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Appeso al cielo
E avvinto alla terra
In risoluto equilibrio
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Nel corrisposto Amore degli Opposti.
Per quanto vorrei baciarti
Mi trattiene la lontananza
E l’irrimediabile assenso del mio cuore Codardo.
1. Lèggiamo il futuro
Nel sangue innocente
Delle nostre bambine.
2. FINITUDINE
Finitudine isolata.
Strenuamente combatte profonda e indomabile, Selvatica, Abbarbicata a fare il greppo
Per qualche sterpaglia nascosta nell’inconscio
E non mi lascia pace.
3. IL SEME SCOMPOSTO
Proteggi senza rivolta
Il seme scomposto nel tuo giardino
Sorridi e non biasimarti
Se disaccudito non cresce al sole
Ma per strade erte e scoscese
E sentieri di nidi scoperti
E trapunti di visioni.
Immoti attimi tra tuoni e coltelli…
Terremoti senza terra.
4. TEMPO
La clessidra singhiozza la sabbia…
Attendere
Se spenta la speranza al pianto dipinto d’un sogno
Compatisco la nostra specie…
Sparano su di me
Granate da cieli più neri più vuoti
Sparano su di me spirali di odio e di nodi d’amore
Sparano su di me
Antigone alla porta del sopruso…
Butto una cicca e la vendetta rifugio di niente d’una vita non scelta.
5. NON TI MUOVERE
Non ti muovere
Se senti soltanto sentori insulsi e assordanti.
Non ti muovere
Se sulla scia dei passanti
Non i sorrisi seducono salute
Ma sordi ingorghi di folle inettitudine
E false tregue dal rancore.
Non ti muovere
Con la sciarpa appesa al collo
Dalla noia,
Ma tenta invece di calarti
Nei loro panni
Che son pur sempre
Più veri
Dei tarli ignoranti
E perduti a capofitto
Nel labirinto della mente.
Hanno una rara purezza
Certi sguardi umani
Annusati di traverso
Nelle mimiche dei volti.
Senza pelle si sente più scura la notte
E si rivolta l’abito diurno
Carogna e conchiglia
Chi passerà a prendermi?
A portarmi via di qua?
A conoscere dove muovermi senza cadere, Senza chinarmi a raccogliere la polvere?
Spiragli d’aria pulita
Nelle fessure della notte.
“Mi dia 4 metri di tubo da irrigazione”“Come lo vuole?”
“In che senso?”
“Sì, intendevo dire il diametro, il foro d’uscita” “Ahh, ho capito. Mi dia quello più largo che ha.”
“Beh, se le serve per il giardino il più grande che abbiamo è quello da 13”
“Va bene, mi faccia un pacchetto, ...ehm mi incarti quello”
...Mi faccia un pacchetto, mi incarti? non siamo mica in gioielleria, penso.
Se sei il commesso di un negozio di ferramenta e ti entra uno che ti chiede di incartarti 4 metri di tubo da irrigazione allora sta pur sicuro che vive in un appartamento al ventesimo piano senza terrazzo. Se poi questo ha gli occhiali spessi, le mani curate, lunghe e affusolate, lo sguardo nervoso di chi non vede l’ora di uscire dal negozio, e siamo in novembre, allora qualche sospetto ti viene.
Gli do la merce, incartata col quotidiano locale di ieri, una busta e se ne esce gentilmente salutando.
Vado istintivamente alla porta e lo guardo entrare in auto, una berlina neanche tanto vecchia ma polverosa. La busta la infila nel baule. Lo vedo con le mani al volante, pochi attimi di attesa e poi l’accensione. Parte con poca determinazione, quasi controvoglia.
Mi annoto il numero della targa, non si sa mai. Rientro al bancone, un cliente mi chiama.
Per tutta la giornata, a fasi alterne, mi viene in mente il tizio del tubo. Sono incuriosito e preoccupato. Ma che posso fare?
Per ora soddisfo la curiosità. Ho un amico poliziotto, lo chiamo e gli do il numero della targa.
“Fammi una ricerca, dimmi di chi è questa targa”
“Che cos’è, ti sei fatto l’amante?”
Fa lui ridendo:
“Magari, qua non si batte chiodo.” faccio io scherzando.“Scusa devo mettere giù, il titolare mi chiama.” Fortunatamente l’ambiente di lavoro non è poi malaccio, siamo solo in due, io e il titolare. La ferramenta è piccolina, quello che basta a servire un paese di periferia senza farsi inghiottire dai vari Bricocenter. E il titolare mi ha preso come un figlio, lui che figli non ne ha. Mi dà fiducia, apro e chiudo il negozio, faccio gli acquisti, e mi lascia fare anche qualche telefonata privata. Il giorno dopo l’amico mi richiama: “Ho i dati che mi hai chiesto. L’auto è intestata a una società fallita, ti do gli estremi e anche il nome dell’amministratore, che presumo sia quello che usa l’auto”
Sempre molto premuroso l’amico, delle volte mi viene da pensare che non abbia poi molto da fare.
Strappo il foglio con le annotazioni appena trascritte e me lo metto in tasca. Avrò qualcosa da fare stasera.
Alla sera chiudo il negozio e mi dirigo verso casa. Mia moglie mi accoglie con il solito sorriso di circostanza.
“Com’è andata la giornata?”
“Come al solito” faccio io, “Anzi no, è successa una cosa strana”.
E le racconto del cliente che ha acquistato il tubo per irrigare e dei miei sospetti.
“Maddai” fa lei, “tu vedi storie nere dappertutto” “E se fosse vero?”
“Vero cosa? Che si è comprato il tubo per irrigare il giardino dei suoceri che magari l’hanno rotto, oppure che l’ha preso per un amico che gliel’ha commissionato”
“Mah, sarà”...
Dopo cena i pensieri si affastellano. Mentre mia moglie mette a letto il bambino cerco l’indirizzo dell’amministratore.
Internet, Pagine bianche, trovato! Ma è qui vicino!
“Amore, esco un attimo” urlo a mia moglie, ma non mi sente. Prendo il cellulare, la chiamo dopo.
Salgo in macchina, mi sembra di essere un detective. La cosa mi turba e mi eccita allo stesso tempo. Vorrei avere ragione, salvare in extremis una vita e nello stesso tempo vorrei che non accadesse, che tutte le mie congetture si rivelassero sbagliate.
Salvare una vita? direte voi, certo perché, se ancora non si è capito, io sono quasi sicuro che quello là ha intenzione di farla finita col gas. Sì, col gas di scarico della macchina. Basta avere un po’ di nastro adesivo da pacchi, del tubo per irrigare e il gioco è fatto. Mettici pure un po’ di sonnifero per non accorgersi del salto, e il gioco è fatto.
Mi suona il cellulare, è mia moglie.“Ma dove sei finito?”
“Scusami amore, mi sono dimenticato una cosa, poi ti dico. Non faccio tardi. Un bacio”.
Non ricevo nessuna risposta ma un eloquente click. Sarà sicuramente incazzata, ma dovevo uscire, devo assolutamente darmi una risposta.
Ci metto cinque minuti per arrivare all’indirizzo in questione. Parcheggio in prossimità ed esco. È buio pesto, sono le ventuno e trenta. L’illuminazione scarseggia, cammino tra i vari condomini di periferia alla ricerca del numero. Eccolo, un palazzo non tanto grande, cinque piani appena. Ed ha anche dei grandi terrazzoni. Allora magari mi sbaglio, non sarebbe la prima volta.
Mi avvicino al portone di vetro dell’entrata, fortunatamente è illuminato e mi metto a leggere i nomi sui campanelli. E subito sento il click del portone che si apre, ne esce un ragazzo che gentilmente mi lascia aperto. Colpo di fortuna insperato. Intanto sono riuscito a scoprire a che piano vive il nostro. È proprio al quinto, l’ultimo. Prendo l’ascensore, ma decido di salire al quarto. Mi avvicino allo specchio e mi guardo gli occhi, mi pettino come se stessi per andare ad un appuntamento. E vedo riflesso nell’angolino dietro, mezzo nascosto sotto la moquette dell’ascensore, un qualcosa che sembra un anellino. Mi chino a prenderlo ed è proprio un anellino, o meglio, una fede nuziale. Leggo distintamente al suo interno due nomi e una data incisi. Il nome maschile corrisponde al nome del nostro. Sarà un caso? Nel frattempo l’ascensore si ferma e la porta si apre. Resto interdetto per un attimo, quel tanto che basta affinché le porte comincino a richiudersi, e allora le blocco ed esco. Con la fede nuziale in mano cammino sul pianerottolo rischiando di urtare l’enorme pianta di ficus appoggiata alla parete. Salgo le scale, devo andare al quinto. La temperatura si fa più mite, sembra quasi più umido. Sul pianerottolo una sola porta, segno che l’appartamento copre l’intero piano. Mi guardo intorno, ci sono vasi di piante dappertutto. Il pianerottolo è talmente grande che nell’angolo a destra della porta dimora un generoso abbaino dispensatore di luce diurna. E infatti sotto la vetrata campeggia orgogliosa una scala piena zeppa di vasi con piante di un verde quasi accecante, talmente lucide da sembrare finte. Sono talmente attratto che mi avvicino, ma non è solo curiosità. È ammirazione.
