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IL CHIODO
Si narra che un quadro quando è terminato non appartenga più all’autore, diventa autonomo.
E non è ancora tutto, da oggetto diventa soggetto. Sì, perché è lui che ti osserva.
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Lungi da lui, la pur minima riconoscenza per l’artefice che lo ha portato in essere, anzi, con indifferenza presenzia all’affastellarsi delle spiegazioni.
- Il soggetto?
- Il soggetto è la luce dell’ombra, innocente e contemporaneamente ermetica.
- E il prezzo?, incauta domanda.
- Il prezzo..., l’esterrefatta risposta.
Contabili, investigatori: che fatica titanica! Possibile che non entrino nell’opera, il prezzo e le similitudini?
- Mi sembra che riprenda i motivi...
- Assomiglia a...
- È carino!, colpo imparabile e finale.
In bella mostra sulla parete, pieno di sé, è noncurante della solitudine del suo papà in una guerra persa in partenza.
- Quei segni non sono altro che le cicatrici dell’anima, dice una signora competente.
- E l’autorizzazione per questa affermazione da chi l’hai avuta?, risponde l’amante, (ancora per poco), incompetente.
- È chiaro, è monocromatico, sentenzia la competente.
- Che l’anima fosse monocromatica mi era ignoto, glissa l’incompetente.
- Riflettici!, ribatte la competente.
Il caso volle che l’incompetente fu inghiottito dalla folla.
- In tutta onestà, debbo confidarle che non capisco il significato della luce dell’ombra, la sua innocenza, l’ermetismo. Vedo segni, macchie, insomma non distinguo nulla. Mi perdoni, ma ho bisogno di aiuto.
Lo chiede un visitatore, senza sarcasmo, ma con sincerità, senza il “avrei saputo farlo anche io”
- Spiegare l’astratto è complesso. Personalmente lo associo al trascendente, ciò che travalica il senso comune, che corrisponde solamente a un mero numero statistico. Non so se ho trasmesso il concetto. - risponde l’artista sorpreso dalla franchezza.
- Assolutamente no. Comunque da profano mi colpisce, lo guardo come se osservassi quello che non c’è, risponde il visitatore.
- Grazie, cosa migliore non poteva osservare. Dice di non aver capito, però vede! È stato più chiaro di me!, risponde il padre putativo dell’opera, che poi continua: Si dice che l’opera non appartenga più all’autore e ha una sua autonomia. Vede il mio quadro, così in bella mostra, tronfio per gli sguardi che lo avvolgono? Bene, anche se ha conquistato la sua indipendenza, manca pur sempre di una visione, la visione non dell’apparenza, ma di ciò che è oltre e, allo stesso tempo, davanti a noi. Ma, d’altronde, oramai non mi ascolta più.
L’onesto visitatore, indeciso tra un cordoglio di circostanza e il dubbio di stare a giocare a biliardo con il cervello, optò per un drink assolutorio.
Con le zampe anteriori accavallate e il catalogo in bocca, si rese conto di aver sbagliato mostra, lo avevano ingannato! Non era quella canina. E per di più con una sola opera in esposizione. Chissà chi sarà mai questo, deve essere proprio importante, pensò. Non aveva voglia di uscire quel giorno, non aveva grattato alla porta come al solito. L’aveva intuito che non ci sarebbe stato niente di buono per lui. Nulla da annusare, neanche un albero per marcare il territorio, che dire, almeno un osso usato! Solo patatine fritte. Le odiava. Poi tutta quella gente! Era così deluso che avrebbe sbranato il primo sguardo compiacente.
- È suo? Che bello! Maschio o femmina?
Ecco, ci mancava anche questo, guaì appoggiando il muso sulle zampe.
- Non è un vezzo che ci sia una sola opera esposta, in una mostra c’è un concentrato del mondo. Il tutto e una parte del tutto, spiegava il critico che guardava di sottecchi il catalogo finito in bocca al nostro amico. Un’opera come questa è la sintesi finale della parte del tutto! Non c’è bisogno di altro.
E altro non è stato chiesto.
La proprietaria del cane, riconoscendo la voce della signora competente le chiese: Mi scusi, mi aiuterebbe a prendere un bicchiere d’acqua?. La proprietaria era ipovedente.
- Certo, la vuole liscia o gassata?
- Gassata, mi mette più brio. A parte la stupida battuta, non volendo, ho sentito che lei ha visto nell’opera monocromatica i graffi nell’anima. Quindi lei esclude che l’anima abbia colori, e per parlare io di colori è tutto dire!
- Vorrei tanto approfondire, purtroppo sto cercando una persona che è venuta con me e ora non so dove sia. Mi scusi tanto.
- Forse si sarà persa nell’arcobaleno, mormorò, prendendo il cane e incamminandosi verso i “suoi colori”.
- Sembra che va bene, la gente è interessata e partecipativa. È venuta anche una cieca!, disse l’organizzatore all’artista.
