multiverso 7 corpo

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© Matteo Lavazza Seranto

Se non ci fidiamo più dei sensi, se svalutiamo l’importanza delle loro informazioni è perché il sapere scientifico prodotto dal formalismo dell’Iopenso ha rimosso a tal punto la nostra esperienza corporea da farci disimparare a ‘vedere’, a ‘udire’ e in generale a ‘sentire’, per ‘dedurre’ dalla nostra organizzazione mentale e dal mondo quale lo concepisce il fisico ciò che dobbiamo vedere, udire, sentire. Per questo la terra è diventata inospitale e inospitati si sentono ormai gli abitatori della terra. Qui un ulteriore sviluppo delle scienze è inessenziale, perché il disagio nasce proprio da questo incontrollato sviluppo, dalla pretesa cioè di abitare un mondo, che è corporeo e terreno, con un pensiero puro dimentico del corpo. Umberto Galimberti, ‘Il corpo’, Feltrinelli, Milano 1984, p. 68.

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bambino è molto delicata. Che quanto una madre e un padre pensano, sentono, sanno sia ritenuto irrilevante rispetto al parere di un medico è ancora una volta non solo poco umano, ma poco consono alla priorità della medicina di capire per soccorrere chi soffre. Mi sembra che, oltre alla questione giuridica e morale, ci sia di nuovo una presunzione scientifica infondata. Se il cosiddetto parere tecnico dei medici di procedere a rianimare un neonato morente prevale comunque, indipendentemente da o contro il consenso dei genitori, si asserisce la superiorità oggettiva di quel parere tecnico che tu hai sottolineato essere, invece, assai poco oggettivo e non condiviso neppure tra gli specialisti. Il richiamo alla clinica e all’esperienza degli specialisti con i bambini e con i genitori, anziché solo con i parametri sperimentali sui corpi, forse è doveroso.

da sottoporre a una attenta analisi perché, oltre a minare inevitabilmente il rapporto medico-paziente (o medico-genitori), espone i neonati all’autorità assoluta del medico che li cura, ed espone i medici, sia che il neonato muoia sia che sopravviva, al rischio di procedimenti giudiziari per le più varie ipotesi di reato: dalla violenza, alle lesioni personali, forse anche volontarie, all’omicidio. Guarnieri. Ma allora cosa può fare il medico

che in scienza e coscienza non si riconosca in una medicina che pare non accettare i propri limiti e che non sa sostenere la sofferenza? Pignotti. Se quelle indicazioni di accanimen-

to terapeutico diventassero legge, credo che al medico non rimarrebbe che l’obiezione di coscienza. Gli effetti devastanti di tali suggerimenti operativi nel nostro Paese si sono già Pignotti. Difficile vedere a quali genitori si resi evidenti col caso di Davide, il bambino riferissero i documenti del CNB e del CSS. affetto da sindrome di Potter (agenesia renaIn sedici anni di lavoro in neonatologia non le bilaterale associata ad altre malformazioni), ho mai trovato un genitore del quale sospettassi un agire contro l’interesse di suo figlio. condizione incompatibile con la vita per la Casomai è vero l’esatto contrario, che i geni- quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità e le Linee guida internazionali per la rianimatori non si arrendono mai, sono disposti a tutto, purtroppo, per ‘provare’ a mantenere in zione in sala parto dell’ILCOR consigliano la vita. Spesso vanno richiamati e fatti ragionare non rianimazione alla nascita. Davide, invece, è stato rianimato, sottoposto a cure intensive, di fronte a situazioni, purtroppo, inevitabili. strappato alla potestà dei genitori perché Laddove è difficile decidere quale sia il vero avevano ‘ritardato’ il loro consenso, evidentebene di un neonato, internazionalmente è mente obbligatorio, a quelle cure e, quindi, sempre il desiderio dei genitori a essere tenuto in gran conto, certo rispettando i con- erano stati giudicati cattivi genitori. fini di una ‘appropriatezza medica’ la cui valu- Inevitabilmente, dopo un mese e venti giorni di cure intensive, Davide è morto senza che tazione spetta al neonatologo. Lo strappare alcuno dei media, che inizialmente ne avevaun neonato morente dalle braccia di una no tanto parlato, desse all’opinione pubblica madre è un atto di una violenza inaudita, inaccettabile moralmente e scientificamente, la notizia. Tristissima e su cui c’è da riflettere.