Mi chino a sfiorare le foglie della prima pianta che mi si presenta davanti, quasi con devozione. Trasmette vitalità, sento che è viva, il suo colore mi parla di sé. E per poco non mi metto a parlare con lei, ignaro di essere spiato.
“E’ una specie rara di felce”.
La sorpresa mi fa sobbalzare, mi giro di scatto e vedo il signore che ho incontrato al negozio.
“Buonasera, le piacciono le piante? ...ma io la conosco, dove ci siamo visti?”
“Buonasera, ...ssì, mi piacciono le piante, cioè no... scusi, ci siamo visti al negozio di ferramenta”
E cerco di sfoderare una scusa plausibile che mi venga di giustificato aiuto all’inaspettato incontro. La fede nuziale!
“Ecco dove ci siamo visti, sì, è vero! ...ma a cosa debbo la ...visita? …oppure era di passaggio?” fa lui con un tono lievemente sarcastico.
“Mi chiedevo se questa l’aveva persa lei” e gli porgo la fede nuziale che avevo stretta nella mano destra.
Mi guarda e la prende in mano, la rigira, cercando le incisioni all’interno.
Il suo stupore questa volta non mi sorprende, mi sorprendono i suoi occhi lucidi.
“Sì, è la mia, ...ma la prego, entri”.
Entro in casa, musica classica diffusa, le pareti cosparse di stampe antiche di botanica trasudano passione. I vari cimeli/ memorie/ricordi di viaggio trovano spazio dappertutto, anche in cucina.
Mi fa accomodare in salotto, l’ambiente è caldo, accogliente, il divano flessuoso.
“Dove l’ha trovata?” mi chiede brusco.
“Nel parcheggio del negozio” rispondo io agganciando una balla stratosferica che non so da dove sia scaturita. “E siccome abbiamo una telecamera esterna mi sono rivisto la registrazione. E dalla targa della macchina sono risalito a lei.”
“Complimenti, non so se un altro si sarebbe preso tutti questi fastidi. La ringrazio moltissimo per quello che ha fatto. Questo è un oggetto che significa molto per me.”
“Si figuri, non è stato poi così impegnativo. Ma mi dica, vedo che ha una grande passione per il giardinaggio.”
“Venga che le faccio vedere.”
Ci alziamo dal divano, oltrepassiamo un corridoio larghissimo fino ad una grande porta doppia tipo residenza hollywoodiana. Giunti ad un metro le due porte magicamente scorrono all’interno delle pareti lasciando intravvedere uno spettacolo a dir poco maestoso: una foresta tropicale al quinto piano di un palazzo del centro. Piante altissime, fino a una decina di metri, aiuole piene di vegetazione lussureggiante e un rumore continuo come di pioggia cadente.Guardo in alto, non riesco a capire, l’illuminazione mi confonde.
Frastornato dalla vista e dal calore umidiccio che mi avvolge non riesco a dire niente, ma sono a bocca aperta.
“Ho ricostruito in questa serra, utilizzando una parte dell’appartamento e l’enorme terrazzo, l’ambiente naturale per alcune piante rare e in via di estinzione che abbiamo avuto il permesso di raccogliere e coltivare. Perché sa, non è semplice al giorno d’oggi. Bisogna avere i contatti giusti, dimostrare coi fatti la bontà e la scientificità delle intenzioni, e così via. Noi siamo ricercatori, e questo è il nostro laboratorio.”
“Noi?” faccio io.
“Ora le presento mia moglie, credo stia ancora lavorando.”
Ci addentriamo nella selva cautamente, spostando alcune enormi foglie smeraldo che intralciano il passo. In fondo intravvedo una piccola scrivania con un monitor e lei, la moglie, seduta a capo chino.
“Amore, sono io”.
“Ti ho sentito”, risponde lei con un sorriso voltandosi. “Ti presento ...”
“Ermanno” faccio io, levandolo dall’imbarazzo.
“Piacere, Lucia”, e mi porge la mano destra ruotando la carrozzina elettrica che la accoglie.
“Pensa che Ermanno mi ha riportato la fede che pensavo di avere perduto.”
“No, davvero? Che bella cosa, e che bel gesto. Grazie Ermanno.” “Si figuri, è stato un piacere” ...ma non riesco a dire nient’altro di più intelligente?
Trascorro una delle più belle mezz’ore della mia vita, con due persone innamorate, innamorate come se fosse il primo giorno.
Ad un certo punto mi accorgo che si è fatto tardi, ringrazio dell’ospitalità e me ne vado con la promessa di rivederci.
Entro in casa quasi come un ladro, di soppiatto, per non svegliare nessuno.
Mentre mi occupo delle operazioni normali che tutta la gente fa prima di andare a letto penso a Lucia, che avrà, o meglio, dovrà avere sempre al suo fianco il marito. Entro in camera da letto, mia moglie già dorme. Il piccolo è nella culla, lo guardo e sorrido. Penso proprio che domani mattina racconterò questa storia a mia moglie e le proporrò di andare a trovare quei signori per svelar loro il vero motivo della mia visita di stasera.
Il braccio capitolo 1
Una volta lessi, su Selezione, …o era la Settimana Enigmistica? ...della storia pazzesca di un uomo che aveva subito l’amputazione dell’avambraccio sinistro da parte di un camion in velocità.
Era in macchina a velocità elevata, la capote aperta, il braccio fuori dal finestrino. Il camion glielo staccò di netto, e lui non si accorse di niente. L’effetto anestesia era stato causato dalla forte velocità e dal vento. Se ne accorse solo quando si fermò. E alla vista del moncherino, svenne. Così era scritto sulla rivista. Una storia incredibile e sicuramente inventata da qualche giornalista alle prese con qualche sensazionalismo da “weird tales”.
Fattostà che da allora non sporgo più il braccio dal finestrino.
Quel giorno però era caldo, anzi caldissimo. E allora abbasso il finestrino, l’aria condizionata la reggo solo per qualche minuto. Appoggio appena il braccio alla portiera, senza sporgerlo.Viaggio ad una velocità abbastanza sostenuta, oltrepassando il limite di cinque punti patentati appena. L’aria entra nell’abitacolo con forza, il rumore mi impedisce anche di ascoltare la musica. Però sto bene, la sensazione di freschezza mi avvolge, e ne assaporo il momento.
L’attimo dopo mi accoglie l’adrenalina. Uno schiocco. Il proiettile entra dal finestrino. Si conficca nella spalla sinistra, all’altezza del deltoide. Dolore lancinante. Chiudo gli occhi in una smorfia urlante, portando la mano destra alla spalla. La sbandata è inevitabile. Invado la corsia di sinistra. Sta sopraggiungendo un camion. Mi punto sul freno, la mano destra sulla spalla, la mano sinistra dolorante che non riesce a governare il volante. Sento il clacson del camion. L’auto si di- rige verso il bisonte, cerco di sterzare ma non ce la faccio, sto sempre pigiando sul freno. Il camion sterza alla sua sinistra, cerca di fare il possibile per evitarmi. L’auto si impegna in un testa coda fumante, che non riesce completamente perché il camion mi colpisce violentemente all’altezza dell’angolo posteriore destro. La macchina carambola impazzita, si mette a girare su se stessa. Io non mi rendo conto, non ho più il piede sui freni, la mano destra però è sempre sulla spalla. La testa ballonzola a destra e sinistra. Il posteriore esce dalla banchina. Incontra il vuoto, entra nel fosso. Il muso si alza di colpo. In due secondi mi trovo a testa in giù e la macchina finalmente si ferma, coricata sul lato destro. Il motore urla, odore di fumo e di bruciato. Ho sempre la mano sulla spalla, sento di avere qualcosa conficcato. Il sangue mi appiccica la mano. Il dolore mi impedisce di sfiorare il punto, non riesco a muovermi. La cintura di sicurezza mi tiene aggrappato e sospeso, ma il dolore è atroce. Non riesco a muovere il braccio. Riesco a girare a malapena la testa e vedo una specie di freccia metallica lunga trenta centimetri infilata nella carne. Cosa cacchio sarà mai? E svengo. Non so quanto tempo dopo sono svegliato dal rumore metallico e stridulo di una sega a motore. Qualcuno mi sta aiutando ad uscire e per farlo sta distruggendo la mia utilitaria. D’altronde una scelta bisogna pur farla, e i vigili del fuoco non hanno certo tempo da perdere alla ricerca di soluzioni. Il dolore è sempre più lancinante, ogni piccolo movimento si tramuta in fitte che non riesco più a sopportare. Trattengo a stento le urla, cerco di assumere un certo contegno anche di fronte al dolore, non mi va che mi giudichino una mammoletta.
