multiverso 8 crac

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E dopo averlo trasportato in braccio sul letto, essa si tenne là china su di lui, come le altre volte, in attesa che lui rialzasse le palpebre in quel suo solito sorriso particolare. Solo in ritardo, incontrando gli occhi di Bella, essa capì. La cagna difatti era lì che stava a guardarla con una malinconia luttuosa, piena di compassione animalesca e anche di commiserazione sovrumana: la quale diceva alla donna: «Ma che aspetti, disgraziata? Non te ne accorgi che non abbiamo più niente, da aspettare?». Elsa Morante, ‘La storia’, Einaudi, Torino 1974, p. 646.

accennato a scendere, i mutui hanno iniziato ad andare in sofferenza, le case ad essere mandate all’asta, le banche a incassare le assicurazioni. E il crac più grosso è stato quello di coloro che maggiormente si erano avvalsi di derivati, di assicurazioni, e che avevano cercato con maggiore costanza e coerenza il massimo rischio e il maggior rendimento, con la miglior copertura assicurativa: quelli più spericolati, e che si credevano più furbi. Erano donne o uomini? Mah, c’erano anche molte donne. E perché no? Fare il banchiere di investimento, il gestore di hedge fund, il trader, è stato il mestiere di moda per gli economisti da circa vent’anni, e anche le donne giustamente ci ambivano. Con un buon PhD in economia, si guadagnava il triplo come primo stipendio se si andava a lavorare a Wall Street piuttosto che ad Harvard. Senza contare i bonus! Però va detto che in quasi tutti i resoconti che ci provengono da questa cultura, sia di recente sia dall’epoca di Michael Milken e dei leveraged buyouts, si sottolinea il clima massimamente 10

competitivo, il fatto che in questi ambienti di lavoro fare profitti speculativi era l’equivalente di fare goal al calcio: era diventato uno sport, uno sport inebriante in cui vincevi in quanto riuscivi a mantenerti in piedi sul filo del massimo rischio senza prendere il bagno. Se riuscivi a fare un centesimo di punto in più di tasso di interesse su somme talmente alte, la tua commissione su quella sola transazione ti fruttava come un onesto stipendio in una decina di vite! Uno sport inebriante in cui ‘crac’ non aveva tanto il significato della crisi che si prospettava, quanto della simil-cocaina necessaria ai trader per reggere gli orari travolgenti, lo stress, l’aggressività, la tensione. In questa propensione all’assunzione di rischio, gli uomini hanno superato le donne, appunto perché ‘giocare’ – il game, non il play, il gioco in cui ci si misura, si va in rete oppure o no, non il gioco dilettevole fine a se stesso – è nella loro natura e nella loro cultura: anziché con le pistole a spruzzo, sparavano con gli ordini dal computer. Questa non è un’ipotesi, è evidenza ‘scientifica’: nella pros-


© Giovanna Durì

John Steinbeck, ‘Furore’, Bompiani, Milano 1940, p. 9 (trad. it. di C. Coardi).

© Luca Laureati

Gli uomini s’appoggiavano coi gomiti sulle staccionate e stavano a guardare il granturco rovinato, quasi secco ormai, con solo qualche strisciolina di verde sotto la pellicola di polvere. Gli uomini non, parlavano e si muovevano appena. E le donne uscivano di casa e venivano a mettersi vicino ai loro uomini per sapere se era questa la volta che i loro uomini si sarebbero dati per vinti.


visioni. Per avere almeno una comprensione di base della questione, dobbiamo incorporare prospettive diverse per affrontare problemi quali l’evoluzione delle specie e descrivere le stabilizzazioni delle popolazioni a livello microevolutivo. Le strutture che si rivelano efficaci nel processo evolutivo non possono essere semplicemente definite mettendo in risalto configurazioni di attributi statici determinati da analisi unidirezionali di cause ed effetti. Tali strutture devono essere osservate come il risultato di un’interazione complessa di varie entità, intrecciate in un paesaggio di entità che interagiscono tra loro e, al tempo stesso, che non si influenzano. È assai difficile descrivere in che cosa consiste questo risultato nei termini di tali risposte interattive. Come si è già accennato, la semplice idea di definire questi effetti attraverso la descrizione degli adattamenti e l’identificazione dei sog-

getti più efficaci nella rete di cause putative risulta difficile. In tale situazione, potrebbe essere ragionevole, ad esempio, chiedersi se una rete di interazioni preselezioni già determinati formalismi e strategie di modello. La rete che permette la strutturazione della dinamica interattiva non fornisce una risposta sufficiente in grado di descrivere le interazioni caotiche delle dinamiche evolutive. Può però evidenziare caratteristiche di prim’ordine che consentiranno infine di saggiare alcune idee a proposito degli effetti dipendenti da una certa costellazione di parametri. Perciò dobbiamo tener conto che il modello è uno strumento che ci consente di gestire i nostri dati e di elaborare alcune idee di partenza rispetto a ciò che sono le dinamiche e su come possano risultare efficaci. Siamo ancora all’inizio della nostra indagine, alla ricerca di terminologie, modelli, formalismi

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Pekka Himanen, ‘L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione’, Feltrinelli, Milano 2001, p. 5 (trad. it. di F. Zucchella).

Gli hacker ritengono che la ‘condivisione delle informazioni sia un bene positivo di formidabile efficacia, e che sia un dovere etico condividere le loro competenze scrivendo ‘free software’ e facilitare l’accesso alle informazioni e alle risorse di calcolo ogniqualvolta sia possibile’. […] Per evitare di venir confusi con coloro che creano virus e penetrano nei sistemi informatici/informativi provocando danni, gli hacker hanno cominciato a chiamare queste persone ‘cracker’.


e concetti. Un fatto interessante è che abbiamo mutuato l’idea di una dinamica continua dal nostro mondo tecnologico. Applicando questi concetti alla natura li abbiamo orientati verso determinati scopi che possiamo formulare solo all’interno delle nostre tecnologie ed economie. Questi scopi non sono nient’altro che il rapporto attraverso cui, e con cui, abbiamo formulato tali tecniche e le corrispondenti strategie. In natura, dobbiamo avere a che fare con una dinamica che non ha scopo, né direzione e nessun piano sotteso. C’è dunque una grande differenza tra un sistema tecnologico che, almeno di principio, è noto a priori quanto alle sue componenti, e la natura, nella quale le cose non vanno in questo modo. Un sistema tecnologico può già prefigurare la combinazione di vari elementi dinanzi a condizioni inaspettate. Qui si deve essere in grado

di procedere, di creare delle condizioni estreme e formulare qualche modalità per far fronte alla situazione. I sistemi biologici, invece, sono differenti: non possiamo semplicemente trasferire le nostre strategie di gestione tecnologica all’interno dei loro ambiti, ed elaborare infine delle linee guida biotecnologiche complesse. In questo modo dimostreremmo di non essere consapevoli di una differenza fondamentale: e cioè che il caos da noi generato potrebbe risultare qualcosa di molto più complesso di un semplice insieme di elementi deterministici di ordine superiore, qualcosa di non più riconducibile, quantomeno in linea di principio, ad un livello di entità deterministiche più avanzato.