Ora aveva la certezza che sarebbe morto presto ma era curioso. Non voleva morire finché non avesse scoperto tutto. Se un uomo non ha più il naso la bocca il palato e la lingua allora è molto probabile che gli manchi qualche altra parte. Ma era un’assurdità perché un uomo in quelle condizioni sarebbe morto. Non si possono perdere così tante parti del proprio corpo e continuare a vivere. Ma se uno sa di averle perse e ci può pensare allora deve essere vivo perché i morti non pensano. I morti non sono curiosi mentre lui bruciava dalla curiosità perciò non doveva essere ancora morto. Cominciò a tendere i nervi della faccia. A cercare di sentire il vuoto che c’era. Dove una volta aveva il naso e la bocca ora doveva esserci soltanto un buco coperto dalle bende. Cercò di sentire i contorni di quel buco. Annaspava con i nervi e i pori della faccia per sentire l’orlo di quel buco per vedere quanto era grande. Dalton Trumbo, ‘E Johnny prese il fucile’, Bompiani, Milano 1972, p. 72 (trad. it. di M. Graffi). 29


© Luca Laureati


Il pudore e, in particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità, non sono che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettività senza difesa. Vestirsi significa dissimulare la propria oggettività, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè di essere puro soggetto. Jean Paul Sartre, ‘L’essere e il nulla’, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 362-363 (trad. it. di G. Del Bo).


Š Ulderica Da Pozzo


Anteo Di Napoli e Andrea Taviani

dinapoli@asplazio.it andreataviani@tin.it

I rifugiati politici e i segni della tortura Riferiremo in sintesi di quanto abbiamo appreso come uomini e come medici nel rapporto con le vittime di tortura e di ogni trattamento crudele, disumano e degradante, nell’ambito dell’attività umanitaria di ‘Medici Contro la Tortura’ (MCT), associazione senza scopo di lucro, costituita legalmente nel 1999, che opera a Roma dal 1986, inizialmente in collaborazione con Amnesty International. MCT nel periodo 1999-2007 ha assistito 1.524 vittime (90% uomini e 10% donne), provenienti da Africa (66,3%), Asia (31,5%), Europa Occidentale e Nord America (1,1%), Europa Orientale (0,8%), America Centro-meridionale (0,3%). Intorno al corpo si struttura ogni rapporto medico-paziente, là dove il paziente colloca in prima istanza la propria condizione di sofferenza e dove si focalizza l’interesse iniziale del medico, avviando un processo che dovrebbe concludersi con la diagnosi. Queste considerazioni acquistano un significato del tutto particolare se il ‘paziente’ è ‘affetto’ da una patologia antropogena che lo individua come vittima di tortura. Malati per il male ricevuto, percossi sulle piante dei piedi, ustionati col fuoco o con la corrente elettrica, sospesi al soffitto con gli arti legati, spaccati nelle ossa e distrutti nell’anima. Le conseguenze sul corpo sono devastanti anche in caso di ‘tecniche psicologiche’ di tortura, facendo vivere alla vittima esperienze come l’isolamento (incommunicado) per anni, privandola del senso del tempo, in ambienti senza luce o, al contrario, esponendola a una permanente luce accecante. In alcune circostanze vengono sollecitate volutamente nella vittima esperienze di tipo allucinatorio, così da insinuare lo spettro della follia. Anche queste sofferenze nella maggioranza dei casi sono somatizzate sotto forma di insonnia, incubi, allucinazioni, perdita di memoria. In uno studio relativo alla casistica di MCT («Annali di Igiene», 17, 2005), si mostrava che il 64,1% delle vittime aveva subito percosse e traumi da corpi contun-


Nella nostra società l’idea del corpo come confine inviolato è definitivamente tramontata a favore della sua continua manipolazione, persino patologica. Ma mentre la mortificazione della carne o la sofferenza rituale degli sciamani o dei santi cristiani li metteva in comunicazione con un «altro mondo», le mutilazioni rituali di oggi non rinviano ad altra realtà che al mondo che c’è dentro di noi, sotto la nostra pelle. Marco Belpoliti, ‘Doppio zero. Una mappa portatile della contemporaneità’, Einaudi, Torino 2003, p. 8.


