43 minute read

Storie di Arrivo

Arrivo è il sostantivo utilizzato per l’associazione culturale che abbiamo fondato nel 2001 io, Daniele e Gustavo. Di Daniele abbiamo in parte parlato, di Gustavo meno: era colui che mi prestò casa quando conobbi Milena. Grazie a Milena riuscii a costituire l’associazione, mi prestò i soldi necessari a fare le pratiche burocratiche e registrare lo statuto. Lo fece di cuore, poi no. Pretese la restituzione del denaro da mio padre, in quanto io ero a Milano. Papà fu costretto a restituirle tutto, una situazione penosa e di disagio, veramente. Ma vediamo al come e perché sentimmo la necessità di costituire un’associazione culturale e abbracciare il mondo del volontariato.

Io volevo dare una sterzata alla mia vita, con Daniele condividevo tante serate in cui cercavamo di trovare un motivo per uscire e dare un senso alle bevute. Ci ritrovavamo spesso a disagio, come dire, in mezzo alla gente. Io volevo aiutarlo, come sempre. A volte però ero infognato pure io. Ci sentivamo come battuti dalle circostanze. Da qui l’esigenza di creare una piccola organizzazione che si fondasse sulla solidarietà. Scegliemmo Gustavo per diversi motivi. Il primo motivo era semplice: ci serviva una terza persona per scrivere lo statuto e l’atto costitutivo. Il secondo in quanto era una persona sensibile e un poeta. Lo conobbi in un locale sudamericano gestito da Carlos. Ci riunimmo quindi a casa di Gustavo, che viveva da solo, e deliberammo. Ognuno fece la sua proposta per il nome più adatto all’associazione. Daniele propose Jungle, Gustavo propose Kadmo, io proposi Punk. Poi arrivò una telefonata della mamma di Daniele che cercava suo figlio, e Daniele esclamò:

Advertisement

-Arrivo

Colsi l’attimo e dissi che quello era il nome giusto per noi, Arrivo. Gustavo non era molto convinto, a Daniele piaceva un sacco. E Arrivo fu. Gustavo conservò la copia originale di ogni documento, come Vicepresidente; Daniele, che faceva il grafico di professione, curava la carta stampata e fu nominato segretario; e io ero il Presidente e rappresentavo, appunto, l’associazione, promuovendola. Anno di costituzione 2001. 30 ottobre 2001. Le cariche erano triennali, ma dopo il primo anno Gustavo emigrò in Colombia. Rimanemmo io e Daniele a mandare avanti la baracca. Io ero molto entusiasta ma inesperto. Daniele consigliava e gestiva, più navigato. Creò il logo, il timbro e la carta intestata. Stampammo tessere. Il primo anno realizzai tre spettacoli di teatro. Uno di questi era Scarpe mistiche. Gli altri due si chiamavano Magnum e Laila I e II. Non erano perfetti, piuttosto amatoriali, ma ci mettevo tutta l’energia di cui ero capace. Tutta. La storia della nostra associazione è stata da me scritta per i primi dieci anni di attività ed è liberamente consultabile sul web. Una forte componente motivazionale per il prosieguo delle nostre attività culturali è stato ed è dato dal Centro Servizi del Volontariato di Perugia, il Cesvol, abbreviato. Il primo vero libro lo pubblicai grazie a loro e a un progetto che feci per Arrivo, si intitolava Psik.

Ma andiamo in ordine cronologico. Saltiamo il primo decennio e, ora che siamo alla vigilia dei venti anni, ritengo opportuno fare il punto della situazione. Dopo anni di solitudine, in cui Gustavo non c’era e Daniele purtroppo sta in cielo, quest’anno c’è stato un sobbalzo, un evento organizzato alle Officine Fratti di Perugia che ha riportato splendore ed entusiasmo. Ci sono state nuove adesioni, nuova forza, nuova linfa vitale. Ora siamo di nuovo un gruppo, non così compatto ma abbastanza di sostanza. Non posso, non voglio ringraziare ogni persona, perché mancherei di rispetto a chi non nomino. Diciamo però che Giacomo e Benedetta hanno permesso, negli ultimi tempi, la diffusione del verbo. Un verbo spontaneo, forse troppo, che loro hanno contribuito a canalizzare, a dargli una forma, un verso. Persone che hanno saputo accompagnarmi, prendermi per mano quando mi sentivo per- duto e fallito, che hanno fornito un contributo reale e solido ai progetti. Si sa che nei gruppi si alternano momenti di esaltazione ad altri che seguono verso il basso. Persone che vanno, si fermano, propongono, poi scompaiono. Lasciano una scia, una traccia, un’energia. Il Macho, per esempio, contribuì nel primo periodo e poi sparì, ripresentandosi dopo quindici anni. Per recuperare il tempo perso faceva una proposta al giorno, risultando invasivo. Quando glielo facemmo notare si offese, e ci lasciò. L’aspetto galvanizzante fu colto da me, con il senno del poi, per smuovere le acque di Arrivo. I progetti ci sono, anche se la gestione è per il novanta per cento in mano mia. Va da sé che non creiamo reddito, non siamo un’impresa culturale. “Noi non siamo; uno spettacolo che potrete perdervi con noi” era una frase coniata col Macho i primi tempi, quando cercavamo di costruire un sito insieme. In realtà il sito ci fu per un breve lasso di tempo, poi soppiantato da un blog che ancora prosegue nella piattaforma di Wordpress.

Io mi sentivo abbandonato da Misty, forse era questa la ragione che mi portò a fondare Arrivo, volevo circondarmi di persone fedeli. Per questo ho sempre fatto il Presidente, dal 2001. Il “master”, come mi prende in giro Giacomo. Spostai la sede da casa di Gustavo, impraticabile nella sua assenza definitiva, a casa mia. Naturalmente chiesi aiuto al comune della mia città per una sede pubblica. Non fu mai possibile. Mi appoggiai allora al Circolo Island, che divenne sede operativa.

Lì si costruivano e si espletavano i progetti culturali. Tesserai un sacco di gente, perché il posto rispondeva agli stimoli e ai miei desideri, mi sentivo come a casa. Il circoletto infatti nacque nel 2001, o meglio, quello fu l’anno della nuova gestione. Di fatto prima era qualcos’altro. Fatto sta che io proponevo e avevo il feedback necessario per spingere la carriola in avanti.