[Traduzione di Stefano Mercanti]

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prezzi della stessa tenderebbero a zero. Se questo non succede – o almeno non succede subito – è perché ci sono ostacoli pratici (difficile trasferibilità) o giuridici (brevetti, copyright) alla libera propagazione e al libero scambio delle conoscenze possedute. La natura della conoscenza, che è risorsa non scarsa ma moltiplicabile, induce a vedere il suo uso sotto il profilo della condivisione, non dello scambio di mercato: il problema è semmai di trovare forme di motivazione o di incentivo che rendano le persone e le imprese disponibili a condividere le proprie conoscenRullani. Partiamo da una premessa: la cono- ze con altri (con l’organizzazione, con la filiera, scenza è una risorsa sociale. Ciascuno ricecon il territorio, con una comunità professiove il 90% di quello che sa da altri e restituinale o di senso ecc.). sce agli altri il 10% che riesce ad elaborare Se un pittore di qualità non vede valorizzato il in proprio, nel corso della sua vita. La magproprio contributo alla produzione del quagior parte di questi scambi non passa attradro, perché gli altri ne vogliono usufruire verso il mercato, che è un pessimo mediatore senza dargli alcun riconoscimento, forse tra chi produce e usa la conoscenza: come si smetterà di dipingere (anche se questo non sa, il costo di riproduzione della conoscenza sempre è vero: ci sono infatti pittori che tende a zero e, dunque, sul libero mercato i dipingono per passione, e che continuerebLei si occupa anche di rete... In informatica ‘craccare’ significa violare il sistema di protezione di un programma per poterlo utilizzare liberamente. Le generazioni cresciute con internet stanno imponendo un nuovo modello di economia, la free economy, in cui libero accesso e gratuità di software e di alcuni prodotti vengono considerati un diritto più forte di quello dell’autore. È un fenomeno che c’entra poco con la pirateria, forse invece con una nuova concezione di mercato. Cosa ne pensa a riguardo?

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soprattutto dopo la sua traduzione in lingua inglese, ebbe un grandissimo impatto anche se forse ancora oggi, dato il suo stile complesso, non è stato ben compreso da molti. Entrato nel 1943 alla prestigiosa École Normale Supérieure di Parigi e laureatosi nel 1946, René Thom ottenne una posizione di ricerca del CNRS a Strasburgo. Dopo una borsa di studio che gli permise di passare un periodo negli Stati Uniti (dove incontrò anche Einstein) ebbe posizioni di insegnamento a Grenoble (1953-1954) e poi nuovamente a Strasburgo (1954-1963). Fu nominato professore nel 1957. Nel 1958, a 35 anni, gli fu assegnata la ‘medaglia Fields’ per i suoi importanti contributi in topologia differenziale e nella teoria delle singolarità, alcuni dei quali risalenti già al lavoro di ricerca con cui concluse il suo dottorato nel 1951. In occasione del discorso di presentazione per il conferimento della medaglia Fields si mise in particolare evidenza come le idee di Thom, degne di ammirazione per la loro potenza geometrica e la loro natura intuitiva, avessero arricchi-

to la matematica e come tutto sembrasse indicare che l’impatto di tali idee (sia quelle già espresse nei lavori pubblicati, sia quelle dei lavori a venire) fosse lungi dall’essere esaurito. Nel 1964 René Thom si trasferì all’‘Institut des Hautes Études Scientifiques’ di Bures-sur-Yvette, un centro di ricerca vicino a Parigi, dove continuò a lavorare fino al pensionamento, nel 1988. Anche se la teoria delle catastrofi ha le sue radici nelle ricerche di topologia differenziale per cui Thom fu insignito della medaglia Fields, il suo sviluppo è negli anni successivi al 1960. Thom stesso in alcuni articoli autobiografici afferma che la medaglia Fields gli garantì la libertà di scegliere le ricerche che più desiderava sviluppare, senza alcun vincolo. Questo lo portò ad abbandonare gradualmente le ricerche matematiche in senso puramente tecnico del termine e ad abbracciare nozioni più generali, quali la genesi delle forme in biologia, in geologia, nella linguistica, nelle scienze sociali ed in altri campi ancora, e affidandosi sempre di più alla sua

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tezza nessuno dubita. Basterà rimettersi in cerca della risposta giusta: l’errore non contesta la domanda, ma la conferma. La correzione dell’errore non farà che consolidare il paradigma, andando a pescare nel mondo ciò che il paradigma stesso vi avrà reso visibile e riconoscibile, cioè in ogni senso ‘esistente’ o, diceva meglio Heidegger, ‘essente’. La stagliatura, invece, segna un evento tutt’altro che rassicurante. Essa coincide con l’istituzione del paradigma, dunque con l’inaugurazione dello spazio perfettamente simmetrico delle conferme e delle smentite, delle verità e degli errori, delle ripetizioni e delle variazioni. Ma proprio per questo, tale inaugurazione non ricade in alcun modo all’interno di quello spazio simmetrico. È anzi l’asimmetria per eccellenza, è il nulla che in nessun modo si lascia ridurre all’alternativa dell’essere e del non-essere, dell’atteso e dell’inatteso, tutta interna al campo che esso appunto istituisce e rende praticabile. La stagliatura è, in questo senso, al di qua dell’ordine del somigliante e del non-somigliante, al di qua 46

del mondo come gioco di riconoscimenti e non-riconoscimenti. La stagliatura, l’accadere del paradigma, è un istante assolutamente privo di paradigma, dissomigliante, cieco. ‘Monstrum’