Michela Fusaschi

fusaschi@uniroma3.it

Modificazioni del corpo: imposizioni o grammatiche sociali? La questione delle cosiddette ‘mutilazioni genitali femminili’ (MGF) è balzata agli onori della cronaca nel nostro Paese solo in anni recenti, per motivi storici – abbiamo un passato coloniale diverso da altri Paesi europei – ma soprattutto per un ritardo culturale, oserei dire strutturale, nell’affrontare temi che riguardano la diversità e, nel caso specifico, le trasformazioni sociali legate all’immigrazione. In questo senso la questione è stata interpretata in chiave di ‘drammatizzazione’ delle conseguenze di quei movimenti migratori contemporanei che vengono letti sempre come fattori di potenziali conflitti. Il ‘caso’ risale al 2004, con l’annuncio della presunta ‘soluzione’ del problema attraverso una proposta di ‘infibulazione soft’, alquanto provocatoria e presto derubricata (cfr. M. Fusaschi, Verso un multiculturalismo all’italiana, in La società di tutti, a cura di F. Pompeo, 2007), e con l’emanazione di una norma (Legge 9.01.2006, n. 7) per certi versi poco discussa, e invece molto discutibile, circa la prevenzione e il divieto delle pratiche in questione. L’approccio nostrano fu all’epoca, e resta oggi, spesso sensazionalistico, riduzionista e liquidatorio con le solite denunce della ‘barbarie’, cui fanno seguito proposte di interventi umanitari e/o letture ‘medicalizzate’.

Contributi questi, comunque non sufficienti al superamento di esperienze culturalmente articolate che vanno primariamente conosciute e indagate nella loro complessità e poi, innegabilmente, condannate. Da anni conduco la mia ricerca su questi temi proponendo un cambiamento di prospettiva in chiave antropologica, il cui primo traguardo consiste proprio nello stabilire le condizioni di un dialogo con le donne interessate e con la loro soggettività. Partendo da canali comunicativi ‘privilegiati’, ho capito che primariamente è necessario spostare il tema sul terreno della ‘modificazione’, in luogo della ‘mutilazione’, al fine di tessere con le attrici sociali uno spazio ‘neutro’, relativamente libero da pregiudizi, dentro cui elaborare un percorso di mediazione interculturale (M. Fusaschi, I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili, 2003). 45


ipocalorica per motivi estetici, da generiche difficoltà digestive, da malattie o interventi chirurgici. Nel periodo che precede l’esordio del disturbo, si rilevano in molti casi significativi eventi stressanti o cambiamenti di vita. La riduzione dell’apporto calorico può essere realizzata attraverso una riduzione progressiva delle porzioni o attraverso l’eliminazione drastica dei cibi maggiormente ipercalorici; alcune ragazze si limitano ad assumere esclusivamente due o tre tipi di cibo. Di solito nel periodo iniziale vi è una fase di benessere soggettivo che può dipendere dall’aumento dell’autostima prodotto dalla capacità di controllare la fame, dalla perdita di peso e dal miglioramento della propria immagine. Spesso accade che i familiari si accorgano del problema soltanto dopo molto tempo, quando la ragazza è dimagrita di molti chili. Le preoccupazioni riguardo alla linea e alla forma del corpo si trasformano progressivamente in una vera e propria paura di ingrassare che non diminuisce con la perdita di peso. Con il progredire del disturbo si manifesta una continua e ossessiva presenza del cibo al centro di ogni pensiero (è il cosiddetto ‘pensiero prevalente’): molte ragazze collezionano ricette, contano le calorie, impiegano ore a mangiare e tagliano il cibo in minuti pezzetti; alcune cucinano preparazioni molto elaborate, preoccupandosi dell’alimentazione dei familiari. Esse diventano più irritabili, depresse, e spesso sviluppano ossessioni per la pulizia, per l’ordine, per gli orari. Il rapporto con i familiari diventa teso e difficile, talvolta francamente ostile, e i tentativi di convinzione a mangiare hanno di solito l’effet-

to di rinforzare i propositi di digiuno e aumentare la spinta all’isolamento. Altre volte i rapporti familiari sono rigidi, formalmente corretti, e l’atmosfera familiare è carica di aggressività latente. L’anoressia presenta spesso un andamento cronico, talvolta con recupero di peso e successive ricadute nel corso degli anni. Una buona percentuale di pazienti (superiore al 50%) presenta una remissione del disturbo, tuttavia anche nelle pazienti guarite persiste un certo grado di sofferenza psichica, o per il permanere di preoccupazioni e comportamenti disturbati riguardo al cibo o per la presenza di sintomi psichiatrici. La cronicizzazione si rileva in un 20% dei casi, sindromi parziali sono presenti nel 30% dei casi, la mortalità è del 5%. Il trattamento dell’anoressia è complesso e i farmaci sono di poco aiuto. Nella maggior parte dei casi le pazienti non vivono inizialmente i propri comportamenti come una difficoltà, ma come un tentativo per risolvere i propri problemi. Esse non chiedono autonomamente un trattamento, ma lo fanno solo su pressione dei familiari. Il primo obiettivo è perciò quello di stabilire una alleanza tra paziente e curante. Tanto più l’età è giovane, tanto maggiore è la necessità del coinvolgimento dei genitori nel trattamento. Talvolta sono utili le terapie di gruppo. Il ricorso al ricovero ospedaliero può essere necessario, sia con l’obiettivo di un distacco dalla famiglia, sia – nei casi più gravi – per il recupero controllato del peso attraverso protocolli alimentari adeguati.