- Dire “è venuta anche una cieca” non mi sembra il massimo. Comunque, i “non vedenti” percepiscono più di quanto possiamo immaginare, tra sentenze e commenti, sarà entrata più lei nell’opera di chiunque altro. Peccato che è andata via, mi sarebbe piaciuto fargliela toccare, l’avrebbe anche sentita!, concluse il pittore.
- Che avrò mai detto di male, sempre strani questi artisti!, bofonchiò l’organizzatore.
Un signore canuto, accostandosi all’artista con fare noncurante, visto il momento di calma (apparente), ruotando il contenuto del drink per ottenerne chissà quale miscela, buttò là:
- Che fatica mettersi in gioco, non trova?
- Cosa intende?, chiese il pittore.
- Mi riferisco alle opinioni lontane dalle nostre intenzioni, doversi avvalere di traghettatori di concetti, mediatori protesi a rubare la scena. Sì, ha capito bene, intendo i critici, non quelli che si limitano a presentare l’artista, mi riferisco a quelli che vogliono creare l’artista!
- Ci va giù pesante..., guardando perplesso lo sconosciuto.
- Crede? Oramai si è creato questo triangolo, l’artista che vuole esporre, l’organizzatore, quello che ha i mezzi e, per sdoganare il tutto, chi mette un sigillo con la propria firma. Se c’è quella firma allora è proprio vero, è un’opera d’arte!, disse il candido sconosciuto.
- Perché lei conosce altre strade per..., ribatté l’artista.
- No. È un semplice prendere atto di questo circolo infinito che porta sempre al punto di partenza. La notorietà non è detto che sia sinonimo di valore, ma tanto è che bisogna pur vivere, diciamo pure, mangiare.
E così dicendo si accomiatò con un insolito inchino.
- O è un collega frustrato, o qualcuno che non riesce a firmare nulla, pensò il pittore.
- Ecco quanto annunciato.
Con queste parole il critico attirò l’attenzione su di sé.
- Ora punteremo una luce “particolare” sull’opera (mai svelare i trucchi del mestiere). Per favore, per favore, si possono spegnere le luci?, rivolto non si sa a chi.
- E dalla superficie bidimensionale emergerà, satura, la profondità! Tutta da esplorare! La luce per favore, la luce!
In certe occasioni manca sempre quella collaborazione mai pianificata ma sempre pretesa.
L’interruttore fu più prezioso dell’opera. Tutti lo cercavano con la speranza del premio “sono stato io a trovarlo”.
Stancamente, un anziano signore seduto con il suo fedele bastone, diede un colpetto all’interruttore che era proprio alle sue spalle e, senza pretendere nessun riconoscimento, fece buio.
Così, la satura profondità prese il dovuto plauso accompagnato da mormorii compiaciuti.
- Ecco la luce dell’ombra! E quando riapparirà la luce “natu- rale” tutto tornerà nell’ipogeo!, chiosò il critico, lasciando il dubbio se avesse raggiunto l’estasi o la totale trascendenza. Quando anche l’ultimo visitatore uscì, l’artista notò che l’anziano visitatore, sorreggendosi sul bastone, stava ancora contemplando l’opera.
La giornata era stata lunga e intensa, ma non volendo mettere fretta ed essere scortese, si avvicinò e chiese: Vedo che sta ancora osservando il quadro o l’installazione, come desidera chiamarla. Prenda tutto il tempo che vuole, ora che c’è un po’ di quiete.
Lentamente l’anziano volse lo sguardo verso l’artista e accennò un sorriso dicendo:
- Grazie, ma non vorrei deluderla e sicuramente non la deluderò proprio io, lei di complimenti e attestati di ammirazione ne ha ricevuti così tanti che non servono proprio i miei. Riguardo la delusione, le debbo confidare che non stavo ammirando l’opera, ma un’altra piccola e all’apparenza insignificante cosa. Prima però le voglio far notare un particolare. Vede, lei sta parlando con me e osserva la mia persona che è in piedi e distrattamente nota che un bastone mi sorregge. Oggetto complementare che è degno sì e no di uno sguardo distratto. Ora, se sono qua è grazie anche a lui, e se posso avere un minimo di eretta dignità ambulatoria è sempre grazie a lui. Anche se il centro dell’attenzione sono io, debbo ringraziare lui se posso essere ancora dignitosamente un po’ più io. Ebbene, stavo riflettendo, è qui che non vorrei deluderla, non su l’opera e il suo artefice, ma sul quel piccolo insignificante chiodo che, inosservato, ha sostenuto il tutto. Pensiero ridicolo, lo so, ma a volte sfugge che anche l’insignificante ha un suo perché.
Così dicendo, l’anziano signore e il suo bastone si incamminarono.
Spegnendo le luci, l’artista, ipnotizzato dal chiodo, osservò che una lagrima di rugginosa gratitudine colava lentamente dalla sua testa.
IL MURO
In pietra o paglia e fango.
Portante o divisorio.
Cupole, volte, grattacieli, un mondo sulle spalle! Che sensazione!
Chiudo, divido, delimito, separo! Altra sensazione.
Assisto passivo a calcoli probabili e improbabili, non ho voce in capitolo.
Resisto per secoli, oppure, ignominiosamente crollo.