L’altro termine che nelle lingue europee si inscrive nella famiglia semantica paradigmaexemplum-Beispiel-idea, è il tedesco Muster, diretta memoria del latino monstrum. Il termine indica alla lettera ciò che mostrandosi mostra altro (e, potremmo aggiungere, che mostrando altro mostra se stesso). Kant dice ad esempio nella Critica del giudizio che l’opera del genio è un ‘esempio’ per gli artisti che verranno dopo di lui, e la parola che usa è appunto Muster: ciò che mostra la via, ciò che gli altri devono guardare (o da cui devono lasciarsi guardare) se vogliono trovare la loro strada. Ma non è un caso se il latino, e nella sua scia il tedesco, appena sotto la superficie del monstrum-Muster inteso come esempio o paradigma, lasciano risuonare l’eco etimologica di qualcosa di propriamente


intuizione geometrica piuttosto che al formalismo matematico di tipo accademico. Non si può concludere questa breve nota storica senza menzionare il nome di Erik Christopher Zeeman (nato nel 1925), matematico inglese che contribuì alla diffusione della teoria e delle sue applicazioni con una serie di appassionanti articoli e conferenze. Chris Zeeman è una figura importante nel panorama della matematica britannica del Novecento. Laureato a Cambridge, nel 1964 si trasferì nella nuova Università di Warwick, a Coventry, dove rimase fino al 1988. Sotto la sua leadership, Warwick diventò in pochi anni uno dei centri di ricerca più importanti per lo studio dei sistemi dinamici. Oltre che per i suoi notevoli successi nella ricerca matematica e nel mondo accademico che gli hanno garantito un numero molto ampio di onorificenze (fino al titolo di ‘Sir’), Christopher Zeeman è famoso per le sue brillanti lezioni e conferenze e per la sua lungimirante opera in favore dell’educazione dei giovani talenti matematici nel Regno Unito. Se la

teoria delle catastrofi divenne così popolare al di fuori del mondo matematico, tanto che persino i quotidiani cominciarono ad occuparsene alla metà degli anni Settanta con titoli come «Thom: ho la formula che spiega i disastri» («Corriere della Sera Illustrato», 1978), lo si deve in gran parte anche all’opera entusiastica di conferenze ed articoli di Zeeman, un vero pioniere per quanto riguarda l’immaginare nuove applicazioni della teoria alle scienze biologiche e comportamentali e ideatore di una ‘macchina delle catastrofi’, un semplice meccanismo che illustra come piccole perturbazioni possano dare luogo a fenomeni di discontinuità. Secondo lo stesso Thom, il termine ‘teoria delle catastrofi’ sarebbe stato coniato proprio da Zeeman. Il grande successo di pubblico ottenuto dalla teoria delle catastrofi negli anni Settanta portò ad una ‘moda’ per cui sempre più persone, imitando l’approccio di Thom e Zeeman (e a volte senza nemmeno comprendere a fondo le tecniche che stavano utilizzando e non possedendo la padronanza

© Marco De Anna

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Per colpa di un accento /

Per analogo errore / un contadino a Rho / tentava invano di cogliere /

un tale di Santhià

le pere da un però.

credeva d’essere alla meta /

Non parliamo del dolore /

ed era appena a metà.

accento, / il suo cucú non cantò più.

di un signore di Corfú /quando, senza più

Gianni Rodari, ‘Il libro degli errori’, Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Ts) 2008, p. 11.


nostra goccia verso un punto di minimo adiacente. Spesso i sistemi fisici (come pure altri sistemi in economia, in biologia, ecc.) si comportano in modo simile a quanto ora descritto, stabilizzandosi (dopo un certo tempo transitorio) verso le posizioni di equilibrio stabile date dai minimi relativi. Una seconda importante assunzione della teoria delle catastrofi è quella di trascurare il transitorio (che si suppone svolgersi in una scala dei tempi molto più piccola rispetto ai fenomeni che si vuole osservare) e di concentrarsi sulle posizioni di equilibrio stabili o instabili. Chiaramente, le prime sono quelle che si osservano in natura perché persistono per piccole variazioni delle condizioni iniziali. Nel caso semplice in esame, cioè di un potenziale V (x) dipendente da una sola variabile x, per individuare le posizioni di equilibrio basterà studiare l’equazione dei punti stazionari (o punti critici) V’(x) = 0 e trovarne le soluzioni. Se tutta la storia si riducesse a questo, ci sarebbe ben poco da dire. Ciò non accade

in natura, nel senso che la funzione potenziale V (x) in generale dipenderà da alcuni parametri (detti anche fattori di controllo) che potrebbero variare nel tempo. Per fare un esempio molto grossolano, la forma del nostro corpo è qualche cosa di stabile giorno per giorno (per fortuna!), ma non rimane la stessa nel corso degli anni. Si cresce, la pancia si gonfia, la schiena si curva un po’ e l’aitante e snello giovanotto di un tempo si trasforma con il passare degli anni in un meno aggraziato professore di mezza età. In quest’ottica, si può ipotizzare che la funzione potenziale V, oltre a dipendere da un certo numero di variabili interne x, y, z..., dipenda anche da un certo numero di parametri di controllo u, v, w... al variare dei quali varierà la forma della funzione V. Dato che (come abbiamo visto sopra) ci interessa individuare i punti stazionari di V, con particolare riguardo a quelli stabili, studieremo il modo in cui al variare dei parametri di controllo cambia la stabilità dei punti stazionari. Si può immaginare ora delle situazioni in cui al variare di

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Crac o croc? … pane carasau, cioè aridato, biscottato, cotto due volte (pistoccu), detto anche pane de domo, pane tostu, pane de vresa [...]. Quando ogni famiglia si faceva in casa il suo pane, l’espressione ‘il tempo è denaro’ non era ancora spuntata, come una nuvola nera, all’orizzonte. Oggi che a Bergamo hanno inventato la macchina per fare la polenta, avranno trovato il modo di fare a macchina anche il pane carasau, che naturalmente avrà l’aspetto del pane carasau, ma non il sapore. Per fortuna nell’isola sopravvivono delle benedette ‘équipes’ di vecchiette capaci di offrire (ancora per poco, perché nessuno le sostituirà) questo meraviglioso spettacolo di sapienza artigiana, che da farina, acqua e sale e fuoco fa sorgere il magico sole del pane carasau, pane de domo. Aldo Buzzi, ‘L’uovo alla kok’, Adelphi, Milano 1979, pp. 108-109.


