

Dalla signora Danielle Aird (Ontario, Canada): «Quando mia figlia aveva quattro anni, durante una passeggiata nella nostra cittadina dove, all’epoca, non incontravamo quasi mai persone di ascendenza africana, abbiamo visto venire verso di noi un bell’uomo, di statura molto alta, dai lineamenti africani, con la pelle quasi color dell’ebano. Dopo esserci incrociati e quando si è trovato qualche passo dietro a noi, mia figlia mi ha chiesto se pensavo che fosse un olandese. Ero sorpresa della domanda: non avevo visto che lineamenti africani e una pelle di colore molto scuro. ‘Perché pensi che sia olandese?’ le chiesi. ‘Be’, mi dice, ‘perché porta gli zoccoli’. Mi volto indietro e, in effetti, il giovanotto portava gli zoccoli. La cosa mi ha riscaldato il cuore». Tahar Ben Jelloun, ‘Il razzismo spiegato a mia figlia’, Bompiani, Milano 1999, p. 90 (trad. it. di E. Volterrani).

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Bozˇ idar Stanisˇ ic

bozidar56@yahoo.it

Una conversazione notturna, quasi breve: uguali e diversi Quest’inverno partecipai a T. ad una conferenza sul tema delle prossime integrazioni europee e regionali nei Balcani. Parlai brevemente, sottolineando alcune delle attuali problematiche sociali e culturali, riguardanti soprattutto la Bosnia. Alla fine notai di non aver soddisfatto le aspettative degli organizzatori. No, non mi dissero niente, ma parlavano i loro sguardi, pure i loro sorrisi, un po’ acidi. Scherzai, chiedendo se meritavo la cena. Ma che domanda! Cenammo in uno dei ristoranti di T., in cui ad un semplice mortale pare che le posate siano in più, in cui l’ospite non deve versare il vino da solo perché spetta ai camerieri, discreti, quasi invisibili che, con una scopetta minuscola, puliscono ogni briciola sul tovagliolo. L’atmosfera al tavolo era di quelle sterili, con i sorrisi ufficiosi dei volti che sapevano di dimenticarsi reciprocamente forse già dopodomani. Mi sedevo, al fondo del tavolo, accanto ad un professore di Roma. Durante la cena scambiammo alcune parole di gentilezza. Poi seppi che eravamo sistemati nello stesso albergo. Mi disse che era abituato a bere un tè dopo cena. Se avessi voluto, mi domandò, potevo fargli compagnia. Accettai e partimmo verso le piazzette deserte di T. sperando che ci fosse un bar aperto.

Disse improvvisamente che era rimasto inquieto dalla mia relazione. Mi giudicava pessimista. Dalla caduta del Muro si occupa dell’Est Europa, spesso anche dei Balcani. Come sociologo si interessa di tutti i fenomeni sociopolitici importanti che attraversano la realtà dell’Est europeo. Sia dell’antieuropeismo che dell’euroscetticismo della maggioranza dei giovani, soprattutto in Bosnia, non sapeva nulla. Lui è un convinto europeista, crede nella crescita della Grande Casa d’Europa. Essendo tale gli fa piacere leggere le informazioni sui successi del governo internazionale in Bosnia. «Ma – esclamò – del problema del regime dei visti in quelle informazioni non si parla». Né di altre cose che io avevo sottolineato nella mia relazione, prima fra tutte la forte diseguaglianza sociale 37


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Uniforme, divisa, livrea sono tutti termini che richiamano l’inclusione del corpo individuale entro un ordine sociale e gerarchico. L’uniforme e la divisa rappresentano nella storia del costume manifestazioni significative di come il vestito possa diventare per il corpo un apparato regolatore che sancisce un sistema chiuso di corrispondenze tra l’apparenza esteriore e l’ordine sociale. Non per nulla le divise sono i segni di riconoscimento dell’appartenenza a quelle istituzioni totali – dall’esercito alla scuola, al carcere, all’ospedale – su cui si fondano le garanzie più profonde dell’ordine sociale del discorso. La divisa è l’emblema della separazione tra l’interno e l’esterno di una cultura gerarchicamente ordinata, tra il mondo ‘dritto’ e il mondo ‘alla rovescia’, tra il familiare e l’estraneo, tra il ‘nostro’ e il ‘loro’, tra l’identità e l’alterità. [...] La divisa quale uniforme è dunque concepibile come un segno impersonale, che prescinde da ciò che lo potrebbe rendere unico e insostituibile. Se da un lato essa individua significati certi e stabili relativamente al ruolo di chi la indossa, dall’altra parte è indifferente a ogni specificità individuale, e fondamentalmente è indifferente all’elemento della corporeità intesa quale materialità ‘resistente’ alla universale scambiabilità. Fu proprio nella divisa per eccellenza, cioè nell’uniforme militare, a essere introdotta la taglia prima ancora che la moda inventasse la produzione di massa o il prêt à porter. Patrizia Calefato, ‘Che nome sei? Nomi, marchi, tag, nick, etichette e altri segni’, Meltemi, Roma 2006, pp. 159-160.