Dapprincipio, scorse solo una forma [...]; risultò essere, chi l’avrebbe mai detto, la forma di un abito lungo di raso bianco, con una gonna di crinolina, e sparsi drappeggi di pizzo bianco, un abito ormai fuori moda, vecchio di cinquanta o sessant’anni, ma che un tempo, era ovvio, doveva essere stato un abito da sposa. E poi vide la fanciulla che lo indossava, una fanciulla dal corpo fragile come la struttura di una falena, tanto magra, tanto sottile da dargli la sensazione che l’abito che indossava fosse come sospeso nel vuoto, privo, nell’aria umida della stanza, di un corpo che lo abitasse. Angela Carter, ‘La camera di sangue’, Feltrinelli, Milano 1994, p. 161 (trad. it. di B. Lanati). 50


© Erika Pittis

i, i re i litar G ra d o riso . o e u r fa er aC orin cosa , ando sign n s o s s e. Q u t o m a l e a o r n a n e e C a i c t i n i a n m e l o d d a v a n o z i n i d e l o ra m i edic i n h o s c h e L e e n o n a a i ra g a z i r o , m a n o l e g o s n molt a, le co abituata vano in ome fa ori e ta fu ol ic d o r c r z n o c e z e i p r i a p i p g m i a m r a é m i o h si ssun bbene le e p e rc i e re c h e i re c o n a ne t sc se na o s q u a r r e b b e u s e ra , m n a s o , r a o e el pe piac il sabat ta senz ia un b iti. a b , st n b e e a altr é sono hio e ei v na, so h l l e r i p r i d e i b l o s p e c c u n g ro s c a r b e p l a a m o m a o i h c tt do nt o u n ’ o a d re m i m i g u a r o a l v i s e s p a v e p o a ch ezz m e m , mio il giorn n nte ho ene o rio i la ge vuole b a. Cosa ? Tutt o. Prop nta i le d i e r m g v b a i n a e sp err d re pia i gu che Mia ma e m o così t a azion h o c c v u e n i i t b lt t e. t s o a n m v e d e iu ec le i un vess anch e tutte alch itarm esso qu a che a cita. g r n e a i s m p a m im lo per e pr com lla n non fatto che ho rtament etto da che o modo f e n i e c a d i c t o id Se ato ques u e s t re e l u io è st d ho q t a i n rc h é m a i non o p n i u o e e i p rmi? , p m o a o o g d ann iesto a se ven c re d v o s u i c i i c r h Ho c a che fo ati. Non ona. De c s sa, m uoi pec ava per is br a n per u ari] eè luti, solit padr ri sa uori e, o C i l a g cort b re i mi orin m n n O g o i , C S a a’ egat o). est, e ra t tà n Disp anuel W enti mmanc d i ’ L a h i . [Nat igma . di R. G t , ‘St an d. o f f m p . 9 ( t ra ng G Ervi a 2007, n Vero

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Un’altra forma di redistribuzione del corpo regale era quella, feudale, del bacio sulla bocca, con una leggera immissione di saliva nella bocca del vassallo: così facendo, questi avrebbe portato con sé una parte del corpo regale, sarebbe stato in tutto e per tutto il rappresentante del re su un territorio periferico, lontano.

© maddalena fragnito de giorgio www.ilbestdiario.com

Sergio Bertelli, ‘Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna’, Ponte alle Grazie, Firenze 1955, p. 33.