Mi sono messa davanti allo specchio: come sono brutta! Come si è fatto sgraziato il mio corpo! Da quando? Sulle mie foto di due anni fa mi trovo ancora piacente. Su quelle dell’anno scorso, non sono poi così male, e sono foto di dilettanti.

© Erika Pittis

Simone De Beauvoir, ‘Una donna spezzata’, Einaudi, Torino 1972, p. 126 (trad. it. di B. Fonzi).

Gian Paolo Gri

gri.gianpaolo@tin.it

Le rotture e la durata Anche i suoni hanno in dote una qualità più o meno alta di affordance, intesa come capacità di sollecitare e attivare significati e interpretazioni, proprio come gli oggetti e gli utensili, che possono far intuire con più o meno efficacia di quali meccanismi sono fatti, a quali funzioni possono assolvere, quali azioni possono essere compiute su di loro e grazie al loro aiuto. Crac è un suono così; ha un tasso alto di affordance, è un invito a nozze per la capacità di sollecitare interpretazioni. Un invito a nozze letterale, almeno per gli etnologi. Elena Fabris Bellavitis era una cara nobildonna di un secolo e mezzo fa, animata da spirito romantico, amante del folklore. Ci ha lasciato anche una viva descrizione, ricca di dettagli etnografici, dello scenario di nozze nell’ambiente contadino di Pasian di Prato (paese friulano vicino a Udine).

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della terra?». Ovviamente non c’è un punto più a est, si può continuare a girare attorno, e per ogni punto ci sono altri punti che sono più a est. «Cosa c’era prima del Big Bang?» si domanda Gabriele Veneziano, fisico, padre della teoria delle stringhe, cioè di quella teoria che assimila le particelle elementari a entità

non più puntiformi, ma a corde unidimensionali infinitamente sottili e di lunghezza finita. E la risposta è un modello in cui il Big Bang non è l’origine ma una fase di transizione tra il prima e il dopo, evitando la singolarità iniziale. Cade così quello che Veneziano chiama «il mito dell’inizio del tempo».

Dietro i primi, altri arrivano, con urla di guerra, e subito abilmente circondano i carri. Immobili, pietrificati, gli armeni trattengono il respiro. Per un infinito momento, la loro passione è sospesa, e nel profondo del cielo una voce solitaria geme alto, supplicando, dentro il tempo di Dio. Poi, tutto si compie. Antonia Arslan, ‘La masseria delle allodole’, Rizzoli, Milano 2007, p. 144.

© Sabine Korth, ‘da Sud a Nord’, Art&, Udine 1997, p. 6.

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Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Albert Camus, ‘L’uomo in rivolta’, in ‘Ribellarsi è giusto’, Edizioni dell’Asino, Roma 2008, p. 54.


19 96 , p. 9. Ar t& , Ud in e in ‘Æ m ili a’ , ere’ , lle au to co rri st az io ne de Fa rri , ‘A lla © St an isl ao

l’ id e a ch e sp le n d o re, i d i p m te In u n a q u a n ti tà u m a n a si a tr is ti re l’ e si st e n z a b il e, p u ò in a ri va in , te in o (c o m e co st a n m p i d i d e cl te in ; re ta e n e ss u n a o ir ri p ro m e ss a ch , n e ss u n la è , i) st e u q it à ss u n a ca la m in fa m ia , n e à m a i im p ove ri rc i. tr d it ta to re p o ’, Ad el ph i, de ll’ et er ni tà es , ‘S to ria rg up i). al Bo ad is Lu Gu Jo rg e . it. di G. , p. 86 (trad M ila no 19 97

Pierluigi Di Piazza

segreteria@centrobalducci.org

Le virtù della disobbedienza La questione dell’obbedienza e della disobbedienza non è da considerare in modo moralistico, né da riferire a situazioni contingenti, anche se di fatto in esse si concretizzano le opzioni e le scelte di fondo della vita. L’obbedienza e la disobbedienza esprimono gli ideali, le convinzioni, le scelte etiche di adesione o di obiezione, di rifiuto a concezioni, assetti istituzionali e politici, religioni. L’obbedienza può esprimere adesione motivata e convinta oppure adattamento, conformismo e passività e la disobbedienza può esprimere opposizione motivata e ferma, con conseguenze per la persona o la comunità in determinate situazioni, fino al pericolo della vita stessa, o può conformarsi anche come distacco, svuotata dal significato profondo della libertà, della resistenza, della responsabilità dell’opposizione.

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l’azione dell’uomo nel mondo, come ha osservato anche Kant in La fine di tutte le cose (Berlin 1794). Per l’induismo e il buddhismo, il mondo viene considerato un’apparenza, e la liberazione è un dissolvimento dell’io nel Tutto. Non si parla propriamente di escatologia, come fanno ebraismo, cristianesimo, islamismo. Qui mi focalizzo sull’escatologia cristiana, che l’ermeneutica biblica e teologica del XX secolo ha profondamente rinnovato. L’escatologia ha sempre a che fare con la fine, ma essa non ha come tema la fine, bensì la ricreazione di tutte le cose.

L’escatologia ha una dimensione apocalittica, in quanto l’apocalittica mette a tema la fine del mondo (con segni premonitori, come l’Anticristo, il millenarismo, e con immagini di catastrofe, che i fondamentalisti assumono alla lettera e amplificano nelle loro speculazioni e fantasie, ma che invece necessitano di una attenta ermeneutica nel contesto dell’escatologia). L’Anticristo è interpretabile come figura della violenza del male in atto nella storia del mondo; il millenarismo come regno millenario della pace è interpretabile come la controfigura di una speranza e di una prassi alternative alla desertificazione del

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zioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini, né davanti a Dio, che bisogna che si sentano l’unico responsabile di tutto. A questo fatto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo processo tecnico». Dunque ciascuna e ciascuno responsabili. Si apre la questione del rapporto fra persone e ambiente, fra l’influsso di questo sulla formazione, sul modo di pensare ed agire. Riemerge con evidenza l’importanza della pedagogia della formazione alla libertà e responsabilità da unire costantemente per percorsi personali dentro alle relazioni, agli ambienti, alle situazioni. Una fiducia ragionevole, anche se contraddetta più di qualche volta, ma alimentata e sostenuta in altre, ci porta a considerare la possibilità per l’essere umano di liberarsi dai condizionamenti sociali, culturali e religiosi, per non cadere in una sorta di determinismo che di fatto favorisce