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[...] IL MASSCULT [LA CULTURA DI MASSA, N.D.R.] È UNA FORZA DINAMICA, RIVOLUZIONARIA, CHE SPEZZA LE ANTICHE BARRIERE DI CLASSE, DI TRADIZIONE E DI GUSTO, DISSOLVENDO OGNI DISTINZIONE CULTURALE. IL MASSCULT MISCHIA E RIMESCOLA ASSIEME OGNI COSA, PRODUCENDO QUELLA CHE SI POTREBBE DEFINIRE CULTURA OMOGENEIZZATA [...] IL MASSCULT È QUALCOSA DI MOLTO, MOLTO DEMOCRATICO; RIFIUTA LA DISCRIMINAZIONE CONTRO O FRA QUALSIASI COSA O CHIUNQUE. TUTTO È ACQUA PER IL SUO MULINO, E TUTTO NE ESCE FINEMENTE MACINATO. LIFE È UNA TIPICA RIVISTA OMOGENEIZZATA, CHE FA BELLA MOSTRA DI SÉ NEGLI SCAFFALI DELLE LIBRERIE DI MOGANO DEI RICCHI, SUI TAVOLINI COL RIPIANO DI CRISTALLO DELLA PICCOLA BORGHESIA, E SUI TAVOLI RICOPERTI D’INCERATA DELLE CUCINE DEI POVERI. IL SUO CONTENUTO È DEL TUTTO OMOGENEIZZATO AL PARI DELLA SUA DIFFUSIONE. LO STESSO NUMERO PRESENTERÀ UNA SERIA ESPOSIZIONE DELL’ENERGIA ATOMICA, SEGUITA DA UNA DISQUISIZIONE SULLA VITA AMOROSA DI RITA HAYWORTH; FOTOGRAFIE DI BAMBINI AFFAMATI CHE FRUGANO NELLE IMMONDIZIE DI CALCUTTA E DI LEVIGATE INDOSSATRICI CHE INDOSSANO ADERENTI REGGISENI; UN EDITORIALE DI AUGURI PER L’OTTANTESIMO COMPLEANNO DI BERTRAND RUSSEL [...]; NOVE PAGINE A COLORI DI RIPRODUZIONI DI RENOIR SEGUITE DA UNA FOTOGRAFIA DI UN CAVALLO MONTATO SU PATTINI A ROTELLE. [...] IN UN CERTO SENSO, QUESTA TENDENZA A RIMESCOLARE TUTTO ASSIEME SEMBRA PROCEDERE IN UN’UNICA DIREZIONE, QUELLA CONSISTENTE NEL DEGRADARE LE COSE SERIE ANZICHÉ ELEVARE LE FRIVOLE. I DIFENSORI DELLA SOCIETÀ BASATA SUL MASSCULT [...] CONSIDERANO I FENOMENI COME LIFE QUALI ISPIRATORI DI TENTATIVI DI UN’EDUCAZIONE POPOLARE – PENSATE UN PO’, NOVE PAGINE DI RENOIR! MA POI C’È IL CAVALLO SUI PATTINI, E L’IMPRESSIONE FINALE È CHE TANTO RENOIR QUANTO IL CAVALLO SIANO DOTATI DI TALENTO. Dwight Macdonald, ‘Masscult e Midcult’, edizioni e/o, Roma 2002, pp. 34-36 (trad. it. di A. Dell’Orto e A. Gersoni Kelley).


Intervista di Gianpaolo Carbonetto a Italo Moretti

g.carbonetto@messaggeroveneto.it

Una informazione omologata Gianpaolo Carbonetto. Il concetto di uguaglianza è apprezzabile e desiderabile in quasi tutti gli aspetti della vita, ma se lo usiamo parlando di informazione, potrebbe nascondere un problema enorme: cosa accadrebbe se tutti i media diffondessero le medesime notizie e i medesimi commenti? Tu, a lungo inviato speciale in America latina, hai toccato con mano questa realtà che nelle dittature è la norma.

che ti sto per domandare potrebbe sembrare una bestemmia, ma ti sembra che in Italia stiamo davvero bene a livello di informazione?