L’autogestione era la parola da noi più utilizzata, la solidarietà finalmente trovava spazio. Per qualche mese feci il barista al circolo. Mi divertivo un sacco, conoscevo persone, mi sentivo parte di un organismo collettivo. Era eccitante. Lì conobbi il Macho, Giacomo, Fab, Meri. Loro mi ispirarono il mio primo racconto pubblicato, che ebbe una menzione speciale a un concorso intitolato Bugie ad arte. Il racconto lo chiamai Le sette esse, il mio debutto letterario. Trasmutavo la realtà del circoletto inventando storie con protagonisti i miei amici del periodo. Il bello era che ognuno aveva sviluppato gusto e interessi artistici. Di conseguenza, il mio mondo, la mia riserva indiana, era ed è la cultura, le arti. Mi ha salvato dall’oblio, dal baratro. Anche se non sarò mai conosciuto come artista, posso testimoniare di aver fatto qualcosa, aver contribuito a diffondere l’arte. Sono un autore, piccolo, ma lo sono. I primi tempi ricordo che volevo organizzare un grande festival letterario. Sette erano i temi. Avevo fatto uno schema e un piano per gli invitati. Volevo proporlo a un imprenditore illuminato di un comune limitrofo alla mia città. La location era perfetta. L’obiettivo era di far scrivere, durante il festival, gli autori invitati. Un evento live di produzione letteraria a tema, quindi. Non sono mai riuscito ad arrivare a parlare con questo imprenditore illuminato, che nel frattempo ha costruito un teatro simile a un tempio. Mio cugino ci lavora. Ma ora riproporlo non avrebbe senso. Il progetto prevedeva la videoscrittura live proiettata a un pubblico. Poteva avere un valore nel 2006, anno di concepimento dell’operazione. Ora no, siamo invasi dagli schermi e andremo sempre più verso l’immagine, l’ologramma. I viaggi nel tempo. Il teletrasporto. Ma questa non è scienza. Sono proiezioni e basta. Un film che non nasce, che nessuno scrive. Uno spettacolo non finito, infinito. Il teatro totale. Così si chiamava l’unico corso di teatro che ho tenuto in vita mia. Laboratorio di teatro totale, che gestii al centro sociale occupato autogestito Ex-Mattatoio. Pochi e definitivi incontri, intensi. Il progetto era a nome di Arrivo, come quasi tutto ciò che ho concepito e fatto, non era solo a mio nome. Il Cesvol ci stampava tutto quello di cui avevamo bisogno. In fondo era nato solo due anni prima di noi. Ci lavorava una persona che poi aprirà una casa editrice, ben attiva al momento in cui scrivo. Ci faceva il grafico. Era accogliente e accomodante. L’addetta stampa, colei che ci permise di avere degli articoli su giornali di settore, era un’altra persona speciale, capace di spronarti e incoraggiarti. Il direttore, infine, era una persona capace e piena di umorismo e umanità. Queste mie poche righe di omaggio al Cesvol vogliono essere un augurio a proseguire a braccetto nelle rispettive attività. In fondo ci ho pubblicato tre libri con loro, che nel frattempo sono diventati casa editrice. Pure noi di Arrivo lo siamo. C’è una versione ufficiale, Edizioni Arrivo, e una non ufficiale, Staceppa editore. Non abbiamo pubblicato quasi nulla. Non abbiamo le forze, siamo un gruppo creativo e dovremmo fossilizzarci su aspetti amministrativi che ci prenderebbero troppo tempo per fare altro. Certo, mangiamo i fichi, come si dice, ma almeno siamo liberi come gli alberi. Una volta abbiamo organizzato una mostra di 23 artisti contemporanei. Tre mesi di lavoro, diciamo. Libera opzione, il cielo è di tutti: il titolo della mostra realizzata in centro dentro l’ex-ospedale S.M. Misericordia. Non ho nulla di quella mostra. Nulla, se non gli inviti. Esiste un DVD, una sorta di catalogo multimediale, che abbiamo fatto. Io non lo ho. Ma lo avrò. Da qualche parte c’è. Basta riprendere i contatti. Tutto partì ovviamente dal circoletto, era lì che facevamo le riunioni organizzative. All’inizio dell’esperienza di Arrivo ci si riuniva in casa. Si stava insieme, si mangiava qualcosa, si beveva e si discuteva. Io mi ero fissato con quel festival di letteratura I ma era troppo complesso da realizzare. Lo capii in una riunione. Naturalmente non avevamo mai i verbali delle riunioni, nessuno li faceva. A quel tempo stavo con una ragazza che studiava Scienze delle Comunicazioni. Aveva una videocamera con la quale sperimentavamo le riprese, inoltre era appassionata di teatro, come spettatrice. Mi stimolava nella ricerca, mi aiutava a trovare un senso quando questo era invisibile. Quando ci lasciammo mi dispiacque, e per un periodo non proseguii col teatro di Arrivo. Nel frattempo eravamo diventati una compagnia teatrale riconosciuta dal Ministero. Trovammo la lettera, che attestava la nostra qualifica, sopra il tavolo della cucina al ritorno da Glacoma Sicu, il quarto spettacolo di Arrivo. In quell’occasione conobbi Stine, amica di Paola, la mia migliore attrice. Stine mi si appiccicò addosso, era estate e avevamo fatto questo spettacolo all’aperto, per una rassegna del quartiere. Ci offrirono la cena dopo lo spettacolo, Stine era con noi, non mangiava niente ma ascoltava tutto, attentissima. Aveva fatto teatro in Norvegia e con noi ritrovava quello spirito lì. Fu grazie a lei che realizzammo la mostra.

La Sicilia mi ha sempre ispirato molto, ogni volta che ci sono andato ho scritto qualcosa. Glacoma Sicu era il racconto di un’esperienza personale vissuta e narrata che vedeva Milena protagonista. Non una ricostruzione fedele dei fatti, tutto era in chiave criptata. Il materiale cartaceo è conservato da qualche parte, dovrei spulciare gli archivi. Io dovevo impersonare James Joyce con la macchina da scrivere che denunciava il comportamento di una pazza attraverso la scrittura. In quell’occasione ci venne a vedere anche una ragazza amica di mio fratello, che si chiamava Elena. Fu molto cordiale e riconoscente per la performance che avevamo proposto e mi parlò del Centro Universitario Teatrale della mia città, il CUT. In precedenza avevo frequentato laboratori teatrali, uno su tutti il laboratorio teatrale interculturale Human Beings, organizzato dall’associazione culturale Smascherati. Fu proprio la scintilla iniziale che mi provocò la voglia di costituirne una. Vedevo che Smascherati funzionava, aveva un senso, un perché. Così presi lo statuto generico da un modello dell’Arci, lo adattai e lo semplificai, e definimmo l’articolo 4 come principale: evitare situazioni di emarginazione, disagio, intolleran- za e solitudine attraverso le attività culturali condivise. Da qui partì tutto, e non si è ancora fermato, per fortuna. Abbiamo persino un vicepresidente, il signor Mohamed. Abbiamo una segretaria, Moira. Dei consiglieri, Laura e Carlo. Ci si aiuta. I carteggi sono da me, nella mia stanza, accanto a dove scrivo adesso, in questo momento. Progetti, alcuni andati a buon fine, altri no, locandine degli eventi, registri. Siamo un gruppo, nonostante le difficoltà. Abbiamo visto nascere altri collettivi che col tempo si sono estinti, abbiamo visto passare assessori alla cultura del nostro Comune, sindaci, addetti alla cultura. Noi resistiamo all’usura del tempo. Ogni anno ci ripuliamo dalla ruggine e oliamo i meccanismi. Siamo fuori da ogni meccanismo. Per convenzione non dobbiamo dimostrare alcunché, in effetti. Produciamo cultura a prescindere, soprattutto attraverso la scrittura. Per un periodo infatti adottammo la dicitura di Associazione Culturale e Letteraria Arrivo. Facemmo un corso di non scrittura, come ovvio al circoletto, inventando il TLO, il trattamento letterario obbligatorio, scanzonato. Ci prendevamo in giro, con ironia. Non ci prendevamo sul serio, altro principio cardine del nostro apparato. Per noi voleva dire svago intelligente, divertimento e spensieratezza. Io mi sono sempre occupato del reperimento dei materiali e poi di assemblarli alla meno peggio. Questa è stata la fase amatoriale. Oggi siamo un po’ più organizzati. Non dobbiamo per forza fare il salto di qualità. Diciamo che siamo un po’ più precisi a trovare confusione. Del TLO, per esempio, abbiamo realizzato un racconto collettivo a otto mani. Gli abbiamo dato un titolo, I miti. Lo abbiamo pubblicato sul nostro blog. https://arrivo.wordpress.com/2011/11/30/raccontocollettivo/

Questo è il nostro logo. La prima versione non aveva lo smile sopra la lettera i, la quale lettera di primo acchito mi diede l’idea di una casa, mentre ora sembra più una freccia verso l’alto. Non c’è mai il rosso, da nessuna parte. Lo smile, infine, è stato fatto in 3D. La locandina, invece, del corso di scrittura che ho nominato prima, è codesta: generando in me, quando studiavo sceneggiatura a Milano, lo scritto Corso diverso di scrittura, che anni più tardi allegai all’altro scritto per i nostri primi dieci anni di associazionismo e volontariato. Cosa si intende per volontariato? Lo spiegherò nel 2019, all’interno dello scritto breve Essere ed esistere, storytelling del volontariato, edito dal Cesvol Umbria. Il Cesvol, inoltre, ci chiese di organizzare le celebrazioni per il suo decennale, nel 2009. Facemmo una serie di performances, io e Elena, a tema. Non le ricordo. Le avevamo strutturate.

Va beh, andiamo avanti. Andiamo indietro. Riavvolgiamo il nastro. Questo breve excursus storico non completa la narrazione, ma ne è una traccia, seppure poco incisiva e flebile. Oggi siamo concentrati su di noi, come non mai. Ci siamo resi conto che scriviamo, e tanto, e siamo un po’ dispersi. Ragion per cui dovremmo fare gruppo e ragionare sulla creazione di uno strumento di lettura elettronica, l’ebook. Dovremmo partire dall’editoria elettronica sociale ed etica, e riversare i nostri scritti, fare delle collane. La collana Blocchi, dedicata ai romanzi d’introspezione. Vedremo. A volte è meglio non fare nulla. Lasciare scorrere le nuvole. Che tutto si compia, come dice qualcuno. Che abbia inizio. Ascolto a scrivo. Lascio comparire le immagini interiori. Un ragazzino coi capelli fino alle spalle che corre in un campo coi fili d’erba mossi dal vento. Il vento è mosso perché Eolo ci soffia. In realtà fuma ed espira nebbia. Il ragazzino non ci vede bene e si sfrega gli occhi. Si ferma, si stacca gli occhi dalle orbite. Un rapace lo cattura e lo porta a toccare le nuvole. Le lacrime scendono sul campo. Il campo non ci vede bene. Il campo ci vede meglio. Il ragazzino torna nel campo a chiedere i suoi occhi. Il campo non vuole ridarglieli. Il ragazzino ha un terzo occhio. È un faro per vederci in mezzo alla nebbia. Eolo accende un’altra sigaretta. Dobbiamo aspettare che finisca di fumare. Poi ne accende un’altra, poi un’altra ancora.