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persone e sistemi autoritari e tante altre obbedienti, passive, succubi, omogenee al pensiero dominante. Nell’attuale situazione storica pare che il populismo, supportato dai mezzi di informazione, svolga il ruolo proprio degli autoritarismi; possono diventare ancor più facili l’ossequio superficiale, il consenso identitario acritico. Tutte le donne e tutti gli uomini di buona volontà dovrebbero vivere quotidianamente l’obiezione di coscienza, la disobbedienza a tutte quelle situazioni che violano i diritti umani, che offendono la dignità delle persone. Una disobbedienza motivata dall’obbedienza ai grandi ideali di giustizia, di libertà, di pace, dei diritti umani uguali per tutte le persone, le comunità, i popoli del pianeta. Una disobbedienza che chiede resistenza, rete di relazioni, esperienze alternative, che si nutre delle esperienze che da essa nascono e per questo si rafforza riproponendole ed estendendole.


creato; il catastrofismo delle immagini dà espressione al crollo di un mondo vecchio, segnato da peccato, male e morte. L’apocalittica specula sulla fine, l’escatologia attende «l’avvento di Dio». L’apocalittica preserva la dottrina cristiana della speranza da un ottimismo superficiale, ma l’escatologia è la speranza che ‘nella fine’ si ha un ‘nuovo inizio’. Un’apocalittica senza escatologia non rientra in una prospettiva biblica, ma sarebbe una teoria della catastrofe, mentre l’escatologia, pur considerando la fine (è la dimensione apocalittica dell’escatologia), implica sempre la categoria del

novum, e alimenta una speranza ‘creativa’ e ‘militante’. In una recente intervista (2003) il teologo Jürgen Moltmann, ricordando il filosofo Ernst Bloch autore de Il principio speranza (1959), si è così espresso: «Bloch ha fatto spesso delle osservazioni piuttosto semplici sulla morte. Ma Il principio speranza incomincia: ‘Che cosa attendiamo noi propriamente?’. Ma poi viene la domanda seguente: ‘Che cosa ci attende?’. E su questo voleva una risposta». E la risposta del teologo è: «Noi siamo attesi».

Il padre del vecchio K. sorvegliava gli operai con pedanteria, effettuava decine di misurazioni aggiuntive sugli edifici già costruiti, andava a controllare case già abitate da tempo e chiedeva agli inquilini se per caso non avessero notato delle spaccature, qualche screpolatura, si sa, sotto ci sono le miniere, capita che ci siano dei cedimenti, sempre meglio controllare che non ci siano delle brecce, a volte basta una crepa appena appena percettibile, una minuscola fessura nell’intonaco e da lì comincia la catastrofe [...] Wojciech Kuczok, ‘Melma’, a cura di Silvano De Fanti, Forum Editrice, Udine 2009, pag. 31.

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La rivoluzione è morta mentre lo spettacolo è diventato l’episteme del nostro tempo. Lo spettacolo ha vinto perché è in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria. Non possono esserci spettacoli ‘contro’. Da tempo le avanguardie non hanno più senso. Da tempo il dissenso non ha altro significato che nei sondaggi alla casella No. Guy Debord, ‘La società dello spettacolo’, Baldini&Castoldi, Milano 2002, p. 9 (trad. it di P. Salvadori e F. Vasarri).


Wajeha Al-Huwaider, in Notizie minime della non violenza in cammino, n. 951 del 22 settembre 2009. [Traduzione e adattamento di Maria G. Di Rienzo]

Chi è la donna che ogni giorno torna al confine tra Arabia Saudita e Bahrain, solo per essere respinta? Sono io. E chi sono io? Nativa della città di Hufuf, dove crescono i migliori datteri del mondo, quarantasettenne madre divorziata di due adolescenti, impiegata. Non sono una persona pericolosa, perciò perché mi respingono? Perché mi rifiuto di mostrare ai funzionari un documento firmato dal mio ‘tutore maschio’ che mi permetta di viaggiare. Io sono in possesso del documento, ma trovo umiliante doverlo produrre solo perché sono una donna. Perciò ho deciso di tentare di uscire dal paese rompendo questa regola: ho chiesto ad altre donne saudite di farlo e molte, nelle scorse settimane, mi hanno ascoltata. L’avere un ‘guardiano’ è solo una parte del meccanismo che soggioga le donne in Arabia Saudita. Ad esempio, senza il permesso del suo tutore una donna non può guidare un’automobile: ovviamente non c’è nulla nel Corano al proposito, ma spostarci da sole allenterebbe il controllo che gli uomini hanno su di noi. Una donna saudita non può andare da nessuna parte se non indossa l’abaya, un orrendo mantello nero che deve coprire i vestiti normali. Potete immaginare quanto sia divertente quando ci sono 30-40 gradi all’ombra e vedete gli uomini sauditi vestiti di fresco bianco. Le donne non possono fare sport: e con un abaya addosso come sarebbe possibile? Una donna può ottenere un divorzio, ma solo attraverso una lunga e laboriosa procedura, mentre un uomo può divorziare semplicemente dicendo la sua intenzione tre volte. In questi giorni le autorità religiose stanno dibattendo se un uomo debba proprio dire questo di persona, o se basti un messaggio sul cellulare. Un giudice a Jiddah ha già approvato un divorzio del genere: il marito era in Iraq per partecipare alla guerra santa. E un uomo può legalmente sposare una bambina di sette od otto anni, e la poligamia, sino a quattro mogli, gli è concessa. Queste pratiche hanno rovinato innumerevoli vite, e ne hanno cancellate altrettante, ma naturalmente ci sono anche donne che non sostengono le mie cause, donne i cui ricchi mariti beneficiano dallo status quo o donne che non credono nel cambiamento. Io sono diversa. Non so perché. Forse perché mia madre mi permetteva di giocare a pallone con i miei amichetti maschi, e io sono cresciuta sentendomi uguale a loro. Forse perché ho un lavoro sicuro e non dipendo da nessuno. Forse perché credo che le donne siano persone, e non proprietà.