Italo Moretti. No. Non va tanto bene. Il nostro è un paese in cui l’informazione cede ogni giorno di più alla tentazione della spettacolarizzazione. Per un lettore, un telespettatore, un ascoltatore di media italiani, seguire gradualmente e costantemente ciò Italo Moretti. Fortunatamente ne posso parche accade nel mondo è praticamente lare al passato perché sono stati fatti grandi impossibile perché delle vicende si parla nel progressi democratici: in America latina la momento in cui esplodono, e poi per pochi situazione non è più quella di vent’anni fa, e giorni ancora; ma quando la situazione non è oggi esiste un giornalismo curioso e pluralipiù esplosiva – e questo vale sia per sciagusta, salvo alcune clamorose eccezioni, come re naturali che distruggono intere popolaziola Colombia dove l’informazione è a senso ni, sia per le vicende politiche – gradualmenunico nelle mani della destra del presidente te su queste storie cala il sipario e quando Uribe. Se oggi un colombiano volesse essere se ne riparla è come se non fossero mai informato sulle cause che bloccano ogni ten- accadute. tativo di liberare Ingrid Betancourt, non lo potrebbe fare. Ma nel resto del continente la Gianpaolo Carbonetto. Un esempio illumisituazione presenta dei profondi miglioramen- nante mi sembra quello delle morti sul lavoro che fanno notizia ogni giorno, ma è come se ti che sono andati di pari passo con il camnon fossero collegate al disprezzo per le biamento positivo e riformista. norme di sicurezza. Ogni volta che ne accaGianpaolo Carbonetto. A prima vista quello de una è quasi come se fosse la prima. 51



Giuseppe Granieri

g.granieri@gmail.com

Diversamente uomini, ugualmente responsabili La volgarizzazione del concetto di virtuale, quella snaturata che applichiamo allegramente a quanto accade nei network digitali, è una delle superstizioni più pericolose che abbiamo nella nostra società contemporanea. Seconda, forse, solo all’illusione naturalistica dell’‘esportazione della democrazia’ e sullo stesso piano di certe applicazioni della finanza avventurosa. È un punto di partenza parossistico, certo. Ma ci sono alcuni dati di fatto che non possiamo trascurare. Il primo è che attualmente non possiamo più dire di conoscere il funzionamento delle nostre culture. Zygmunt Bauman, nella sua lucidità divulgativa, raccontava che i viaggiatori e le distanze ridotte avevano avviato un processo di globalizzazione che tutto modifica. Clifford Geertz osservava che non c’è più una cultura legata agli stati nazionali e, in generale, non c’è più una cultura davvero omogenea su cui converge il consenso di tutti i membri. Marshall McLuhan e le diverse generazioni successive di massmediologi hanno ridipinto a colori vividi un villaggio globale in cui la nostra conoscenza del mondo è quasi totalmente di seconda mano, ‘mediata’ direbbero loro. Poi, per una buffa coincidenza, proprio al volgere del millennio c’è stata un’accelerazione fortissima, uno sbalzo radicale, un cambiamento di paradigmi. Abbiamo innestato all’interno delle nostre società un’infrastruttura di comunicazione che mette in contatto direttamente gli individui, consente loro di scambiarsi conoscenza, di creare relazioni, di organizzarsi in gruppi. E dato che tutti gli assetti sociali umani si sono sempre riorganizzati in base alla capacità che avevano di gestire informazioni e conoscenza, le nostre culture stanno cambiando ad un livello pro-