Finalmente il rumore cessa ed una voce amica lo sostituisce.
“Ci siamo, ora sta tranquillo che ti tiriamo fuori. Come ti chiami?” Biascico il mio nome ma non riesco a finire che svengo un’altra volta.
Capitolo 2
Il risveglio stavolta è in ospedale,
Ho la bocca impastata, una spugna ruvida al posto della lingua, gli occhi che non vogliono saperne di aprirsi, la luce eccessivamente bianca mi innervosisce, ma devo vedere. E vidi. La camera d’ospedale è come tutte le camere d’ospedale, al mio fianco intravvedo la colonnina della flebo, un letto e l’ombra di alcune persone. Il collare che mi impedisce qualsiasi movimento del capo mi obbliga a ruotare gli occhi.
La stanza bianca, la luce diafana, i miei occhi fanno il giro del piccolo mondo che gravita intorno a me e si fermano davanti ad una figura imponente di uomo in camice bianco, col taschino ricolmo di penne ed evidenziatori, forse anche un telefonino.
Non capisco bene, ma mi sta dicendo qualcosa in merito al mio risveglio e alla mia fortuna. Si avvicina alla mia faccia ma non mi guarda negli occhi, è interessato alla mia spalla sinistra. Tocca la parte e sento un acuto dolore, ma non apro bocca. Chiudo gli occhi e faccio una smorfia, e quel movimento mi provoca altro dolore.
“Le fa male?” riesco a sentire chiaramente la domanda. Non rispondo, mi limito ad annuire con un leggero movimento del capo.
Lui allora si rialza e in quel momento vedo una figura minuta che il corpulento volume dell’uomo mi aveva nascosto. “Questa è la dottoressa Laura che la seguirà nel percorso riabilitativo. Buongiorno” E sparisce lasciandomi in compagnia di quell’esserino che gradatamente mi informa sul mio stato di salute.
Ero stato fortunato, ripete la dottoressa, e in quel momento la odiai. Pochi centimetri più in alto e quell’affare avrebbe potuto trapassarmi il collo.
Quell’affare cosa? Cosa era successo? Non riesco a parlare ma il mio sguardo interrogativo ècosì eloquente che la dottoressa capisce e dice: “Lei è stato colpito da uno dei denti di una macchina tagliaerba che stava operando all’altro lato della strada.” E allora mi viene in mente di aver visto il trattore che affondava la benna nell’erba alta del fosso. “Quell’affare si è staccato e come un proiettile è andato a conficcarsi nella sua spalla. Bastavano pochi centimetri più in alto”
Cazzo che sfiga, ma non potevo invece arrivare un secondo dopo? penso tra me e me, guardando compatito l’esile medico.
“Si è conficcato nella spalla forando il muscolo deltoide e scalfendo appena l’osso. Ci sarà bisogno di un po’ di tempo e di riabilitazione ma tutto si metterà a posto. Comunque non ho mai visto una cosa del genere. Ora si riposi, passerà l’infermiera più tardi per la medicazione. Arrivederci.”
“Non ho mai visto una cosa del genere?” penso mentre si allontana e la saluto con un cenno della mano. Ma allora sono stato fortunato oppure la sfiga si è particolarmente accanita?
E ripenso a quella storia assurda, al tipo che perse il braccio e non se ne accorse.
Nel frattempo il dolore si riacutizza, probabilmente l’antidolorifico sta terminando il suo effetto. Vorrei dormire, ma non ci riesco. Il soffitto di quella stanza lattiginosa mi si avvicina, lo scruto, dipingo scenari danteschi. Si apre la porta, entrano i miei genitori. No, non voglio vederli, non voglio parlare adesso, sto troppo male. Mia madre si avvicina, mi chiede come sto, non le rispondo neanche. Mio padre guarda la cartella clinica ai piedi del letto, la legge attentamente e la commenta, lui che ha quarant’anni di officina meccanica alle spalle. Mia madre ha portato il sacchetto con la biancheria pulita, apre il cassetto del comodino, mette i fazzoletti e ci inserisce pure un pacchetto di biscotti. “Sei stato fortunato, sai? Appena due centimetri sopra e ... non voglio neanche pensarci. Ma perché non parli? Stai male?”.
E cosa cazzo dovrei rispondere? Che sono in un letto d’ospedale perché mi avevano detto che organizzano un torneo di calcetto? Guardo mia madre con un misto di incomprensione, rabbia e schiumosa voglia di rispondere. Abbozzo solo uno “Scusate, ma ho un male cane alla spalla e dolori diffusi su tutto il corpo, vorrei stare un po’ tranquillo”.
“Ma se hai dolori chiamiamo l’infermiera” dice mia madre e afferra il pulsante che penzola dalla parete schiacciandolo due volte. La guardo incredulo ma senza dire niente perché è un gesto che non le rimprovero di aver fatto. Sto veramente male.
L’infermiera arriva immediatamente e mia madre la investe prontamente di informazioni sul mio stato di salute. Lei si rivolge freddamente verso di me e mi rivolge un “Dolori?” al quale rispondo con un cenno del capo. Prepara la siringa e in un battibaleno mi inietta un bruciante antidolorifico nel gluteo.
“Per otto ore sei a posto. Buon riposo” e se ne va.
Mia madre la guarda uscire in attesa di un saluto che non arriva e poi si gira verso di me: “Ma che modi, sono tutte così qua dentro?”
Non rispondo, il dolore mi sovrasta.
Mia madre si avvicina al letto e mi appoggia la mano sulla fronte.
“Sto qua io stanotte, non posso andare a casa con te che stai così male. Loro si arrangeranno.” Si riferisce a mio padre e a mia sorella, che sta entrando in questo istante.
“Cosa è successo?” e si mette istintivamente le mani sul viso appena mi vede pieno di ematomi e fasciature. E inizia teatralmente a lacrimare.
Vaffanculo, devo essere proprio preso male!
Avvicinarsi al letto è una sofferenza per lei che non mette piede negli ospedali terrorizzata com’è dalla paura di soffrire. La guardo con pietà mista a dolore fisico perché qualsiasi semplice smorfia del viso mi provoca un male diffuso.
“mioddio, cosa hai fatto?? ma quando è successo?? e la macchina??” sciorina piangendo la drammatica nenia.
Chiudo gli occhi, mi salva dalla situazione la sempre presente mamma, che apostrofa mia sorella intimandogli l’alt.
“Stai zitta, non vedi che soffre??”
Al comando genitoriale si siede su una sedia e continua convulsamente a piangere con il viso tra le mani. Ma mio padre la prende e la porta fuori, cercando di calmarla.
“Tua sorella è una frignona, lo sai com’è. Vent’anni e non saperlo!”
Abbozzo un sorriso. L’ho sempre detto io, ho una mamma intelligente e determinata. E sento che l’antidolorifico sta facendo effetto, mi addormento senza accorgermene.
Ospedale 2
Figuriamoci se mi fermo a parlare con te dopo quello che mi hai fatto. Dopo che ti sei portato a letto la mia (ex) ragazza, e per giunta adesso ti sei messo con un’altra ancora più carina. E questo mi turba ancora di più.
Ti ho incrociato in ospedale, io che mi dirigo verso il laboratorio per ritirare il referto dell’ultimo esame del sangue, solita routine per me che sono donatore, e tu che mestamente vai verso l’altra ala dell’ospedale, quella nuova, dove c’è oncologia. Ho un sussulto, tu non mi hai visto e procedi. Io che ho un attimo di ripensamento e mi giro. Prendo coraggio, ti chiamo per nome.
“Ehilà, Piero!”
“Ciao Marco” fa lui stupito voltandosi, e il suo viso incornicia un mare di preoccupazioni.