In casa c’erano due mondi che convivevano; i miei conoscevano e praticavano la terra, mio zio e la sua famiglia erano fabbri, con officina annessa a casa nostra. Eravamo una casa allargata, non un condominio; una casa di tredici persone. I grandi trattori con la loro proboscide meccanica da riscaldare nella mattine d’inverno con la fiamma ossidrica perché potessero ripartire, sostavano in tutta la loro bellezza e forza nel nostro cortile: i Landini, David Brown, i Nuffield, i Ferguson; mio zio fabbro era il loro mentore. Sono divenuto uomo della parola per vocazione e costruzione. L’essere prete comportava la lunga attraversata dal silenzio alla parola per fare di questa un evento. La figura di Gesù a casa mia è stata familiare ed esercitava in tutti un forte fascino, insostituibile nel silenzio, nella prova, nella felicità. Attorno e dentro la sua storia ruotavano le nostre vite. Nessuno è stato così presente. Il denaro è stato un assente non troppo temuto perché eravamo convinti che ci fosse un’assenzapresenza provvidenziale. Il Suo agire non era comprensibile in diretta; c’erano solo piccole tracce che ci impegnavamo e ci divertivamo a cercare. In differita, non sempre, si componevano le tessere del disegno. Eravamo convinti che Lui ci amasse da sempre: prima durante e dopo il nostro essere qui. Ciò rendeva le nostre esistenze, altrimenti piccole e impaurite nell’incontro con altri molto più scaltri di noi, forti, tenaci e ostinate nel comprendere qual era il nostro posto e nell’esservi fedeli. Di Gesù ho appreso dai primi vagiti. Nulla di Lui mi sembrava estraneo e Lui riempiva ogni cosa. Religione e fede vivevano una profonda mutualità. Le fratture sono venute dopo. Allora i riti religiosi facevano da contenitore all’incandescenza della fede: coinvolgevano e accompagnavano al mistero. La crescita ha comportato cambi di luoghi, di appartenenze, di modi di produzione, di modelli culturali. Alcuni sono venuti meno con fragore interiore, rotture radicali, altri con linearità evolutiva. Nella frequentazione scolastica durata oltre cinquant’anni in due condizioni opposte

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(studente/insegnante) mi sono trovato accanto persone che avevano molta consonanza con la testa e con i suoi percorsi logico-formali, ma il loro cuore mi sembrava rimanesse freddo, le ‘viscere’ assenti. Chi usava bene la ragione, la ragione dialettica/dialogica e contabile, godeva di molta considerazione in seminario. Il cuore era avvertito con forte sospetto, il ‘sentire’ delle viscere veniva negato perché attribuito al femminile e alle specie inferiori. Eravamo educati al logos, alle sue costruzioni, alle formalizzazioni spinte. La fede era un fragile dono capace di farci compagnia quando venivano meno le altre. Finalmente la teologia, le sue costruzioni. All’inizio le categorie metafisiche sembravano mostrare la loro assoluta necessità nel confessare la fede, ammoniti da Aristotele («La meraviglia è la condizione essenziale per il cammino verso la saggezza», I libro della Metafisica); gli approfondimenti esegetici e storico-teologici ci hanno immerso nel mondo greco, in quello latino, slavo. Ci hanno posto di fronte ai concili e al nuovo concilio (luoghi

di continuità, di sintesi ma anche di rilancio dell’inculturazione della fede), al mutare dei paradigmi, da quello apocalittico-riformatore, a quello illuministico moderno, a quello ecumenico contemporaneo. Da una parte la sostanza permanente della fede, il messaggio, Gesù Cristo. Con Lui la svolta nella storia di Israele e dunque lo specifico cristiano: «Gesù come Messia e Figlio di Dio». Dall’altra, il ‘dirlo’ dentro la mutevole costellazione, con i suoi crac storici, di convinzioni, valori, comportamenti comunitari. La comprensione dunque, interessante e dolorosa (poche volte gioiosa) che l’annuncio implica una conoscenza profonda dei contesti vitali: il tempo di Gesù e il tempo nostro (in qualche modo inaccostabili e ‘intraducibili’); e il coinvolgimento di tutto di sé, mente, cuore, viscere. La convinzione, poi, che è impossibile storicamente raggiungere Gesù, anche se la fede della comunità in Lui non solo lo ammette, ma lo esige. E più profondamente le relazioni di intimità con il Cristo della fede e il ‘sentire’ la sua presenza trave75

© Ralph Eugene Meatyard, ‘In prospettiva’, Art&, Udine 1995, p. 13.

ANTIGONE

... se la tua mano aiuterà la mia a portare quel corpo a sepoltura. ISMENE

Noi, seppellirlo, se a tutti si vieta? ANTIGONE

È mio fratello (... e tuo, s’anche ricusi): in tradimento non mi lascio cogliere. ISMENE

Contro la legge di Creonte, audace? ANTIGONE

Non ha diritto di sottrarmi ai miei. Sofocle, ‘Antigone’, Einaudi, Torino 1976, p. 7 (a cura di G. Lombardo Radice).


luogo, viene ribadito il ruolo centrale della scuola italiana – interclassista e gratuita – come elemento di integrazione fra ragazzi e famiglie straniere e autoctone. L’Italia è in una posizione certamente più favorevole rispetto a paesi come gli USA, dove a causa della forte segregazione scolastica e degli scarsi investimenti nella scuola pubblica – come ha mostrato una ricerca recente – quattro genitori stranieri su dieci hanno paura di mandare i figli a scuola. Nello stesso tempo, però, la scuola italiana non è in grado di colmare le differenze di capitale umano rispetto ai giovani italiani, così come non colma quelle fra italiani appartenenti a diverse classi sociali. Bisogna aiutare i ragazzi (italiani e stranieri che siano) che non hanno la fortuna di avere una famiglia culturalmente attrezzata. Non va ‘abbassata l’asticella’, ossia non va ridotto il livello di quanto preteso dalla scuola. Va invece offerta più scuola a chi parte da più indietro: aiuti per i compiti a casa, corsi di italiano come seconda lingua, ecc. Su questo ver92

sante, l’Italia è piena di iniziative locali volonterose e intelligenti, ma mancano piani nazionali o regionali di ampio respiro. L’altra indicazione è più generale. Al di là di ogni retorica, i giovani figli di stranieri possono essere una risorsa immensa per l’Italia, perché la loro ansia di farsi strada nella vita e di integrarsi nella società italiana è divorante. Essi portano con sé tutta l’energia contenuta nelle migrazioni motivate da ricerca di lavoro. La meglio gioventù di tutto il mondo viene spontaneamente selezionata e forgiata dalle fatiche delle migrazioni e, in un certo senso, viene ‘regalata’ alla società italiana. Vanno quindi rigettati i dubbi – spesso espressi anche da eminenti studiosi – sulla cattiva ‘qualità’ dell’immigrazione italiana, tutta concentrata sugli strati lavorativi più umili. Se messi in grado di far fruttare i loro talenti, i giovani figli di stranieri realizzeranno brillanti percorsi di mobilità sociale ascendente, dando una spinta poderosa all’Italia di domani.