fondo, quello che i semiologi chiamano ‘asse paradigmatico o di sistema’. Ovvero proprio il livello attraverso cui noi riconosciamo il funzionamento di una cultura e attraverso cui decidiamo come muoverci e comportarci al suo interno. È ancora abbastanza presto per prendere le misure del cambiamento. Alcuni fatti di superficie sono già visibili ad occhio nudo: è cambiato il consumo musicale, la politica sta cominciando lentamente a riconoscere che nel ‘sistema’ è stato innestato un nuovo spazio pubblico, il mercato ha preso atto che la comunicazione con il consumatore è improvvisamente diventata bidirezionale. Ogni individuo, nel normale sistema operativo del suo computer, ha già l’abilitazione tecnologica (non ancora i linguaggi espressivi) per produrre, montare e distribuire video, comporre musica, fare informazione, costruire opinioni. E si potrebbero fare mille altri piccoli esempi. Il secondo dato di fatto è riconoscibile ad un livello più profondo. Il numero di cose che possiamo fare prescindendo dalla nostra ‘massa biologica’ e dal suo movimento nello spazio è sempre maggiore. E il peso di queste attività nelle nostre vite è sempre più importante. Non si tratta solo di piccole semplificazioni alla complessità quotidiana (comprare libri online, fare un bonifico senza andare in banca), quanto piuttosto di un radicale redesign delle nostre reti sociali e relazionali. Il concetto di ‘locale’ (i nostri amici, i nostri colleghi di lavoro, l’ambiente geograficamente possibile in cui ci muoviamo) si dilata. E cambiano le regole di aggregazione, di scelta reciproca. Non sono più obbligato a scegliere i miei amici (o mia moglie) tra coloro che il destino ha fatto nascere nella mia stessa zona o che mi ha fatto incontrare 55


Š Marco Brollo http://mimcsrl.blogspot.com


Niles Eldredge

epunkeek@amnh.org

Varietà, il sale della vita C’è un modo di dire in America che recita: «La varietà è il sale della vita». Troppo della stessa cosa (anche del gelato!) può essere noioso: e tutti hanno bisogno di evitare la noia ad ogni costo. Ma c’è anche un lato più serio nell’importanza della variazione e della diversità sia nei sistemi culturali umani che in quelli biologici. Negli ultimi cento anni, da quando la popolazione umana si è sviluppata così rapidamente, abbiamo perso circa 500 lingue e stiamo forse perdendo 30.00040.000 specie all’anno in tutto il mondo. Dobbiamo chiederci: è importante la perdita di variazione e di diversità? E per decidere su questo argomento dobbiamo anche chiederci: qual è il significato della diversità in primo luogo? Perché è importante? Variazione – e diversità – sembrano essere incorporate nella natura dei sistemi biologici, dal genoma fino agli ecosistemi. Parliamo di ‘variazione genetica’ e ci rendiamo conto, come ha fatto Charles Darwin nel suo Taccuino E (edizione italiana a cura di Telmo Pievani, Laterza, 2008), scritto fra la fine del 1838 e l’inizio del 1839, che la variazione ereditaria è una delle tre semplici pietre angolari dell’evoluzione attraverso la selezione naturale. Darwin scompose la selezione

naturale in tre crudi enunciati: - i nipoti come i nonni; - tendenza al piccolo cambiamento (in particolare rispetto al cambiamento fisico); - fertilità maggiore in proporzione all’aiuto parentale. La prima frase enuncia semplicemente il principio dell’ereditarietà, anche se i meccanismi della genetica erano del tutto sconosciuti a Darwin e ai suoi contemporanei. La terza è il principio malthusiano per il quale ad ogni generazione ci sono molti più nati di quelli che riescono effettivamente a sopravvivere e riprodursi. La seconda frase è cruciale per i nostri interessi attuali: Darwin vide che la variazione ereditaria è assolutamente necessaria affinché si abbia evoluzione. I biologi contemporanei sono ovviamente d’accordo. Ma possiamo dire che la variazione genetica – così essenziale perché si abbia un processo evolutivo – è un valore in sé? Il grande genetista e biologo evoluzionista Theodosius Dobzhansky (in particolar modo nel suo libro Genetics and the Origin of Species, Columbia University Press, 1937) era interessato alla conservazione della variabilità genetica nelle popolazioni naturali. Dobzhansky suggerì che la variazione genetica ha un valore reale e che 7


America, per esempio in Brasile, e mi sembra impossibile che si possa dire che un antischiavista possa essere un razzista. Sul concetto di razza, poi, scrisse delle cose molto belle e disse che il concetto di razze umane è scientificamente poco plausibile: c’è un bellissimo passo ne L’origine dell’uomo in cui dice che ogni scienziato che è venuto prima di lui ha classificato le razze in maniera diversa quindi, secondo lui, le razze sono un concetto arbitrario perché non riusciamo nemmeno a definire quali sono; quindi sicuramente non può essere definito un razzista. Certo, nelle sue opere ci sono delle frasi che a noi sembrano sgradevoli, per esempio quando parla di razze umane, di razze che sono arrivate a livelli di civilizzazione superiori rispetto ad altre, di competizione tra razze: senz’altro queste cose non ci piacciono, ma considerando il fatto che il suo contesto era completamente diverso dal nostro, non lo definirei un razzista, e penso che vada capito bene qual era il suo pensiero. Stephen J. Gould diceva sempre a lezione: «Considerate Darwin come un grande conservatore nella vita privata, un moderato progressista in politica e un rivoluzionario nella scienza».