“È stupido chiederti cosa fai da queste parti; in genere quando si varca questa soglia non lo si fa certo per divertirsi” dico io “Sì, hai proprio ragione” mi risponde Piero. E nel frattempo abbassa la testa. È dimagrito, il pallore che ha addosso lo rende ancora più magro. Io che son sempre stato suo amico, ma che l’ho sempre invidiato per i suoi modi, per la sua facilità di fare amicizia, per le sue frequentazioni. E poi perché riusciva sempre in tutto, mentre io fallivo.
Mi viene un coraggio insperato e gli dico:
“Sono mesi che non ci vediamo, dove sei finito?”
“Non sono stato proprio benissimo, ho evitato di uscire.”
“Se hai voglia di parlarne, io sono qua.”
“No, guarda, lasciamo stare, ti ringrazio della gentilezza, apprezzo lo sforzo che stai facendo.”
Io mi spingo ancora oltre, stupendomi di me stesso.
“Guarda che il passato è passato, e poi di fronte a certe cose bisogna soprassedere, e andare avanti” dico io mentendo, ma con un profondo desiderio che non sia proprio come la penso.
“Ecco ...”, fa lui convincendosi forse che sono sincero, o forse è solo bisogno di parlare con qualcuno che riesca a comprendere, “...non è il posto ideale per parlare, se vuoi prendiamo un caffè. Io sono in anticipo di venti minuti, e poi loro sono sempre in ritardo, c’è sempre un mucchio di gente che aspetta.”
“Sì dai, prendiamoci un caffè, il bar è lì in fondo.”
Ci dirigiamo verso il bar dell’ospedale. Ho un misto di malinconia, pena e pure dolore. Ci mettiamo a sedere e lui sorride, mi guarda e abbassa la testa.
“Sei mesi fa mi hanno riscontrato un tumore” dice.
Io trasalisco, era quello che immaginavo ma che non volevo fosse. Non volevo sentire. E mi scopro a pensare a quelli che non riescono a pronunciare il nome, cancro, e dicono: il brutto male.
In alcuni momenti della vita ti capita di augurare a chi ti ha fatto del male le cose peggiori. Ma poi ti rendi conto, nel momento in cui ci sbatti il naso contro, che non vorresti mai aver augurato del male a nessuno. E cambi idea in un attimo. Non so cosa rispondere, e che cazzo, ti viene da dire in momenti come questi? Su coraggio? Non ti preoccupare? Si saranno sicuramente sbagliati?
Che cazzo dici? Cosa rispondi a quegli occhi che chiedono aiuto, persi nel nulla, alla ricerca di una piccola, flebile speranza di vita?
… resto semplicemente a bocca aperta e lo guardo. Ed è lui che mi toglie dall’imbarazzo.
“Non dire niente, sono perfettamente conscio di quello a cui sto andando incontro. Non so se ce la farò, speranze ce ne sono, ma ho bisogno di intraprendere alcuni cicli di terapia.
Ne ho già fatto uno, ora devo andare dal medico che verifica gli ultimi esami, ma mi ha già preannunciato che sarà necessario un secondo ciclo per essere più sicuri del risultato”.
Abbiamo 30 anni, siamo stati a scuola insieme, tutto questo non è giusto, penso tra me e me.
Mentre prendo i caffè e li porto al tavolo vedo i suoi occhi brillare. Sono lucidi, prende il fazzoletto e se lo porta al viso.
“Scusami sai, ma ogni tanto ci penso, e non dovrei.”
“Non ti scusare” faccio io e gli porto la mano sulla spalla come per fargli un massaggio, un leggero massaggio “raccontami”
“Ora si è fatto tardi, devo andare. Se ti va usciamo una seraa prenderci una pizza, come ai vecchi tempi.”
“sì certo. Ti chiamo la settimana prossima, va bene?”
“Sì, spero che la terapia me lo permetta” aggiunge con un sorriso che non ti aspetti.
Pago i caffè e ci abbracciamo con la promessa di rivederci. Io resto imbambolato nel vederlo allontanarsi, lo seguo con lo sguardo, mi appoggio al muro bianco dell’ospedale, e mi viene un nodo in gola.
Incipit 2
Il fastidio che provavo sentendo il rumore provocato dal coltello che tagliava le bucce di mela era perfino doloroso. Mi prendeva la gola, la testa, le orecchie. Non lo sopportavo, dovevo allontanarmi. È inspiegabile ma non riuscivo a resistere. Mi veniva persino da vomitare.
Il pensiero correva alla malattia che aveva colpito buona parte della mia famiglia: una follia conclamata che si sviluppava tra i 40 e i 50 anni, e io ne avevo 35. Le prime avvisaglie erano dei dolori cervicali, accompagnati a una sudorazione intensa. Successivamente il dolore si stabilizzava ma subentravano altri scompensi: perdita di memoria, fobie, aggressività e comportamenti antisociali che conducevano inevitabilmente al ricovero in strutture psichiatriche.
Così mio nonno, morto a 79 anni, dopo averne passati più di 30 in una di queste strutture che erano chiamate ospedali psichiatrici, ma che dell’ospedale avevano solo il nome. E poi mio zio, il fratello di mia madre, che riuscì a suicidarsi prima che la malattia prendesse possesso totalmente del suo cervello. Aveva 43 anni, una moglie e due figlie. Ora sua moglie si è risposata e conduce una vita normale.
Ogni giorno vado a trovare mia madre ma non mi riconosce più. Sono ormai più di dieci anni, tredici per l’esattezza, che è “parcheggiata” in un istituto di cura per le malattie mentali. Inutile dire che è imbottita di farmaci e praticamente vegeta. Non so perché vado a trovarla ogni giorno. La guardo, le parlo ma lei non mi risponde. I nostri sguardi si incontrano, si studiano, o perlomeno io studio il suo, ma da lei nessuna reazione. Sto pensando che il motivo per cui non smetto di farle visita giornalmente è perché ho terrore di avere la sua stessa malattia. Ogni momento scruto e scandaglio il suo comportamento. Mi porto un taccuino dove annoto giorno per giorno anche ogni semplice cambiamento. A scadenze regolari, una volta al mese, porto i risultati del mio monitoraggio ad un medico.
Prendo appuntamento presso il suo studio, normalmente alla sera dopo il lavoro. Per lui è normale orario di visita, e allora entro in sala d’aspetto e mi siedo aspettando il mio turno. Guardo le stampe di anatomia appese alle pareti, apparati digerenti, stomaci e fegati sezionati. È un gastroenterologo, è il mio medico di famiglia, conosce per filo e per segno tutta la nostra storia familiare. Ha più di settant’anni ed approva scientificamente quello che sto facendo. Gli interessa anche, spera che un giorno o l’altro si possa venirne a capo. Conserva in una cartellina tutte le mie schede mensili, annotando in un file ogni comportamento ripetitivo od anomalia degna di nota. Riferisce poi ad un collega psichiatra col quale ha un rapporto confidenziale molto stretto e successivamente me ne parla. Fra poco è il mio turno, prima di me c’è una ragazza pakistana che avrà sedici anni, incinta, accompagnata da quello che presumo sia il marito. Sembra che abbia più di trent’anni, timido e taciturno. Lei invece parla al cellulare senza curarsi del prossimo, animata ed a voce alta. Ogni tanto si rivolge al marito, il quale si limita ad un cenno del capo. La porta si apre, un paziente esce e lascia il posto alla ragazzina incinta ed al marito. Sono rimasto solo, sono l’ultimo. Mi alzo in piedi e passo in rassegna le stampe di anatomia. Sono antiche, del XIX secolo. Sono state sicuramente strappate da un trattato di medicina, penso a quel povero libro squartato, le pagine incorniciate come parti di un corpo mutilato ed esposto al pubblico. Di fianco un calendario di una casa farmaceutica con foto di paradisi tropicali, per trasmettere un senso di vitale speranza all’eventuale utilizzatore della loro medicina. A me fa l’effetto opposto, quasi una presa in giro. Spero di non aver mai bisogno del loro prodotto. Improvvisamente mi suona il telefono. È Paolo, un collega di lavoro.
“Ciao, ti disturbo?” chiede
“No, sono in attesa dal medico ma dimmi pure”.
“Hai problemi?”
“No, sono qui per mia madre” faccio io.
“Ah ho capito. Volevo chiederti se dopo vieni a prenderti una pizza con noi. Sai, siamo i soliti. Due risate, pizza e birra e poi a casa.”
“Sì, volentieri, passo dopo alla solita pizzeria allora?”