Gli viene la tosse. Gli gira la testa. Si mette supino. Suda. Fa caldo, ora. Un caldo infernale.

Ma veniamo a noi. Con questi sbalzi di temperatura e del tempo, non si sa mai. Voglio dire, tornando all’ebook, non è che sia così facile realizzarlo, occorrono programmi adatti e riuscire a comprenderli da soli non è facile. La maggior parte degli editori di ebook chiede un contributo all’autore. Sono degli emeriti EAP, editori a pagamento. Imprenditori che misurano il tempo con il denaro. Chi scrive invece scrive e basta, passa il tempo a fare ricerche, ad aggiornarsi e a documentarsi, infine a comporre. Perché, mi chiedo, dovrebbe pure pagare per pubblicare? Dove sta il guadagno dell’operazione?

Il mercato ha le sue leggi, il libro è un prodotto come la carta igienica, va fatta la pubblicità, la pubblicità va pagata, incide sul prezzo di vendita e tutte queste cose qui. Il problema è la piccola editoria. Quella grande e media è inarrivabile, occorre scrivere con una qualità medio/alta. Il punto è sempre quello. Scrivere. Scrivere è imbrattare un foglio bianco. Scrivere non è imbrattare un foglio bianco. Cosa è scrivere? Come, quando, dove, cosa, perché? Da cosa dipende la qualità della scrittura? Secondo me dal tema trattato, dal suo sviluppo, dai punti di rottura che determinano l’interesse a proseguire. A me, per esempio, piace leggere ed essere spiazzato dall’autore. Adoro quando non ti aspetti un evento, essere sorpreso. Mi stuzzica. Mi titilla. Mi fa staccare la mente da tutto il resto, mi avvolge e mi disorienta. Non posso farne a meno. È un incedere continuo, martellante, come quando fai l’amore. Ecco, forse scrivere è godere e far godere. Quando ti avvicini all’orgasmo lo senti da dentro e non puoi farne a meno. C’è un senso di appartenenza totale all’attimo. Un’esplosione di sensi. Allora si potrebbe ipotizzare che chi scrive compia un atto onanistico, mentre chi legge entri in relazione con l’autore stesso. Ne consegue che chi deve valutare l’opera si mette in gioco: accetta o no.

Un progetto che voglio menzionare ora è il Collettivo Un Titolo, composto da me, Massi ai disegni dal vivo, Fab letture dal vivo, Valeria letture dal vivo. Tutta roba autoprodotta. Ci siamo esibiti un paio di volte in un paio di locali del centro storico, divertendoci come matti. Quando performi ti sale l’ansia poco prima, poi ti rilassi e comincia l’adrenalina, che consumi con elevate dosi di cocktails. Alla fine eravamo abbastanza ubriachi da rifiutare i soldi che i gestori volevano offrirci per forza. Il progetto è morto per alcune incomprensioni tra i membri, con unghiate e spintoni finali.

Il Mister Great Book Show è un altro progetto degno di essere ripreso. Ma non voglio dilungarmi sui progetti passati e il loro riciclo e riuso, hanno fatto il loro tempo, c’è voglia di qualcosa di nuovo, di molto nuovo. Ovunque.

Blocchi di solito, il mio primo romanzo, partiva da un fatto e lo trascendeva. Rientra tra i progetti dell’associazione, in quanto le sue pagine sono state lette in pubblico durante i meriggi saturnini in vineria, e ha avuto un tentativo di autopubblicazione miseramente fallito. Ha un destino infame, era nato bene, presentandolo a editori rinomati, ma poi si è ribellato. È un aborto vivente, un elemento disturbante, che contiene calore, calore umano di una relazione complicata tra due persone che si ritrovano a Londra e si scoprono giorno dopo giorno, nel quotidiano di una realtà metropolitana dove sopravvivi al sistema che tende a incasellarti, a metterti con le spalle al muro.

Noi siamo fuori da ogni meccanismo, sognatori di un mondo libero e senza confini, favorevoli allo scambio delle conoscenze, e ci deresponsabilizziamo da ogni ruolo, preferendo scherzarci sopra, con disimpegno. I bambini, tuttavia, quando scherzano sono molto seri. Molto.

Il progetto più longevo portato avanti da Arrivo è costitui- to da un freepress aperiodico chiamato Le Periferie, giunto al tredicesimo numero e in uscita dopo due anni di lavoro. Si tratta di reperire materiali scritti e immagini e poi montarli adeguatamente. La prima pagina contiene sempre un editoriale e, in fondo, i loghi degli sponsor. Seguono due rubriche fisse, Poesia in periferia e Art Brut Gallery, che ospitano testi, disegni, foto e immagini di autori e autrici che cambiano di numero in numero. Il freepress (da noi chiamato impropriamente rivista) è appunto gratuito e liberamente consultabile online, oltre alla copia cartacea. Dedichiamo molta passione alla cura dei materiali e alla loro composizione, alla veste grafica, alla ricerca di nuove voci nel mondo della letteratura marginale. La testata stessa, Le Periferie, indica un modo di vedere l’arte (letteraria e grafica) non centralizzata, piuttosto dal basso. Una visione altra, per l’appunto, non contaminata da logiche ruffiane e di circostanza. Il tentativo è di ampliare gli orizzonti percettivi. C’è anche un altro aspetto, che costituisce l’ossatura dell’associazione tutta. Il fatto di essere apolitica, apartitica e aconfessionale, ovvero di essere slegata dai poteri in favore di un’autonomia decisionale smarcata dal consenso. Di recente siamo comunque riusciti a ottenere un micro-finanziamento per il prossimo anno per le nostre attività culturali, elargito dal Comune della nostra città. Lo abbiamo chiesto perché permesso dall’amministrazione comunale per chi ne fa domanda. Siamo dovuti andare a parlare con l’assessorato alla cultura e ci siamo presentati come operatori culturali freelance. Forti dei quasi venti anni di esperienza, abbiamo un buon curriculum e, nel corso della nostra esistenza, non ci siamo mai legati ad altre organizzazioni strutturate e con le mani in pasta dappertutto. Questo possiamo affermarlo con fermezza e un certo orgoglio. Anche durante la riforma del terzo settore abbiamo scelto di rimanere ai margini, con la terza opzione che non prevedeva un adeguamento ad associazione di promozione culturale o altre de- finizioni. Semplicemente non ci interessava entrare in nessun registro, al fine di mantenere una nostra identità dignitosa. Ove per identità intendo, e intendiamo, la possibilità di condividere un’idea espansa di cultura partendo da noi e partendo dai nostri desideri. La visione che abbiamo è in parte un mutuo-aiuto tra noi tesserati che si fonda su interessi artistici veri e propri, che possono prevedere anche, all’interno, i propri sogni come i propri traumi e paure resi in modo tale da avere una forma tangibile e fruibile da un pubblico prima privato e poi anonimo. Il nostro pubblico, i nostri affezionati, ci stimano e ci spronano a proseguire soprattutto nei momenti di crisi, in quei momenti in cui non riesci ad andare avanti, in cui c’è il blocco. Lo sblocco, allora, è tutto in questo breve scritto che sto realizzando, dove siam giunti al terzo capitolo, e l’argomento è vasto e indefinibile, perché l’associazione culturale Arrivo è ampiamente maggiorenne e, pertanto, un’entità concreta. È diventata un albero dal fusto robusto, che tuttavia non si auto-alimenta, ma necessita di essere annaffiata dal cielo. I frutti cadono e noi li raccogliamo. Un altro buon progetto che ci ha visto impegnati si chiama Moesia, con la produzione di un paio di CD con delle tracce poetiche e musicali. Il primo è costituito da tre tracce, rispettivamente chiamate La canzone della mosca, di Francesco Zuccherini; Non sense, di Valeria Boria; Prendiamo il tè in giardino, testo e voce miei e musica di Paolo Tripotesi. Non sto qui a spiegare l’esegesi delle canzoni, in quanto solo la prima può essere chiamata in questo modo. Le altre due sono più degli esercizi di composizione piuttosto deliranti, ennesimo tentativo di andare oltre il canone. Anche la scelta di uscire solo con il CD e di non mettere online questo progetto, e renderlo fruibile agli ascoltatori del web, è indicativa. L’unica possibilità di ascolto è all’interno della puntata numero zero che porta lo stesso nome, Moesia, effettuata dal collettivo lautoradio.net dentro la neonata libreria indipendente Mannaggia. La regi- strazione è disponibile nel sito del collettivo e contiene le voci mie, di Giacomo e del Fab. Alla puntata numero zero ne sono seguite altre due, poi il progetto si è fermato in quanto non avevamo più nulla da dire. In realtà, dopo qualche anno, uscì il mio libricino di poesie intitolato 50 Poesie, da cui ne trassi 16 che, con l’aiuto di Carlos e del suo studio di registrazione, lessi al microfono e lo stesso Carlos arrangiò le musiche. Monica diede la sua voce per 6 brani su 16. Un lavoro di pazienza in quanto, durante la sessione di registrazione, se sbagliavi una parola o un’intonazione dovevi ricominciare daccapo. La concentrazione era tanta, il risultato è stato soddisfacente e pure stavolta la produzione prevedeva un CD, persino con una copertina. Il problema è la sua diffusione, in quanto ho i master di tutto ma ci vogliono soldi e idee per stamparli e distribuirli. Spesso è così, si costruiscono e realizzano dei lavori artistici e rimangono nel cassetto. Ci sarà un senso in questo, almeno credo: per il gusto di farlo, e farlo bene.

