LIBERA UNIVERSITA’ DI STUDI PSICOLOGICI EMPIRICI MICHEL HARDY
FEDERAZIONE ITALIANA DELLE ASSOCIAZIONI DI PSICOTERAPIA
Tesina d’esame COUNSELOR IN DISCIPLINE PSICOLOGICHE EMPIRICHE
“IL SENSO DI COLPA: LA GABBIA EMPIRICA” di Filippo Lagna ANNO ACCADEMICO 2011-2012
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A Teresa e Riccardo
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Indice 1. Introduzione 1.1 Il mio incontro con l’approccio empirico 2. Il linguaggio empirico 2.1 Il sistema e l’ordine 2.2 Debito empirico e flusso armonico 2.3 Yin e yang, la dicotomia sistemica 2.4 Il concetto di matrice d’eccellenza: l’ interazione tra uomo e sistema 2.5 Yang integrato e yin integrata: i modelli di eccellenza 2.6 I ruoli alterati 2.7 Il processo della metamorfosi empirica 2.8 Gli indicatori sistemici
3. Origini storiche del senso di colpa 3.1 Il peccato originale 3.2 Grazia e libero arbitrio 3.3 La religione e il senso di colpa
4. Il senso di colpa in psicoanalisi 4.1 Rimorso e religione 4.2 Istanze dell’apparato psichico ES,IO,SUPER-IO
5. Il senso di colpa in psicologia 5.1 Senso di colpa eterodiretto e auto diretto 5.2 Azione, emozione, colpa 5.3 Disturbi psicologici legati al senso di colpa
6. Il senso di colpa e l’approccio empirico 6.1 6.2 6.3 6.4
“Bravi bambini” e senso di colpa Il ruolo della madre Ruoli alterati e senso di colpa Senso di Colpa e senso responsabilità
7. La mia esperienza personale Ringraziamenti Bibliografia 3
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1. Introduzione 1.1 Il mio incontro con l’approccio empirico
Sono molto contento di essere qui a scrivere questa tesi perché in un certo senso per me è come coronare un sogno. E non perché io abbia sempre
desiderato
intraprendere
studi
psicologici
o
esercitare
professioni simili ma perché mi ritrovo adesso a pochi metri dall’arrivo di una gara cominciata ormai qualche anno fa. Mi spiego: fin da quando ero poco più che un bambino c’è sempre stata dentro di me quella sopita sensazione che ci fosse qualcosa che regolasse la vita, ho sempre avuto una flebile convinzione che ci fosse qualcuno o qualcosa che scandisse i tempi. Man mano che crescevo questa convinzione prendeva vigore dentro di me. Seguendo questo mio istinto ho cominciato ad interessarmi a tutte quelle materie che celano al loro interno queste tracce, queste geometrie. Quando poi andai via dalla mia casa di origine tutto ciò si intensificò e cominciò a prendere forma, negli anni ho letto decine di volumi soprattutto a carattere astrologico e mi sono dedicato senza neanche averne tanta coscienza allo studio dell’uomo in molti dei suoi aspetti legati alla caratteriologia. Il mio era un vero e proprio tentativo di riuscire a conoscere l’uomo e pensavo che lo strumento migliore per raggiungere questo obiettivo fosse quello di formare delle grandi classi di individui, raggruppamenti questi, che sarebbero serviti a districarsi meglio in un’ impresa ardua che fin dall’inizio mostrava tutta la sua complessità. Con il senno di poi mi rendo conto che questa necessità che sentivo di classificare ed esaminare le diverse sfaccettature della natura umana altro non era che volontà di accesso nell’intimo del mio di animo, altro non era che ricerca in me stesso, tentativo di darsi risposte a quelle domande che da sempre l’uomo si pone: chi sono?dove vado?Ma 5
l’accesso alle mie parti più profonde spesso non era consentito neanche a me stesso e come non riuscivo ad entrare dentro di me allo stesso modo mi riusciva difficoltoso districarmi nelle discipline che mi piaceva interrogare. Le eccezioni,che in genere si dice confermino la regola, durante il mio piccolo percorso di studi autodidatta erano in numero eccessivo, a volte superavano le regole, tutto era un gran caos. Le mie sensazioni, il mio istinto non volevano arrendersi pur di fronte a mille difficoltà che ogni giorno incontravo e non solo ad un livello prettamente scolastico. Non riuscivo a trovare il bandolo della matassa nelle mie letture come nella quotidianità della mia vita. Il disordine regnava sovrano nonostante i miei tentativi di riorganizzare e mettere a sistema le mie idee e le mie conoscenze. Sentivo la necessità dentro di me di avere un aiuto, man mano che il tempo passava avvertivo il bisogno di potermi confrontare con qualcuno che fosse in grado di guidarmi in questo dedalo dal quale in quel momento non ero in grado di uscirne fuori. Ero alla ricerca di un Maestro, di una figura che potesse alleggerire un lavoro che per me in quel momento era diventato troppo gravoso. In questi anni di ricerca ho sentito forte, nonostante la mia lontananza da loro, il sostegno dei miei genitori. Soprattutto quello di mia madre, perché mio padre aveva già intrapreso quella parte di cammino che di lì a poco lo avrebbe portato alla morte. Fu proprio mia madre a mettermi davanti a quello che ormai da tempo cercavo: l’ordine empirico ed il suo messaggero il prof. Michel Hardy. Ordine era proprio questa la parolina magica che da tanti anni girovagava nelle mie riflessioni. Era proprio questo quello di cui sentivo un gran bisogno nella mia vita. E non potevo chiedere di più, addirittura una scuola, un’Accademia dell’ordine, un percorso di studi molto particolare che attraverso l’approccio empirico gettava sotto i miei piedi quei binari che mi erano sempre mancati, dei quali intuivo la presenza ma che non avevo ancora avuto la prova della loro reale esistenza. 6
Di seguito a questa breve parte introduttiva verrà presentato un excursus del linguaggio empirico. Si tratta di una sorta di glossario che riporterà le espressioni ed i concetti più comunemente usate dal vocabolario della conoscenza empirica. Tutto ciò si rende necessario soprattutto per il carattere sperimentale che l’approccio sistemico assume. E come per tutti i progetti innovativi tale linguaggio diventa una sorta di griglia, di impalcatura che avrà la funzione di facilitare la comprensione del pensiero empirico. Quest’ultimo infatti presenta dei punti che spesso contrastano con il “senso comune”, con il comune modo di pensare e di intendere la vita. Tali punti innescano frizioni e stridii che a volte possono risultare fastidiosi e controproducenti. Il corretto uso di un linguaggio empiricamente efficiente ed efficace svolge, mutuando espressioni del linguaggio meccanico, una funzione lubrificante che va a limitare gli attriti, a tutto vantaggio dello scopo che le attività di counseling, attraverso l’approccio empirico, si propone.
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2. Il linguaggio empirico Non si potrebbe di certo parlare di approccio empirico se prima non si sperimenta un contatto con il suo linguaggio. Il prof. Hardy nel primo volume de “La grammatica dell’essere” getta le basi della psicologia empirica.
Nella
prima
parte
di
tale
volume
vengono
prese
in
considerazione tutte quelle istanze che vanno a formare quello che lui chiama “paradigma empirico”; nella seconda parte invece viene messo in relazione tale paradigma con il mondo della coscienza personale individuale. Ma andiamo per gradi. Innanzitutto abbiamo bisogno di affrontare
i
concetti
di
sistema
ed
ordine.
2.1 Il sistema e l’ordine Il sistema empirico spesso sfugge alla nostra comprensione mentale ma non per questo si può ignorare la sua esistenza, anche perché ogni individuo ad un livello profondo sente l’unione con esso. Tale sistema utilizza il principio di causa ed effetto per dare origine ad un insieme ordinato di leggi che regolano, senza eccezione alcuna, ogni moto vitale. E come il principio primo del sistema viene interpretato dalla legge di causalità, così la sua emanazione naturale, quella che chiameremo ordine, utilizza il principio della funzionalità come unico criterio
nella
definizione
dei
suoi
parametri
utilizzati
nelle
determinazione dell’evoluzione di tutte le cose. Tale ordine non dipende da convinzioni personali, esso segue parametri senza tempo che vengono generati dal sistema stesso. Viene chiamato ordine armonico proprio perché si rifà ai principi dell’armonia naturale, quella insita nel principio della creazione. L’ordine, attraverso il principio di causa ed effetto, genera la consequenzialità di tutte le cose e senza criticare ne giudicare abbina responsabilità precise ad ogni atto compiuto o anche, 8
come vedremo, mancato. Proprio grazie a questo principio determina tutto ciò che è (la realtà oggettiva) a tutti i livelli, da quelli più densi e pesanti del mondo materico fino a quelli più rarefatti e sottili. Esso si esprime esclusivamente attraverso dinamiche empiriche, quelle del fare, in quanto è in grado di riconoscere soltanto tutto ciò che avviene “i fatti” e non le buone intenzioni o i buoni propositi. In quanto custode e depositario dell’equilibrio naturale, utilizza la legge della compensazione nella regolazione di ogni moto empirico. Il concetto di equilibrio rappresenta all’interno del sistema la condizione necessaria ed indispensabile per poter rimanere nel libero fluire. L’ordine armonico determina tutto ciò che è, dalle leggi della natura alle dinamiche più nascoste ed intime insite in ogni uomo e non avendo, in questo processo, né confini né mete non può essere influenzato o controllato. Potendo essere paragonato alla corrente di fondo di un fiume si può parlare in questo senso di libero fluire. Lasciarsi trasportare da questa corrente cioè rimanere nel suo interno significa essere in grado di accedere ad una condizione umana di intima serenità naturale che prescinde da condizioni esterne. Ciò nonostante il sistema ammette come sua istanza suprema quella del libero arbitrio. Non costringe e non si impone, asseconda le scelte individuali anche quando contrastano le leggi empiriche, si limita semplicemente a segnalare le infrazioni mettendo di fronte l’individuo alle proprie responsabilità. 2.2 Debito empirico e flusso armonico Non possiamo parlare di infrazione senza introdurre il concetto di debito empirico. Ogni qual volta viene violata una legge armonica si produce una lesione al principio universale che sarà denominata debito empirico. Tale debito può essere visto come un registro contenente tutte le informazioni inerenti alla violazione avvenuta. Ogni qual volta che il sistema
registra
una
trasgressione 9
all’ordine
armonico
apre
automaticamente uno stato di osservazione: è come se l’individuo che la compie diventasse “un sorvegliato speciale” che permane fino a che l’infrazione non venga risolta. Il principio di violazione empirica spesso non coincide con le regole ed i codici del senso comune, non è un atto deplorevole o immorale, indica semplicemente un atteggiamento empiricamente scorretto che va al di fuori dei parametri armonici. Il debito empirico influisce sulla qualità della vita del singolo, manifestandosi in ogni ambito e andando ad inquinare il suo stato di coscienza. Possiamo affermare però che non è la singola infrazione a far sì che l’individuo che la attua venga escluso dal libero fluire ma spesso si tratta di un accumulo di violazioni sistematiche e reiterate. Va detto inoltre, che tali tipi di violazioni, che costituiscono il debito personale di ogni individuo, vanno a sommarsi su quell’arretrato già presente alla nascita della grande maggioranza degli esseri umani. Infatti, tranne rarissimi casi, ogni essere che si presenta alla vita, già all’atto del suo concepimento riceve nel suo DNA empirico quella che viene chiamata consegna familiare. Una vera e propria eredità empirica che viene passata dai propri genitori ma che deriva da tutta la propria stirpe. La consegna familiare costituisce perciò la base sulla quale si andrà a stratificare il debito empirico personale, più strettamente connesso alle azioni che l’individuo andrà a compiere nell’arco della propria vita. Azioni queste che saranno fortemente influenzate dal tipo di consegna ricevuta ovvero sia dalla sua qualità che dalla sua quantità. La portata della consegna familiare sulla quale ogni debito empirico personale va poi a costituirsi forma un arretrato empirico che sarà il responsabile dell’allontanamento, dell’individuo che se ne fa carico, dal flusso armonico. Tale allontanamento avviene a livello dell’anima. Essa, infatti, quando il peso dell’arretrato diventa eccessivo non risulta più in grado di reggere e sopportare tutto il dolore di cui il debito è indicatore, si ritira dal moto del cuore richiudendosi in se stessa. In questo modo, l’anima è come se si arenasse piuttosto che 10
lasciarsi trasportare dalla corrente armonica. Come vediamo quindi il debito empirico è in stretta connessione con il dolore arretrato e trattenuto, così come è stretta la corrispondenza tra amore e libero fluire. 2.3 Yin e Yang la dicotomia sistemica Amore e dolore altro non sono che due degli innumerevoli aspetti di quella che potremmo chiamare dicotomia empirica. La dimensione nella quale noi umani esprimiamo il nostro essere si fonda
sulla
dualità
o
meglio
sul
confronto
degli
opposti.