“Perfetto, intorno alle 20/20,30. Ti aspettiamo, ciao.”“Ciao”. Mentre penso che sarà una serata all’insegna dell’ordinario, la porta dell’ambulatorio si apre e la ragazza incinta esce col suo compagno. Il medico mi accoglie con la sua solita gentilezza, alzandosi dalla sedia e dandomi la mano. Certe volte penso che tutta questa gentilezza nasconda della pietà e, soprattutto, nasconda una verità che non riuscirei a sopportare.
“Buonasera Riccardo, come va? Ci sono novità?”
“Buonasera dottore. Non saprei. Ho annotato tutto nel taccuino, se vuole leggere...”
Prese gli appunti e cominciò a sfogliare dapprima tutte le pagine. Poi alzò gli occhi verso di me e disse:
“Mamma mia quanta roba hai scritto. D’altronde, è un mese che non ci vediamo. Hai notato qualche cosa di nuovo?”
“Mah, ci sono delle piccole variazioni comportamentali, tipo quando alza gli occhi al cielo ad ascoltare gli uccelli cantare, oppure abbozza un timido sorriso quando gli porgo la mano. Ma non so se siano cose importanti. Poi ce ne sono altre, le ho scritte nel quaderno”.
“Allora le leggerò con calma, ora è tardi. Ma dimmi di te. Come ti senti?”
A quella domanda trasalii. Ogni volta che ci vedevamo quella domanda mi faceva un brutto effetto. Sapevo di essere a rischio, e c’erano serie probabilità che io potessi sviluppare la malattia. E a quella maledetta domanda non sapevo mai come rispondere. Pensavo che qualsiasi cosa potessi dire avrebbe potuto avere un effetto negativo. Ero cambiato dal mese prima? Ero diventato più aggressivo? E mi venne in mente il litigio fatto con un collega ambizioso ed arrogante, e di come io mi ero accalorato tentando inutilmente di farmi valere. Era forse un inizio di instabilità? Ormai questa cosa la vivevo con un’ansia tremenda. Sapere che forse da un momento all’altro qualche rotella se ne sarebbe partita per non tornare più non mi faceva vivere bene. Non pensavo ad altro che a quello. Ogni giorno, ogni minuto.
“Abbastanza bene direi, non mi pare di notare differenze dal mese scorso” risposi.
La mosca che ronzava fastidiosamente sopra di noi si posò d’un tratto sul mio polso. Tentai di schiacciarla con una mossa veloce ma non feci altro che schiaffeggiarmi inutilmente il braccio. Ricominciò il suo volo scampanato incurante delle mie nervose reazioni.
Il medico mi guardava con interesse, si direbbe che mi stava proprio studiando. E questo mi dava ancora più fastidio. Cinque minuti dopo mi congedò con la promessa di rivederci il mese successivo.
Uscii dallo studio e salii in macchina pensando al mio comportamento, elencando mentalmente le cose che mi urtavano, dal fastidioso rumore di mela sbucciata al cane che ululava, dalla vista delle unghie nere alla polvere tra i tasti del computer e lentamente cercavo di dare una cronologia, se quel tale fastidio l’avessi sempre avuto oppure si fosse sviluppato o acuito da poco.
Non riuscivo a darmi pace, la memoria mi faceva difetto. D’ora in poi decisi che avrei tenuto un quaderno pure per me. Mi avviai verso la pizzeria con il desiderio che mi venisse un mal di testa tale da rinunciare. Non avevo voglia di vedere nessuno, tantomeno i miei colleghi. Mi assalirono però i sensi di colpa. Altre volte avevo rinunciato, per un motivo o per l’altro, e non mi andava di dare buca un’altra volta. Mia madre era (dovrei dire “è”) cattolica, praticante e così devota che aveva un sacco di immagini di santi e sante sul comodino. Andava a messa ogni domenica, spesso anche il sabato, e non si perdeva nessun funerale, anche di semplici conoscenti di cui magari aveva solo sentito parlare. Aveva tentato di insegnarmi un certo tipo di morale, che io non avevo proprio assimilato del tutto. Di questo insegnamento mi era rimasto però il rispetto per le persone e una certa dose di correttezza. Per questo di fronte all’impulso di desistere e tornarmene a casa ho scelto la pizzeria. Durante il tragitto era mia mamma che mi guidava, che mi assisteva nella guida, indicandomi quando frenare e che distanza tenere dall’auto davanti a me. E non parliamo dei semafori e delle strisce pedonali. Ero come in trance, un altro corpo dentro il mio aveva ragione della strada e dell’auto. Mi trovavo ad eseguire degli ordini, e neanche controvoglia. Mi sembravano più che altro sani consigli, e li accettavo senza battere ciglio. Arrivato al parcheggio della pizzeria mi fermai e presi carta e penna. Annotai queste sensazioni con dovizia di particolari e rimasi a riflettere per più di dieci minuti, cercando di scovare qualche verità nascosta. Quand’ero piccolo era lei che mi accompagnava a scuola e mi veniva a prendere. Mi aiutava a fare i compiti, preparava la merenda del pomeriggio e aveva sempre la parola adatta per farmi sentire a mio agio. Anche quando sbagliavo e mi arrabbiavo aveva un particolare modo di sgridarmi e di farmi capire le cose che ora considero un gran dono, una capacità di dialogo ed ascolto che non ho riscontrato in nessun’altra persona. Mio padre lo vedevo qualche volta alla sera, rientrava tardissimo dal lavoro e spesso io ero già a letto. Alle prime avvisaglie del male, con tranquillità dico io, si defilò. Sparì ed andò a vivere non so dove con la sua amante che presumo frequentasse da anni. Penso che per lui fu decisamente quello che si aspettava. Poteva finalmente vivere la sua vita alla luce del giorno senza ansie da clandestinità. Io avevo 20 anni,ormai mi sapevo arrangiare ed avevo già un lavoro, mia sorella ne aveva 18. Rimanemmo nel nostro appartamento, lui contribuisce tuttora alla retta della mamma e finché mia sorella non trovò un lavoro ci versò un congruo assegno mensile. Non lo vedo da anni, ma non mi manca. Mia sorella se n’è andata dopo il matrimonio, circa 4 anni fa, e da allora ci sentiamo ogni giorno al telefono. Non parliamo più della condizione della mamma, è una nostra scelta. La ricordiamo semmai per come era; parlare dell’oggi ci sembra ingiusto e lesivo, addirittura offensivo. Non parliamo di nostro padre per lo stesso motivo ma con una prospettiva diametralmente opposta. Guardo l’ora e mi accorgo che è tardissimo. Scendo dall’auto pensando che dovrò inventarmi un ritardo del medico per potermi giustificare. Entrando in pizzeria mi assale un senso di vuoto. Mi devo fermare, è come se fossi sull’orlo di un baratro e non vedessi l’ora di saltare. Non è paura, al contrario è una sensazione bellissima, di serenità. Sto fluttuando, sono sospeso da terra, quasi volo. Ma in un attimo tutto scompare. Mi guardo intorno e sento la pesantezza riprendere il mio corpo. Tiro fuori il bloc-notes ed annoto luogo, ora e sensazioni.
In pizzeria sono già tutti seduti e con la pizza sul piatto. Mi scuso per il ritardo accampando la frottola del medico e mi siedo. La cameriera mi si fionda subito addosso col listino e mi metto a leggere. Lei è in piedi che mi aspetta spazientita, si vede che sta per finire il suo turno. Chiudo il menù e le ordino una margherita e una coca. Mi secca avere qualcuno che mi soffia sul collo, le restituisco il listino e mi metto a parlare con gli altri. L’arredamento opprimente del locale mi disgusta. Colonne, dorature e specchi dappertutto. Mi confonde mentre sto parlando con la collega seduta accanto a me. Al bancone un gruppo diragazzi è alle prese con la divisione del conto e stanno innervosendo la cassiera.
Insegnamenti di sciamanesimo urbano:
Gramigna.
La gramigna conosce segreti e misteri. È la capacità di chi non vale niente, benedizione della crepa. Non la gramigna di campagna, vincitrice dell’eterna guerra perché sempre in piedi dopo ogni abbattimento, ma l’umile, inquieta erbaccia di città, quella che, tentando di colorare, rivela la forza dominatrice del grigio.
L’esercito dei campi affonda e spinge e più affonda più spinge, e non ha tempo di ascoltare.
Il filo verde fra i mattoni e i sampietrini, invece, aspetta gli operai del comune, quei primati senza volto e pietà, e intanto cerca di capire. Non ha molto altro da fare, in fondo.