Un progetto che invece abbiamo messo in rete è una ripresa teatrale dello spettacolo da me ideato in occasione della dipartita di Daniele. Il titolo è Sono andato via prima. Tre attori, A, B e C. Un testo, mio. Un luogo, una ex carbonaia. Tutto esaurito, unica data. È stato uno dei punti più alti toccati dall’associazione, perché lavorare con gli attori Giorgio Straccivarius e Francesco Rossini è stato un piacere reciproco. Lo scrivo ora per rendere omaggio a Giorgio, scomparso pure lui purtroppo. Lui aveva un’esperienza lunghissima nel teatro, lo ha pure insegnato al CUT, ed è stato in grado di recepire le mie stranezze e darle un verso, una forma. Lo considero un grande artista, una persona generosa e umile fino in fondo, la sua opera totale dovrebbe essere oggetto di studio ma, purtroppo, non può essere divulgata per cavilli burocratici e diritti d’autore. Giorgio, poeta, declamatore, regista, autore, attore, performer e pedagogo. L’ultimo dei sognatori della mia città. Faceva coppia con Paolo Vinti, l’im- menso compagno Paolo, compagno nel senso di comunista. Fu lui che mi ispirò, Paolo, a realizzare il numero zero de Le Periferie, perché produceva dei fogli letterari stupendi, uno su tutti Astratto Rosso. Li scriveva, li stampava, li distribuiva e li declamava nei locali in centro. Tutte e tutti conoscevano questo uomo alto che girava con due cravatte non allacciate, occhiali da intellettuale qual era, sempre pronto al sorriso e al non prendersi troppo sul serio, sebbene la sua cultura era immensa e internazionale. Il trittico di uomini di cultura che omaggio, in quanto passati a miglior vita, si completa con Walter Corelli. Autore notevole, viveva qualche piano di sotto al palazzo che abito, lo incontravo spesso in ascensore ed era capace di sdrammatizzare ogni occasione con quel suo modo di fare stropicciato, come se volesse sempre scusarsi di esistere. È grazie a lui se sono riuscito a seguire il seminario di Danio Manfredini al teatro Brecht della mia città, dove ho incrociato seminaristi che poi hanno fatto strada. Io in realtà l’ho seguito fino a un certo punto, poi sopraggiunse l’apatia e preferivo guardare, osservare. Troppi gli stimoli, le circostanze. Avevo paura di me, di lui, di qualcos’altro, glie lo dissi, a Danio, e mi accolse. Dovevo prendere delle decisioni profonde per la mia vita. Ero nudo e al buio. Per concludere con le personalità, è doveroso parlare di Clara Sereni. La incontrai molti anni fa e mi concesse un incontro pubblico in un caffè dove le portai il testo di Prendiamo il tè in giardino in quanto volevo lo leggesse e lo proponesse al suo ex-marito, Stefano Rulli. Il testo in questione lo avevo smontato e trasformato in una sceneggiatura sperimentale di videoarte. Mi chiese se potesse tenere il testo, dopo averlo sfogliato e averlo giudicato fuori dalla sua portata. Assentii. Per me era già un onore questa sua richiesta e mi sentii appagato.

Parlando di vivi, invece, non posso non nominare il signor Giampiero Frondini, il grande vecchio. Con lui partecipai a un suo spettacolo in veste di Nicola Castellini, però, e non di

Arrivo. Il problema, infatti, era quello di distinguere le due cose. Ero talmente preso e collegato all’associazione che, a un certo punto, qualsiasi progetto culturale facessi ci mettevo il nome di entrambi. Io ero Arrivo. Il problema derivava dal fatto che per molti anni non c’erano collaboratori, tutti spariti. I tempi d’oro del circoletto erano lontani, il web 2.0 sembrava darci una parvenza di socialità ma in realtà ci allontanava. Io tenevo duro, in attesa di tempi migliori. Credo che per un anno o due non feci nulla se non aspettare. D’altronde, Arrivo è nata nel 2001, e questo inizio di millennio non è stato molto favorevole al genere umano, per cui è necessario non mollare, non mollare mai. Si può solo risalire, una volta toccato il fondo. In fondo, appunto, siamo un’organizzazione giovane, l’indirizzo specifico non lo abbiamo e non lo vogliamo neanche, come precisato poco sopra.