Posso osservare un affresco, oppure un soffitto bianco.
Contenere una stanza o un giardino.
Accolgo anime sorde, abbracci sussurrati, teste piangenti.
Divido folli confini, sovrasto gli sguardi!
Maestoso o insignificante, ogni collocazione è una lotteria.
Come il volo della cicogna, dipende dall’estrazione.
Le mie memorie?
Scolpite sul muro, naturalmente!
Progettato “dall’architetto degli architetti”, assurgo a musica solidificata.
Sfoggio linee, incavi, fessure, volte.
Mostro pietre, marmi e stucchi.
Con leggerezza, sostengo anni di storia.
Ammetto di essere un po’ fanatico, d’altronde solo principi e signori mi hanno frequentato, mentre fuori, spesso, le spade incrociavano i bastoni, e i più abbienti erano muniti anche di forconi!
Il motivo dello scontro non mi era chiaro.
Da quello che ho potuto origliare si trattava di gabelle e altre meschinerie rivendicate dall’orda della plebe.
“Meravigliati dalle rimostranze”, i miei signori hanno sempre dovuto circondarsi di nobili cavalieri che giuravano la loro fedeltà a Dio e al Re.
Sono sempre stato ben difeso e protetto, nessun oltraggio veniva ammesso alla mia figura.
Offendere me era un affronto punibile con la gogna, e oltre!
Oggi, ancora più protetto, non sono più abitato.
Resto memoria dei tempi andati.
Il bar era affollato.
Ancora per poco, poi si sarebbe svuotato.
Ogni giovedì chiusura serale.
Unica concessione, o meglio compromesso, si sarebbero potuti tenere i bicchieri a condizione che fossero poi riposti in una cassetta davanti alla saracinesca.
Altrimenti, fine dei giochi!
Basso parapetto di poco nobile fattura, tufo e calce, era il momento in cui accoglievo natiche di tutte le taglie, piedi di varie misure e, verso l’alba, corpi sdraiati in ebete contemplazione.
Posizione strategica tra il bar, la sabbia e il mare, ideale per il branco libero da ogni inibizione.
Rutti portati via dal vento e valutati dall’inflessibile giuria.
Sbronze finite in mare.
Proposte d’amore.
Sogni irrealizzabili.
Ben diverso dal tiepido giorno transitato da carrozzine, attempate coppie e sporadici amanti clandestini!
La notte vivevo, di giorno riposavo. Turnista per vocazione!
Avevo trovato il mio equilibrio, pur non avendo raggiunto vette di architettonica fattura.
Ma come tutti gli equilibri, la parola stessa lo insinua, sono precari! Basta un nulla che il baricentro esca dalla base.
Come può un muretto, tozzo e lungo, smarrire il suo baricentro e perdere l’equilibrio?
Non chiedetelo a me, piuttosto rivolgetevi alla mareggiata che con un colpo solo mi ha spazzato via sparpagliandomi sul litorale.
Così, il “Consiglio Comunale” deliberò: “...quindi, per un maggiore decoro, nonché per evitare bivacchi notturni, il vecchio muro verrà sostituito da una ringhiera”.
“Sempre meglio del filo spinato” pensai, durante il viaggio verso la discarica.
Senza tregua continuava a incidere, graffiare e scarnire.
Come voler trovare l’anima.
Solo giorni, mesi e anni apparivano in quell’anima introvabile.
Quattro le pareti.
Cento gli anni da scontare.
Il soffitto diventava pavimento nei giorni dispari, e viceversa.
Oramai aveva perso il conto dei giorni dispari e di quelli pari.
Allora inventò un gioco: nei giorni dispari era libero, in quelli pari pure.
Fu così che riuscì a evadere.
Non fu mai più ripreso!
Bombardata da ambo i fronti ero oramai ridotto alla parvenza di una parete.
Senza lati, senza soffitto, né porte né finestre, una vela di pietre in balia del vento.
Macerie, le mie fondamenta.
Ridotta a un rudere, accoglievo cuori frantumati, preghiere balbettanti, respiri sospesi, singhiozzi trattenuti e, “nell’ipocrita misericordia”, l’ultimo desiderio del condannato!
Non posso guardare altrove, sono quello che sono.
Testimone inerme!
Incipit
Agli occhi di Betsabea tutta quella massa di lacchè non contribuiva affatto a dare un senso alla sua vita ma nelle speranze del regista, della troupe, perfino dei curiosi che passavano lì per caso, Betsabea Borromeo e tutta la sua casata davano lavoro e un senso alle vite dell’intera città.
«Dov’è la mia Carrozza? Ho speso milioni per questo set! Qualcuno mi porti immediatamente quella cazzo di Bachmann!»
Lo scanner della telecamera registrava ogni movimento tracciato dai sensori innestati nella catsuit nera della top influencer Betsabea Borromeo. Il regista era nervoso e guardava preoccupato Betsabea fremere sotto il latex. Era sul punto di licenziare tutta la troupe.
All’improvviso la grande porta-garage del set si aprì e, spinta da quattro steward, fece l’ingresso una macchina scintillante e sinuosa come una pallottola d’argento.