Ha sofferto, la gramigna. Ha sfruttato ogni granello di polvere, ogni concava ruvidezza, ogni residuo di maternità. Ha sussurrato ascesa, ha discusso con se stessa di circolarità, ha canticchiato la semplicità e ha riscritto la violenza.
Si è fatta largo nell’aria opzionata, ha frusciato nel rombo, ha fatto buon viso a incosciente risata.
Conosce misteri. Sa chi ha messo la bomba, chi ha buttato la cicca, chi ha sedotto l’ubriaca.
E conosce segreti. Ma non li dirà. Né al primate né al topo. Né al cane che annaffia né alla rondine che sogna.
Uno solo ne esprime, per chi può comprenderlo.
È il segreto della forza, della sua stessa forza. Ma è un discorso complesso, per chi sa seguire la via della crepa in direzioni accennate, irrigare la polvere o sprecare semi in città.
27/08/2020 -19.15 circa, bar Fibonacci, Città della Pieve.
Quant’è bella, La sora lella. È bella la sora lella, è proprio bella la sora lella, che non si sa quanto sia bella la sora lella. Insomma, la sora lella è proprio bella in quanto è proprio lella la sorella, ecco, la sorella della lella è una avventura bella, la proprio lella è bella della sorella della lella della mamma della nella la sora lella approssima la sorella della lella nella mammella della sorella nella figlia della lella la mamma e la sorella della lella è la mamma della nella in quanto la lella è abbastanza bella come la sorella della lella e la figlia della nella ha un qualcosa che somiglia alla nella della mamma della sorella della figlia della lella e la nonna della lella e la zia della nella e la sorella e la mammella e il digestivo della nella e questo è il risultato della mammella e la sister della bella, e la dama della nella, la concetta della lella, e la catena della bella, e la sandrina è pur bella, e questa è sua sorella la figlia e la mamma e la nonna e la zia, la cugina e la nipotina, e quella sua gattina coi piedini e la lella, eccola la sorella della bella e la mamma e la figlia e il cuoricino la bella e la dentista della cappella e la nostra moglie è pure una nella, è tutta bella, è tutta strana, è tutta cantata, è tutta ammogliata, è tutta quella.
Destiny
I wanna know my destiny after my Polish experience because life is like a great direction to the death.
Il destino
Voglio conoscere il mio destino dopo la mia esperienza in Polonia perché la vita è come una commendevole direzione verso la morte.
Przeznaczenie chcę poznać swój los po moim doświadczeniu w Polsce ponieważ życie jest jak godna pochwały droga ku śmierci.
La
Terra Il cielo Urla storie infinite per darci la Terra promessa, di vetro.
The Land
Never ending stories some sky screaming to give us promised, glassed land.
Ziemia Niebo krzyczy niekończące się historie daje nam tłum. Jolanta Maria Dzienis
Ziemię obiecaną, ze szkła.
“Perugia, quarto piano, cinque uomini, sei donne, 21 ottobre 2021, è ancora Bilancia o è già Scorpione?”
Questo disse tra sé e sé Guerino Marinaro, mentre con trepidante entusiasmo ammirava il distributore automatico che terminava di riempirgli il bicchiere di carta riciclata con la cioccolata calda che aveva selezionato con ansia fanciullesca.
Decise di addolcire l’attesa prima di sentirsi chiamare per entrare nella grande stanza vetrata.
“Bilancia, sì, sicuramente Bilancia, magari cuspide Scorpione, ma ancora siamo sotto il segno della Bilancia, dominata da Venere tra l’altro. Allora, cinque più sei uguale undici con lo Yin maggiore dello Yang a livello energetico, tra l’altro.
Due più uno più uno più zero più due più zero più due più uno uguale nove, quindi sommando undici a nove fa venti, cioè due più zero ovvero due; in più quarto piano sta ad indicare il numero quattro che è il quadrato di due, tra l’altro ... mmmm... interessante!”, pensò.
“Il numero 2, il primo numero femminile, il numero della Luna, è detto della sapienza, del verbo, della parola divina, tra l’altro ... il tutto nella laica Perugia!”, rifletté ancora.
Intuitivamente, mediante un’ossessiva interpretazione divinatoria di vaga ispirazione taoista, dove sincreticamente con tanta originalità miscelava la lettura astrologica caldea alla numerologia pitagorica, era alla ricerca di indizi su ciò che di lì a poco, loro, gli avrebbero chiesto.
Guerino Marinaro, come avrebbe detto sua nonna “teneva i capilli a la mascagna” e li impomatava con una brillantina stile anni Trenta all’essenza di mallo di noce, dal pungente sentore di goudron e cuoio bagnato, difficile da acquistare. Per questo pretendeva ossessivamente di averne sempre una confezione con sé.
Dietro dei grandi occhiali da vista a goccia, con montatura dorata e lenti fotocromatiche, aveva dei piccoli occhi magnetici dal colore nero mediterraneo, sempre in fibrillazione, lo sguardo fulmineo testimoniava la rapidità di osservazione e di analisi, mentre la carnagione olivastra bruciata dal sole esaltava il suo physique du rôle che rimaneva inalterato benché non fosse più giovanissimo.
Univa a un vero e proprio outfit di abiti degli anni Settanta e Ottanta delle suppellettili di mode attuali, chiaramente ispirate al design dell’epoca, tanto da renderlo nella sua eccentricità oltre che vintage decisamente retrò.
Anche quel giorno difficilmente passò inosservato visto che impazzò nella sala d’attesa e per i corridoi atteggiandosi da damerino col suo ridicolo completo verde acqua abbinato a una vistosa camicia rosa shocking, impreziosito da un ascot di seta con variopinte fantasie floreali al collo e ai piedi da scarpe di pelle effetto coccodrillo tipiche dei tangueros più sanguigni. Queste a turno le sfregava ossessivamente sulla parte posteriore del pantalone a ridosso del polpaccio pur di non vederle anche solo minimamente impolverate.
Colpa di sua madre che a modo suo, con la volontà di togliergli di dosso l’aria da pezzente data dalle umili origini, gli aveva fatto intendere che la classe di un individuo si denota subito dalle calzature per cui era opportuno che lui indossasse sempre un paio di scarpe eleganti, mai banali e soprattutto belle lucide.
Quella santa donna, neanche tanto santa, in realtà, sempre a modo suo lo indirizzò anche alla devozione per l’arte oratoria ricordandogli che i veri “Signori”, quelli con la esse maiuscola, sanno parlare bene e lui, contrariamente a lei, avrebbe dovuto imparare a farlo in fretta senza smettere mai di perfezionarsi.
Seguì con dovizia quest’ulteriore insegnamento materno tanto da leggere negli anni tutto ciò che gli capitò a tiro e assorbire come una spugna tutto ciò che riuscì ad ascoltare intorno a lui.
Ciò gli permise di sviluppare una sua singolare capacità espressiva, crocevia tra la parlantina di un folkloristico piazzista viaggiatore, l’ironia di un sagace comico d’avanspettacolo, le passionali arringhe di un avvocato penalista da trincea, la spigliata dialettica di una raffinata guida per turisti stranieri e l’enigmatica eloquenza di un sapiente conoscitore di discipline misteriche, in sostanza gli permise di coniare una sorta di inedito e personalissimo “esperanto” comunicativo perennemente in aggiornamento.
La sua andatura molleggiante, quasi a ricordare il primissimo Celentano, non risultava un flettere forzato, ma un felino andare flemmatico spontaneo come quello di un gatto selvatico, sempre pronto a scattare al primissimo campanello d’allarme, ancor più al suono vibrante di qualsiasi melodia musicale che al volo lo faceva muovere e ancheggiare sinuoso seguendo meravigliosamente il ritmo.
Afferrato il bicchiere bruciante con entrambe le mani si posizionò alla finestra sorseggiando a piccoli tratti il suo “brodo indiano”, come definirono gli spagnoli nel Cinquecento la calda bevanda ricavata dalle divine fave di cacao importate dal Nuovo Mondo, ammirando là in fondo, sull’angolo del palazzo, una ragazza minuta dalla gonnellina a scacchi bianchi e neri e il giacchino arancione.
Era intenta a osservare amorevolmente, tra le foglie melangiate di un kaki quasi completamente spoglio, ma carico come un albero di Natale di turgide sfere arancioni, il suo cagnolino fulvo impegnato nella ricerca spasmodica della condizione ottimale per marcare il territorio.