Come in un parto, si potrebbe non vedere altro che una sanguinaria scena di terrore, una bestiale crudeltà da macello. Ma c’è anche qualcosa che nasce. E c’è una grandezza e una bellezza nella bestialità, c’è un anelito, una bontà e una commovente bellezza intorno e dentro ciò che accade. E la notte di terrore sarà mutata in luce e gioia, in giorni felici della più intensa umanità, perché è nato un essere che prima non esisteva. E quest’essere è stato sognato nel pieno del travaglio, del grido, nell’insopportabile ora di paura.

© Paolo Gioli, ‘I segreti dell’Etrusco’, in ‘Fotografie, dipinti, grafica, film’, Art&, Udine 1996, p. 31.

Pär Lagerkvist, ‘La mia parola è no’, Iperborea, Milano 1998, p. 58 (trad. it. di F. Perrelli).

Il senso della nostra identità personale può risultare dall’uscire da una più vasta unità sociale; esso può risiedere dunque nelle piccole tecniche con le quali resistiamo alla pressione. Il nostro status è reso più resistente dai solidi edifici del mondo, ma il nostro senso di identità personale, spesso, risiede nelle loro incrinature. Erving Goffman, ‘Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza’, Einaudi, Torino 1968, p. 336 (trad. it. di F. Basaglia).


© Luca Laureati

La caduta di un Impero, signori, è un avvenimento di enormi proporzioni, non facile certamente a combattere. È provocata dalla crescita della burocrazia, dall’inaridirsi dell’iniziativa umana, dall’immobilismo delle caste, dall’appiattimento degli interessi… e da centinaia di altri fattori. Questo movimento è cominciato centinaia di anni fa, ed è troppo colossale e complicato perché possa venire arrestato.

Isaac Asimov, ‘Cronache della galassia’, Mondadori, Milano 2003, p. 27 (trad. it. di C. Scaglia).


Daniele Barbieri

db@danielebarbieri.it

Onomatopee del concetto Fu una sorpresa, quando leggevo per la prima volta, da ragazzo, i fumetti di Hugo Pratt, scoprire che il suono che facevano i fucili quando sparavano non era il solito bang delle pistole, bensì un molto più succoso e saporito crack! L’onomatopea era sorprendente ed efficace. Sorprendente perché non mi era mai capitato di incontrarla. Efficace perché c’era qualcosa nel suono evocato dalla sua sequenza di lettere che mi appariva più complesso e realistico di quanto non ci trovassi in bang. A ben guardare i fumetti di Pratt, si può comunque osservare che il suono crack non è appannaggio esclusivo dei fucili. Pure certe pistole lo producono, mentre altre si limitano al semplice bang. A un’osservazione più attenta delle vignette, sembra di capire che si tratta di pistole più grosse e rumorose. 95

Andrea Zannini

andrea.zannini@uniud.it

Crolli, crac e catastrofi: quando la Storia si spezza Quando la Storia si spezza, irrompono sulla scena della rappresentazione delle vicende umane gli attori più antichi: l’avvenimento e il protagonista sconosciuto. Regni e imperi crollano per mano di uno studente con in tasca una rivoltella (Gavrilo Princip, Sarajevo, 1914), per un giornalista che rivolge una semplice domanda in una conferenza stampa ad un ministro (Riccardo Ehrman, Berlino est, 1989), per un funzionario della posta che riconosce un re in fuga (Jean-Baptiste Drouet, Varennes, 1791). L’importanza delle azioni individuali era uno dei fili rossi che ordinava la trama della storiografia degli antichi, con i suoi cicli perpetui di nascite, crisi e crolli, con le ascese e cadute, le albe, gli apogei e i tramonti delle civiltà. Sull’uomo e sulle sue costruzioni governava però il caso, e la sua inumana giustizia. 95


Guarda caso, il terzo verso, che è quello in cui il tuono si manifesta, premette all’esplosione sonora delle ‘b’ ed ‘m’ proprio una ‘r’ (‘rimbombò’), mentre la parola ‘schianto’, con la sua ‘c’ dura e la ‘a’ gridata, fa la parte stessa dell’onomatopea dell’esplosione. La ‘r’ da parte sua (‘tratto, con fragor d’arduo dirupo che frana’, ‘rimbombò, rimbalzò, rotolò’, ‘rimareggiò rinfranto’) rappresenta prima il suono della preparazione e tensione che apre l’esplodere, e poi quello del brontolio successivo. Sappiamo tutti che le parole di una lingua sono artifici convenzionali. Eppure, quando

una medesima parola ha tanto successo anche attraverso lingue differenti, e questo successo non riguarda solo il suo valore onomatopeico, forse potrà essere il caso di studiarne la forma fonetica, alla ricerca di qualcosa che convenzionale non è, ma nemmeno del tutto onomatopeico. Questa durezza che va in frantumi, dentro un crack, non è solo quella di un materiale solido che produce, rompendosi, un suono udibile – come ben sanno gli analisti finanziari, i tossicomani, gli hacker e tanti altri. L’efficacia della lingua non si produce solo attraverso una semantica adeguata.