nista la risposta è molto semplice: tramite la complementarità dei due aspetti. Quindi la chiave interpretativa migliore dell’evoluzione, secondo me, è l’unità nella diversità, e questo si può osservare a tutti i livelli: l’unità di tipo storico-genealogico, quindi lo studio delle somiglianze, delle continuità naturali, delle parentele. Si deve però anche dire che il motore che ha prodotto questa storia è stata la diversità individuale, la diversità di popolazione. Non si può quindi capire l’evoluzione se non si tiene presente sempre la complementarità dell’unità storica e della diversità biologica e questa, in qualche modo, è una buona chiave di lettura anche per la specie umana, per la sua diversità culturale: più andiamo avanti a studiare la specie umana più ci rendiamo conto che ha un’origine recente, unica, africana, a partire da un piccolo gruppo e quindi estremamente coesa dal punto di vista biologico e genetico, con una grande unità di fondo, che quindi implica il concetto di uguaglianza, il fatto che ogni essere umano ha eguale dignità e deve aspirare agli stessi diritti. È anche vero, poi, che la caratteristica più peculiare di questa specie, così giovane, con questa origine così recente, è quella di essere stata capace di Angelo Vianello. L’aspirazione ad un’uguadiversificarsi in una quantità di etnie, di cultuglianza sociale è un’indubbia e importante conquista dell’Illuminismo e della Rivoluzione re così differenti che non esistono in altre specie; quindi anche lì la matrice è doppia: francese. Come si concilia con le esigenze l’unità nella diversità. Come tenerle insieme della diversità, sia culturale che biologica? io non lo saprei, certamente l’evoluzione ci fa Telmo Pievani. Questa è una grande doman- vedere che non possono stare l’una senza da! Io la vedo da evoluzionista e da evoluzio- l’altra.

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© maddalena fragnito de giorgio www.ilbestdiario.com

E tutti costoro, perfettamente simili uno all’altro, sùbito dopo la loro comparsa si mettevano a correre l’uno dietro l’altro, in lunga fila, come una schiera di oche, e si trascinavano arrancando dietro al signor Goljadkin numero uno, cosicché non c’era modo di sfuggire a questi tipi perfettamente identici, cosicché il signor Goljadkin, degno in tutti i modi di commiserazione, si sentì mozzare il fiato per l’orrore; cosicché sorse, infine, una spaventosa quantità di esseri perfettamente uguali, cosicché tutta la capitale fu invasa, infine, da quegli esseri perfettamente simili, e un agente di polizia, alla vista di una tale violazione al decoro, fu costretto a prendere quegli uomini perfettamente simili per la collottola e a farli entrare in una guardina che si trovava per caso lì di fianco... Fëdor Dostoevskij, ‘Il sosia. Poema pietroburghese’, Rizzoli, Milano 1983, p. 140 (trad. it. di Giacinta De Dominicis Jorio).

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Fishes Nachtgesang

Fish’s Night Song

Canzone notturna del pesce

C. Morgenstern

tradotto da Max Knight

tradotto da Guido Almansi

Guido Almansi e Guido Fink, ‘Quasi come’, Bompiani, Milano 1976, p. 328.


Marisa Sestito

marisa.sestito@dllgr.uniud.it

I nomi bugiardi Nel tradurre, l’equivalenza è la pietra angolare su cui si sostiene la casa delle parole tradotte. Equivalenza negoziata, nel passaggio da lingua a lingua, dove nel caso migliore l’uguale è il quasi uguale: uno scarto a volte lieve, a volte brusco, che segnala la distanza dall’origine, e che non necessariamente misura il decrescere della bellezza. Poiché, pur nello spazio del ‘quasi’, l’impervio lavoro del traduttore, della traduttrice, alla bellezza può attingere: forse la casa tradotta non sarà più un cottage col tetto di paglia, e diventerà una piccola casa col tetto di tegole, e tuttavia offrirà al lettore un’immagine equivalente, gradevole e pacata. La ricerca dell’equivalenza – fedeltà, per il traduttore – conosce livelli diversi di approssimazione, e si vede talora costretta a rassegnarsi all’alterità: come di fronte all’arduo ostacolo del genere, maschile, femminile, neutro che, ad esempio nel passaggio dall’inglese all’italiano, incrina la resa. Come rendere la reificazione della persona che si trasforma in cosa?

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