“Potrebbero voler conoscere quale ruolo sostanziale assume la componente femminile della compagnia nello sviluppo intuitivo della nostra prolifica creatività... mmm... oppure il valore intrinseco nelle nostre performance della ricerca del doppio nella costruzione dell’identità, magari nei gemelli a partire dal mito dei Dioscuri, Castore e Polluce, come conferma la definizione del secondo numero naturale, il primo numero primo e l’unico tra questi a essere pari, tra l’altro... mmm... magari l’integrazione di tutt’e due le componenti. Chissà quale potrebbe essere la loro fondamentale curiosità da soddisfare per determinare la scelta a nostro favore?” sentenziò.
“Il signor Guerino Marinaro?” pronunciò ad alta voce una slanciata e graziosa signorina bionda, dal tailleur blu elettrico e scarpe col tacco gialle, aprendo la porta della stanza dalla grande vetrata che, dopo poco, non avendo ricevuto risposta ripeté: “È presente il signor Guerino Marinaro?” “Eccolo!”, rispose lui con voce ferma da giù in fondo come destandosi da un torpore. Si affrettò a terminare la cioccolata calda e lanciò il bicchiere nel cestino con un tiro libero dalla lunetta, quindi si avviò con passo deciso e portamento sfrontato lungo il corridoio.
Durante il tragitto però, passando davanti alla stampa del dipinto de “Il golfo di Marsiglia visto dall’Estaque” di Paul Cezanne, rallentò e si fece sempre più pensieroso, i contorni iniziarono a sfumare man mano che avanzava risultando sempre più rarefatti e la porta da raggiungere, passo dopo passo, incredibilmente più lontana.
Dagli abissi della memoria riemerse con nitidezza il ricordo di quella volta che Pinuzzo, il barbiere del natio borgo selvaggio, lo raggiunse di corsa al cimitero trovandolo in contemplazione davanti alla lapide che riportava il suo stesso nome e cognome, per comunicargli con fare trafelato che dalla montagna stava arrivando nella piazzetta il postale che lo avrebbe finalmente portato in città, giù al mare.
Ricordò che corsa estenuante aveva fatto per raggiungere e bloccare al curvone la corriera ripartita da poco e di come lui si era catapultato dentro senza neanche uno straccio di valigia, men che meno uno zainetto.
Poco prima, ancora inginocchiato e concentrato con gli occhi chiusi sulla pietra tombale, seppur consapevole del ritardo accumulato e costantemente incalzato dall’amico d’infanzia, si deliziava, con la mano aperta sul granito scuro, del delicato piacere dato dalla lieve frescura dell’acqua di fonte gettata sopra questa con cura e meticolosità per ripulirla dagli aghi di cipresso e stemperarla teneramente dall’incidenza del sole cocente.
Un gesto di affettuoso saluto e d’intensa venerazione, insieme alla meditata richiesta d’intercessione oracolare, verso l’omonimo e sconosciuto fratello maggiore che alla nascita non aveva avuto l’opportunità di gridare con forza tutta la sua volontà di vita terrena.
Vi erano stati momenti, come questo, dove ovunque lui si trovasse il richiamo profondo delle origini, quella che lui definiva la “terra dell’oblio”, diventava quasi insopportabile.
Tornare lì, in particolar modo in quel cimiterino di montagna contornato da imponenti castagni secolari, risultava doveroso se non addirittura necessario.
Nel tempo lo aveva concepito come un pellegrinaggio, aveva compreso che una volta deciso di incamminarsi per raggiungerlo l’esigenza era quella di scrollarsi di dosso strada facendo delle personali nevrosi e maschere quotidiane facendo tesoro degli incontri avvenuti durante il percorso, così da predisporsi umilmente ad arrivare con il miglior anelito spirituale possibile.
Aveva compreso nel tempo che ciò risultava la migliore preparazione possibile per incontrare la sacralità del nume tutelare della sua stirpe e permettergli di congiungersi amorevolmente e profondamente con il proprio “nomen omen”.
Trovato un posto accanto al finestrino, mentre riprendeva fiato asciugandosi il sudore con uno dei suoi intramontabili fazzoletti di stoffa damascata sempre presenti nel taschino, continuò a salutare animatamente un affannato Pinuzzo che, piegato con le mani sulle ginocchia col suo simpatico sguardo e il suo affascinante sorriso d’attore neorealista, ricambiava con genuina amicizia.
Piano piano all’interno del suo campo visivo questi divenne sempre più indefinito e quando la corriera svoltò non lo scorse più, allora volse lo sguardo ad ammirare il percorso zizzagante della strada che scendeva giù, colorandosi sempre più intensamente del verde e del giallo delle ginestre in fiore, fino allo stretto ponte sul torrente per poi risalire tortuosamente su per il pendio di fronte.
Aguzzando la vista all’orizzonte riuscì a scrutare laggiù un bagliore di intensissimo blu marino e lassù nel cielo terso la roteazione di un falco pellegrino che in balia di una corrente ascensionale disegnava ad ali spiegate messaggi interpretabili soltanto da un augure esperto.
Man mano che i suoni del reale timidamente riaffioravano, insieme a una sempre più nitida immagine del corridoio, Guerino Marinaro si convinse che quel divinatorio volo del messaggero di Horus ammirato quel dì contenesse già i fili dell’ordito del fato su cui lui, alla stregua della stesura di un artigianale tappeto mongolo, aveva intessuto la trama della sua intricata vicenda umana e professionale.
Si convinse consapevolmente che per poterne stringere finalmente l’ultimo nodo doveva giocarsi fino in fondo e senza timore alcuno l’opportunità che gli si era venuta a creare.
Quando entrò nella stanza dalla grande vetrata osservò rapidamente la commissione composta da due donne e due uomini con la sempre presente signorina bionda, che mentre lo annunciava, lo invitava ad accomodarsi sulla sedia posta al centro.
Dopo un saluto di rito, Guerino ammirò meravigliato dietro di loro la skyline di Perugia che all’imbrunire, da quel punto di vista, risultava decisamente suggestiva.
Seguì come incantato il profilo partendo dalla linea orizzontale del Borgo Bello intervallata dalle linee verticali del campanile di S. Pietro, con la guglia affilata, e del campanile di S. Domenico, con la guglia tagliata, risalire sinuosamente il colle Landone fino a riallinearsi lungo Corso Vannucci, adornato dai contorni imponenti degli edifici medievali del potere temporale, il Palazzo dei Priori, e di quello spirituale, il Duomo di S. Lorenzo, per poi culminare salendo ancora nell’acropoli etrusca in cima al colle del Sole, quindi ridiscendere rapidamente fino al bel campanile in prossimità di Porta Pesa e riappianarsi di nuovo per arrivare dolcemente a Monteluce, dagli antichi e moderni contorni geometrici.
Scuotendosi dalla rapida visione, imprevedibilmente, prima ancora che qualcuno della commissione gli domandasse qualcosa, prese dal suo borsello in pelle lo smartphone e una piccola cassa wireless ponendoli entrambi sulla sedia, selezionò il brano “B-Side” dei Khruangbine & Leon Bridges e sotto lo sguardo attonito dei presenti iniziò a ballare liberamente seguendo un’originalissima coreografia.
Le innovative sonorità contemporanee, frutto in realtà della rivisitazione e della fusione tra il soul degli anni Sessanta, il funk e il dub thailandese degli anni Settanta e la musica elettronica psichedelica degli anni Ottanta, ben si combinavano con il look e le morbide e flessuose movenze tanto che seppur sconcertati i commissari rimasero piacevolmente rapiti dall’inaspettata situazione e dalla surreale atmosfera della sua lisergica performance.
Quando la musica terminò, Guerino rimase in piedi davanti a loro con il fiato corto e un sorriso sofferto appena accennato, iniziò quindi ad asciugarsi la fronte con il suo solito fazzoletto damascato nel taschino, pronto a rispondere.
“Perché?”
“Il biglietto da visita della Compagnia degli Intronati.”
“Nome originale!”
“Nella prima metà del ‘500, a Siena, l’Accademia degli Intronati scrisse nel proprio Manifesto costitutivo: A significare il desiderio dei fondatori di ritirarsi dai rumori del mondo, dai quali erano come sbalorditi, per dedicarsi alle commedie e agli studi di lingua e letteratura.”
“Un richiamo fin troppo importante, dalla grande responsabilità!”
“Con autentica presunzione abbiamo ritenuto fondamentale ispirarci all’Umanesimo rinascimentale italiano e in particolare a quest’accademia per ritirarci dalla velocità del mondo contemporaneo e dedicarci alla molteplicità dell’espressione artistica nella dimensione-spazio temporale che riteniamo più concernente.”
“Cosa proponete di così inedito per le performance artistiche nelle strade, nei cortili, nei parchi, davanti alle scuole, fuori dalle residenze socio-sanitarie durante i lockdown pandemici?”