Ogni
espressione del cosmo, ogni forma di materia e tutta la gamma delle espressioni empiriche è contenuta in due diverse forme: quella yin e quella yang. Il loro principio si basa sulla complementarietà e non come si potrebbe pensare sulla divisione e proprio questa tendenza a completarsi rafforza la loro differenziazione. Infatti, ognuna delle due forze esprime la sua massima potenza laddove la complementare esprime la sua massima debolezza. Il linguaggio empirico utilizza il termine codice yang per indicare l’intera gamma dei principi attivi maschili e codice yin per indicare l’interezza dei
principi
attivi
femminili.
Si
tratta
comunque
di
due
forze
compensative che traggono la loro definizione dall’appartenenza al loro diverso codice. All’interno del codice yang troviamo quei principi legati alla forza propulsiva. Tale forza, che si può definire come una spinta in avanti, coadiuvata dai principi di concretezza, concettualità, autorità ed approvvigionamento,
è
caratterizzata
da
quella
energia
tellurica
contenuta nella rabbia. Il codice yin è, invece, caratterizzato da principi guida diametralmente opposti quali sono quelli dell’accoglienza, della cura, della morbidezza e 11
dell’arrendevolezza;
tutte
espressioni
queste
di
quell’energia
prettamente femminile che si può definire “forza incondizionata”. E’ opportuno specificare che ogni essere umano contiene al suo interno entrambe le cariche (Yin ed Yang) e quindi l’interezza di tutte le qualità, per quanto abbiano il primato quelle caratterizzanti il proprio sesso biologico. Si può affermare che ogni individuo possieda un’ampia gamma di principi primari legati al proprio sesso ma anche una parte di principi secondari costituiti dalle doti del sesso opposto. Entrambe le cariche, quella yang e quella yin, assumono un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’individuo, per quanto sono sempre quelle primarie che conferiscono al loro portatore sicurezza, fiducia e stabilità emotiva. In questo senso si può parlare di carica di base o primaria e carica complementare o secondaria. 2.4 La matrice di eccellenza: l’interazione tra uomo e sistema Codice yin e codice yang altro non sono che le matrici di eccellenza previste dall’ordine per definire i ruoli maschili e quelli femminili. Per comprendere il concetto di matrice di eccellenza si può pensare come ad un contenitore nel quale sono presenti tutti i modelli, i parametri empiricamente funzionali. Il sistema prevede per ogni atto compiuto dall’uomo un immediato riscontro con i parametri contenuti dalla matrice di eccellenza; tale riscontro restituisce in tempo reale i valori di aderenza dell’azione compiuta alla soluzione empiricamente funzionale prevista dall’ordine armonico, dandole di conseguenza una posizione specifica all’interno dell’ordine stesso. La matrice di eccellenza non è assolutamente un concetto rigido e definito, è invece estremamente duttile perché si plasma su tutte le possibili manifestazioni dell’agire umano. Ogni situazione detiene al suo interno una carica empirica specifica che rivela la realtà oggettiva dei 12
fatti, definendo anche l’intera gamma delle possibili reazioni umane. E come ad ogni situazione corrisponde una determinata carica energetica, così ogni carica prevede una matrice di eccellenza che non fa altro che vagliare le reazioni umane derivate, definendo quelle empiricamente valide, aderenti a tale matrice, da quelle che vanno a violare le leggi dell’ordine. Si tratta sempre e comunque di un’interazione continua tra uomo e sistema, al singolo è data la possibilità di incidere sulla realtà attraverso l’istanza suprema del proprio libero arbitrio, il sistema a sua volta non fa altro che riportare l’esito dell’azione umana attraverso la definizione di una specifica carica empirica corrispondente. Ogni individuo può avere coscienza della sua posizione all’interno dell’ordine, a seconda della propria capacità di interpretare la carica empirica che è insita in ogni situazione. Tale capacità è la diretta responsabile della permanenza del singolo che la possiede all’interno del flusso armonico. 2.5 Yang integrato e yin integrata: i modelli d’eccellenza
Il paradigma empirico definisce yang integrato e yin integrata quei modelli d’eccellenza rispettivamente maschile e femminile che riescono, attraverso il loro fare, a muoversi all’interno del libero fluire. Lo yang integrato è il detentore della forza yang autentica, che si può definire come la sua energia di base, la sua indole, la sua dote innata. È attraverso la genuina gestione di questa forza che l’uomo yang integrato riesce ad interpretare al meglio tutti i principi attivi contenuti nel proprio codice, assumendo il ruolo di modello d’eccellenza maschile. Purtuttavia l’uomo yang integrato contiene anche un altro tipo di energia diametralmente opposta, quella yin, che fa da contraltare ai principi attivi maschili e può essere appunto integrata solo qualora l’individuo abbia acquisito nel corso della sua vita la sua energia primaria di riferimento e quindi stabilito un collegamento con le proprie 13
radici biologiche ed emotive, le sole in grado di garantire un profondo senso di sicurezza in se stessi e di fiducia nei confronti della vita. Possiamo capire come lo stato di integrazione è un processo lento che si può raggiungere solo dopo aver percorso un bel tratto della propria esistenza. E se l’uomo yang integrato costituisce il modello maschile d’eccellenza, la donna yin integrata rappresenta l’eccellenza per il modello femminile. La condizione indispensabile ma non sufficiente per raggiungere lo stato di integrazione nella donna è, come per l’uomo d’altronde, quella di aver acquisito nel periodo dell’infanzia la propria carica empirica genuina; passaggio questo, che le permetterà in un secondo momento di potersi confrontare e quindi poter integrare quella maschile. L’integrazione del proprio lato yang costituisce la condizione necessaria e sufficiente per poter interpretare il ruolo di donna integrata, in quanto, solo potendo accedere alla sua energia complementare, una donna ha la facoltà di dare sostegno ai principi guida che il codice yin prevede. 2.6 I ruoli alterati Abbiamo visto come l’ordine riconosce i ruoli integrati (yin e yang) come uniche manifestazioni genuine, proprio perché sono i soli in grado di creare una continua e armoniosa sinergia tra forza yin e forza yang. Esistono tuttavia altre forme espressive che non sono in grado di sperimentare questo naturale equilibrio, motivo per il quale viene compromessa la loro capacità di accedere al proprio codice in maniera piena ed appagante. E’ per questo motivo che si parla di ruoli empirici alterati. Questi ultimi si riconoscono perché manifestano sempre una presenza eccessiva dell’una o dell’altra carica, prevalenza questa che va a compromettere l’intero assetto emotivo del suo portatore.
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Tali ruoli alterati si possono distinguere in tre categorie: la prima rivela una prevalenza di carica yang, la seconda esprime eccesso nella carica yin, la terza che è la categoria delle vittime rabbiose alterna eccessi in entrambe le cariche. L’alterazione dei ruoli prescinde dal sesso biologico cosicché una donna può sperimentare un eccesso yang così come un uomo può manifestare un eccesso yin. Se è la carica primaria ad avere avuto una carenza nell’acquisizione, radicamento
alle
l’individuo proprie
troverà radici
difficoltà
biologiche,
nel
con
la
processo
di
conseguente
impossibilità di sperimentare quel senso di appartenenza che risulta fondamentale all’interno del percorso vitale di ogni individuo. In questo caso si parla dei ruoli di uomo yin e donna yang. Se invece è la carica secondaria, cioè quella appartenente al sesso opposto a mostrare evidenti segni di deficienza, la carica primaria assume dimensioni fin troppo evidenti; mancando di limiti che la possano bilanciare nel suo sviluppo, genererà i ruoli di uomo yang alterato e donna yin alterata. Tutti gli altri ruoli che rientrano nella categoria delle vittime rabbiose e che rappresentano la gran parte delle alterazioni umane, sono forme ibride, ruoli intermedi ovvero manifestazioni più sfumate di quelle appena viste. A questa categoria appartengono l’uomo finto yin e l’uomo finto yang, così come la donna finta yin e la donna finta yang. 2.7 Il processo della metamorfosi empirica Il sistema prevede anche un percorso obbligato nel processo di alterazione. Si tratta di un vero e proprio degrado progressivo ed automatico del profilo
empirico
di
chiunque
manifesti
una
qualsiasi
forma
di
alterazione. L’espressione metamorfosi empirica viene utilizzata per 15
indicare questo particolare processo di degrado che, seguendo un andamento sistemico prestabilito, tende a far virare chiunque sia portatore di debiti sistemici verso la deriva, estromettendolo dal flusso armonico. In questo processo di trasformazione si innescano delle dinamiche di deterioramento tutte guidate da quel catalizzatore empirico che è la rabbia. Misurando lo spazio che questa emozione occupa all’interno dell’assetto emotivo di ogni individuo alterato, abbiamo la possibilità di stabilire a quale livello di degrado tale individuo appartiene. La metamorfosi empirica comporta, come si può intuire, un obbligato cambiamento del proprio carattere, si passa infatti dallo sperimentare inizialmente un alterazione di tipo yin, fino ad arrivare a quelle del gruppo yang. Ciò significa che chi si trova nel tratto iniziale del processo empirico della metamorfosi, non può che essere
yin alterata o uomo
yin. Col passare del tempo e senza che intervengano precise prese di coscienza
atte
ad
arginare
tale
deriva,
l’individuo
è
destinato,
attraversando gli altri ruoli empirici alterati, a dirigersi verso la soglia delle alterazioni di tipo yang (donna yang, uomo yang alterato), le uniche due alterazioni che il sistema stesso definisce come irreversibili e quindi compromesse. Il processo della metamorfosi è in genere un passaggio lungo che dura tutta la vita anche se la velocità con la quale si esprime è direttamente proporzionale alla quantità di dolore trattenuto dalla persona e di conseguenza dalla consistenza del proprio debito empirico. È giusto precisare che ognuno di noi sperimenta durante l’infanzia una forma naturale di alterazione yin che è funzionale alla crescita, in quanto in questo periodo della vita nessuno è in grado di assumersi le proprie responsabilità ed ha tutti i diritti di sperimentare la sua condizione di vittima e quindi di subire.
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Il passaggio dalla condizione di bambino a quella di adulto avviene in automatico nel momento in cui la persona non subisce violazioni di sorta ai propri diritti empirici. Se al contrario il bambino si trova nella condizione di vedersi negati tali diritti, in automatico accumula debito, che diventa il responsabile di una sorta di congelamento del genuino sviluppo del bambino, intrappolandolo nel ruolo del piccolo. 2.8 Gli indicatori sistemici Per
districarsi
meglio
nella
giungla
dei
ruoli
e
quindi
facilitare
l’individuazione della fase di metamorfosi nella quale un individuo si trova, l’approccio empirico si avvale di alcuni strumenti, che attraverso la loro disamina ed il loro riconoscimento, vanno a segnalare con esattezza a che tipo di alterazione ci troviamo di fronte. Proprio per questo tipo di funzione svolta, tali strumenti prendono il nome di indicatori empirici. Ogni ruolo alterato viene quindi segnalato attraverso la presenza di un indicatore dominante che, evidenziando un certo tipo di alterazione, va ad indicare quel debito sistemico accumulato, che dietro quella deviazione si cela e che ne è la fonte. L’indicatore empirico dominante o attivo costituisce una piattaforma di fondo sulla quale si appoggerà
il mondo
l’elemento
di
emotivo
maggiore
del
suo
identificazione
portatore. Esso dell’individuo
costituirà
andando
a
caratterizzare la sua personalità. Il sistema prevede anche gli indicatori secondari o passivi. Usiamo un esempio per meglio chiarire la differenza tra indicatori attivi e passivi. Prendendo a modello una donna finta yang possiamo vedere come il suo assetto emotivo sia dominato da quella rabbia, ormai poco contenibile, che nasce dalla separazione che questo tipo di donna sperimenta dal suo codice di appartenenza. In questo caso la rabbia costituisce nella donna finta yang l’indicatore sistemico attivo, mentre quello passivo è rappresentato dalla tristezza. 17
Possiamo capire come il gruppo della donna finta yang avrebbe bisogno di integrare nella sua sfera emotiva proprio questo secondo tipo di indicatore quello passivo, per avere la possibilità di stabilire un contatto con il suo codice di appartenenza e quindi con le proprie radici. È vero il contrario per il gruppo degli uomini yin e finti yin. Essi infatti sono riconoscibili per i loro modi gentili, per la loro tendenza a mediare piuttosto che prendere una posizione e per l’incapacità di mordere la vita. In questo caso è la paura a rivestire il ruolo di indicatore attivo mentre la rabbia sarà quello passivo. Succede
quindi,
che
mentre
l’indicatore
attivo
rappresenta
quell’elemento caratterizzante che individua quel particolare ruolo empirico,
quello
passivo,
facendo
da
contraltare,
risulta
essere
fondamentale nel processo di integrazione di ogni ruolo alterato. Questo avviene perché è solo integrando le qualità di cui l’indicatore passivo si fa portavoce, che l’individuo in questione si da la possibilità di riprendere contatto con le proprie radici biologiche, manifestando una maggiore
aderenza
ai
principi
attivi
contenuti
nel
suo
codice
d’appartenenza e quindi, di conseguenza, evadendo il proprio debito empirico. Vediamo
quindi
come
gli
indicatori
sistemici
svolgono
un
ruolo
fondamentale nel percorso che porta verso l’integrazione, in quanto attraverso la loro elaborazione, ogni ruolo empirico ha la possibilità di riscattarsi, intraprendendo quella strada che porta verso l’integrazione. Uno di questi in particolare sarà l’argomento principale che affronterà questa tesina: il senso di colpa, l’indicatore che sempre distingue il ruolo del bravo bambino.
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3. Origini storiche del senso di colpa Non si può parlare di senso di colpa senza fare le necessarie connessioni con la religione. Pare infatti, che già nelle culture antecedenti a quella giudea, ovvero quelle sumeriche quindi nell’area mesopotamica, cominci a delinearsi la propensione verso la disobbedienza al volere divino. In documenti del terzo millennio a.c. compare la figura del grande serpente che minaccia l’ordine cosmico ed invita ad infrangere le leggi divine. Anche i re babilonesi che assimilarono la cultura sumera pronunciavano la frase: “io non ho peccato, io non sono stato negligente verso la tua divinità”.
3.1 Il peccato originale La cultura giudea fa propri alcuni elementi e li perfeziona. Nel paradiso terrestre avviene la tragica disobbedienza che segnerà tutta l’umanità “dell’albero della conoscenza del bene ed del male non ne mangiare” (Genesi 2:17). Ma la tentazione di somigliare a Dio su cui fa leva il serpente è fatale: l’uomo sceglie di mangiare il frutto proibito. Sarà il peccato maggiore della storia della umanità, quello appunto originale e caratterizzerà tutta la teologia ebraico cristiana con tutte le conseguenze che tali confessioni si porteranno dietro, influenzando pesantemente
l’assetto
psico-emotivo
dell’uomo
negli
ultimi
due
millenni di storia. Ma mentre la dottrina ebraica si focalizza sul rispetto della legge affermata nei dieci comandamenti, cioè sul vecchio testamento, quella cristiana introdurrà un elemento assolutamente innovativo, quello della possibilità di riscatto, della possibilità di lavare i propri peccati attraverso il sacrificio di Cristo, Dio si fa uomo proprio per lavare il peccato originale sotto il peso della sua croce. 19
A cavallo tra IV e V secolo è Sant’Agostino a chiarire questo concetto. Egli definì il peccato originale con precisione. Lo enfatizza: “se cristo viene a salvarci vuol dire che da qualcosa dobbiamo essere salvati”. Per rendere centrale la figura di Gesù Cristo Sant’Agostino mise l’accento sul peccato di Adamo ed Eva che nella Genesi non aveva un peso altrettanto rilevante e parla addirittura di “felix culpa” colpa felice, perché ci ha permesso di avere Gesù. Ma la venuta del cristo non è sufficiente a togliere il male del mondo, a liberare l’uomo dal peccato, cioè dalla sua colpa. Il “maligno” continua ad operarvi, anzi viene definito come il “principe” di questo mondo e continua a sedurre l’uomo che, anche se ha armi come fede e preghiera per combatterlo, continua a farsi tentare. Perché? E proprio questa domanda apre una serie di questioni teologico-filosofiche complesse. L’uomo nasce peccatore? E’ libero di scegliere? Quale è la natura del male? Sant’Agostino risponde a molte di queste domande: intanto non vede nel male una forza autonoma, ma più come una “privatio boni”, una assenza di bene. Afferma che il male non può essere assoluto come sostenevano i Manichei, altrimenti sarebbe da considerarsi come una forza pari a Dio un anti-dio, ma gli riesce difficile spiegare il male ed accettarlo, come succede in tutte le religioni monoteiste. 3.2 Grazia e libero arbitrio Nelle sue confessioni Agostino arriva alla conclusione che la causa della caduta in tentazione dell’uomo è da ricercarsi nella natura corruttibile del suo corpo e di conseguenza, l’affrancamento dai piaceri della carne diventa la strada che porta alla salvezza. Egli afferma: ”per mezzo della continenza noi siamo veramente legati e ricondotti all’unità (Dio), dalla quale siamo stati distratti dalla pluralità”. E va anche oltre affermando come l’uomo nasce peccatore in quanto frutto dell’unione carnale di un uomo ed una donna. 20
È curioso notare che però già negli stessi anni di Sant’Agostino cominciano a fiorire concezioni teologico-filosofiche molto diverse. Una di queste è quella della quale si faceva portavoce il monaco, considerato in seguito eretico, Pelagio. Egli, che era più un moralista che un teologo si preoccupava di salvaguardare la dignità umana ed incoraggiare la dedizione a Dio. La preghiera di Sant’Agostino “dacci ciò che tu comandi e ordina ciò che vuoi” lo turbava notevolmente, perché sembrava squalificare le risorse umane,
lasciando
l’uomo
alla
mercé
del
fato.
Pelagio
riteneva
necessario richiamare i cristiani all’impegno ed alla responsabilità personale, puntando sull’idea che l’uomo avesse la possibilità reale di fare ciò che voleva. Secondo lui l’azione sarebbe determinata da tre elementi: il potere (posse), il volere (volle) e l’eseguire (esse). E mentre il primo elemento verrebbe direttamente da dio gli altri due sarebbero di pertinenza umana. Il monaco britannico Pelagio vedeva il peccato originale più come un disordine degli umani sensi e non come qualcosa che toccava la parte più profonda del suo essere. L’uomo era in grado di cooperare alla propria salvezza perché le sue risorse non erano intaccate in maniera radicale. Affermava infatti che non nasciamo in uno stato di peccato e disponiamo di tutte quelle facoltà razionali per poter scegliere tra bene e male, per cui l’esistenza del male è necessaria per conseguire il bene con merito. Diceva Pelagio “ Tutto questo è in tuo potere ed appartiene a te” riferendosi al libero arbitrio,” poiché non è che ti possa venire dal di fuori ma germina e sorge nel tuo cuore” . Fu però la visione di S. Agostino a prevale nella battaglia ideologica per cui, come sottolinea il Prof. Cardini “ Per salvarsi non basta la volontà, la libera scelta, ma occorre la grazia: cioè l’intervento divino, ma non
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solo, anche quello della gerarchia ecclesiale: i religiosi cominciano ad amministrare la grazia”. In questo senso la confessione come atto di pentimento e ricerca del perdono concesso attraverso un ministro del culto, assumerà un ruolo fondamentale, tanto da diventare obbligatoria nel 1215. Questa vittoria teologica influenzò tutto il medioevo al punto che intorno al VII secolo nacque una vera e propria teologia del peccato: i peccati possono essere perdonati con penitenze, digiuni, purificazioni,opere di misericordia ma anche e non per ultimo pagando somme di denaro. Nascono i “penitentichia” autentici manuali di espiazione. Tra il XII e il XIII secolo i teologi della scolastica fanno proprio l’argomento “peccato” organizzando un sistema coerente: peccato mortale-dannazione
dell’anima,
peccato
veniale-perdonabile
con
penitenza. A questa sistemizzazione fa riferimento anche Dante nella sua
Opera,
nell’inferno
si
scontano
i
singoli
peccati
realmente
commessi, mentre nel purgatorio avverrebbe una sorta di purificazione dell’anima che in vita è stata inquinata da una natura peccaminosa presente in tutti gli uomini. Con la riforma protestante della prima metà del ‘500 la questione del libero arbitrio del rapporto fra libertà e predestinazione diventa centrale. Per Lutero se l’uomo fa un cattivo uso della sua libertà forse è dovuto al fatto che non è libero di fronte a Dio ed è proprio in questo senso che egli parla di “servo arbitrio”. Si aprono in questi decenni laceranti questioni sia filosofiche: come trovare spazio alla libertà umana se Dio tutto determina? Sia teologiche: se l’uomo è in grado di scegliere di fronte a Dio forse non ha bisogno di redenzione. Questa controversia non è stata ancora risolta e continua a suscitare ancora oggi una domanda fatidica: se Dio è amore perché permette di peccare e quindi di soffrire? Sappiamo che c’è chi ritiene che Dio non sia responsabile della sofferenza, l’uomo è in grado di scegliere e Dio
22
concede la grazia. Dall’altro si pensa che Dio, dall’alto della sua sovranità, sia responsabile anche del dolore. In questa prospettiva il peccato diviene un’occasione per redimersi e di conseguenza la sofferenza un elemento cardine della redenzione. Per il cristiano dunque è proprio la sofferenza l’unica strada che conduce alla percezione del vero amore. Nell’ottocento il filosofo danese Soren Kierkegaard offrirà una risposta accettabile ed una nuova visione del peccato. Egli infatti vedrà il peccato come una tentazione di infrangere la legge perché si è liberi di farlo. Dice: “ il peccato è sfida, è l’angoscia che mi porta alla sfida di Dio, cioè alla sfida in cui la mia libertà oppone all’infinito di Dio, la sua infinità”. Siamo ormai vicini alla visione contemporanea di peccato che si può riassumere con le parole del docente di filosofia teoretica dell’università Milano-Bicocca Salvatore Natoli: “ C’è una dimensione di peccato nel momento in cui il soggetto vuole diventare tutto, si sente signore di tutto, non riconosce nessuna alterità oltre se stesso e quindi tutto diventa
oggetto
della
sua
manipolazione”.
Che
significa
vivere
nell’individualismo esasperato dei nostri giorni accompagnato da quel senso di isolamento di cui molti si sentono prigionieri. Il peccato oggi per un cristiano è non riconoscere nulla al di fuori di se stessi. È il sentirsi padroni di un universo che non appartiene più a Dio. 3.3 La religione ed il senso di colpa Abbiamo visto come l’evoluzione delle società occidentali negli ultimi due millenni sia stata fortemente influenzata dalla religione cristiana, che purtroppo ha perso nel corso dei secoli la sua funzione originale, che come il termine stesso specifica, sarebbe quello di stabilire un legame con la divinità. Intendendo per divinità ciò che genera, ciò che nutre e permette la vita.
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Probabilmente proprio questa difficoltà che l’uomo sperimenta nell’avere un rapporto personale e diretto con la divinità permetterà la nascita di un sistema religioso individuo per
che si sostituirà alla coscienza personale di ogni
poterli fornire una struttura e un insieme di regole che
avrebbero la funzione di guidare l’uomo nell’arco della sua vita. Tutto ciò è strettamente legato al bisogno di rassicurazione e certezza che è insito nella natura umana. Secondo Nietzsche è stato proprio questo bisogno, questa ancestrale insicurezza a creare le condizioni ideali per la nascita e lo sviluppo della morale; concetto che nel tempo si è trasformato in un arma potentissima di condizionamento delle coscienze con la strumentalizzazione fatta dal Cristianesimo. Per dirlo con le parole del filosofo tedesco: “Quindi la santa menzogna ha inventato un Dio che punisce e premia […] ha inventato un aldilà della vita inventato la morale come negazione di ogni decorso naturale tutti i motivi di agire sono ridotti alla paura e alla speranza (castigo e premio), si dipende dalla tutela dei preti da una precisione finalistica che pretende di esprimere una volontà divina”. Con l’invenzione della morale e del Cristianesimo una classe politica dominante, quella del clero, entra prepotentemente nel giochino del governo del mondo insieme alle classi politiche istituzionalizzate. Essa si è arrogata una super realtà da cui giudicare la vita e così limitarla, condizionarla, strumentalizzarla. La morale è il mezzo con cui i preti costituiscono il loro potere tiranneggiando le masse, formando delle mandrie di uomini. I peccati che sono caratteristici appigli per l’esercizio del potere diventano indispensabili. Il prete vive di peccati; per lui è necessario che si pecchi. Principio supremo: Dio perdona chi fa penitenza o più chiaramente chi si sottomette al prete. La morale nasce dalla pretesa di conservare, mantenere in vita ciò che è stato condannato dalla storia, ciò che è malato, maturo per il tramonto, fallito sul piano dei fatti creando un nuovo ambito per definizione distinto dalla realtà, che è appunto quello ideale del “dover essere”. Paola Sirigu nel 24
suo “Solo un’eresia ci può salvare” sviluppa molto bene questo concetto puntando la sua attenzione sulla storia di Gesù Cristo: il Dio originario degli Ebrei era concepito antropomorficamente come padre e re potente e
vendicativo;
quando
questa
potenza
venne
meno,
invece
di
abbandonare il simbolo, i preti ebraici iniziarono un processo di moralizzazione del loro concetto di Dio che trovò il suo coronamento nel cristianesimo. Perciò il concetto di morale di Dio si fonda sulla morte, o come dice Nietzsche, “il nulla divinizzato, la volontà del nulla santificata in Dio”. Il Cristianesimo è perciò la più nichilista delle religioni, la sua origine sta nel progetto di spacciare la sconfitta storica di Gesù, la sua morte orribile e ignominiosa sulla croce, per una vittoria in un altro mondo. Il progetto storico del Cristianesimo è quello, appunto, di una gigantesca mistificazione per cui i più impotenti, i meno capaci di creare, diventano padroni del mondo in nome di entità trascendenti che essi stessi gestiscono e amministrano. I preti fondano il loro potere su astrazioni (Dio come bene supremo), su deliri (peccati) e su illusioni (Aldilà). I preti hanno sempre avuto bisogno della guerra, del fanatismo e dell’indignazione, poiché soltanto con uno stato perenne di allarme e di sovraeccitazione, di isterismo provocato e sostenuto dal sangue dei martiri e dalle fobie dei più emotivi, era possibile tenere lontano le masse dalla realtà. Il Cristianesimo, conclude la Sirigu, è rinunciatario nella sua essenza perché si accontenta di promesse e speranze e ha nei confronti della realtà un atteggiamento proiettivo nel porre sempre l’essenziale altrove, in un futuro che non si realizzerà mai. Vediamo quindi come il potere religioso sarà il principale responsabile della formazione di una coscienza di colpa collettiva che caratterizzerà fortemente tutte quelle società che faranno del Cristianesimo il loro credo religioso.
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4. Il senso di colpa in psicanalisi 4.1. Rimorso e Religione Il termine Rimorso viene dal latino “Rimosus” e significa “pieno di fessure o buchi”, buchi che appunto derivano da “rimordere, mordere di nuovo”. Rimorso in questo senso è quindi quel tormento, quella sensazione che si prova per la coscienza di aver fatto del male e non il bene che era possibile. In Totem e tabù, Freud studiò il conflitto edipico nell’orda primitiva, dominata da un padre capo potente. I fratelli in questo tipo di organizzazione sociale si associarono per uccidere il padre e poi divorarlo. Questo cannibalismo fu interpretato come un intento di identificazione con il padre incorporandone una parte. Quando l’odio dei figli fu soddisfatto emersero i sentimenti affettuosi dando origine al rimorso e al senso di colpa. Il padre morto diventa il totem, e nasce il tabù
dell’incesto,
la
rinuncia
alle
donne
dell’orda
e
l’istituzione
dell’esogamia. Questa visione patriarcale implicita nella teoria psicoanalitica è oggi ampliata con la moderna antropologia, la storia delle religioni e lo studio dei miti (Mircea Eliade). Il patriarcato è un’organizzazione economico sociale
molto
posteriore
nella
antropogenesis
e
sociogenesis.
Espressione del neolitico implica la scoperta dell’agricoltura. Il mito è la forma più arcaica di conoscenza che cerca di spiegare l’origine delle cose, della vita e della morte. È una vera codificazione della saggezza pratica che prende carattere religioso. Come abbiamo visto, il termine Religione deriva da “Religio – onis” cioè il legame o l’unione con la divinità, intendendo per divinità ciò che genera e ciò che nutre. L’uomo sapiens del paleolitico dopo due milioni di anni di umanizzazione è il nostro antenato più vicino e antico. Vive della caccia, della pesca e del raccolto di piante e tuberi e cioè di tutto ciò che la Madre natura offre. 26
Vivere della caccia, uccidere per vivere, versare il sangue dell’animale, un sangue uguale al proprio, crea, attraverso i millenni una solidarietà mistica tra l’uomo e l’animale. Questo viene deificato, trasformato in un Dio perché permette la vita. Diventerà uno dei suoi dei e i suoi totem. Se il dio è “di ciò che si vive” uccidere il dio pianta, il dio animale genera sia il ringraziamento, sia il rimorso. Il sacrificio rituale è un vero e proprio scambio con Dio, lo si ringrazia per ciò che ha dato. Il rimorso è invece espressione della colpa. Colpa per averlo mangiato, per averlo morsicato di nuovo. Ho la coscienza di aver fatto male e non il bene che era possibile. Il sacrificio animale, vegetale e anche umano è un ringraziamento, una restituzione alla madre natura di ciò che da lei stessa si è preso. Vediamo come nel senso di colpa c’è implicito il dolore (conscio o inconscio) della propria aggressività. Responsabile, dice M.G. Sartori, è chi sa rispondere, chi sa prendersi l’incarico o il compito, chi è capace di assumere un’azione. 4.2 Istanze dell’apparato psichico: ES, IO, SUPER-IO. Nella teoria psicoanalitica di stampo freudiano il senso di colpa è il risultato di un conflitto tra Io e Super-Io che si manifesta come una necessità di castigo. Una delle fonti importanti di questo conflitto è costituita da alcune chiamato
“topologico”
pulsioni provenienti dall’Es. Questo dell’apparato
psichico
completa
modello
una
prima
concettualizzazione, un modello dinamico della mente con la divisione in Conscio, Preconscio e Inconscio. Un sistema, questo, in costante interazione. Nell’Es
regge
il
processo
primario:
il
principio
del
piacere.
La funzione dell’Io è invece quella della percezione e dell’adattamento alla realtà e anche la funzione di sintesi, l’unione di tendenze opposte. La funzione sintetica dell’Io permette di far concordare gli impulsi 27
provenienti dall’Es con le esigenze della realtà. Più le intimazioni che vengono dal Super-Io. Il senso di colpa è l’espressione di un conflitto intrapsichico,
espressione
dell’ambivalenza
e
dell’eterna
lotta
tra
aggressività o distruttività e la tendenza verso la vita, la costruttività, l’amore. Il contenuto psicologico della colpa è “Non sono buono, mi merito un castigo”. La ricerca inconscia di un castigo, porta a volte al fallimento, al crimine, alla delinquenza, alla malattia mentale e psicosomatica. Freud distingue due origini del senso di colpa: la prima è quella che riguarda tutte le paure derivanti da un’autorità esterna, mentre la seconda è la paura del Super-Io (il Giudice Interiore), cioè le autorità interiorizzate. La prima conduce il soggetto alla rinuncia del piacere per paura del castigo. La seconda ci porta alla necessità di castigo, alla necessità di espiazione. Il Super-Io che giudica e vigila dall’interno sottomette l’Io per l’angoscia, per il timore di perdere l’affetto e la protezione delle figure significative. Nell’adulto molte volte il destino, se avverso, sostituisce le figure genitoriali; le disgrazie vengono interpretate come una mancanza di protezione e amore da parte degli dei e costituisce il meritato castigo alla propria aggressività. Il destino, quindi, altro non è che lo stesso soggetto (con il suo senso di colpa inconscio) che provoca a sé stesso mediante la coazione a ripetere le situazioni che gli sono avverse. In ogni nevrosi si nasconde una certa dose di senso di colpa, inconscio, che a sua volta rafforza i sintomi utilizzandoli come punizione, che sarà rivolta verso
sé stesso
(masochista) o
verso gli altri (sadico).
L’aggressività che contraddistingue il Super-Io diventa l’esigenza di punizione. L’Io a sua volta si sottomette alla distruttività del Super-Io; il senso di colpa è l’espressione di questa relazione disturbata.
28
5. Il senso di colpa in psicologia
Abbiamo visto come la teoria psico-analitica di stampo freudiano consideri la tendenza dell’uomo a provare rimorso come un’istanza ancestrale nata con l’uomo stesso e quindi incisa nel proprio codice genetico. Condividendo tali considerazioni di stampo antropologico, sommando tutto quello che duemila anni di Cristianesimo hanno progressivamente aggiunto e sapendo oggi come la sensazione di provare rimorso derivi da
tutte
quelle
relazioni
interpersonali
che
fin
dalla
nascita
caratterizzano la vita di ciascuno di noi, possiamo definire il “senso di colpa” come un vero e proprio “male sociale”. Secondo gli psicologi moderni (Mowrer) l’esperienza del senso di colpa è collegata a modi comportamentali vietati, ovvero il senso di colpa nasce quando vengono compiute azioni antecedentemente vietate. In realtà si dovrebbe parlare di senso di colpa vero e proprio e cioè come elemento disturbante e patologico solo quando esso manifesta la sua presenza indipendentemente dalla minaccia immediata di una punizione esterna. 5.1 Senso di colpa auto – eterodiretto. La facilità di provare senso di colpa in età adulta dipende molto da come si è attraversata l’infanzia e l’adolescenza e soprattutto dal modello educativo a cui si è stati esposti. Un’educazione equilibrata ed i giusti modelli
familiari
consentono
alle
persone
di
crescere
con
un
soddisfacente equilibrio tra capacità di sentirsi in colpa ed amore per sé stessi.
Quando
preponderante,
il la
primo
aspetto
personalità
ed
–
provare
rimorso
il
comportamento
–
diventa
dell’individuo
rischiano di risentire pesantemente. Ciò che dovremmo chiederci è da 29
cosa abbia origine il senso di colpa immotivato. Gli psicologi tra le tante avanzano una teoria che fa distinzione tra senso di colpa eterodiretto e quello autodiretto. Il primo nascerebbe quando si ha la sensazione di aver ricevuto più degli altri senza averlo meritato veramente. In questo tipo di senso di colpa si può notare come il senso di inadeguatezza la faccia da padrone nell’economia dell’aspetto emotivo dell’individuo che la sperimenta. Il secondo quello autodiretto che nasce da una teoria di stampo più prettamente sociale, parla sostanzialmente di un senso di colpa rivolto nei confronti di sé stessi. Secondo tale prospettiva il malessere nascerebbe dalla incongruenza tra l’immagine ideale di sé (socialmente desiderabile, sempre all’altezza, integerrima) e l’immagine reale che ciascuno possiede della propria persona. Questo succede a chi pretende molto da sé per cui mantiene costante un atteggiamento di autocritica e di rigidità: un’eco delle critiche e delle rigidità vissute in famiglia, da parte di genitori che si aspettavano molti successi dai figli e che reagivano con asprezza a questo tipo di delusioni. Il senso di colpa autodiretto è certamente l’esperienza più penosa in quanto condizionante per l’equilibrio personale. Ricevere un’educazione troppo ferrea significa implicitamente sviluppare il bisogno di aderire a standard di “perfezione” per prevenire il senso di colpa conseguente ad ogni eventuale inadempienza e ciò che si considera un proprio preciso dovere. Il percorso ha origine dall’esterno (ovvero dalle richieste dei propri genitori) ma finisce poi con lo spiralizzarsi verso l’interno: si tende infatti, successivamente, ad autoimporsi obiettivi e canoni persino più ardui di quelli imposti dai propri genitori allo scopo di prevenire ogni critica ed ogni rimprovero. Il bisogno preminente che sviluppa una personalità smodatamente severa con sé stessa, è quello di impedire agli altri di imputargli un eccesso di indulgenza verso sé stesso, il che risulterebbe insostenibilmente mortificante. Quando si inizia ad imporsi 30
degli standard eccessivi il percorso distruttivo è già iniziato soprattutto perché si manifesterà una progressiva tendenza all’innalzamento degli obiettivi e del livello di difficoltà delle prove in cui si sceglie di cimentarsi. Questo processo nasce, secondo l’ipotesi psicodinamica, dal bisogno di riparare ad una ferita narcisistica dell’io che ha avuto inizio con le ripetute mortificazioni cui il bambino è stato sottoposto nell’arco della sua educazione; il non essere mai stato incoraggiato ed apprezzato, ma piuttosto spronato a fare di più, genera un basso livello di autostima, che induce a meccanismi compensatori che consistono nell’imporre a sé stessi delle sofferenze e delle privazioni che possono apparire all’esterno nobilitanti e lodevoli. Una volta imboccato questo cammino, la strada diventa via via sempre più penalizzante, perché interrompere il meccanismo autopunitivo rappresenterebbe un eccesso di benevolenza verso di sé, con il pericolo (soggettivamente percepito) della disapprovazione altrui; di contro si tende a rincarare la dose giorno dopo giorno, per prevenire i rimproveri e guadagnarsi quanta più stima possibile dall’esterno. È facile immaginare che a lungo andare, questa spirale si trasformi in un autentico calvario, scandito soprattutto dall’ansia di non riuscire più, ad un certo punto, ad adempiere agli sforzi sempre più ardui che si richiede a sé stessi. Per questa ragione la stragrande maggioranza delle condotte
autopunitive
come
l’automutilazione,
i
disturbi
del
comportamento alimentare (anoressia e bulimia) trovano nel senso di colpa il principale precursore. Ai livelli più estremi questi si esplicita anche con il rifiuto della guarigione: gli anni di sofferenza e di deprivazione rappresentano infatti il culmine dell’autopunizione e pur nel suo oggettivo paradosso ciò rappresenta il simbolo della propria integerrimità; l’ipotesi della guarigione diventerebbe simbolo di tregua e ansia di giudizio dall’esterno per un simile gesto, impedendo di
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intraprendere qualsiasi azione che porterebbe ad una presa di coscienza preparandosi di conseguenza ad affrontare una inversione di tendenza. 5.2 Azione, emozione e colpa Un’altra teoria di stampo squisitamente psicologico sposta il focus della questione sui sentimenti. Già sappiamo che il ruolo dei genitori nella crescita del bambino è fondamentale. Ai bambini viene insegnato già in tenerissima età come comportarsi per evitare giudizi morali. Diciamo loro che i genitori soffriranno se loro non li amano e non si comportano bene. A questi assurdi modelli educativi il bambino risponderà con i primi tentativi di contestazione che verranno prontamente soppressi senza alcun chiarimento ed in nome di un rispetto “dovuto” ai genitori. Questo atteggiamento, se eccessivo e reiterato, non consente di poter insegnare al bambino come provare un sentimento. Infatti il piccolo amerà i propri genitori naturalmente e spontaneamente solo quando sentirà di aver ricevuto amore e non fredde e continue coercizioni; li rispetterà se il loro comportamento avrà la forza di suscitare in lui l’ammirazione. Criticare ripetutamente i suoi sentimenti e le sue pulsioni lo trascinerà sempre più verso un senso di colpa e di vergogna. Il bambino in questa situazione molto presto imparerà a recitare un ruolo. Ogni maschera che deve aderire ad un modello, proprio per la sua funzione difensiva, nega la spontaneità. Chiuso in questa prigione interiore il bambino si sentirà responsabile dei propri sentimenti più che del suo comportamento. Occorre
tuttavia
sottolineare
che
nella
vita
sociale
il
senso
di
responsabilità rappresenta un valore fondante; non si può vivere bene con il prossimo in mancanza di un adeguato senso di responsabilità che favorisce l’aderenza alla realtà e la concretezza di una persona, mentre il senso di colpa condiziona l’individuo a vivere in modo astratto, preda delle sue illusioni. 32
In questo senso è necessario che l’individuo pervenga ad una certezza: “si è responsabili delle proprie azioni e non dei propri sentimenti”. Il sentimento è una reazione biologica che supera ogni condizionamento possibile della nostra mente razionale (Io) la cui naturale funzione è quella di sentire i sentimenti e non giudicarli o ancora peggio controllarli. La funzione della razionalità è quella di controllare l’azione, non il sentimento. La vergogna e la collegata dannazione per aver provato un sentimento giudicato cattivo, risponde come ad un’eco al senso di colpa. La repressione e la negazione del sentimento indebolisce l’autopercezione e la componente razionale della personalità (Io). L’individuo
perderà
la
sua
aderenza
alla
realtà
e
il
suo
agire
responsabile. Nella realtà i sentimenti non si possono giudicare, essi non rispettano le leggi razionali e sono a loro volta influenzati da altri sentimenti. Il sentimento non necessita l’azione: la persona gioiosa rallegra chi gli sta accanto; una più scontrosa è evitata dagli altri pur non facendo nulla. Il senso di colpa si manifesta quando al sentimento l’individuo collega il nesso causale: devo negare la mia rabbia perché altrimenti gli altri penseranno che sono cattivo, solo i cattivi si arrabbiano. Nel rapporto genitori-figli il genitore che non riesce a scollegare i sentimenti e l’emozione del proprio bambino dal nesso di causalità non sarà in grado di accettare le emozioni negative (se così le si possono chiamare) del fanciullo. Nel percorso educativo la frequenza delle punizioni sottolinea che l’adulto non riesce a tollerare l’ostilità del bambino. Avendo negato ai propri di potersi esprimere è anestetizzato nell’ascolto emotivo verso il proprio figlio, senza considerare l’influenza dei propri sentimenti rimossi nelle relazioni familiari. Nei tribunali si giudica la colpevolezza sulla base delle azioni commesse. Non si è colpevoli delle proprie emozioni quando a queste non segue l’azione. Tuttavia nella vita quotidiana la colpa è spesso attribuita ai sentimenti più che alle azioni ed è questo che provoca il disagio, la “malattia” 33
emotiva. Molte persone rimuovono i loro sentimenti di ostilità e la loro sessualità perché esprimono un giudizio negativo a loro riguardo, che scompare solo quando queste emozioni hanno modo di liberarsi dalla prigione interiore. Strettamente connesso al concetto di colpa c’è quello di vergogna. Vergognarsi per un’azione deplorevole non è solo normale ma anche auspicabile,
permette
di
mettersi
in
discussione,
tentare
di
comprendersi mediante l’introspezione e comprendere l’effetto sugli altri delle nostre azioni. Invece la vergogna in assenza di un atto compiuto del quale vergognarsi è un’emozione, un sentimento intellettuale, come la presunzione e la vanità, scaturisce quando le attività corporee sono giudicate in funzione di valori accettati dal tessuto sociale di riferimento del soggetto. Spesso sono ammirate le attività che manifestano il potere della mente in contrapposizione al sentire del corpo. La vergogna si accompagna alle funzioni naturali. Ad esempio chi mangia avidamente è definito negativamente ed associato con disprezzo ad un animale. Se avidamente accumula denaro, lo stesso soggetto è considerato una persona di prestigio. La vergogna ci fa sacrificare il piacere della spontaneità naturale collegata alle sensazioni del nostro corpo. È pacifico che i bambini debbano imparare come comportarsi in pubblico, è un allenamento fondamentale sulle quali poggia una vita felice e ricca di armonia. Spesso accade che quando la vergogna agisce a livello inconscio
nell’individuo,
caratteristiche
di
il
comportamento
esibizionismo,
l’esporsi
di
riflesso
è
un
presenta
tentativo
di
controbilanciare il senso di vergogna. Riguardo i sentimenti intellettuali citati, chi è presuntuoso si occupa molto del proprio aspetto; chi è vanitoso è ossessionato dalla propria figura. Questi eccessi riferiti all’esteriorità rappresentano un mezzo della componente cosciente e consapevole della personalità (Io) per tentare di fuggire dai veri sentimenti repressi a suo tempo e imprigionati all’interno del corpo, che per evitare la loro liberazione si è dovuto indurre come le sbarre di una 34
prigione perdendo così la sua elasticità, la sua spontaneità, la sua armonia. 5.3 Disturbi psicologici legati al senso di colpa Vediamo ora quali sono gli effetti più evidenti che il senso di colpa produce nei comportamenti di chi ne è portatore. Sicuramente una personalità caratterizzata da un evidente presenza di sentimenti di colpevolezza non risulterà mai in grado di accedere alla propria fiducia, alla propria sicurezza interiore. L’indecisione sarà un’emozione che accompagnerà la vita di quegli individui che hanno sviluppato la tendenza a farsi sovrastare dal rimorso di coscienza. Si innesca un meccanismo che fa sviluppare continui ripensamenti ed enormi difficoltà ad adottare una qualsiasi risoluzione riguardo ad una situazione che non è più tollerata, ma che continua a far parte della propria vita. Il solo pensiero di poter operare la scelta sbagliata atterrisce il portatore di senso di colpa inducendolo ad una vera e propria paralisi nell’azione, con un conseguente ristagno in situazioni che creano enormi difficoltà e disagi e che sono destinate a cristallizzarsi e durare nel tempo. Anche l’ipocondria: il timore sproporzionato delle malattie, è una chiara manifestazione di una presenza eccessiva del senso di colpa. Essa deriva dalle continue colpevolizzazioni alle quali il bambino in fase di crescita è stato esposto. Il piccolo avrà vissuto ognuno di questi veri e propri soprusi affettivi come una minaccia di abbandono, effetto questo che ha come conseguenza naturale di ritardare ed ostacolare la crescita autonoma del bambino, costringendolo ad un’eccesiva dipendenza dalle idee dei suoi genitori. I risultati che si avranno nella fase adulta saranno molto probabilmente quelli che portano alla paura di realizzare i propri desideri, proprio perché verranno avvertiti come trasgressioni. Il senso di colpa che ne deriva farà optare l’individuo alla rinuncia e alla privazione di se stesso.
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Anche l’estremo bisogno di amore e di considerazione è un effetto diretto di un senso di colpa pesante: più un uomo sente dentro di se quella sensazione di inadeguatezza e colpevolezza, maggiore sarà la sua richiesta di considerazione totale. Molte coppie, ad esempio, fondano il loro relazionarsi sul desiderio di ricevere dal partner quello che non hanno ricevuto
da piccoli,
rivendicazioni insensate destinate ad essere frustrate. Con la naturale conseguenza dello sviluppo di un enorme rancore verso il compagno che ci delude. L’onnipotenza, che è una peculiarità del pensiero infantile, è un altro effetto provocato dalla colpa. Il bambino, infatti, crede che tutti i desideri possono essere soddisfatti, quando questa modalità di pensiero persevera in fase adulta, succede che
l’individuo
che
se
ne
fa
portatore,
diviene
vittima
di
autocolpevolizzazioni continue che sono sempre proporzionate a tutte quelle aspettative che verranno, proprio per loro natura, inevitabilmente deluse. Possiamo notare come tutte queste manifestazioni che il senso di colpa produce sono molto più attinenti alla sfera femminile, all’energia yin. È evidente che una massiccia dose di paura faccia da tappeto sonoro, da leit-motiv emozionale. La paralisi nell’azione, la paura dell’abbandono, la
difficoltà
ad
assumersi
le
proprie
responsabilità
per
contro,
evidenziano anche molto bene la mancanza di forza yang, di energia maschile.
I ruoli empirici dei “bravi bambini” presentano come
caratteristica principale, una polarizzazione a favore delle alterazioni di tipo femminile yin. Con ogni probabilità, un lavoro di riequilibrio, finalizzato nel ricercare il contatto con le proprie energie maschili, a prescindere dal sesso biologico di appartenenza, sarà un ottimo metodo per cercare di ridurre lo spazio che il senso di colpa occupa all’interno del loro assetto emotivo.
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Cercare di ripristinare il contatto con la propria rabbia, che sappiamo funge da catalizzatore dell‘ energia maschile, risulta fondamentale se si vuole imboccare quella strada che porta a ristabilire il proprio equilibrio energetico.
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6. Il senso di colpa e l’approccio empirico Abbiamo potuto notare come l’argomento “senso di colpa” sia stato affrontato nei secoli e dalle varie discipline umanistiche in maniera analitica ed approfondita. Molte di queste teorie convergono nel ritenere che, provare sentimenti di colpevolezza, sia insito nella natura umana, che nasce con l’uomo, spesso cresce a dismisura durante il compimento della sua parabola vitale, per poi morire con lui, anzi a volte sopra di lui, schiacciandolo con il suo insostenibile peso. Cerchiamo ora di affrontare il senso di colpa alla luce della conoscenza empirica. 6.1 “Bravi bambini” e senso di colpa All’interno dell’ordine sistemico il senso di colpa è definito come quell’indicatore empirico che contraddistingue prevalentemente quelle figure, quei ruoli empirici che vanno sotto la categoria dei “bravi bambini”. Già da questa prima considerazione possiamo capire che ci muoviamo nel campo delle energie femminili, quindi yin. In quanto il senso di colpa è un tipo di sensazione che tende ad introiettarsi, rimanere dentro, senza avere delle esteriorizzazioni significative o particolarmente visibili. Proprio per questo motivo ha più attinenza con il mondo yin che fa dell’interiorizzazione, del trattenere, del conservare una delle sue caratteristiche peculiari. La tipicità del ruolo del “bravo bambino” è proprio quella del tentativo di conservare l’amore dei propri genitori. Lo sviluppo dell’alterazione tipica di questo ruolo empirico trae origine dalla mancanza di amore, o quanto meno da una deficienza della sua qualità ai fini empirici.
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Il bambino, il figlio che avverte questa privazione, che non sente di essere amato, che non è “visto” dai propri genitori, comincia nel tempo ad escogitare delle strategie che gli permettano di guadagnarsi quell’amore che il sistema riconosce come suo diritto fondamentale. Proprio così si vengono a delineare i profili psicologici dei “bravi bambini” che pur di comprarsi l’amore delle figure genitoriali sono disposti a mettere da parte tutti i loro sentimenti, tutte le loro pulsioni, tutta la loro spontaneità in nome di un’obbedienza che diventa l’unico baluardo della conquista dei loro diritti empirici. È proprio in questo meccanismo perverso che il senso di colpa trova terreno fertile dove attecchire le proprie radici. 6.2 Il ruolo della madre Ci troviamo di fronte a situazioni che si discostano a volte anche notevolmente da quelle d’eccellenza. Il “bravo bambino” è infatti figlio di genitori che non rientrano nei parametri che definiscono le figure del padre e della madre empirici. Una madre empiricamente non allineata è colei che, non essendo in grado di accedere al proprio codice d’appartenenza yin, non può sperimentare
quell’amore
incondizionato
verso i propri figli, che
sappiamo costituisca la condizione necessaria e sufficiente per il sano sviluppo del bambino almeno nei suoi primi anni di vita. Infatti, fino al compimento del terzo anno d’età, il ruolo della madre è tutto nell’economia della vita del bambino. Il piccolo ancor prima di nascere risente nel bene e nel male di tutte le sensazioni ed emozioni che la madre sperimenta. Credo che questo sia uno dei motivi per il quale il senso di colpa trova una diffusione su così larga scala nelle società moderne. La madre dei nostri tempi, infatti, è la prima sperimentatrice di quella sensazione di rimorso che è ormai connaturata in lei. Il basso livello di consapevolezza della mamma è la causa principale dei suoi 39
comportamenti contro-sistemici. Tutte queste donne in carriera, tutte queste mamme super impegnate ad emulare ed a concorrere con i loro compagni e più in generale con gli uomini, altro non fanno che defraudare i loro figli di quel fondamentale diritto che non potranno più integrare in futuro. Succede che le scale di valori siano invertite. Si da più importanza all’ambito lavorativo che a quello familiare, l’attenzione e le energie vengono spese e profuse più fuori
che all’interno del
proprio nucleo. Sembra che la donna si realizzi e si senta soddisfatta più nella sua esteriorità che nella sua intimità. E dico sembra in quanto sappiamo che ad un livello più profondo così non è. Negli strati più interni della propria coscienza ogni donna, tranne rari casi, è connessa con la coscienza empirica. Tale connessione permette di operare a livello inconscio, una sorta di confronto tra il proprio agire quotidiano e quello che invece la matrice d’eccellenza del proprio ruolo empirico prevedrebbe. È proprio da questo confronto che il senso di colpa prende vita. Una madre che agisce al di fuori dei parametri empirici, anche se ad un livello cosciente non ne ha percezione, espone il proprio fianco (che per natura è vulnerabile) al senso di colpa.
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6.3 Ruoli alterati e senso di colpa Quella che si è appena analizzata è una situazione che prevede la presenza di una madre che rientra nel ruolo empirico di donna yang o quanto meno finta yang. Come sappiamo l’ordine empirico prevede che all’interno di una coppia, se il ruolo yang è ricoperto dalla donna quello yin necessariamente spetta all’uomo, quindi la dose si rincara. Quella sensazione di smarrimento che sperimenta la donna al di fuori del suo ruolo empirico per mancanza di radicamento nel proprio yin, viene condivisa dall’ uomo-padre per gli stessi identici motivi. Ed anche per l’uomo si innesca quel meccanismo che gli spalanca la strada verso i propri risentimenti, i propri rimorsi, la propria colpa. A tutto ciò va aggiunto che figure genitoriali non empiricamente allineate non essendo in grado di accedere almeno in maniera completa al proprio codice d’appartenenza non possono considerarsi figure di riferimento adeguate per un bambino. L’impossibilità di accedere alla propria forza incondizionata da parte di una madre, è la causa di quel corto circuito che avviene all’interno del rapporto con i figli. La mamma non supportata dal proprio sentire empirico spesso non conosce altra strada, nel relazionarsi con la propria prole, che quella del ricatto d’amore. Non essendo in grado di usare la propria dolcezza, la propria sensibilità ed accoglienza incontrerà sempre difficoltà con i piccoli, il ricatto d’amore diventa uno dei mezzi più gettonati nello svolgimento del suo ruolo. Quante volte si ascoltano frasi del tipo “Se non fai il bravo non ti voglio più bene, se non la smetti subito non ti compro….” . Se, se, se…. Tutte
condizioni
queste
che
sanciscono
l’allontanamento
del
comportamento della madre dai parametri sistemici la sua estraneità a quell’amore incondizionato che rappresenta per i figli l’unica salvezza.
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Va per inciso che tutto ciò avviene anche dall’altra parte, nel ruolo yang del padre. Tale ruolo è, all’interno dell’ordine, l’apice massimo che l’adulto uomo può raggiungere. Molto spesso però ci troviamo di fronte a padri biologici e non empirici. L’uomo yang integrato, unico ruolo che permette di incarnare la figura del vero padre, è colui che accedendo al proprio codice, è in grado di sperimentare qualità come il carisma e l’autorevolezza, il diritto alla guida e alla difesa del proprio nucleo che risultano fondamentali all’interno degli equilibri di una famiglia. Questo perché permettono al genitore di non sentirsi costretto, nell’educare i figli, a dover usufruire né della “forza bruta” e quindi della minaccia, né del ricatto che ha grandi responsabilità nel far nascere sentimenti di colpevolezza nel bambino. La coppia alterata (yang alterato/yin alterata) e quella invertita (uomo yin/donna yang)
spesso e volentieri educano i propri figli insinuando
nel loro DNA il senso di colpa. Chiunque non sperimenti
un
radicamento, un senso di appartenenza al proprio codice empirico di riferimento, ad un livello profondo sviluppa automaticamente sensazioni e sentimenti come il rimorso, la vergogna, il senso di inadeguatezza che altro non sono che i progenitori del senso di colpa. La dose si rincara nelle coppie invertite. Queste infatti sono quelle che incontrano più difficoltà nella gestione del proprio rapporto. I figli delle coppie invertite oltre a non avere figure di riferimento adeguate ai fini empirici, sono esposti in maniera eccessiva ai conflitti dei loro genitori ed imparano molto in fretta a sentirsi responsabili e quindi colpevoli, della assenza di armonia familiare.
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6.4 Senso di colpa e senso di responsabilità Il sistema non prevede la colpa come sua propria istanza, la colpa a livello empirico non esiste. Essa nasce solo dal nostro personale giudizio, che tende ad inquadrare qualsiasi azione come giusta o sbagliata. Ma il giusto e il non giusto hanno sempre bisogno di un parametro di riferimento per essere definiti tali. E da dove provengono questi
riferimenti?
Molto
spesso
sono
condizionamenti
sociali,
convinzioni antiche e obsolete che non contengono al loro interno parametri oggettivi di riferimento, con i quali potersi rapportare. L’ordine empirico prevede esclusivamente delle responsabilità e non parla mai di colpe. Sappiamo che la legge di causalità, che rappresenta la colonna portante dell’ ordine sistemico non fa altro che generare un certo numero di effetti per ogni azione compiuta o non compiuta. Ogni individuo adulto non può fare altro che assumersi le responsabilità delle proprie azioni a prescindere dal suo personale giudizio, a prescindere se le consideri giuste o sbagliate. Avere tale consapevolezza è probabilmente l’antidoto più efficace nei confronti di quel corto circuito che innesca l’insorgere del senso di colpa. Riuscire a riconoscere le proprie responsabilità può portare un individuo a fare un passo indietro e venir fuori da quel circolo vizioso. Il rimorso che si sperimenta all’interno del proprio mondo emotivo porta ad una vera e propria dipendenza, diventiamo come drogati da queste sensazioni di colpevolezza. Come eroinomani a tutti gli effetti, andiamo in estasi nel momento in cui agiamo facendoci guidare dal nostro senso di colpa, per poi sperimentare la crisi di astinenza nel momento in cui il nostro operato contro-sistemico ci presenta il conto. L’attitudine a provare rimorso, a sentirsi in colpa, non è così facilmente riconoscibile da chi la prova dentro di sé. Essa si nasconde dietro mille scuse, mille ‘sensati ragionamenti’, come un vero e proprio cecchino 43
della propria coscienza sta lì in silenzio, immobile, ma sempre pronto a colpire. Così facendo tiene lontano qualsiasi tentativo di venirne fuori, di interrompere il circolo vizioso della colpa. In questa maniera subdola e nascosta riesce a tenere inchiodata la coscienza di quelle persone che non riescono con le proprie forze ad assumersi le responsabilità del proprio operato. L’espressione ‘bravo bambino’, che più di ogni altro ruolo empirico si fa guidare nella propria azione da sentimenti di rimorso e di colpevolezza deriva proprio da quest’attitudine, dall’impossibilità di autosostenersi. Il senso di colpa tiranneggia proprio quelle persone che non hanno completato il proprio percorso di crescita, adulte anagraficamente ma non empiricamente, non sono in grado di ricoprire il ruolo che gli spetterebbe di diritto. Solo l’adulto, ovvero colui che si può considerare empiricamente maturo, è in grado di intercettare il ‘cecchino empirico’ e tenersi lontano dalla sua gittata. Egli non è esente dal senso di colpa, anche lui avverte tutta la gamma delle sensazioni che tale emozione genera, ma a differenza del ‘piccolo’ risulta in grado di sostenerle e gestirle, senza farsi da esse portare via. Per arrivare a questo livello di consapevolezza è necessario aver preso contatto con il proprio ‘bambino interiore’, averlo calmato e rassicurato, in modo tale da proseguire il proprio cammino evolutivo senza farsi da lui tiranneggiare. In questo senso un lavoro di analisi su se stessi, un viaggio introspettivo è fondamentale nel processo di contenimento del senso di colpa. Solo andando a scoprire tutte quelle bende che da sempre sono servite a coprire ferite mai rimarginate ci diamo la possibilità di prendere in mano la nostra vita. Solo così possiamo cominciare a sentire e comprendere che tutto quello che è accaduto, è partito da noi, che siamo noi gli unici artefici del nostro destino. Essere in grado di accettare tutto il proprio passato senza criticarlo e giudicarlo, è l’unico antidoto che si conosca contro il veleno della colpa.
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7. La mia esperienza personale Ricordo ancora quando per la prima volta partecipai ad un seminario inserito nel percorso de ‘ L’accademia del sé’. Ho questa immagine nitida nella mia memoria di me seduto sul pavimento che assisto ad una esperienza di rilascio emotivo, incentrata sul lasciare andare l’emozione della rabbia. Nonostante io fossi spronato, come tutti gli altri, nel cercare di entrare dentro l’esperienza, me ne rimanevo seduto con il sorriso sulle labbra come a dimostrare di non aver nessun bisogno a lasciare andare la rabbia o meglio
di non avere nessuna rabbia dalla
quale liberarsi. Per mia fortuna, dopo svariati tentativi, sono riuscito, anche se per poco tempo e in maniera parziale, a prendere contatto con quel tipo di energia che la rabbia porta con se, che tra l’altro io conoscevo molto bene perché tanta parte aveva preso durante la fase adolescenziale della mia vita. Questo episodio rappresenta un vero e proprio spartiacque della mia esistenza, perché per la prima volta riuscivo a puntare l’attenzione su me stesso e soprattutto i primi dubbi cominciavano ad insinuarsi nelle mie convinzioni, nelle mie valutazioni, nel mio sentire. Per la prima volta riuscivo a prendere contatto con parti di me più profonde, che nascondevano verità dalle quali fino a quel momento mi ero tenuto ben lontano. Queste nuove consapevolezze da subito mi portarono sofferenza e disagio. Sostanzialmente la mia partecipazione al seminario ‘Amore non uguale amore’ si risolse in un effluvio di lacrime, la mia incapacità a contenere le emozioni venne fuori in maniera inequivocabile. Per me l’incontro con la “LUMH” fu da subito come un’ illuminazione, quel seminario fu come un fulmine che mi fece scorgere, anche se per
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un attimo, quel che succedeva realmente dentro di me, scardinando molte delle mie illusioni. Passo dopo passo, seminario dopo seminario, in maniera lenta ma graduale ho cominciato a fare pulizia ed ordine dentro me stesso. La strada è ancora lunga, ma guardandosi dentro e percependo quante cose sono cambiate, infonde fiducia ed incita a proseguire su questo sentiero.
Mi sembra di fondamentale importanza entrare in contatto
con se stessi soprattutto nel momento in cui si intraprende un’attività come quella di counselor; cominciare da se stessi è infatti condizione indispensabile. Riuscire a guardarsi dentro, cominciare ad acquisire quelli strumenti che possono interpretare la realtà oggettiva dei fatti non è cosa di poco conto. In quest’ottica destrutturare se stessi è fondamentale perché permette di affrancarsi da quelle convinzioni, maturate nell’arco della propria crescita, che sono state funzionali alla propria ‘sopravvivenza’, ma non per questo possiamo considerarle oggettivamente allineate alla realtà empirica. Partendo da me stesso posso affermare che quello che io pensavo fosse equilibrio e stabilità emotiva, altro non era che un livello di anestesia elevato che mi teneva lontano dal provare sensazioni ed emozioni che inconsciamente ritenevo pericolose. La mia accentuata sensibilità mi ha portato negli anni a trincerarmi dietro altissime barriere che pensavo fossero l’unico modo che avevo a disposizione per affrontare la vita. Con tutto ciò che una strategia del genere, ovvero quella della difesa continua, del rifiuto ad esporsi e far vedere ciò che si porta dentro, comporta. Vivere una vita che non è la propria, è quanto di peggio possiamo fare a noi stessi. In questi anni di percorso introspettivo ho ricevuto dei grandi regali, scoprire di aver agito spesso in maniera inconsapevole, ti mette di fronte a situazioni
difficili da affrontare, ma ti dà al contempo, gli
strumenti per cominciare a fare qualcosa per venir fuori da quei meccanismi distorti. Cominciare ad inquadrare quei circoli viziosi che ci 46
portano a proseguire sempre nella stessa maniera, ad avere i medesimi comportamenti che recano disagio, è l’unico modo per poter intervenire ed interrompere quella che chiamiamo ‘coazione a ripetere’ . Tutto ciò è possibile solo prendendo in mano se stessi nella propria interezza e totalità, tutto ciò diventa attuabile solo elevando la propria capacità di ascoltarsi dentro, cominciando a sentire ciò che avviene, ciò che è. Ascoltarsi dentro vuol dire essere in grado di provare emozioni e sensazioni anche attraverso il proprio corpo, la propria fisicità, cercando per quello che è possibile di limitare l’arrogante intromissione della mente. Riuscire a sentire nella maniera adeguata significa raggiungere un livello di fiducia in se stessi che la mente da sola mai potrà garantire. Per avere un accesso diretto alla propria interiorità è però necessario sgombrare il campo. Tutte quelle ‘emozioni distruttive’
andrebbero
quanto meno tenute sotto il livello di guardia se non si vogliono inquinare le proprie capacità sensoriali. Paura, rabbia, invidia, critica e giudizio e tante altre ancora sono da considerarsi figlie di noi stessi. Siamo sempre pronti a considerarle provenienti dall’ esterno, a pensare che siano gli altri a farcele provare, ma questa è una convinzione che non regge più. Tutto quello che uno sperimenta è frutto del proprio giardino interiore. Non sono gli altri che ci fanno arrabbiare, siamo noi che portiamo dentro la rabbia, non sono gli altri a spaventarci, la paura è la nostra. Non puntare il dito sempre sugli altri ma cominciare a sentire che tutto parte da se stessi, è indispensabile alla propria crescita, ad innalzare il livello di consapevolezza e di coscienza, è necessario se uno vuole fare ordine e cominciare a vivere una vita degna di essere vissuta. Fare spazio dentro di sé, sgomberare il campo, significa darsi la possibilità di sentire e di contenere, significa riuscire a provare le emozioni che la vita ci offre senza perdersi in esse, poterle vivere senza farsi da esse portare via, mantenendo il proprio centro, che è l’unica sicurezza che un individuo può provare nella propria esistenza. 47
Riuscire a sentire la sofferenza e il dolore senza scivolarci dentro e rimanerci da essi schiacciato è garanzia a vita. È l’unico modo che abbiamo per estinguere il nostro debito e cominciare a muovere i primi passi nel libero fluire. La novità che l’approccio empirico propone è quella dell’oggettività della realtà. Ognuno di noi, a volte arrogantemente, crede di avere la possibilità di valutare la realtà dei fatti da un punto di vista oggettivo. Ma abbiamo visto che molto spesso così non è. L’animo umano è, nella stragrande maggioranza dei casi, viziato da credenze personali che derivano da corto circuiti avvenuti durante l’infanzia. Fin dal nostro concepimento, cominciamo a strutturarci in una maniera tale da permetterci di affrontare tutto ciò che la vita ci propone evitando di provare sofferenza e dolore. Quella che comunemente viene chiamata “personalità” altro non è che una maschera che ognuno di noi si crea per affrontare la vita; è quella sovrastruttura
che
ognuno
crede
indispensabile
alla
propria
sopravvivenza e senza la quale si sentirebbe perduto. Questo tipo di strategia vitale che la natura umana ha sviluppato nel corso della sua evoluzione su questa terra è stata funzionale alla sopravvivenza della specie e lo è tutt’ora. Ma, secondo la mia opinione, è arrivato il momento per fare qualcosa, è il momento di buttare giù questa maschera. Il filosofo tedesco F. Nietzsche propose questo passaggio più di 150 anni fa ma giunse alla conclusione che all’epoca l’umanità non era ancora pronta per affrontare un lavoro simile, “l’uomo non era ancora in grado di superarsi”. Ad una prima occhiata sembrerebbe essere cambiato poco in questo secolo e mezzo. Le convinzioni personali e sociali sono ancora legate ad un codice morale ormai obsoleto. I mezzi di comunicazione di massa hanno ancora un forte potere sulle “personalità”. Sono loro, i mass media, a formare il pensiero comune dominante o come lo stesso Jung lo chiamava “l’inconscio collettivo”. 48
Ma analizzando più attentamente ciò che sta avvenendo in questi ultimi anni ci possiamo rendere conto che molto è cambiato. Una bella spallata a questo sistema ormai anacronistico la sta dando quella che tutti chiamano “crisi economico-finanziaria”. La dicitura non è corretta, non è una crisi esclusivamente legata ad aspetti economici, anzi essi sono fondamentalmente degli effetti derivati. La vera crisi che la società moderna sta vivendo è una crisi di coscienza. È inutile cercare di sostenere la crescita economica, come i governi si stanno illudendo di fare, per cercare di superare questo difficile momento. Crescita non ci sarà se non avverrà un’ inversione di tendenza a livello di coscienza individuale e quindi collettiva. In questo senso l’analisi empirica potrebbe costituire uno strumento adatto per promuovere questa inversione di tendenza. Proponendo una realtà oggettiva con la quale potersi continuamente confrontare, sarebbe di certo molto utile all’uomo nel suo processo evolutivo. Guardarsi le proprie paure, gestire la propria rabbia, non farsi schiacciare dal senso di colpa, significa permettere alla propria coscienza di espandersi.
Significa cominciare ad affrancarsi da tutti
quei comportamenti viziati e contro-sistemici che hanno condotto la società moderna nello stato in cui la vediamo oggi: in questo stato di crisi. Significa cominciare a guadagnarsi un accesso più veloce e diretto nel libero fluire, ovvero in quel flusso d’amore per il quale l’uomo sembra essere stato creato.
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RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare innanzitutto me stesso per essermi reso disponibile alla stesura di questa tesina. Sembra banale ma così non è. Le mie strategie
di
auto-boicottaggio
mi
hanno
sempre
tenuto
lontano
dall’affrontare prove ed esami. Questa volta finalmente sono riuscito a mettermi in gioco. Ringrazio mia madre non solo perché mi ha messo al mondo, ma perchè proprio lei mi ha messo in contatto con la “LUMH”. Ringrazio mio padre perché da lassù accompagna ogni attimo della mia esistenza. Ringrazio mia sorella per tutto l’amore che mi dimostra ogni volta che la vedo e la sento. Mia moglie, per tutta la sua disponibilità, per avermi permesso di poter affrontare questi anni nei quali ho affrontato momenti difficili, grazie Martina per la tua presenza. I miei figli che sono stati un banco di prova straordinario sul quale sperimentare la bontà degli insegnamenti che in questi anni ho ricevuto. Tutti i miei compagni di percorso con i quali ho spartito momenti unici ed irripetibili. Ringrazio Alice ed Anna per aver mitigato le mie divergenze con i mezzi elettronici. Ed infine ringrazio Michel che con la sua luce mi ha illuminato la strada.
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BIBLIOGRAFIA
M.
Hardy,
La
grammatica
dell’essere,
Bologna
Vol.
I-II-III-IV”, 2008
F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Oscar Mondadori, Cles, 2004 F. Nietzsche, La gaia scienza, Edizioni Newton, Roma, 1993 P. Sirigu, Solo un’eresia ci può salvare, Armando Editore M. Eliade, Storie delle credenze e idee religiose, Sansoni, Firenze, 1990 L. Grinberg, Colpa e depressione, Edizioni Formichiere, Milano, 1977 M. G. Sartori, Il senso di colpa in psicoanalisi, Nuova Cultura Edizioni, Rovigo, 1995 S. Agostino, Contro i pelagiani / Natura e Grazia, (Opera Omnia XVII), Roma, Città Nuova, 1981 S. Agostino, Contro i semipelagiani / Grazia e libertà, (Opera omnia XX), Roma, Città Nuova, 1987
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