Nel 2020 siamo stati chiamati a organizzare un evento, l’estate scorsa, legato al circoletto. Aveva luogo in un parco pubblico e abbiamo presentato La favola del fuoco, un mio testo per giovani con musiche in grecanico antico a cura di Francesca e interpretate da Benedetta. In quell’occasione ci è stato proposto di curare un progetto di laboratorio teatrale chiamato PadLab, in quanto legato a degli scritti anonimi sviluppati durante la prima ondata di pandemia, quando non si poteva uscire di casa. Il Pad era il nome del portale in cui riversare gli scritti. Un giorno saranno stampati e rilegati a mano, presentati insieme allo spettacolo che faremo, desunto dallo stesso. Purtroppo non sappiamo quando e come sarà possibile realizzare questo bel progetto, condotto da me e soprattutto da Benedetta, che in campo pedagogico ha molta più energia ed esperienza del sottoscritto. Ci sarebbe, nel frattempo, da fare tutto un lavoro alla ricerca delle parole chiave del testo, di entrare nel Pad vero e proprio e venire cosa ne esca fuori. È così su tutto, il recupero dei materiali, la volontà di lavorarli, di impastarli, di strutturarli con metodo e disciplina. La pre- senza, soprattutto. La presenza di spirito e di materia, la presenza intellettuale e fisica. L’ignoto spaventa e attrae. Lo si può attraversare da soli, e ha una valenza, o insieme e si cercano soluzioni in comune. È molto semplice. L’atto della scrittura, invece, è un atto solitario. Lo affermo senza dispiacere. È un atto creativo e generoso. È un diritto d’artista. Ecco, allora, che subentra l’associazione culturale Arrivo a garantirlo, a legittimarlo. Offre una possibilità, una piccola vetrina alchemica, dove si crea qualcosa dal nulla. Ma dal nulla non si crea, piuttosto si mettono insieme degli elementi. Il nulla, e l’ovunque, sono concetti da relativizzare. Compare allora la via di mezzo. In questo sottile equilibrio si maneggia il messaggio da veicolare, qualunque esso sia. È un continuo dire e non dire, rivelare e nascondere. Ma siamo ancora nel dualismo e, traslando, nel capitalismo imperante. Trarre profitto, approfittare, guadagnare, avere visibilità, followers, seguaci. Potere. Io, per esempio, sono il presidente. Presiedo l’associazione, ovvero la rappresento con la mia presenza. Posso delegare il vicepresidente a rappresentare l’associazione, se lo decido. Nel corso di questi 20 anni ho accumulato esperienza e saperi e so muovermi tra i meandri dell’offerta e produzione culturale della mia città. Faccio un report e lo discuto con gli altri membri, per prendere decisioni da attuare. Non è sempre così lineare il processo, altrimenti saremmo un’azienda. Noi non produciamo reddito. Produciamo sogni individuali da collettivizzare. Forse siamo snob e riserviamo le nostre opere a una nicchia di persone. Ci prendiamo la libertà di non essere commerciali e di non ricavare guadagno alcuno. Questo determina pochi fedeli. La nostra è una traccia in parte avanguardistica, fuori dai circuiti ufficiali, da sempre. Non siamo regolari, piuttosto umorali. Ci alziamo la mattina e vediamo che succede, senza programmare niente. A seconda degli stimoli interiori o esteriori ci dirigiamo in pensieri e azioni da sviluppare, integrare e confrontare. Questo è il no- stro modus operandi. Cerchiamo, insomma, di fare come ci pare. Nessuna imposizione dall’alto, nessuna scadenza granitica. La ricetta è semplice: hai una base di riferimento, qualche vaga indicazione, prendi gli ingredienti e li curi. Poi li congeli e li tiri fuori al momento opportuno, riscaldandoli. Se te ne dimentichi, loro in qualche modo te lo ricordano, perché hanno un’anima propria che a volte fa capolino. Ecco, Arrivo è in parte animista e in parte matriarcale. Ti accoglie e ti nutre. Si prende cura di te, a patto che ti lasci andare al suo abbraccio protettivo. L’organismo totale si compone di parti interscambiabili, suscettibili a variazioni sul tema. Si dirà, ma qual è il tema? È quello proposto dal nostro statuto, ratificato dall’atto costitutivo, consultabili liberamente all’interno del nostro blog. Il blog, infatti, è lo strumento che utilizziamo per rendere pubblici i nostri lavori, per pubblicizzarli. Il blog è www.arrivo.wordpress.com ed esiste da diversi anni. Ha toccato punte di visualizzazioni seguite da momenti di stasi totale, di inconsistenza. A livello grafico non rispecchia le varie tendenze del web, è molto elementare e rudimentale. Per quanto possibile, inoltre, fino ad ora abbiamo sfruttato solo siti con dominio non a pagamento, senza accedere a pacchetti premium. Tuttavia è dura, la concorrenza è alta, noi non siamo competitivi, vogliamo una fetta di una torta che non c’è, se non quella che fabbrichiamo noi stessi. Un’utopia? Una forma organizzata di anarchia? Semplicemente Arrivo. La meta non esiste, ci si arriva solamente. È un tentativo di riappropriarsi dei propri spazi temporali. Arrivo sei tu in quanto esisti. Non hai altri bisogni. Ci sei. E qui torniamo alla concezione dell’indaco, come colore, scoperto da un secolo e mezzo in India. Indaco come colore dell’intuito, della percezione, del qui e ora. Indaco come colore tra il blu e il viola, che identifica il sesto chakra, quello del terzo occhio. Glacoma Sicu doveva raffigurare il dolore fisico del momento in cui si apre questo occhio. Purtroppo ho perduto il testo. Non ri- mangono che le ceneri del ricordo, l’essenza scomparsa dell’evento, ancora una volta il nulla assoluto. Invece non è vero, è ricomparso dalla memoria elettronica. Non sto qui a riscriverlo o copiarlo e incollarlo in quanto non mi sembra una buona idea. Era un esperimento puro e duro, il quarto spettacolo dell’associazione, univa suoni, corpi e immagini. Univa invece che dividere. Dopo questo quarto spettacolo ci sciogliemmo. Ci vollero dieci anni per ripresentare un lavoro teatrale, Sono andato via prima, cui segue l’ultimo in ordine temporale, La favola del fuoco. Ma la favola costituiva pure il quadro finale del quarto spettacolo. È stata ripresa e rielaborata, staccata dal precedente, arricchita con musiche e canti grecanici di tradizione orale e assemblata in forma di libretto autoprodotto, stavolta sì, con all’interno sei illustrazioni coloratissime di Schramm. Lo proponiamo, insieme all’altro materiale, quando facciamo un evento. Abbiamo un banchetto coi nostri libri, CD, riviste e schede di adesione muscolari. Nel senso che sono piene di fibre. Ci passano le nostre idee, il nostro cuore, i nostri nervi. Li vendiamo. Non abbiamo mai una lira per nessun progetto, ma non è importante. Importante è rimanere saldi. Noi non facciamo sconti, quando ci diamo lo facciamo per bene. Per esempio, Latte alla portoghese è un testo di Pietro Zanchi per una canzone del suo ex gruppo FC Nerolatino che abbiamo pubblicato su Le Periferie #11, dal quale abbiamo desunto una performance con me e Benedetta dove abbiamo sperimentato, ancora una volta, i nostri istinti attoriali partendo da tutto quello che non era recitazione, improvvisando su un canovaccio. Ci hanno chiesto due volte il bis, e ci siamo sfogati, ci abbiamo dato dentro di brutto. Rimane un video a testimoniare l’accaduto, che è stato montato e titolato da Beste. Un altro video, ancora da montare, è previsto per l’ultimo evento costruito, chiamato Cambia programma, a cura di EnEm96, produzioni Arrivo. Ma di questo parlerò più avanti, troppo fresco ancora. Meglio chiudere la finestra. Il fatto è che, dentro questa performance, ho declamato dei miei testi nuovi che costituiscono una composizione intitolata Antipsik e che non è finita, quindi è prematuro parlarne perché incompiuta. Sono dei pezzi indipendenti l’uno con l’altro, che non seguono nessun nesso tra di loro e sorgono spontanei tra i miei pollici, in quanto li digito sullo smartphone come note. Non sono appunti, però, ma sensazioni. A volte situazioni. Quando sono sovraccarico di stimoli, infatti, ci metto mano. Ho bisogno di fermare, di fotografare con le lettere, di crearci una cornice per poi distruggerla. È un processo forte, che non puoi farne a meno. Una necessità. Qualcosa che ti dice di venire alla luce. Psik è invece un testo che produssi nella prima metà degli anni zero, e, grazie al Cesvol, lo editammo e ci ricamammo una rassegna sulla follia chiamata Crepe. Al circoletto, of course. Vi partecipò Giampiero Frondini, che venne a intrattenerci raccontandoci la sua esperienza nell’ambito del teatro applicato alla psichiatria. Si era nel periodo storico in cui Indymedia ((I)) aveva perduto forza, gli hackmeeting lo stesso, l’hacklab del circolo era in crisi e tra di noi circolava paranoia quanto basta a convogliarla in una rassegna. L’idea piacque e creammo una locandina e un volantino che terminava con la scritta: “Oh, ‘n fa ‘l matto, vieni!”. Durante la serata di raccolta fondi con una buona cena io mi accompagnai con Laura M., che forniva assistenza psicologica alla mia performance. Facevamo poi vedere un video del TGR settimanale in cui un giornalista mi intervistava davanti al CUT di Perugia per il progetto Verso una compagnia teatrale atipica. Anche in questo caso ho traslato esperienze artistiche personali verso una collettivizzazione fruibile tramite l’associazionismo. Il progetto dell’Atipica fondeva il teatro con la psichiatria e la video-intervista era una ghiotta occasione per aprire la rassegna. Il nome Crepe fu suggerito dal Fab, con rimandi al produci-consuma-crepa di ferrettiana memoria. Il Fab è stato una colonna portante del circolo e di Arrivo, coi suoi contributi letterari e fotografici, le sue letture in pubblico, la sua presenza. Non ha mai ancora avuto il privilegio di vedere pubblicato un suo libro a cui lavora da tanto. Con lui ho passato serate indimenticabili ad ascoltare musica e delirare a voce, aspettando l’alba. È un poeta unico nel suo genere, dolcemente egocentrico ma senza esagerare. Il suo tremolio nelle mani che reggono il foglio da leggere in pubblico è emozionante a prescindere. Si sente la sua mancanza, in parte ovviata durante l’evento estivo, già citato, al parco Chico Mendez, in compagnia del suo piccolo figlioletto. Ha performato e letto come al solito, meglio del solito, in compagnia di Flusso, Rete Informale Cervelli Precari, fondata da David Laurenzi, che produce l’omonimo foglio d’arte. Di Flusso siam debitori, in quanto ci si sostiene a vicenda. Ci si scambia opinioni letterarie, materiali e ossessioni visionarie. Una solidarietà ostentata anche nella ricerca di editori etici, per l’appunto. Perché tutte e tutti noi scriviamo, e non abbiamo molti sbocchi. Occorre fare gruppo e scambiarci info utili per navigare in quest’oceano di squali che ti vogliono far pagare anche l’aria che respiri. Noi gli rispondiamo con la tosse. Un buon virus nel loro sistema perfettino e macchinoso non guasta mai. Questi editori bizzosi, burocrati, inarrivabili. Questo collasso del sistema, che non sistema nulla. Ma come difendere la nostra posizione off e allo stesso tempo avere un seguito? È questo il dilemma. Il nodo da sciogliere. La soluzione sta nel gruppo, come sempre, pensante. Pensare criticamente, trovare qualche falla, qualche crepa e inserirsi. Perché di bug di sistema è pieno il mondo, questo imperfetto. Questo nostro infetto. Noi siamo degli insetti parassiti che catturano idee nell’etere e le portano in terra, come Prometeo col fuoco. A questo punto ci sta bene una bella immagine della locandina per la festa dei dieci anni dell’associazione:

Dove troviamo in foto, da sinistra, il Fab, Stine, me e Danielone intenti a presiedere in vineria l’evento Letture nel meriggio saturnino. Dell’evento al Cva non ricordo nulla. Piuttosto quello per i primi tre anni, sì. La locandina l’aveva fatta Daniele, a differenza di quest’ultima che l’ha fatta Giacomo. Nella festa dei tre anni, che facemmo in un Centro Sociale Occupato Autogestito della nostra città, venne un sacco di gente perché offrivamo da bere. C’era un buon sound, pure. La sangria autoprodotta e modificata. Ecco, ai nostri eventi era importante andare in orbita, come si suol dire, ballando, bevendo, facendo festa. La festa è una parola importante. Per festa intendo quella pagana, non connessa a religioni alcune. Chissà quando ci daranno il permesso di farne un’altra. Inoltre, come si può vedere, se la presente stampa è a colori, i caratteri sono stati scritti per la maggior parte col colore indaco. Mi riferisco alla locandina sopra, ovviamente. Quella dei tre anni la chiamammo 3 party, nel senso di free party. Forse è tempo di guardarsi indietro, chissà. Fatto sta che ci fu un altro spettacolo in programma a cura di Arrivo: Come viene, viene. Lo rappresentammo in due spazi teatrali veri e propri. La prima volta venne bene, eravamo soddisfatti io e Floriana. La seconda volta un disastro, non ci prendemmo mai in scena, il pubblico pensava fosse voluto, ma in realtà eravamo sconnessi e scoordinati. Poi andammo a mangiare al ristorante e io ero in forte imbarazzo. Conservo comunque il foglio di sala a colori cartonato, con le rispettive presentazioni. Mi misurai con la bravura scenica di Floriana, che tendeva a far valere la maggior esperienza. Le misi addosso una parrucca bionda e l’alzai in un piedistallo. Il mio compito era di farla scendere. Solo che la performance era stata concepita per un certo spazio, e l’adattamento ad un altro spazio non funzionò. Era come una poesia rovinata.

Un altro apparato organizzativo di Arrivo fu allestito per un minifestival chiamato Guahguahguah. Doveva svolgersi all’interno del nuovo anfiteatro di Ponte San Giovanni. Avevo interessato gruppi musicali alternativi, uno su tutti le Tette biscottate. Avevo interessato Daniele Timpano, per il suo spettacolo teatrale Ecce Robot. C’era un fondo regionale, misero, cui attingere. All’ultimo non se ne fece nulla in quanto non avevamo l’agibilità per l’impatto sonoro la cui rilevazione ci sarebbe costata una cifra che non avevamo. E dire che la tre giorni che avevo pensato fu illuminata da una luna piena enorme e sognante. Dirottai comunque il progetto cambiando tutto e sintetizzandolo nella performance personale L’organo di mia madre, dove elencavo tutte le frasi che la mia famiglia usava nei miei confronti per riprendermi quando facevo qualcosa che non andava secondo i loro canoni.

Questo era il viso scelto per il minifestival. Un ghigno, appunto, a indicare una risata sguaiata: Guahguahguah! In effetti questo losco personaggio si prese gioco di me. Fino all’ultimo ero deciso a farlo, poi mi arresi all’evidenza: la burocrazia aveva vinto ancora una volta, ma il mio progetto fu approvato e L’organo di mia madre ottenne consensi e un contributo. Tra il pubblico c’era Carlos, che apprezzò i miei sforzi attoriali e mi propose qualcosa. Da lì nacque una collaborazione con la sua associazione culturale, Amerinka Alma Latina. Iniziammo a lavorare sui testi, e sulle musiche. Mi insegnò quello che sapeva a livello performativo, a stare sul palco e a esprimermi con passione, il mio orientamento era la lettura in pubblico, seguita da suoi accompagnamenti musicali con la chitarra e con un gruppo che aveva messo su batteria e percussioni. Replicammo la cosa a distanza di anni durante la presentazione del mio libro 50 poesie presso un teatro. Da lì venne fuori l’idea di farne un CD. Le cose sono spesso conseguenziali, arrivano da sé, come dire, pronte a essere raccolte. Il prossimo step non si conosce, basta aspettarlo a braccia aperte. Ora, chi desideri sostenerci, avere maggiori informazioni e delucidazioni, si faccia sotto. I nostri recapiti telefonici sono lo 0039 328 9243782, la nostra email arrivo. info@gmail.com e il nostro IBAN lo specificheremo più in là. Non paghiamo affitto, perché la sede è a casa mia. Disponiamo di una piccola biblioteca cartacea, forse ne dovremmo fare una virtuale. Implementare, per esempio, il sito archive. org ovvero il sito che raccoglie e archivia files per sempre e in modo libero e gratuito. Ma noi non siamo scienza, nemmen fantascienza, lasciamo riposare gli intenti e godiamoci il tempo libero. L’associazionismo tuttavia non è una ragione di vita, né un hobby. È un modo di essere, fare e pensare. È regolamentato in modo tale da permettere di respirare aria buona e ossigenata. Fino a poco tempo fa, comunque, era un gran proliferare di nuove associazioni, ricordo che la mia città era candidata a capitale europea della cultura. In molti questa cosa produceva acquolina in bocca. Una volta in semifinale, però, non siamo risultati vincitori, di conseguenza i molti hanno allentato la morsa e si sono disciolti alla luce del sole. Poi facemmo dei progetti anche con il Centro Servizi Giovani del Comune, prima ancora con l’Informagiovani e l’adiacente Post, o museo della scienza: siamo agli albori della nostra costituzione, il direttore del Post è ben predisposto al mio progetto di videoscrittura in tempo reale, il Clipwriting, poi denominato Tastiera Aperta dal CSG, infine convertito nel progetto Ascolti e scrivi. L’ultima versione è stata ripresa e condivisa dal collettivo Flusso per un evento di presentazione di un numero del loro foglio d’arte che ha avuto luogo al Postmodernissimo, il cinema d’essai per eccellenza di Perugia. Occorre, quindi, fare ordine. Troppi nomi, troppe sigle e troppi progetti. Non se ne viene a capo.

Bisogna concentrarsi su poche cose. Cercare di non distrarsi. Andare avanti con una narrazione logica e utile. Ma come definire l’associazione Arrivo? Mi sembra una mancanza di rispetto. Eppure so che ha una sua personalità. Anche ora sto attuando il comando Ascolta e scrivi, ho messo nel Panasonic il primo CD dei Verve che fluttua nell’aria della mia stanza, con la finestra aperta sulla nebbia del mattino del giorno dopo la morte di Diego Armando Maradona. Solo a scriverlo mi fa strano, non mi sembra vero. Non è possibile, proprio lui, il più amato, il più forte di tutti, il poeta del calcio. Dieghito, con te se ne va un pezzo della mia adolescenza, per sempre. Non ci sono parole per esprimere il mio dolore, tutti ammiravano le tue giocate col piede sinistro, i tuoi gol e dribbling, il tuo genio. Ho freddo, sai, ho freddo alle caviglie, mi sento solo, ho fatto sogni brutti stanotte e alla fine mi sono alzato alle 6 del mattino e sto qui a cercare di dare ordine ai pensieri attraverso una tastiera. Il progetto Tastiera aperta era un tentativo di condividere, per l’appunto, una tastiera per una scrittura collettiva video-proiettata in tempo reale. Si sceglieva la musica da ascoltare e poi si cominciava a scrivere. Creammo un piccolo gruppetto di giovani di ogni nazionalità, ognuno voleva una musica diversa. Presentammo il progetto in aula, non ci diedero la parola. Semplicemente si dimenticarono di noi. Un lapsus, probabilmente. Fu abbastanza comico e imbarazzante. Sembrava facessero un favore a noi, quelli del

Comune. L’Assessore alla cultura era un mio amico dell’adolescenza con cui giocavo a pallone, ci ho vinto insieme un torneo. Non ho mai capito se mi premiò per merito o per altro. Il progetto lo presentai con tutte le specifiche del caso. Comunque, ci diedero dei soldi. Organizzammo alcuni incontri al CSG, scaldammo l’ambiente e poi trasferimmo il progetto nella nostra sede operativa, il Circolo Island. Tornammo al nome iniziale, il Clipwriting, e lo abbinammo con un dj-set e poi con un concerto reggae. Prendemmo la porchetta e facemmo i panini. I musicisti reggae erano vegetariani. Giulio era il cantante. Dreadlocks nascosti sotto la lana colorata. Era molto alla mano, gli piaceva portare avanti il messaggio spirituale di Hailé Selassié, a me stimolava la scrittura. Da qualche parte ci dovrebbe essere la registrazione di quel Clipwriting.