“L’Arte nelle sue molteplici declinazioni come promotrice innanzitutto di Bellezza, unico ponte tra le angoscianti difficoltà del reale e le salvifiche aspirazioni di benessere del genere umano in un rinnovato concetto di Umanesimo fondato sull’etica, sulla spiritualità e sulla grazia.”
“Con quali atti?”
“Con visionarie azioni di street art generate dalla fusione e contaminazione tra danza, musica, poesia, teatro, comicità, arte circense, pittura, video, ecc…”
“Interessante.”
“Risulteranno inoltre ispirate all’accurata ricerca effettuata dalla componente femminile della nostra compagnia intorno alla poetessa Vittoria Aganoor Pompilj: raffinata e colta poetessa ritiratasi nella splendida villa di Monte del Lago, vera e propria intellettuale sulle sponde del Trasimeno, meravigliosa testimone tramite la sua appassionata e struggente storia artistica, politica e sentimentale del rocambolesco e innovativo passaggio tra Ottocento e Novecento.” “Perché proprio lei?”
“Per la ferrea volontà di libertà e autodeterminazione, per la delicatezza dello stile e la sensibilità spirituale del suo carteggio e delle sue liriche, per l’intelligenza e la vivacità intellettuale delle sue analisi politiche, per il fascino misterioso delle sue origini armene, per il tormento e l’insofferenza all’incomunicabilità, anche tramite la personale e sofferta testimonianza di vita, della condizione femminile in un passaggio epocale per lo sviluppo dell’emancipazione della Donna e soprattutto per la fruttuosa e continua produzione della sua corrispondenza.”
“Quest’ultimo riferimento attualmente non le sembra anacronistico?”
“Tutt’altro, immaginiamo che in questo tra, che non è già ma neanche ancora, parafrasando il grande etnologo Marc Augé, risieda la vera essenza per accogliere l’incertezza del passaggio epocale.
Come artisti per voltare definitivamente pagina nell’era digitale riteniamo assolutamente doveroso attingere all’epoca analogica.
Quest’ultima, raffinato humus della stratificazione del passato, pensiamo che rappresenti l’alimentazione giusta per le radici del futuro permettendo al presente di far germogliare codici e linguaggi comunicativi d’avanguardia estremamente efficaci.”
“E l’educazione alla corrispondenza, quindi?”
“Risulta meravigliosamente, con le dovute rivisitazioni, un ponte tra l’identità reale e quella virtuale che all’interno di un’esistenza iperconnessa in continua espansione comunicativa, a partire dai molteplici social network, si misceleranno sempre più probabilmente anche per l’ampliarsi dei diversi mondi digitali in sviluppo, come l’attualissimo Metaverso!”
Per tutto il tempo Guerino Marinaro, con una frequenza definita, aveva continuato ossessivamente a sbattere sul pavimento la punta delle scarpe, alternandole, come potrebbe fare un talentuoso giocatore di calcio in campo per togliere la terra o l’erba incastrata tra i tacchetti in un momento di stallo della partita prima di contribuire creativamente a cambiarne l’inerzia.
Quando il cicalino della capsula iniziò a emettere un suono stridulo con una frequenza e un volume in crescendo, Guendalina, sbloccato e alzato il coperchio, iniziò a chiamarlo delicatamente con voce soave, subito dopo avergli tolto il casco sensoriale mentre gli accarezzava i capelli con cura scoprendogli la fronte come era solita fare per rendergli più dolce il risveglio.
Il Professore si era raccomandato: “Tre quarti d’ora e non di più, per il momento”, tanto doveva durare la sua immersione.
Tolse con accuratezza anche tutti gli altri rilevatori presenti sul corpo, in particolare quelli più sofisticati sulle sue gambe bioniche, quindi vocalmente - azionando la tendapermise all’intensa luce rossa dei due tramonti di pervadere interamente la stanza.
“Bentornato, amore mio!”
Guerino la fissò per qualche secondo con uno sguardo tra lo spaventato e l’attonito, poi con il viso illuminato le sorrise dolcemente senza pronunciare parola.
“Dove sei stato?”
“Nel Sistema Solare, sulla Terra.”
“Precisamente?”
“In Italia, a Perugia.”
“Per cosa?”
“Un’audizione.”
“In che giorno?”
“21-10-2021.”
“Quindi non sei riuscito a risalire alla data palindroma del 22-02-2022, quella del portale?”
“No, ma questa volta mi ci sono avvicinato molto, e comunque è una data che mi ha permesso di verificare l’importanza del doppio... e anche del femmineo!”
“In che senso? Com’è andata l’audizione?”
“Ci prenderanno sicuramente, ne sono certo. Ritengo che abbiano compreso che siamo in grado di sviluppare una riflessione notevole e potente lavorando sullo sviluppo futuribile della comunicazione e delle relazioni umane attraverso soprattutto l’attenzione al femminile.”
“Come ci sei riuscito? “
“Ho ballato e filosofeggiato.”
“Non ti smentisci mai, eh! Come ti sei sentito? “
“Libero! Il fiato ha retto e finalmente ero sudato, indossavo le scarpe da tangueros, quelle di coccodrillo, te le ricordi? Dovevi vedere come scivolavano via.”
“Stai migliorando nel controllo onirico?”
“Sensibilmente! Grazie alla respirazione pranayama nello stato meditativo più profondo il mio avatar vedico è sempre più concreto, percepisco i sensi pienamente e le emozioni sono vivide.”
“Dovremmo parlarne con il Maestro.”
“Sì, i suoi insegnamenti sono sempre più preziosi, lo stato di coscienza è pregnante, mi riconosco sempre di più in lui, in particolare nelle sue ossessioni, ma ancora meglio nella produzione del pensiero.”
“Dovremmo parlarne anche con il Professore.”
“Assolutamente, sembrerebbe che la sperimentazione cibernetica stia dando i frutti sperati, le gambe bioniche sono integrate meravigliosamente e potrebbero dare presto delle risposte ancora più sconvolgenti.”
“E l’intelligenza artificiale di supporto?”
“Sublime, l’algoritmo si arricchisce di memoria e di processi elaborativi più complessi a ogni nuova situazione vissuta, è incredibile come assimila i contenuti emotivi in ogni dettaglio.”
“Ma alla fine, in sostanza, cosa hai vissuto o provato?”
“Consapevolezza... con un forte senso di pienezza, ma sopra ogni altra cosa un’irresistibile e suadente sensazione di leggerezza!”
Cuore capitale
Diviso tra lo stomaco e il cerebrale
Khunstalle esistenziale
Per sequenze emozionali sequenze emozio(sintesi)nali
Sintesi tra tesi antitesi è estasi
Tesi tra antitesi estasi è sintesi
Antitesi tra estasi sintesi è tesi
Estasi tra sintesi tesi è antitesi
Attrito sociale Divisione del tempo
Dati-info-accounts milioni
Sotto controllo stormo droni
Retromarcia verso il vuoto imitando la matematica del volo
“ PROTOCOLLO DI DISTANZA DISINSERITO!
PIATTAFORMA DI AUTOCONTROLLO DISATTIVATA!
PROTOCOLLO DI DISTANZA DISINSERITO!
PIATTAFORMA DI AUTOCONTROLLO DISATTIVATA!”
La fine dell’oggetto rivaluta il soggetto, eliminato e poi sostituito, in uno spot pubblicitario
Nessuna vita facile
In stanze digitali
Sdraiati tutti in fila
Sopra i letti verticali
Umano arma letale Pericoloso liminale
Quando mi sveglierò da questo letto verticale!
Sopra i letti verticali!
A volte mi sorprendo a camminare nel vuoto.
Altre mi ritrovo a muovere in maniera scomposta e urgente braccia e gambe in un fluido nulla.
Galleggio in un incastro di dimensioni inconsistenti.
Eppure sorprendermi a camminare, nuotare, galleggiare nonostante tutto, nonostante il niente, mi riempie il cuore di gratitudine per me stessa per la mia vita per la vita.
Grazie a me. 2
Il crepitio della neve ghiacciata sotto il mio passo deciso.
Freddo. Freddo il viso.
Fredda l’aria ghiacciata nelle narici.
Prepotente arriva in gola, sa di nuovo, di pulito.
Colline bianche tutt’intorno, riflettono promesse di facili felicità.
Ne accarezzo i fianchi passo dopo passo
L’orgasmo cromatico del tramonto riempie il cielo e la terra di senso profondo, semplice.
Tanti altri esseri son passati da qui, vedo le loro tracce nitide, il loro nome non so.