Intervista di Andrea Lucatello a Fabrizio Gatti

f.gatti@espressoedit.it andrea.lucatello@amm.uniud.it

La riduzione del corpo a oggetto cando di proteggersi, subisce diverse fratture alle braccia. All’ospedale riferisce subito quanto gli è capitato e, appena sta meglio, decide di andare in questura per formalizzare la sua denuncia. Viene arrestato, lui Pavel, il lavoratore, non il caporale, che rimane a piede libero. Soltanto dopo l’inchiesta dell’«Espresso», nella quale avevo raccontato questa vicenda, il caporale viene rintracciato, arrestato e presto rilasciato. Arrestando Pavel, la polizia non ha commesso alcun Gatti. L’affermazione ‘legalmente abolita’ non abuso, ma semplicemente applicato la legge, che in caso di immigrazione clandestina pretrova un effettivo riscontro nell’attualità. Rispetto a un tempo la situazione è sicuravede l’arresto per chi non rispetta l’ordine di mente cambiata, ma lo sfruttamento intensivo espulsione e viene ‘preso’ per la seconda delle persone è ancor oggi consentito, anche volta. Così è successo a Pavel. Anch’io, come dal nostro stesso sistema normativo. Ne è un cittadino iracheno – così mi ero dichiarato a esempio la storia di Pavel che ho raccontato Lampedusa – se venissi nuovamente fermato, in Bilal, il libro in cui parlo proprio delle schia- subirei l’arresto rischiando fino quattro anni di vitù dei nostri giorni. carcere. Il datore di lavoro, come abbiamo Pavel è un immigrato clandestino rumeno che visto, non rischia assolutamente nulla. Il capotrova lavoro come raccoglitore di pomodori rale, nel caso di Pavel, soltanto una denuncia nel nord della Puglia. Le condizioni a cui viene a piede libero. Se facciamo dei confronti scosottoposto sono pesantissime: è costretto a priamo che per reati come la corruzione si continue violenze e a lavorare anche quattor- può essere condannati anche soltanto a sei mesi o, ancora, per reati come l’associazione dici-sedici ore al giorno. Quando tenta di ribellarsi, il ‘caporale’ lo colpisce con una a delinquere si rischiano da uno a cinque anni, mentre essere muratore, badante, spranga direttamente alla testa. Pavel, cerLucatello. Anche se ormai è ovunque legal-

mente abolita, la schiavitù continua ancora oggi a rubare la vita a milioni di persone costringendole a ogni forma di sfruttamento, al lavoro forzato e alla prostituzione. Negli ultimi anni Fabrizio Gatti si è occupato di questa realtà che ha assunto proporzioni di una vastità e di una gravità senza precedenti. A lui chiediamo che differenza ci sia tra la ‘nuova’ schiavitù e quella di un tempo.

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© Eugenio Novajra

ORMAI IL CORPO NUDO, NATURALE, NON ESISTE: È SOLTANTO IL PRODOTTO DELLA MODA. […] E POICHÉ LA MODA È SOGNO, TUTTI SOGNANO NON SOLO D’ESSERE SANI, MA DI CAMBIARE IL PROPRIO CORPO. […] LA STESSA ABBRONZATURA NON È CHE UN ABITO […] E IL CORPO, COME IL VOLTO, NON È CHE UNA LAVAGNA, UNA SUPERFICIE DA DECORARE O DIPINGERE A PIACERE; UNA TELA SU CUI IMPRIMERE COLORI, FERITE, SEGNI ARTIFICIALI. IL TATUAGGIO NON FUNGE FORSE DA VESTITO? […] SIAMO ALLA MODA DEL CORPO PIÙ CHE DELL’ABITO. Anna Panicali, ‘La voce della moda’, Le Lettere, Firenze 2005, pp. 114-115.


Tamar Pitch

tamar.pitch@fastwebnet.it

Il corpo normato I nostri corpi sono un misto inscindibile di natura e cultura, biologia e storia. Ogni antropologa ha imparato che ciò che con i corpi si fa, o si può fare, dipende in gran parte dalla cultura e dalla società in cui si nasce e si cresce, e in cui si sviluppano certe capacità piuttosto che altre. Ciò d’altra parte significa che, viceversa, altre capacità vengono inibite. Ogni studiosa delle diverse modalità in cui si dispiega il controllo sociale sa che esse intervengono in primo luogo sul corpo. Chiunque abbia letto qualcosa di Michel Foucault ricorda che la nozione di disciplina ricomprende sapere, potere e corpi. Potrei fermarmi qui: tutti i corpi, in ogni società e in ogni epoca, sono normati e disciplinati. Il femminismo aggiunge: i corpi delle donne lo sono di più. Almeno nella nostra società, il corpo femminile si presenta, dice Barbara Duden, come corpo ‘pubblico’, ossia come corpo più intensamente normato di quello maschile, e non solo socialmente e culturalmente, ma anche dal punto di vista giuridico. Uno sguardo veloce ad altre società contemporanee ci rivela che è così anche altrove. E la storia, non solo la ‘nostra’, ci dice la stessa cosa. Il corpo femminile è fertile, annuncia il futuro. Per questo esso viene costruito come il depositario della tradizione, dell’etnia, della