Il fatto è che parte tutto dal cervello. Gli stimoli di input e di output, la cabina dei comandi è lì. Quindi, se ascolti della musica sei stimolato e lo restituisci componendo delle frasi, è così che funziona. Lo stile musicale non influisce più di tanto su quello della scrittura, poi un conto è farlo in casa da soli, un altro è farlo in una situazione di condivisione degli spazi quale un evento-festa. Personalmente avrò partecipato a una ventina di eventi legati a questa forma di scrittura meccanica dal vivo. La prima volta fu presso la neonata Biblionet, nel 2000. Mi portai una piantina germogliata a farmi compagnia. Io stavo di spalle al pubblico. Cercavo di captarne gli umori, in maniera solipsistica. Non ero dentro il mondo culturale della mia città, ancora. Arrivo forse era in embrione. È probabile che la solitudine che mi portavo dentro, questo modo di esprimermi con le lettere, abbia contribuito alla voglia di associarmi. Non so, è una forma di esistenza il fatto di esporre subito a qualcuno la scrittura che creo? Insicurezza? Egocentrismo? Spettacolarizzazione forzata? Io la interpreto come una forma d’arte, di intrattenimento, per l’appunto.

-Ma no, dai, tranquilloo…

Mi dice il dottore al telefono. La musica di Marley in sottofondo. Ho preso la medicina per Tyga, tre sacchette di colore diverso con dentro erbe, cortecce, radici. Insomma cose della natura. Poi mi sposto, verso acciaio e stoppini, quanto meno metallo. Smonto lo zippo di mio fratello e lascio i pezzi sulla scrivania come a formare un robottino da recensire.

Ho ricevuto recensioni per i miei scritti, in passato, da parte di persone autorevoli e amiche. Prefazioni e postfazioni. Non so quanto possano essere utili, ma è sempre del materiale da recuperare. È logico. Arrivo.

Prima della costituzione dell’associazione oggetto di questo capitolo, io e Daniele, che ci conoscevamo da un decennio, organizzammo una festa su un casolare in campagna e la chiamammo The Bottle Party. Chiunque avesse voglia di partecipare veniva invitato a portare una bottiglia, piena, da bere. Naturalmente dormimmo lì, coi postumi della festa. La mattina dopo la proprietaria ci chiese dei soldi per la luce consumata. Pagammo e andammo via. Alla festa venne anche Roberto, molto ambito dal sesso femminile, presenza ironica e burlona, per noi. Roberto e Daniele, infatti, si conoscevano da adolescenti. Ne combinavano di ogni. Daniele era più compassato esteriormente, meno fuoco. Roberto invece una persona delirante, in senso buono, meno inserito di Daniele, che aveva un lavoro sicuro, quello di grafico al computer. Roberto faceva invece il fotografo, fino ad arrivare ad aprire uno studio fotografico nel quartiere, in società con Salvo, e poi il corso degli eventi li porterà dritti a fotografare le serate del Red Zone. Allora, arrivavamo io e Daniele al Red e ci facevamo fotografare da uno dei due, e poi tutti al bancone. Mi mancano quei due mattacchioni, le scorribande e il senso di libertà che trasmettevano. A me dava gusto andare a casa loro. Era tutto organizzato, in apparenza. Sembrava vivessero in un’azienda, nulla era fuori posto, tutto molto funzionale.

Daniele passava la maggior parte del tempo libero a leggere libri e ascoltare dischi. Al suo 40° compleanno lo trovai intento nella lettura di Dostoevskij con in bocca un sigaro enorme e un bicchiere importante. Se la godeva, sebbene soffrisse di depressione e psoriasi. Negli anni ’90 io e lui uscivamo sempre la sera del lunedì, per incontrare solo gli aficionados nei locali. Era il giorno più sfigato, ideale per noi. Frequentavamo locali popolari, alternando qualche rara uscita al ristorante cinese e a locali più à la page. Una volta mi regalò una cinta, di cuoio, che non metteva più. La cosa mi riempì di orgoglio. Mi aveva pensato, non solo come compagno di bevute. Lui era un po’ enigmatico, parlava poco, si isolava spesso. Poi, quando non ce la faceva più, iniziava a parlare di qualche argomento da concludere con una battuta a effetto, che ti rimaneva alla memoria. Aveva fatto, aveva creato una storia, al pari di Roberto, che di storie ne creava di continuo. Roby era sempre pieno di storie da raccontare, di contatti, di voglia di vivere. Aveva una parlantina speciale, mentre ti diceva le cose ti leggeva nella mente i desideri e i pensieri e te li riportava nel discorso, davanti a te, che rimanevi un po’ a bocca aperta. I miei amici degli anni ‘90, cari, dolci, teneri. La musica ci accompagnava sempre e ci univa. Su tutto, i Velvet Underground. Me li fece scoprire Danielone, alla stazione dei treni del nostro quartiere, tirando fuori da un cestino della spazzatura un pezzo di giornale che recensiva i loro lavori. Fu subito amore a prima vista; conoscevo, ovviamente Lou Reed, fin da piccolo. Saperlo leader di una band epocale, una di quelle che in pieno periodo hippy suonava roba nichilista, di New York, avendo come mentore Andy Warhol, mi sembrava ancora più bravo. Da lì, dall’ascolto, approfondii le orecchie che si deliziavano della voce di Nico. Rivedere, infine, i due ultimi anni di Nico su schermo mi ha colpito. Come un salta-tempo impazzito, come vedere Trainspotting 2, insomma. Siamo tutti cresciuti, abbiamo messo qualche ruga, perduto i capelli, un po’ di pancia, disillusi. Ecco, la disillusione della mia generazione sconfitta dal G8 di Genova, ma una fetta resiste, lo so, noi cibernauti etici, che andiamo sul sito di cisti.org. Così, tra pochi giorni arriverà Lucio a sistemarmi il pc per mettere Linux. Iniziare a fare gli ebook con Calibre e avviare la casa e-ditrice. E-dizioni Arrivo. E-ticamente. Tanti ebook. Tante adesioni. Alcuni passi in avanti. L’associazione vive, pulsa, e fa bene. C’è da fare il travaso tra i due anni, a ridosso del nostro ventesimo. Dobbiamo organizzare una festa carina, con delle sorpresine. Iniziare a produrre files audio di alcuni scritti da noi selezionati. Leggere, ripetere, correggere la dizione, l’impostazione e gli errori e gli svarioni tutti, per poi rigiocarceli come meglio crediamo.

Riflettendoci, è tempo di chiedere. Possiamo richiedere il rinnovo della tessera e, in generale, lanciare una campagna di raccolta fondi per le nostre attività culturali. A questo scopo, alfine, pubblico l’IBAN per intero, intestato a Associazione culturale e letteraria Arrivo L’IBAN è il seguente:

IT65M0501803000000017007790 (Banca Etica Perugia)

La community di Arrivo si compone di persone che hanno il comun denominatore di attuare ed espandere i principi dell’associazionismo, del volontariato e di azioni culturali attraverso l’intervento artistico e creativo di produzione del materiale, da assemblare, presentare e divulgare, o semplicemente fruirne. La nostra organizzazione è antifascista. È antirazzista. È contro la guerra. È antisessista. Applica, come e quando può, i principi della riduzione del danno (prodotto dal capitalismo, in primis). E poi c’è tutto il resto: teatro, performance, lettura dal vivo, produzione di testi scritti e orali, registrazione audio, registrazione video, gestione di una rivista freepress, fotografia, illustrazioni, poesia, musica, grafica, pittura, installazioni.