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del 1755 contribuì alla desacralizzazione dell’universo e all’abbandono della semiologia indiziaria delle catastrofi. L’uomo si ritrovò, senza strumenti in mano, a cercare tra le pieghe della quotidianità i sintomi del crollo epocale. Così, nel 1940, fino a pochi giorni prima dell’invasione hitleriana, i soldati francesi schierati sul Reno passavano le giornate a fare il bagno nel fiume, giocare a calcio e ad assistere a spettacoli teatrali. E la scrittrice Berta Szeps, nei giorni precedenti alla fine dell’impero asburgico nell’ottobre 1918,

annotava sul suo diario che l’attenzione generale era appuntata su chi doveva essere il nuovo direttore del Burgertheatre. Ma il tabellone teatrale delle cose umane è nelle mani della Storia che talvolta si diverte ad apparecchiare d’improvviso spettacoli, a cambiare i nomi dei protagonisti e delle comparse. Crolli, crac e catastrofi sono spesso largamente prevedibili, ma non sui tempi della vita umana. L’unica scienza in grado di predire il futuro, verrebbe da dire, è il senno di poi.

Durante quel tempo, pareva che la meschina, convenzionale vita della città seguitasse, ignorando per quanto era possibile la Rivoluzione. I poeti scrivevano versi, ma non sulla Rivoluzione. I pittori veristi dipingevano scene della vita medioevale russa, tutto fuorché la Rivoluzione. Le giovani signore venivano dalla provincia nella capitale per imparare il francese ed educare la voce [...]. La figlia di un mio amico tornò a casa un pomeriggio in preda a un attacco isterico, perché la donna che guidava il tram l’aveva chiamata ‘compagna’. Intorno a loro, la grande Russia soffriva per generare un nuovo mondo. John Reed, ‘10 giorni che fecero tremare il mondo’, Mondadori, Milano 1982, p. 39 (trad. it. di O. Nemi).

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© Matteo Lavazza Seranto

CRACK La parola crack è usata per descrivere la forma di cocaina base ottenuta convertendo la cocaina cloridrato a cocaina base. Il termine deriva dal rumore prodotto dai frammenti porcellanacei quando vengono combusti e fumati nel cannello della pipa. Assunta con questa modalità, la sostanza entra in circolo attraverso il sistema respiratorio, raggiungendo assai rapidamente il sistema nervoso, producendo effetti euforici in maniera quasi istantanea, sovrapponibile a quella ottenuta attraverso l’assunzione della sostanza per via endovenosa. Il crack si presenta sotto forma di cristalli che vengono venduti sulla strada in piccoli sacchetti o contenitori di plastica.

© Carlo Rossolini

Bruce Chatwin, ‘Utz’, Adelphi, Milano 2000, p. 96 (trad. it. di D. Mazzone).

Umberto Nizzoli, Mario Pissacroia, ‘Trattato completo degli abusi e delle dipendenze’, Piccin, Padova 2004, p. 786.


traumatiche palingenesi o salvaguardarlo da involuzioni dissipatrici. «Noi riteniamo un’assurdità il cine-dramma psicologico […], appesantito dalle visioni e dalle reminiscenze dell’infanzia. […]. Noi dichiariamo che i vecchi film romanzati, teatralizzati e via dicendo hanno la lebbra. […]. Noi affermiamo che il futuro dell’arte cinematografica è la negazione del suo presente», tuonava nel 1922 Dziga Vertov con il suo gruppo di cineocchi. Ma uno sguardo anche distratto alle forme narrative del cinema contemporaneo difficilmente rinverrebbe la realizzazione di questa dirompente proposta, forse realizzata in altre sedi. Per converso, la profonda soluzione di continuità dovuta all’avvento del sonoro fu faticosamente assimilata da molti. Così nel 1929 giudicava Luigi Pirandello la trasformazione in atto: «Con la sua parola impressa meccanicamente nel

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Togliete le serrature dalle porte! Togliete anche le porte dai cardini! Allen Ginsberg, 'Jukebox all'idrogeno', a cura di Fernanda Pivano, Mondadori, Milano 1981, p. 95.

film, la cinematografia, che è muta espressione di immagini e linguaggio di apparenze, viene a distruggere irreparabilmente se stessa per diventare appunto una copia fotografata e meccanica del teatro». Per fortuna, la pessimistica prognosi dello scrittore siciliano fu ben distante dal realizzarsi e il crac stesso di quella metamorfosi forse meno drammatico della sua rappresentazione cinematografica. L’esclusione professionale di John Barrymore in Colazione alle otto (‘Dinner at Eight’, G. Cukor, 1933), preludio al suo suicidio, pare più l’omaggio a un grande attore in declino per personali vicende, che un monumento a una generazione di interpreti esclusi dalla evoluzione tecnologica. La grottesca sopravvivenza di una generazione di manichini del Grande Muto nei saloni di Gloria Swanson in Viale del tramonto (‘Sunset Blvd.’, B. Wilder, 1950) profila meglio i timori


dell’ambiente cinematografico dinanzi all’affermazione della televisione, anziché i caduti nell’avanzata inarrestabile del sonoro. Forse anche per questo l’attrice prediletta sul set da Cecil Blount De Mille e nella vita privata dal patriarca Kennedy pronuncia la apodittica battuta: «I am big, it’s the pictures that got small». Nemmeno quella frattura si rivelò poi troppo scomposta, a differenza della reazione del cinema, attraverso un florilegio di innovazioni tecnologiche: Technicolor, Cinemascope, Cinerama, VistaVision, Dyaliscope, Sovcolor, 3-D... Lo aveva compreso a tempo uno dei grandi produttori di Hollywood, Darryl Zanuck, allorché nel 1953 commentava laconico: «Stranamente l’industria cinematografica sembra incoraggiare il pessimismo con molta più sollecitudine rispetto a quella che impiega per suscitare entusiasmo. […].

Riflettete un attimo sulla differenza che passa tra la visione di un film come La tunica su uno schermo televisivo di 24 pollici e lo stesso film proiettato su uno schermo venti o trenta volte più grande, e sarete colti con entusiasmo al pensiero che i film visti al cinema sono la miglior forma esistente di intrattenimento». La tunica è brutto su grande e piccolo schermo, a dispetto dell’ottimismo di Zanuck. Ma il cinema persiste ancora, al punto da tornare a gonfiare le sue immagini in tre dimensioni, nonostante apparenti crolli di sistema e di presenze. Lo ha ben presente la protagonista di Coraline e la porta magica (‘Coraline’, H. Selick, 2009): la proiezione può rivelarsi ben peggiore della realtà, e finire per crollare su se stessa.

© Alberto Giuliani, ‘Ospedale psichiatrico L. Bianchi’, in ‘Dintorni dello sguardo’ Art&, Udine 1997, p. 89.

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