nazione, del ‘popolo’ e, ciò che più importa, della continuità di tutte queste cose. Si capisce allora quanto minacciose possano sembrare la libertà sessuale e la libertà riproduttiva delle donne. Tuttavia, complementarmente, quella disciplina impersonale che, dice Foucault, nella modernità costruisce corpi docili e, insieme, soggettività (e libertà) maschile, meno si è esercitata sulle donne, controllate tradizionalmente in maniera piuttosto personale, in contesti privati, con la conseguenza che quella libertà e quella soggettività sono rimaste loro precluse. Certamente la medicina ha un ruolo fondamentale nella normazione del corpo, delle donne in particolare, e oggi questa normatività si dispiega a fondo attraverso l’imperativo della prevenzione. Un imperativo non nuovo, ma che ora si diffonde a tutti i livelli con grande intensità, e che impone stili di vita, consumi, comporta27


Capita di vedere una colonna di soldati […] tutti in marcia andare in guerra […] contro la loro stessa volontà e persino contro il loro buon senso e la loro coscienza […] non hanno alcun dubbio sul fatto di trovarsi in un maledetto pasticcio; sono tutti uomini pacifici. Ma ora, cosa sono? Forse uomini? O piuttosto fortini e magazzini ambulanti di munizioni e armi, al servizio di qualche potente senza scrupoli? È in questo modo che la massa serve lo Stato, non come uomini ma come automi, solo con il corpo […] al livello del legno, della terra e della pietra. Forse si potrebbero addirittura fabbricare uomini di legno che servono altrettanto bene alla causa. Uomini simili non incuterebbero maggior timore se fossero fatti di paglia o di sterco.

© Danilo De Marco

Henry D. Thoreau, ‘Disobbedienza civile’, Piano B, Prato 2008, pp. 24-26.


Marco Deriu

marco.deriu@unipr.it

Corpi di guerra Negli ultimi anni la trasformazione delle guerre ha portato a offuscare la loro materialità e corporeità. Da una parte, la mediatizzazione e l’appiattimento sullo schermo televisivo hanno determinato una virtualizzazione della violenza, dall’altra la tecnicizzazione e la professionalizzazione hanno portato ad aumentare la lontananza fisica, psicologica e cognitiva dalla guerra e dalle sue brutalità. Eppure ancora oggi, in un’epoca che qualcuno ha definito ‘post-eroica’, le guerre continuano a chiamare in causa i corpi. I corpi dei feriti, degli ostaggi, delle vittime civili. Ma anche i corpi dei soldati, dei generali, dei politici e degli strateghi. È necessario ricordare che siamo fatti di corpi e che il materiale e l’obiettivo ultimo della guerra sono i corpi. Non esiste una guerra chirurgica, pulita, una guerra che non distrugga, che non infierisca sui corpi. Allo stesso tempo non basta ricordare genericamente la corporeità della guerra. Anche volendo tenere presente i corpi, volendo parlare del rapporto tra corpi e guerra, si tratta poi di vedere di che corpi stiamo parlando: corpi maschili o corpi femminili, per esempio? Si tratta allora di riconoscere che la guerra è una faccenda che mette in gioco anche le identità sessuali.

La questione della pluralità è centrale nel fenomeno della guerra. Ritengo, anzi, che non si possa comprendere quasi nulla degli eventi bellici se non ci si dispone a interrogare anche la dimensione sessuale che li fonda e li attraversa. Se si tiene conto della differenza sessuale, infatti, la prospettiva cambia non poco. Cambia se pensiamo ai soggetti che fanno la guerra – che storicamente sono principalmente (anche se non esclusivamente) uomini –, se pensiamo al rapporto tra i sessi nella violenza, ai valori, al significato e all’immaginario di cui si nutrono i fenomeni bellici. La pratica di stuprare o rapire le donne come bottino affonda nelle origini stesse della guerra. Come sappiamo, poi, nei conflitti più recenti lo stupro è diventato una vera e propria arma di guerra – per la prima volta condannata ufficialmente come tale dalla 41


Le fustigazioni devono essere date sempre metà da una parte e metà dall’altra, dopo aver osservato prima che il curbasc non presenti alcun nodo nella sua parte flessibile. Il punito deve indossare semplicemente i pantaloncini di prescrizione, fare il saluto, prima di mettersi a terra per ricevere le scudisciate e rifarlo quando, dopo essersi rialzato per ultimata fustigazione, si è rimesso in ordine con fascia e tarbusc per ritornare al suo posto. Al ‘rompete le righe’ la compagnia risponde normalmente col tradizionale grido di ‘arrai’ in segno di approvazione. Se per caso tale grido venisse a mancare e le righe venissero quindi rotte in silenzio, si ha un indizio certo che nel reparto vi è del malumore causato dalla convinzione che la punizione non sia stata inflitta secondo giustizia. Comando del R. Corpo di truppe coloniali dell’Eritrea. Raccolta di consigli e disposizioni che possono essere utili al giovane ufficiale destinato a prestar servizio nel R.C.T.C. dell’Eritrea. Compilata dal capitano cav. Carlo Cassini del IV battaglione indigeni eritrei, giugno 1924.

Risoluzione 1820 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Lo stupro è, peraltro, solo il più ricorrente degli attacchi verso l’altro sesso. In molti conflitti le donne sono state rapite e costrette a sposarsi, a servire o a prostituirsi, sono state imprigionate, violentate, inseminate, seviziate, sfigurate, mutilate e uccise. Ma l’aspetto che forse non tutti conoscono e sul quale non c’è stata ancora un’adeguata riflessione è che questo tipo di violenza è diffuso in ogni direzione e scompagina le categorie tradizionali con cui leggiamo la guerra. Prendiamo, ad esempio, quella classica tradizione filosofica che, a partire da Carl Schmitt, individua quale fondamento della politica l’antitesi amico/nemico. Questa opposizione costituirebbe l’essenza stessa del conflitto. Tuttavia, per quanto riguarda la violenza di guerra, l’opposizione tra amici e nemici offusca il fatto che la violenza maschile contro le donne attraversi trasversalmente entrambi i fronti della guerra. In primo luogo registriamo, infatti, una violenza rivolta contro i civili e, in particolare, contro le donne appartenenti alla parte avversaria o, come si dice, al ‘nemico’. Abbiamo avuto crimini generalizzati di questo tipo durante la Seconda guerra mondiale, da entrambe le parti: dai tedeschi nei Paesi occupati e nei campi di concentramento, dai giapponesi contro le donne cinesi, coreane e filippine, dai francesi contro le donne italiane e tedesche, dai russi contro le donne tedesche. Gli americani commisero stupri indistintamente contro le giapponesi, le tedesche, le italiane e perfino contro le inglesi e le francesi. Lo stupro come arma di guerra lo ritroviamo tra l’altro nel conflitto tra Bangladesh e Pakistan, durante l’occupazione indonesiana 42

di Timor Est, nella guerra civile in Myanmar e in Sri Lanka, durante l’invasione del Kuwait, nella guerra in Sierra Leone, in quella in Congo e in Afghanistan e poi nei casi più emblematici della guerra nella ex-Jugoslavia e del genocidio ruandese del 1994. In secondo luogo, questo tipo particolare di violenza rivolta contro i corpi delle donne è stata spesso usata anche contro l’opposizione politica interna. In alcuni Paesi gli stupri sono stati una forma di violenza e terrore di Stato contro una parte della popolazione sgradita o un modo per colpire movimenti di resistenza: in Turchia contro le donne curde; in Perù, in Guatemala, nel Kashmir, in Algeria e ad Haiti come strumento di terrore politico contro famiglie accusate di far parte dell’opposizione; in Algeria le donne si sono addirittura trovate sotto la violenza incrociata dei gruppi fondamentalisti islamici e del terrore di Stato. In terzo luogo – e qui emerge ancora più chiaramente la particolarità di questa violenza –, si sono registrate anche violenze contro le donne della propria comunità. Durante la Seconda guerra mondiale i soldati sovietici violentarono non solo le donne tedesche, ma le stesse donne sovietiche man mano che le liberavano dai campi di concentramento. In Palestina, durante il periodo della seconda Intifada, le donne dovettero affrontare non soltanto la violenza delle truppe di occupazione israeliane, ma anche una crescita della violenza domestica. Alcune fonti sostengono che negli anni successivi alla Guerra del Golfo del 1991 non meno di 60.000 donnesoldato statunitensi sarebbero state vittime di stupro o di aggressione sessuale durante il servizio militare. Anche durante la guerra in Iraq del 2003 i casi di violenza sulle donne all’interno delle forze armate statunitensi


Š Danilo De Marco


© Ulderica Da Pozzo

«Entrai in una stanza. Era vuota. C’era soltanto un tavolo. Mi disse di spogliarmi. Entrarono altri uomini, sette, e mi violentarono tutti. Avevano bevuto, ma solo due erano veramente ubriachi. Nella stanza c’era una tenda, mi dissero ‘vai a riprenderti la bambina’. Dietro la tenda c’era Samira, nuda, la testa blu, la schiuma intorno alla bocca. Ho capito subito che avevano violentato anche lei e sono svenuta». Elena Doni, Chiara Valentini, ‘L’arma dello stupro. Voci di donne della Bosnia’, La Luna, Teramo 1993, p. 114.


Maria G. Di Rienzo

sheela59@libero.it

Corpi di pace C’era una volta un giovane uomo, Eddie Dickerson, che viveva nel Maryland, USA. Erano gli anni della lotta per i diritti civili e contro la segregazione razziale. Un giorno Eddie si unì ad altri giovani per effettuare un raid punitivo contro i membri dell’associazione ‘Core’ (Congress on Racial Equality), che stavano tentando di convincere i negozi di alimentari della zona a non tenere banchi separati per bianchi e neri. Il pestaggio riuscì. Sulla via di casa, però, Eddie non riusciva a smettere di pensare alla risposta nonviolenta di coloro che aveva picchiato. Lasciò i suoi amici e camminò per parecchi chilometri fino a raggiungere la chiesa che serviva come base ai volontari di ‘Core’. Giuntovi, pose loro questa domanda: «Perché non avete picchiato anche voi?». Il loro comportamento e le loro risposte lo indussero a mettere in questione sia la violenza sia la segregazione razziale. La sua famiglia lo buttò fuori di casa, ma Eddie continuò a pensarci, e finì per lavorare proprio per ‘Core’. «Non ho più dubbi», raccontò poi in diverse interviste, «sento con forza che chiunque, quale che sia il colore della sua pelle, deve avere pari opportunità. E non ha senso picchiare qualcuno perché lo creda anche lui. Per funzionare, questo dev’essere fatto in modo nonviolento». C’era una volta una giovane donna dello Zimbabwe, Jenni Williams, che lavorava come avvocato. I suoi clienti erano spesso proprietari terrieri che volevano acquisire altre terre da piccoli proprietari indebitati. L’ingiustizia a cui contribuiva con il suo lavoro, inserita nelle disastrose condizioni economiche in cui il suo Paese versava e versa tuttora, finì per colpirla al punto che nel 2003 Jenni fondò con altre donne il gruppo Women of Zimbabwe Arise (‘Donne dello

Zimbawbe alzatevi’ – Woza, un acronimo che in lingua Ndebele significa ‘Fatti avanti’). Oggi l’associazione conta oltre 35.000 membri sull’intero territorio nazionale e lavora contro le violazioni dei diritti umani che interessano ormai pesantemente la popolazione del Paese. Le donne, e di recente anche gli uomini, di Woza si ispirano dichiaratamente alla resistenza nonviolenta di Gandhi. Quando la polizia interrompe le loro attività, la distribuzione di rose rosse a cui vengono legati messaggi di pace, i volantinaggi, le manifestazioni, obbediscono quietamente, sentendo che il loro atteggiamento svergogna le autorità per il maltrattamento di donne che potrebbero essere madri, figlie e sorelle di quelli che le insultano, le imprigionano e le battono. Dicono di prendere coraggio da uno slogan anti-apartheid: ‘Colpire una donna è come colpire una roccia’, e chiamano la loro coraggiosa resistenza ‘amore duro’: «[…] perché amiamo abbastanza il nostro Paese da accettare il sacrificio di essere arrestate e picchiate». Il 31 marzo 2007, Woza tenne una veglia di preghiera a Bulawayo per commemorare quella notte di due anni prima in cui duecentocinquanta donne del gruppo vennero picchiate brutalmente ad Harare in un’occasione simile. Le donne assalite nel 2005 resero la loro testimonianza dopo di che, come racconta Jenni, si è pregato perché: «i cittadini non aspirino alla vendetta, e le forze dell’ordine si rifiutino di far del male alle persone. Abbiamo pregato perché gli abitanti dello Zimbabwe continuino a scegliere la nonviolenza e l’amore a fronte della violenza e dell’odio, e usino la resistenza pacifica per costringere il governo e gli altri politici a rispondere della propria cattiva amministrazione della cosa pubblica». Prima ancora che 47


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