Ci trovate su qualche social network ma non tanto, sul blog, al telefono (anche whatsapp) al numero 0039 328 9243782, dove abbiamo creato un gruppo. Dobbiamo affrontare questi freddi tempi di tecnologia video e meet, dotarci di videocamere e microfoni, iniziare a fare presentazioni sul web? Vedremo. La nostra mission la scrive il tempo. Questo libro lo scrivo io, intanto. Mi auguro possa servire a immaginare mondi. A mescolare la realtà con la fantasia, ma pure a rendere inorganica la materia. Indifferenziata. Grigia. Piatta. Liscia. Tattile. Puzzolente. Humus. Fertilità. Una natura morta, insomma, che non ha pace, ostinata e resistente. Io mi sento così, e cerco di trasmetterlo. Sfaccettature sottili, liminali, emotive, votate all’astensionismo (impossibile) del giudizio, sono senza giudizio, con la testa tra le nuvole, fluttuo, gongolo, mi ingrasso e digerisco. Come stanotte. Risvegliarsi in compagnia ogni tanto è un toccasana. Sempre diventa un’abitudine. Occorre rimanere soli, del tutto, per apprezzare le relazioni. È questo che mi insegnava Torgeir, a cui ho dedicato l’autobiografia. Anche questo è un progetto di Arrivo, uno dei libri pubblicati grazie a esso. Il mio ultimo saluto a Torgeir Wethal. Nessuno è innocente, amore. È il lungo titolo dato all’opera, e mi sembra doveroso parlarne in quanto sono più di dieci anni dalla scomparsa del maestro, e poi non ho ancora illustrato i libri di Arrivo. O forse sì. Fatto sta che ormai è uscito nel 2019, grazie a un accordo con un’altra associazione culturale, La casa degli artisti. Pure il contributo iniziale per le prime copie, dato da Il Giardino di Francesca, ha permesso l’inizio del progetto. Progetto che non è ancora uscito dal territorio, distribuito a mano dall’autore e, per la prima volta, con un prezzo di vendita a metà tra autore ed editore. Sarei curioso di sapere quante copie ne sono state messe in giro. Un libro non è un ripasso, ma un oggetto prezioso da ripassare.

Si potrebbe farne un audiolibro, ora va di moda leggere e registrare ogni cosa. Suddividerlo per capitoli, of course, ma non ci sarebbero le illustrazioni e le foto ivi contenute. Per ora, lo stiamo facendo, cerchiamo di farlo, con la rivista freepress Le Periferie #12. All’interno è contenuto un racconto orale riportato a lettera, dal titolo Ognuno per sé, di Mohamed Camara, a.k.a. TBoy and the G Family. Ovvero il nostro glorioso vicepresidente. È un racconto tramandato da generazioni, ha dentro di sé elementi di narrazione volti a creare una coscienza in chi la riceve, un insegnamento. Che non è una morale, piuttosto un forte invito alla riflessione. Ci sono pochi personaggi, una mamma, due figli, un uomo, detto appunto Ognuno per sé. Intorno a lui ruota la vicenda, con un epilogo feroce e vivido. Ho individuato questo testo, questo racconto breve, come centrale per divulgare la rivista. Come per il precedente numero Le Periferie Freepress #11 avevo estratto il testo Latte alla portoghese e poi performato con Benedetta, o come, ancora prima, avevo rappresentato prima con Francesca e poi con Benedetta La favola del fuoco, che a sua volta era un estratto di Glacoma Sicu, così ora è venuto il momento di proseguire l’affabulazione e metterla in scena, solo che, siccome quando ho scritto questo testo che stai leggendo eravamo in pandemia, non potevamo provare e rappresentare, a meno che non utilizzavamo le dirette. Webcam, smartphones, cuffie bluetooth con microfono, stanze insonorizzate. Questo il kit necessario. Oltre al PC, chiaro. Ognuno è un terminale che si collega all’altro. Lettura collettiva, a due voci, singola... questo si vedrà. Maschile, femminile. Stili e timbri, pause e intonazioni. La fonetica. La voce. Le casse di risonanza. Usare il proprio corpo. Prestarlo a un evento. Farlo nel tempo libero, perché il volontariato è un hobby, mai un lavoro. Non è e non può essere retribuito; può invece essere una palestra, un centro di produzione senza diritti e senza doveri. Come si evince, tutto parte da un medium. Con Ognuno per sé partiamo dall’oralità e vi ritorniamo in modo seriale. La analizziamo, la studiamo, la facciamo propria e la interpretiamo per restituirla con una parte di noi. Arte che parte. Sono tentato di copiare e incollare il testo, sono tentato di copiare e incollare il link dove metterò la registrazione, ma qualcosa mi trattiene, non lo trovo giusto senza l’autorizzazione di TBoy. Sicuramente sarebbe d’accordo, ma c’è un altro elemento da considerare. Non voglio svelarlo, è prematuro. È tutto così puro, acerbo e fresco che ha bisogno di sedimentare, in una terra accogliente. La ciela il terro. Questa confusione di generi, interculturale, transculturale, elementi antropologici connessi e interscambiabili, eppure con una loro dignità e identità fluida, tuttavia. Il periodo storico che viviamo è di grande cambiamento. I media mainstream si allineano a divulgare news di ciò che il sistema afferma, fanno da cassa di propaganda. Occorre saper discernere. Essere critici, formarsi, appunto, una coscienza critica individuale per sapersi confrontare con l’esterno. Lo scambio di opinioni tra noi di Arrivo determina le nostre scelte artistiche, i temi da trattare, spesso latenti. Marketing cooperativo? No, non direi, piuttosto Creative Commons, gente.

Si fa squadra. Il gruppo ha iniziato a registrare i brani contenuti nel freepress. Con Giacomo stiamo approcciandoci al materiale utile per il prossimo numero, il #13. Abbiamo un artista suo conoscente che produce vignette e illustrazioni psichedeliche, abbiamo poi visitato siti di informazione su Dr. Alexander Shulgin e Ann Shulgin, i coniugi americani che sintetizzavano e sperimentavano sostanze psicoattive, e introdurremo Gina la Fanzina, un inserto umoristico. Abbiamo incontrato Carlo, col quale avvieremo un progetto di scrittura in 4. Questa è la materia nobile del futuro prossimo, in questi incerti tempi di passaggio dell’anno vecchio a quello nuovo, con la solita corsa all’acquisto dei regali e la tosse persistente.

Questi sono i coniugi Shulgin, lui non c’è più, ma lei è viva e vegeta. Per dare un’idea della percezione che si ha di loro, in America, riporto un’immagine dell’immenso Alex Grey:

Dove ci si approccia in modo alchemico alla realtà.

E poi, dato che siamo in dirittura d’Arrivo, ci sono i tesseramenti per il prossimo anno da fare, nuovi o rinnovi. Dimenticavo una cosa importante. La Pace. È un componimento scritto agli inizi dell’associazione, che è giusto ritirare fuori e non farlo ammuffire nel cassetto della memoria del PC. Che parola semplice, e complessa, Pace. Significa essere contro la guerra, in ogni forma. Gino Strada afferma che lui non è pacifista, lui è contro la guerra. Ciò significa che la guerra va combattuta con ogni mezzo. Anche con lo streaming. Stream da flusso. Flusso è anche il nome del collettivo cui collaboriamo. La nostra coscienza si allarga. Solve et coagula.

A volte mi capita di rielaborare quello che scrivo. Sono da solo, magari guido la macchina, e compongo. Compongo pezzi che devo aggiungere a questa narrazione, ma non li appunto da nessuna parte. Per esempio, a volte mi viene in mente di scrivere di e su Roberto, il suo calvario finale, quegli ultimi giorni sul letto dell’ospedale che non si dava pace. Era uno strazio vederlo, voleva strappare le lenzuola e chiedeva una sigaretta. Io mi avvicino e gli do da bere, e lui mi riconosce e ringrazia. Poi dovevo andare a lavorare e lui muore. Torno in ospedale e lo vedo. Scoppio a piangere. Un amico-fratello maggiore che non è più con noi, fisicamente. Qualcuno che mi prendeva sempre in giro per aver messo in copertina del libro sull’associazione la foto di Danielone. Non la metterò qui. Io e Dani eravamo radicali e abbiamo trasferito questo sentimento nell’associazione. Tocca a me portarla avanti, in memoria sua. In memoria di Milena, che ha permesso con i suoi soldi di registrarla. In memoria di tutti gli sbagli, gli errori, gli strafalcioni commessi nel tentativo di urlare la nostra indipendenza al sistema.

Ho riletto in parte, ho scorso le pagine dedicate al libro Storia dell’associazione culturale Arrivo pubblicato 10 anni fa e disponibile in lettura gratuita all’indirizzo: https://issuu.com/cesvol/docs/desktop. Non sono che circa 35 cartelle e descrivono le attività del primo decennio. Adesso ne ho scritte quasi altrettante, per il secondo decennio, riprendendo elementi del primo, allungandoli e adattandoli al presente. Le macerie del passato col vento del progresso in avanti spingono la nostra navicella spaziale chiamata Arrivo verso l’avvenire. Saremo capaci di pilotarla, di scegliere le giuste traiettorie, di fare incontri fortunati? Vedremo. Intanto, cambiamo scrivania e scrostiamo i muri.

Conclusioni:

L’associazione culturale Arrivo, nel giorno 29 Maggio 2021, è diventata associazione culturale Arrivo APS, ovvero di promozione sociale. Il nuovo Statuto di 12 pagine è stato registrato il 31 di maggio, ovvero 19 anni e 7 mesi e un giorno dalla sua nascita.

Ci sembra un buon inizio.

This article is from: