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NUMERO XIV - SETTEMBRE/OTTOBRE 2013

Tre Parole

di Stefano Tieri Potrebbe essere la prima volta che ci leggi. Magari hai iniziato da poco a percorrere i corridoi dell’Università e hai intravisto, in un angolo di un’affollata aula studio o di una biblioteca, questo giornale. Oppure potresti averci trovato (“strano, non l’ho mai visto prima d’ora!”) nella tua libreria di fiducia o in emeroteca. In entrambi i casi ti starai forse domandando cosa troverai all’interno di queste pagine. L’occhio ne percorre rapidamente la prima: quando starà leggendo queste righe avrà già colto, oltre al nome del giornale, un curioso sottotitolo: “il periodico culturale dell’Università di Trieste di cui nessuno sentiva bisogno”. Frase da cui partire, in mancanza di altre informazioni, per capire cosa si ha sottomano. Parole provocatorie, certo, di cui forse non si coglierà immediatamente il senso: se è vero che di questo giornale non si “sentiva bisogno”, non è tanto per le discutibili capacità di chi ci scrive (su questo giudicherete voi lettori), quanto per gli argomenti trattati: è la cultura – che qui si ha la pretesa di affrontare – ciò di cui oramai non si sente bisogno. Ma poi, possibile sia veramente così? Ad interpretare (mai esegesi fu più facile) la volontà politica di chi delibera sui finanziamenti destinati all’Istruzione (e, più in generale, su quelli riservati alle realtà culturali), si hanno ben pochi dubbi a riguardo. Dubbi che non vengono certo meno a leggere i dati Istat, i quali registrano come più della metà degli italiani con più di sei anni non abbia letto nemmeno un libro lo scorso anno. Possibile che i due aspetti siano tra loro nettamente separati? Non si tratta piuttosto di un unico discorso, che tende a sostituire un tipo di cultura (agli occhi di qualcuno costosa e non renumerativa: “con la cultura non si mangia”) ad un’altra (maggiormente redditizia e facilmente spendibile secondo le logiche del mercato)? In quest’ultima le lunghe ore destinate alla cura di sé, ore oziose (nell’ac-

Esiste un’arte che possa definirsi libera, svincolata dalle leggi del consumo e della produzione? Se esiste, difficilmente le sarà dato spazio all’interno della critica e nelle rassegne internazionali. Marco Tracanelli ha provato a rompere il muro di gomma che circonda la selezione di ciò che “merita” e ciò che “non merita” d’essere visto, e lo ha fatto con quella provocazione capace di colpire e smuovere le coscienze. Una grande imbarcazione di carta (che riprende il nome della nota “corazzata Potëmkin”), costruita con i fogli di giornali indipendenti, è stata ormeggiata davanti ai Giardini il primo giugno, giorno dell’inaugurazione della Biennale di Venezia. Impossibile ottenere le autorizzazioni necessarie all’installazione: anche sul lungomare dei Giardini c’era infatti bisogno del nulla osta della Biennale, mai arrivato. Lungi dal voler cambiare i propri piani, rievocando in questo modo il gesto di ribellione della corazzata da cui prende in prestito il nome, la nuova Potëmkin è rimasta lì. Ma prontamente, su pressione della direzione della Biennale (come ci fa sapere Marco Tracanelli), è arrivata dall’autorità portuale una sanzione amministrativa di 2000 € per occupazione abusiva di spazio pubblico, insieme alla richiesta di rimuovere l’imbarcazione. La sfida al regime di monopolio della Biennale, però, rimane in questa fotografia: anche quando lo spazio viene negato è sempre possibile ritagliarselo da sé. cezione latina del termine) passate tenendo in mano la Recherche o I fratelli Karamazov, sono negate, a vantaggio di ogni forma di spettacolarizzazione, sostituite da un’arte che muore nel momento stesso in cui nasce, ad esclusivo vantaggio (economico) del committente.

di una direzione diametralmente opposta: le tre parole formano un triangolo in cui ognuna di esse, toccando le altre, le rende più chiare, ne disvela il significato che qui si intende dare loro. Parole non casuali, che rivelano la nostra missione parresiastica: Diogene di Sinope ci sarà accanto, nella propria bótte, e ci aiuterà con i suoi gesti “estremi” (ritenuti tali solamente da chi si assopisce sulle consuetudini universalmente riconosciute, smettendo così di interrogarle) ad indicare la nudità del Re; una nudità polivalente, cui corrisponderà una pluralità di dita,

Ecco: si tratta allora, forse, di cercare di definire l’idea di cultura che si ha intenzione qui di promuovere. La si potrebbe racchiudere in tre parole: inattuale, critica, folle. Se la direzione che il Paese ha intrapreso è quella descritta poc’anzi, noi ci poniamo su

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una molteplicità di diverse mani scriventi e di differenti sguardi sul mondo. Ma come? Non cesserà così di sussistere ogni princìpio regolatore? Che cosa avremo l’ardire di indicare, allora? Ogni dogmatica e pacificante certezza, la violenza fideistica di ogni credo globale. Si scaverà, mossi dal dubbio, nel sottosuolo, mai paghi di una verità di comodo, coerente alla grande narrazione ripetutaci incessantemente ogni giorno. Un atteggiamento contro ogni logica economica e razionale – perciò inattuale, critico, folle.


Uomo e Natura, uomo e paesaggio di Lorenzo Natural

«Il lungo, lunghissimo sentiero fra gli acquitrini e le foreste, chi l’ha tracciato, se non l’uomo? Prima di lui, niente sentiero; dopo, di quando in quando, sulla landa e per le paludi, un animale seguì la via appena percettibile e la marcò con un’impronta più netta»1. Poi arrivò l’uomo. Da secoli l’essere umano s’interroga sul rapporto tra egli stesso e la natura. Poemi, racconti, canzoni, poi ancora studi scientifici, analisi psicologiche. Quel che è certo è che non siamo uguali a tutti gli altri animali, se non per il fatto che siamo gli unici a interrogarci sulla salvaguardia dell’ambiente naturale che ci sta attorno. Pullulano, oggigiorno, migliaia di associazioni che puntano a preservare l’ecosistema-Terra. Ci cospargiamo da soli il capo di cenere per essere i primi e unici responsabili dello scioglimento dell’ultimo ghiacciaio del Polo Nord, del crollo della montagna, dell’esondazione del fiume. Le risorse stanno finendo, le culture scomparendo, la Terra sta morendo: tutta colpa dell’uomo e dei suoi strumenti diabolici: la tecnica e, di riflesso, la tecnologia. Attraverso esse l’uomo si eleva al di sopra della Natura – intesa come ambiente vivo, quindi popolato – e impone ad essa la propria forza e la propria volontà. Tutto ciò, nell’era post-postmoderna, viene visto come negativo, antropocentrico (come se ciò fosse semanticamente negativo) e irrispettoso dell’equilibrio naturale. È il concetto di giusnaturalismo che si espande in più campi: diritti degli animali, diritti inalienabili dell’uomo, uguaglianza, parità su tutti i fronti. L’uomo, quindi, si adopera a preservare questo spazio naturale dall’avanzata dell’industria, della tecnica, del lavoro, creando zone protette, parchi naturali, non pensando che già riconoscendoli in quanto “speciali” ci si pone di fronte a un problema ben più grande: l’uomo moderno ha perso ogni legame con l’ambiente naturale

originale, sostituendola a un altro ambiente, di sua creazione. E come osserva Eugenio Turri nel suo Il paesaggio come teatro «per una sorta di ribaltamento psicologico, abitudinario, questo paesaggio è ormai sentito sempre più come vero, necessario, mentre il paesaggio dove c’è, dominante, la natura, rappresenta l’evasione, il sogno, l’irrealtà: come qualcosa in più che ci è dato»2. Riflettere su questo punto, e sul testo di Turri, aiuta – a mio avviso – a sfatare un mito e a penetrare più a fondo nella questione del rapporto Uomo-Natura. Criticare l’Uomo in sé in quanto distruttore dell’ambiente naturale non tiene conto di parecchi fattori. In primis, il concetto di “tecnica” affonda le proprie radici nel mito – per quanto concerne la cultura occidentale: Ulisse, per uscire dalla grotta di Polifemo, prende un tronco d’ulivo, l’albero più contorto tra quelli a lui disponibili (e non a caso) e comanda ai suoi compagni di sgrossarlo per potersene servire per uscire dalla caverna. Ecco quindi «la trasformazione dello storto nel diritto, di quello che è curvo, scabro e irregolare in qualcosa di liscio, levigato, uniforme, ma prima di tutto, rettilineo: la trasformazione di una forma naturale, proprio quella più discosta della rettilinearità, esattamente nel suo contrario, in una linea retta, l’unica forma che in natura non esiste»3. L’uomo Ulisse che impone la propria azione sulla natura: la rettificazione come inizio della tecnica, come riconoscimento della preminenza dell’Uomo sulla Natura. Da qui parte la storia della nostra civiltà, dove Uomo, Tecnica e Natura sono, da sempre, strettamente collegati. Spesso si tende inoltre a dimenticare che la Natura se ne frega beatamente dell’Uomo, va avanti anche senza di esso, egli non è altro che un componente qualsiasi (funga da esempio il Dialogo della natura e di un islandese di Leopardi), come

fosse una formica del Top End o un gorilla del Borneo. L’Uomo non può controllarla del tutto – e spesso se ne dimentica –, ma può far sì che ne assecondi i propri bisogni, in una visione attiva dell’azione umana e non in una svilente passività. Chi oggi predica il ritorno alle origini, a una condizione pura di armoniosa convivenza tra Uomo e Natura resterà basito nell’apprendere dagli studî del paleontologo Claudio Tuniz4 che «la natura distruttrice del genere Homo, apparso due milioni di anni fa, si era già rivelata appieno, avendo probabilmente contribuito all’estinzione delle ultime varietà di specie ‘preumane’, come le australopitecine (a cui apparteneva la famosa Lucy) e i parantropi. Homo aveva il controllo del fuoco ed era dotato di strumenti litici relativamente sofisticati, come l’amigdala, l’ascia bifacciale tipica del Paleolitico. Il salto di qualità avvenne però circa settantamila anni fa quando Homo sapiens, apparso duecentomila anni fa in Africa, uscì dal suo continente di origine. A differenza degli umani precedenti, la nostra specie era dotata di nuove capacità cognitive e di aggregazione sociale, grazie all’uso del linguaggio complesso e all’adozione di attività simboliche. I nostri impatti ambientali lasciano ampia traccia nel registro geologico. Molti dei grandi animali dell’Australia e delle Americhe spariscono improvvisamente in coincidenza con il nostro arrivo. E si sospetta che anche l’estinzione degli altri umani, come gli Hobbit (Homo floresiensis, specie di piccola statura scoperta nel 2003, ndr), i Neanderthal e i Denisoviani, possa essere attribuita, almeno in parte, all’arrivo di Homo sapiens»5. Inoltre le economie medievali di sussistenza, che puntavano al mero sostentamento della comunità, erano fortemente distruttive e disinteressate alla salvaguardia dell’ambiente e dovevano solamente all’esiguità del numero degli abitanti la loro resistenza. Non è la tecnica moderna, quindi, la causa di ogni distruzione, ma l’uso che ne facciamo. Non è l’antropocentrismo il male assoluto, ma la percezione che abbiamo di ciò che ci circonda. Ciò che ha perso l’uomo, tornando a Turri, è la capacità di relazionarci con l’ambiente – e di conseguenza con il paesaggio – in cui viviamo, che plasmiamo senza però fermarci ad osservarlo: «[è] evidente che ove mancasse l’uomo che sa guardare e prendere coscienza di sé come

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presenza e come agente territoriale, non ci sarebbe paesaggio, ma solo natura, bruto spazio biotico, al punto da farci ritenere che tra le due azioni teatrali dell’uomo, l’agire e il guardare, ci appaia come più importante, più squisitamente umana la seconda, con la sua capacità di guidare la prima»6. Turri critica, a dire il vero, quasi in toto il mondo industriale che penetra nei gangli della vita, ma non esclude mai l’Uomo dal suo ruolo di protagonista centrale, spettatore e attore di un grande palcoscenico. Quanto di più vero, invece, è che abbiamo perso il senso della misura, della vivibilità, abbiamo devastato un tipo di paesaggio innestandone un altro (perché il paesaggio esiste sempre fin tanto che esiste l’uomo, sebbene cambia, in modo dinamico) senza curarci delle conseguenze e, una volta giunti al punto di non ritorno, ci siamo girati indietro con nostalgia, tentando di muoverci come un elefante in una cristalleria per riparare ai nostri danni. Proliferano bioparchi, riserve, pale eoliche che non inquinano (ma nessuno ha mai pensato all’inquinamento paesaggistico che comportano questi siluri di cinquanta metri?): preserviamo la Natura non accorgendoci che essa è ormai distante da noi, e lo facciamo pure in modo goffo e incauto. Viviamo in un paesaggio che percepiamo come brutto, spesso inospitale. Siamo attori senza esser spettatori o spettatori senza essere attori, è questo il fallimento del nostro rapporto con la Natura, con l’ambiente, con il paesaggio. «Il lungo, lunghissimo sentiero fra gli acquitrini e le foreste, chi l’ha tracciato, se non l’uomo?» Ma su quel sentiero sembra che ci siamo persi... NOTE

1 HAMSUN, K., Markens Grøde, 1917, trad. it. I frutti della terra, Gherardo Casini, Roma, 1966, p. 11. 2 TURRI, E., Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato [2006], Marsilio, Venezia, 2010, p. 125. 3 FARINELLI, F., Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino, 2003, p. 105. 4 TUNIZ, C. - MANZI, G. - CARAMELLI, D., La scienza delle nostre origini, Laterza, Roma-Bari, 2013, pagg. 183. 5 Intervista di Pietro Spirito, visibile su http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2013/08/11/news/l-homo-sapienscome-noi-eliminava-i-concorrenti-einquinava-l-ambiente-1.7563361 6 TURRI, E., op. cit., p. 13.


Campi Cie

di Davide Pittioni

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osa sono i Cie? Come funzionano? E qual è la loro funzione? Domande comuni, che ne interrogano il senso e la funzione, ma che al solo pronunciarle sembrano richiamare già una serie di comuni risposte, che anziché raccoglierle, quelle domande, le eludono irrimediabilmente. Prendono corpo in una strategia rodata di cui tutti siamo imbevuti: è il buon senso, cazzo! Dove li mettiamo sennò quelli? Li lasciamo vagare per le nostre strade? Siamo senza lavoro noi e dovremmo trovarlo a loro? Ma non è cattiveria, perché io sarei anche per l’uguaglianza, ma poi questo e quello, vedrai che ne approfittano, si intascano l’assegno e si fanno la bella vita, anzi gli diamo anche un tetto, due pasti al giorno e questi che fanno? Si ribellano, ‘sti ingrati. Reazione un po’ stereotipata, ma che ormai riteniamo normale. Come è normale considerarlo sempre un po’ diverso lo straniero, sempre leggermente meno uguale. Sangue? Colore della pelle? Religione? Macchè, quelle erano cose passate, moderne. La post-modernità risponde meno ingenuamente. È la cultura, diversa. Diversa come lo erano le differenza di natura. Ora è la cultura a diventare soglia non trapassabile delle differenze, ostacolo naturalizzato, e non più naturale, tra le etnie. In fondo, chi si professa oggi razzista? Borghezio? Allora l’unico esercizio che ci rimane è quello di rimettere a fuoco il problema. Ricalibrarlo, se vogliamo, per uscire dalla bolla asfissiante dove tutto è normale. Era il 1998, quando vennero istituiti i Cpt (Centri di Permanenza tem-

poranea) dalla legge Turco-Napolitano. La nuovo legge che regolava la materia dell’immigrazione in Italia si inseriva all’interno di una strategia complessiva, elaborata a livello europeo, che aveva come fine il controllo e il contenimento dei flussi migratori. È quella che venne definita “Fortezza Europea”. Dopo il muro che la spaccava a metà, un muro che la tenesse unita. E il Mediterraneo, da sempre luogo di scambio e incontro tra culture tra loro diversissime, diventava invece un rischio, perché proteso verso quei territori da cui si temevano migrazioni destabilizzanti e pericolose. Dopo la Turco-Napolitano, venne la Bossi-Fini, che introduceva il reato di clandestinità per quei migranti che “occupavano” il suolo italiano senza un regolare permesso di soggiorno. Permesso vincolato al contratto di lavoro; con il rischio, che ora sappiamo fondato, di produrre un effetto di ricattabilità assoluta verso quell’immigrato che pur di garantirsi la permanenza, avrebbe svenduto il suo salario. Diventare manodopera a basso costo, permanentemente precaria e ricattabile: questa era l’unica soluzione di inserimento prevista dalla Bossi-Fini. Per quelli invece in surplus rispetto alla capacità del mercato di assorbirli, la situazione era più complessa. Come controllare questa sacca inoccupata? Come gestirne, da un punto di vista biopolitico, la stessa esistenza? La risposta arrivava dai Cpt, poi diventati Cie, Centri di identificazione ed espulsione. La questione, come si vede, si è spostata leggermente. Non è solo sul piano umano che vanno

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intese queste strutture. Ma su un piano sociale che ha come scopo il disciplinamento e l’organizzazione sociale di una figura che non è possibile controllare in altro modo. Una figura eccezionale, ai margini del campo sociale. Giorgio Agamben, autore di testi come “Homo Sacer” e “Quel che resta di Aushwitz”, ha provato in un colloquio con Beppe Caccia pubblicato sul “Manifesto” a interrogarsi su questo stato di eccezione, che con le suo parole potremmo definire “nuda vita di fronte al potere sovrano”. Nell’intervista, ormai datata, ma pur sempre attualissima, Agamben definisce la procedura che si applica sull’immigrato irregolare come una “serie di cesure che definiscono la progressiva spoliazione dello statuto giuridico di un soggetto, come nel caso degli ebrei nella Germania nazista”. Per questo, afferma, i Cie si possono definire a tutti gli effetti dei “campi”. Campi che sono pensati come “zone d’eccezione in senso tecnico, come zone di sospensione della legge”. Spazi, cioè, che pur inseriti in uno spazio urbano, in un territorio con una struttura giuridica, si definiscono a partire da una sospensione, dall’ “esemplarità punitiva” del livello zero di ogni sovranità. Siamo qui nel luogo che aveva pensato Thomas Hobbes, lo spazio a-giuridico dove la sovranità si presenta priva di legittimità, svincolato e assoluta. E ciò deriva anche dalla condizione dell’immigrato, che si trova tecnicamente espulso, ma temporaneamente trattenuto all’interno della struttura. E quindi trattenuto non in virtù di una colpa (il reato di clandestinità prevede, infatti, il carcere) e di una conseguente pena da scontare, ma più originariamente perché interpellato da un’istanza sovrana che si confronta con la nuda vita. Su questo paradosso, “l’espulso trattenuto”, il potere esercita la sua funzione al di là di ogni diritto. È quella che Walter Benjamin definisce “violenza mitica”, che istituisce e conserva il diritto (e quindi anche la colpevolezza) attraverso il castigo (che è pura manifestazione) – e non

il contrario come potrebbe logicamente apparire. Per questo Benjamin afferma: “la violenza mitica è violenza sanguinaria sulla mera [bloße] vita per se stessa”; non si esercita, cioè, su un cittadino, con il suo status e la sua collocazione giuridica, ma sul corpo che precede l’esistenza giuridica. È a partire da questa violenza, da questa dose di forza che sempre accompagna un atto di legge, che ne è anzi connaturata, che si può intuire la carenza sostanziale di un organismo internazionale come l’Onu, che dovrebbe teoricamente garantire un livello supplementare di cittadinanza, quello cioè espresso nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e che tuttavia non può conservare senza un atto di sovranità. Senza cioè la legittimità che deriva dalla prerogative degli stati che lo costituiscono. Tornando ad Agamben, proprio in virtù di quanto appena detto, l’immigrato rinchiuso nel Cie diviene “cifra del problema ultimo della cittadinanza”, “ci ricorda il rapporto tra nuda vita, esistenza biologica e lo statuto di cittadino, mettono in questione il rapporto tra uomo e il cittadino, lo espongono a nudo di nuovo, ne mettono a nudo lo scollamento”. E allora come considerare i fatti avvenuti in questi ultimi giorni di agosto? Le ribellioni avvenute all’interno della struttura di Gradisca e poi anche in quella di Crotone? Sono solo le “scenate” di ragazzini viziati? Sembrano invece avere a che fare con un’altra ragione, che tocca il problema profondo della loro detenzione. Che cosa hanno fatto quando sono saliti sui tetti? Primariamente si sono resi visibili: oltre le mura che li separano dal mondo circostante, hanno riaperto lo spazio in cui sono stati risucchiati. E secondariamente, ma forse principalmente, hanno ripreso la parola. Hanno parlato e raccontato le loro storie, la loro vita, le loro difficoltà. Hanno affermato la loro esistenza attraverso la parola, sottraendosi all’interpellanza originaria dell’istanza sovrana. È ribellione questa? Si, lo è.


L’inaspettato ultimo capolavoro di Hayao Miyazaki di Giovanni Isetta

Kaze Tachinu (S’alza il vento), ultimo film di Hayao Miyazaki, è stato presentato in concorso alla settantesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Una notizia che ha esaltato tutti gli amanti dei film del maestro dell’animazione giapponese, creatore di capolavori come Il mio vicino Totoro (1988), Il castello errante di Howl (2004) e La città incantata (2001), con cui nel 2003 vinse l’Oscar come miglior film d’animazione. Felicità che però è stata coperta da un velo di tristezza quando, poco prima della proiezione ufficiale, durante la conferenza stampa, il presidente dello studio Ghibli Koji Hashino ha annunciato il ritiro di Miyazaki. Ed è con un film inaspettato, completamente adulto, privo di quello sguardo fantastico caratteristico delle opere che l’hanno preceduto, che il maestro lascia la scena cinematografica. S’alza il vento è un film che narra una vita, quella dell’ingegnere aeronautico Jiro Horikoshi, progettista realmente esistito di caccia da combattimento. La storia si sviluppa nel periodo fra le due Guerre Mondiali in

un Giappone povero, non ancora sviluppato tecnologicamente, tormentato dalla crisi economica, dai disastri naturali e dall’instabilità politica. Un clima incerto e malinconico quello che fa da sfondo al cammino di Jiro, ai suoi sogni, alle sue ambizioni e al suo amore. Ed è così che lo spettatore si trova immerso all’interno del mondo immaginario del protagonista in cui costante è la presenza di Gianni Caproni, produttore e inventore italiano di aeroplani, guida onirica di Jiro e punto di riferimento per il suo modo di intendere la creazione delle macchine volanti. All’universo della meccanica, dell’industria e della progettazione meticolosamente messe in scena da Miyazaki con un realismo che sorprende e affascina. Alla storia d’amore tra Jiro e Nahoko, conosciuta giovanissima in circostanze drammatiche (Jiro l’aiuta a mettersi in salvo durante il grande Terremoto del Kantō del 1923) e incontrata anni dopo oramai grande, ma malata di tubercolosi. Ai costanti riferimenti alla grande storia: la grande depressione post-29, l’ascesa di Hitler in Germania, l’imperiali-

smo del Giappone, l’alleanza con la Germania, la guerra, la sconfitta e la distruzione del paese. Alle citazioni di Paul Valéry e della Montagna incantata di Thomas Mann. Miyazaki crea così un’opera complessa, un magnifico mosaico magistralmente messo in scena attraverso immagini di una bellezza profonda, che incanta. Si è così portati a sollevarsi tra le nuvole e a fluttuare, a correre su sconfinati prati, ad ammirare paesaggi dalle infinite sfumature, a perdersi tra le strutture labirintiche delle macchine volanti. S’alza il vento però non è solamente un affresco di una vita, di una nazione e di un’epoca: è soprattutto una profonda riflessione sulla tecnica e sulla volontà di creare incondizionata. Jiro vuole essere un progettista di oggetti sempre più perfetti, che riescano ad essere talmente avanzati da diventare oggetti del futuro, ed è l’industria bellica che può permettergli questo. Egli si applica con incrollabile dedizione alla ricerca della massima eccellenza tecnica ed estetica pur sapendo che per il momento ciò comporterà il perfezionamento di

macchine portatrici di morte. Ma ciò è anche un dovere verso il suo Paese e l’unico modo per permettere al Giappone di porsi un passo avanti al resto del mondo, di uscire dalla crisi e di diventare una potenza. Ecco che il destino di un uomo si lega così a quello di un intero popolo. Lo sguardo di Miyazaki però non è giustificatorio. Egli ci mostra la devastazione, la sofferenza, i sacrifici che tale dedizione comporta e lo spettatore è portato a riflettere su questo con un’attenzione sempre critica. Non c’è esaltazione della potenza ma la meraviglia dell’umano con tutta la sua fragilità e concretezza. Un’entusiasmante ultimo viaggio tra l’immensità dei cieli e il soffocante peso delle macerie, tra l’universo della meccanica e l’intimità di un’amore fragile e commovente, tra la vita di un uomo e il destino di un’intera nazione. Un film unico, intenso, forse il più personale del maestro, quello che non può che nascere da una meditazione lunga una vita. Un inaspettato, meraviglioso, ultimo dono di Hayao Miyazaki a tutti noi.

Un uomo finito? di Tommaso Tercovich

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a sua vita inizia come un rospo (pag.4)1 evitato da tutti. Con questa immagine si presenta Giovanni Papini (1881 - 1956) nella sua autobiografia intitolata Un uomo finito. Scritto alle soglie dei trent’anni, dove ripercorre la sua vita fino a quel momento attraverso una incessante, totale e assoluta presenza dell’io nella narrazione. La prima persona singolare è presente numerosissime volte all’interno del testo che può risultare per questo molto difficile alla lettura specie nella seconda parte. Il giovane, futuro co-fondatore della rivista La Voce, si sente straniero sia in famiglia che con gli amici e dimostra tutta la sua scontrosità verso gli uomini già da ragazzo. I primi veri amici sono i libri della biblioteca paterna, che il giovane divora con ferrea volontà. Di pari passo alle letture, si susseguono nei primi capitoli una serie di progetti falliti in cui il protagonista impegna tutta la sua forza vitale, distolta dagli uomini e dalla giovinezza. L’incontro con la biblioteca pubblica segna un punto di svolta nella sua storia personale, giacché gli consente di accedere a testi prima solo sognati. Un primo ardente desiderio è quello di scrivere un’enciclopedia, come desiderio di poter sapere tutto (pag.17), ma questo progetto si consuma nell’abbandono per essere frutto di specialismo (pag.22) da rifuggire. Seguono poi una storia universale e un commento razionato della Bibbia, ma dopo essersi speso sui primi tre versetti anche quello scritto è abbandonato. Una

letteratura mondiale comparata e quella poi delle lingue romanze segnano quasi comicamente altri fallimenti dell’uomo intellettuale. Papini svela finalmente il suo pensiero nel dire io son nato con la malattia di grandezza (pag.32); non dice il “vorrei dirvi” della autobiografia lirica slataperiana (Il Mio Carso), ma “io dico”, togliendo poesia e spessore all’opera che risulta pervasa da una totale concentrazione su di sé. Anche la Natura, descritta in alcuni capitoli di vagabondaggi solitari, è scialba, deludente e grigia, mentre l’autore si chiede se la vita è degna d’esser vissuta. Persa la fanciullesca solitudine, sente di aver bisogno d’affetto in una meccanica e fredda analisi dei propri pensieri, metodo di pensiero caratterizzante del personaggio. La sua ebbrezza da solipsismo vuole manifestarsi nella ricerca verso Dio (che lo porterà a convertirsi al Cristianesimo nel 1921 e diventare terziario francescano nel 1943) e a rifiutare tutte le posizioni prese in giovane età come nel testo Memorie D’Iddio, di tono dissacrante e critico verso la religione. La fondazione con tre amici gruppo individualista ‘il Proclama degli Spiriti Liberi’ (ci ubriacammo insieme di vino, haschich e di feroci assurdità commenta a pag.83), segna una delle migliori parti della biografia insieme alla nascita e alla chiusura di un giornale dove poter finalmente sfogare le proprie stroncature verso grandi classici, tra cui La Divina Commedia e I Promessi Sposi. Il capitolo ribollimento è forse il momento in

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cui la spinta vitale si esprime, con la sua maggiore prorompente forza ideale, nell’Azione quasi moralizzatrice nel mondo . La seconda parte di Un uomo finito è di più difficile lettura ed è una successione di momenti di furia punitiva verso gli altri, segnati anche da profondo disprezzo: “li pungevo, li bruciavo e li frustavo” con il proprio intelletto e altri momenti di solitudine, inutilità e aspettative mancate. Il capitolo sull’amore nella sua vita esprime profonda ambivalenza nel parlare dei propri sentimenti senza volerne in fondo però parlarne veramente. Questo libro è segnato soprattutto dal rapporto di Papini con i libri, forse suoi unici veri compagni fedeli di battaglia, e si chiude con un appello alla nuova generazione di ventenni: il nostro uomo non si sente affatto finito come potrebbe annunciare il titolo. Certo, nella sua idea di sé non riesce a raggiungere la divinità (suo obiettivo principale come uomo e intellettuale) e questo lo getta tremendamente nel mondo, nelle sue sofferenze e piccolezze. Sarà dunque che forse questo libro dev’essere letto in una certa fase della vita, quella dei tormenti dell’adolescenza, per essere dirompente e importante, oppure sarà che è giusto che questo “rospo” sia dimenticato con tutte le sue storture e le sue posizioni criptiche, ma rimane sempre un testo vivo, frutto delle reali contorsioni di un uomo libero e disilluso che crea un’opera in molte parti maleficamente magnetica. 1 Tutte le citazioni sono tratte da Un uomo finito, Giovanni Papini, Libreria della Voce, Firenze, 1914.


camera scura

Dicotomia dell’orizzonte

Conconello: l’occhio abbraccia l’infinito del Golfo...

...ingabbiato da fili e nuvole: Stazione di Mestre.

Zyzyphum V


Duellanti: duri e puri (d’orecchi) di Ruben Salerno

Elogio funebre dell’Arte della parola, un tempo nobile disciplina, oggi indegno agglomerato di frasi sferzanti santanchésche. Fin dall’antichità l’arte oratoria si è accompagnata, volente o nolente, all’azione politica. I duelli verbali di Socrate nell’Agorà sono cosa nota, i Sofisti ebbero successo sconfinato, Aristotele scrisse molto sull’argomento (Topica), Cicerone (Lucullo, Topica) cerco di codificarne l’arte, Erasmo ne fu interprete sopraffine. Uno su tutti, però, Schopenhauer, coniò la definizione di Dialettica Eristica, ovvero: “una scherma spirituale per ottenere ragione nella disputa”. Il filosofo infatti epurò ogni aspetto ontologico dal termine, ritenendo che la Dialettica differisse in maniera radicale dalla Logica. “sarebbe molto contrario al fine proposto se nella Dialettica si volesse avere riguardo alla verità oggettiva e alla sua rivelazione, poiché ciò non accade in quella Dialettica originaria e naturale, essendo il fine soltanto l’avere ragione.” Poi segue un elenco con spiegazione dei trentotto stratagemmi più utilizzati e c’è di che rimaner stupiti come questi siano utilizzati sistematicamente tutt’oggi da vari politici nelle dispute televisive. Nell’ultimo secolo, ça va sans dire, l’arte di ottenere ragione si è evoluta in modo scientifico, scindendo la comunicazione in tre macro-aree: verbale, para-verbale, non verbale. Quest’ultima, essendo quella più subdola, è stata sviluppata all’ennesima potenza, tant’è che esistono agenzie che si occupano solo e unicamente di curare l’immagine e i gesti dei propri clienti durante un comizio o un dibattito. Addirittura, nello storico confronto televisivo tra Kennedy e Nixon, chi lo seguì in tv non ebbe dubbi nell’assegnare a J.F.K. la vittoria, mentre chi lo sentì alla radio (solo parole, nessuna immagine) pensò che l’avesse vinto Nixon. Ad ogni modo, indipendentemente dallo sviluppo che la dialettica eristica abbia avuto nell’ultimo

secolo, c’è sempre stata una regola, semplice e invalicabile, che in tutti i dibattiti dev’essere rispettata, ovvero quella della Comunicazione circolare. La Comunicazione infatti, come illustrano ampiamente anche i manuali di vendita, è costituita da un Emittente (colui che argomenta) e da un Ricevente (colui che ascolta). Il ritorno, o feedback, del ricevente è essenziale per l’elaborazione dell’argomentazione successiva. Così anche in un dibattito politico il contendente dovrà ascoltare l’invettiva dell’altro per poter ribattere. Quello a cui assistiamo di recente invece, è sempre più un tentativo di azzeccare la battuta ad effetto e stroncare l’avversario in un colpo solo. I dibattiti dell’appena trascorso mese di agosto ne sono la prova inconfutabile. I duellanti infatti, pur utilizzando svariati stratagemmi retorici, sembrano fregarsene bellamente del contenuto talvolta assurdo delle proprie affermazioni, della replica altrui e persino delle domande dei moderatori. Arrivano, sputano sentenze per mezz’ora, fine.

Esempio 3: L’onnipresente Santanché (Pdl) da circa venti minuti sta demolendo l’iniqua avversaria del Pd a suon di decibel e accuse violente quando Telese, il moderatore, chiede alla pitonessa se in caso di decadenza di B. da senatore prima, interdizione dai pubblici uffici poi, nel Pdl si farebbero le primarie o se il potere verrebbe ereditato da Marina Berlusconi. Sussulto della deputata Pd che accusa di “aziendalità feudale” (sic!) la contendente. Per tutta risposta, la Santanché replica: “Detto dai più falsi di tutti è un bell’affronto, che mi dite del Montepaschi?”. Pubblicità. A parte il fatto che “quelli bravi” parlano sempre prima della pubblicità, il che costringe il telespettatore a ricordare l’ultima battuta prima di entrare in modalità zombie durante gli spot, viene da chiedersi se gli attori di questo circo a tre piste siano davvero duri d’orecchi o profondamente egocentrici. Chi serba ricordi degli anni delle scuole elementari, rammenterà la maestra ammonire che:

Esempio 1: assodata la condanna in Cassazione, Scalfari (Repubblica) e Carfagna (Pdl), moderati da Porro, discutono della possibile richiesta di grazia del fu Cav. A un certo punto la Carfagna se ne esce con: “Lo dice lei che è condannato!”, Porro fa notare che si tratta di una sentenza inoppugnabile della Cassazione, al che lei ribatte che se non si toglierà l’Imu Berlusconi farà cadere il governo. Pubblicità.

“studiare non significa imparare a memoria, bensì capire ciò che si legge”. Quello a cui si assiste regolarmente nelle dispute a carattere politico, non solo in tv ma anche sui giornali, alla radio e sui blog, ricorda le recite di fine anno. I contendenti infatti arrivano, sciorinano il loro bel discorsetto, possibilmente urlando, escono di scena. Quel che resta della Dialettica Eristica sono solo le ceneri, qualche stratagemma per deviare il discorso o per mettere in difficoltà l’avversario con accuse false, del resto niente. Si potrebbe paragonare i due tipi di duello verbale, quello classico e quello “santanchésco” ai duelli con le armi. Il primo, con le spade, necessita di grande destrezza, velocità, strategia e attenzione nello scambiarsi i colpi alla ricerca del fendente fatale. Il secondo, odierno, ricorda il mezzogiorno di fuoco dei cowboys: basta un obbiettivo e una buona mira. Al primo rintocco della campana... Bum! Pubblicità.

...parole al vento... La scienza degli uomini, divenuta ormai una grande forza, ha analizzato, specialmente in quest’ultimo secolo, tutto ciò che i libri sacri ci hanno tramandato di divino, e dopo questa spietata analisi ai dotti della terra non è rimasto più nulla di quanto prima era sacro. Ma essi hanno analizzato le singole parti e hanno perduto di vista l’insieme, tanto che c’è addirittura da meravigliarsi di una simile cecità. Mentre, invece, l’insieme è lì davanti ai loro occhi più saldo di prima.

Esempio 2: Travaglio vs. Renzi (Pd), moderatore Mentana. Argomento, tanto per cambiare, la decadenza di B. Invitato a esprimersi sull’argomento, il sindaco di Firenze afferma di voler sconfiggere il fu Cav. politicamente e non attraverso la magistratura. Travaglio ribatte che non si tratta di sconfiggere o meno qualcuno ma di applicare la legge. Renzi ribadisce il concetto tale e quale, come se non avesse sentito la replica e questo accade due, tre, quattro volte. Sordità fulminante? Pubblicità.

(I fratelli Karamazov, Fedor Dostoevskij)

VI


Terza

Pagina

Leggero è il suono della penna che scorre sul foglio del mio cuore. Versi nuovi rompono il silenzio della notte affollata di pensieri rumorosi: e il mio unico pensiero sei tu. Così le stelle, tue sorelle, mi illuminano, come il tuo sorriso e veglian su di noi ora come quando eravamo lontani. Ma questa volta no, non ti lascerò andare, ti terrò stretta a me finché la notte non sarà andata e anche il sole il nostro amore possa ammirare. Non c’è verso che meriti di cantar di ciò, ma il mio corpo è troppo piccolo per quello che provo per te. E anche se è poco in queste rade parole c’è tutto il mio amore, ed è solo tuo. Giulio Gasparin

Silenzio Ho scritto centinaia di pagine vuote piene di tristezza e paura. Le ho buttate tutte, gettate al vento. Eppure non posso (I can not) non continuare a farlo. Riempire pagine di niente e restare a guardarle attonito e muto. Rigettarle poi al vento, nel vuoto e rimpiangerle come un figlio mai avuto.

inserto letterario

Piccola stella Piccola stella, che sei fugace, volatile, lontana da me, che svolgi un libro nel tuo salotto. Attualmente non misuro più ogni cosa; ero piuttosto magro, quando mi bagnavo nel dolore e nelle perdite di tempo. Adesso non mi trattengo, t’ammiro col mio teleobiettivo. Ti scatto una foto. Piccola stella, che ti svegli presto al mattino, che respiri, lontana da me, che fai cadere la rugiada dalle tue ciglia. Ora sei come un paesaggio notturno, pieno di grazia, fanciullezza ed emozione. Sei la piccola guida del mio cuore, che palpitava fra i nembi d’apprensione. T’ammiro e ti rispetto. Ti circondo. Beata, piccola stella, crollata giù, dalla montagna al mare, calata giù, dai margini della marocca, mai misleale sei stata, rarezza, lucente, piccola, bella stella. Ti rasserenerò. Solivagus Rima

Matteo Mascarin

VII


il pomo della discordia IL POMO DELLA DISCORDIA

N

orimberga. Estate 1492.

Il clima era mite, una leggera brezza accarezzava le foglie dei nespoli ai lati della strada. Il signor Vischer stava camminando con lo sguardo rivolto verso l’alto. “Più in su con quella trave!” ammonì un giovane mastro muratore intento a ristrutturare la facciata del municipio. Vischer attraversò il piazzale con passo sicuro. Una volta entrato nell’ampio cortile girò a sinistra e salì le scale, in attesa degli altri ospiti. Non era ancora mezzodì: come sempre, il signor Vischer era in anticipo. Uno scultore non può permettersi di perdere tempo: arriva puntuale, fa quel che deve fare e poi torna al suo laboratorio; e Vischer incarnava fieramente questo dovere morale. Era talmente ligio da essere in procinto di terminare la lapide per Enrico III Groß von Trockau, principevescovo di Bramberga. La terminò a fine anno. Curioso che il destinatario morì appena nove anni dopo. Alla faccia della superstizione! Vischer frugò nelle tasche e recuperò la lettera che aveva ricevuto e che lo aveva portato a rientrare in fretta da Bamberga. “...un oggetto che, sono sicuro, meraviglierà la gran parte di Voi...” e ancora “...un nuovo modo di vedere il mondo”. Firmato: Cavalier Martin Behaim, Faial, Azzorre, Portogallo, 14 luglio 1942. Vischer non aveva mai avuto a che fare con questo Behaim. Tuttavia la sua reputazione lo precedeva: esploratore, astronomo, navigatore, uomo di corte del Principe Perfetto, Sua Maesta Giovanni II del Portogallo. Eppure girava voce che questo Martin Behaim, questo portoghese adottato, fosse un uomo strano, eccentrico, insolito... Troppi grilli per la testa, troppo amore per il vino e poco interesse per la religione. Vischer ripose la lettera in tasca e si diresse verso la sala dov’era previsto l’incontro. “Un nuovo modo di vedere il mondo...”, quelle parole incutevano un po’ di timore a un uomo devoto e ortodosso come il signor Vischer. La sala era già popolata da una manciata di uomini. Vischer ne conosceva alcuni. Il signor

Stoss, che non si faceva a vedere a Norimberga da due lustri, sedeva in un angolo e si mordeva nervosamente le mani. Vischer lo salutò con un cenno di capo, levandosi il cappello. Di fronte a Stoss, un uomo dai capelli lunghi e dai lineamenti delicati, quasi femminili: era Albrecht Dürer, allievo prediletto del Maestro Wolgemut. Altri tre uomini stavano parlottando fra loro sotto una delle finestre della sala. Fra questi pure l’anziano Maestro: gli anni passati gli avevano scavato il viso, ma la tempra, a vederlo discutere con uomini ben più giovani di lui, era rimasta la stessa di un tempo. Tutti aspettavano il Cavalier Behaim. Martin Behaim entrò dalla porta principale con sguardo trionfante, seguito da due uomini che portavano con estrema attenzione un oggetto coperto da un telo di seta. Salutò tutti i convenuti e senza curare troppo i convenevoli prese la parola: “Gentilissimi ospiti, Vi ho convocato in quanto Eccellentissimi Uomini di questa nostra città. So che molti di voi hanno affrontato parecchi giorni di cammino per essere qui: ve ne rendo grazie. Ho avuto la fortuna di viaggiare molto, di scoprire nuovi posti. Il Mondo, miei Eccellentissimi Signori è più vasto di quanto noi possiamo immaginare. Le nuove rotte marittime stanno aprendo nuovi orizzonti... Son venuto a conoscenza di un italiano che cerca uomini per una spedizione che partirà dall’Ispagna in direzione ovest per le Indie. Ed ecco, quindi, che il modo di vedere le cose e la prospettiva con cui ci accingiamo a farlo stanno cambiando...”. Il signor Vischer lo interruppe bruscamente e con tono stizzito: “Signor Behaim, cosa intendete con ciò?” “Di grazia signor Vischer – ribadì Behaim –, ho convocato Voi e gli altri ospiti qui presenti non solo in quanto Eccellenze della nostra Patria, ma etiam in qualità di artisti e di rappresentatori della natura delle cose. Non possiamo più servirci di strumenti obsoleti per rapportarci con la filosofia della conoscenza, abbiamo bisogno di interpretare e rappresentare con spirito rinnovato i fenomeni e la geografia del Mondo. E così ho creato questo...” Behaim venne interrotto nuovamente:Wolgemut si levò dallo scranno con sicumera: “Signor Behaim, le Vostre parole sono prive di senno! I Padri, dovreste sapere, ci hanno già mostrato come...”

VIII


Il Cavaliere si diresse verso l’oggetto e scoprendolo con lentezza e attenzione dal lenzuolo continuò: “... e così ho creato questo!!!” Gli ospiti restarono basiti alla vista di quell’oggetto. Si presentava come una sfera posta al centro di un piedistallo. Un piccolo arco ne collegava le due estremità. Sulla facciata vi erano rappresentate le mappe che ben conoscevano: ecco lì l’Europa, ecco l’Asia, le Indie. A est il grande Oceano. A ovest lo sconfinato Giappone. Ecco, infine, l’Isola di San Brendano con le sue meraviglie! Behaim, fiero del sentimento di meraviglia e curiosità instillato negli ospiti, li fissò a uno a uno. Vischer lo interrogò con voce insicura: “Signor Behaim, ne ho viste di mappe e carte nella mia vita, ma una... sferica, mai! Per quale motivo...” “Sì chiama Erdapfel. Così l’ho battezzato”, ribattè Behaim. “La mela terrestre, ho capito bene, signor Behaim?! La mela terrestre... E per quale motivo realizzare questa diavoleria, questo strumento qui, questa mappa sferica, quando abbiamo tutte le cartine che vogliamo per...”. Vischer venne zittito dal Maestro Wolgemut: “Signor Martin Behaim, a Noi sembra che Voi vi stiate prendendo gioco di Noi, di Noi e della nostra Chiesa. Giocate col fuoco, forse non ve ne rendete conto, forse Satana vi ha già corrotto! La mela terrestre, eh? La mela adamitica, il pomo del peccato, il frutto dell’albero della conoscenza del Bene e del Male, il peccato originale! Signor Behaim, sapevamo della vostra eccentricità, ma non che potesse scadere nell’eresia...”. “Eresia?!?!? – sbottò Behaim – Sarebbe eresia questa?! Voi conferite troppo potere alla geografia...” “Conosco bene la geografia e la filosofia – rispose Wolgemut – e ho chiaro il messaggio che volete lasciare con questo coso, questa mappa girevole, questa rappresentazione del Mondo e del Disegno di Dio. Voi non siete un geografo, Martin Behaim, siete un uomo avido e tracotante che si è asservito al Re di Portogallo e a un popolo di mercanti e avventurieri per castigare l’Uomo una seconda volta! Novello Adamo, ci condurrete a una nuova era di espiazione!”. Il gelo calò nella stanza. Martin Behaim osservò l’Erdapfel, poi sollevò lo sguardo e con il volto sorridente esclamò: “Fatene quel che volete, Signori. Io lo lascio qui. Lascio qui questo

mappamondo, in memoria di questo momento. Non mi aspetto la Vostra benedizione. Lo lascio qui come simbolo di questa ricerca, in memoria della nostra Norimberga, dell’Europa tutta. Che possa, con la benedizione del Nostro Signore, tracciare un nuovo sentiero nella conoscenza e nella ricerca dell’Uomo”. E se andò.

15 maggio 2001. Tyson Corner, Virginia. Un uomo alto, stempiato, dall’aria mansueta si accingeva a presentare al Mondo la sua creazione. Nel suo semplice pullover nero quell’uomo sembrava un commesso qualsiasi di un negozio di accessori tecnologici: diventerà invece uno dei più famosi imprenditori ed inventori del XXI secolo. I giornalisti stavano già battagliando per accaparrarsi gli ultimi posti in prima fila quando il signor Jobs fece la sua timida apparizione sul palco. “Gentilissimi ospiti, vi ho convocato in quanto per rendervi partecipi dell’apertura del primo store dei nostri prodotti... So che molti di voi attendevano da lungo tempo questo momento: ve ne rendo grazie. Ho avuto la fortuna di studiare molto, di scoprire nuove cose. Il Mondo, miei cari signori, è più vasto di quanto noi possiamo immaginare. Le nuove tecnologie stanno aprendo nuovi orizzonti... Ed ecco, quindi, che il modo di vedere le cose e la prospettiva con cui ci accingiamo a farlo stanno cambiando... La necessità di una linea di accessori che potesse rendere omaggio a questi cambiamenti presupponeva un...”. Un uomo dall’ultimo fila, dalla barba folta e il cappello calato sugli occhi si alzò e con voce greve chiese: “E questa...linea di... accessori... Insomma, il logo... il simbolo no?! Ecco il logo... Ci può spiegare, cortesemente perché...” Il signor Jobs compìto rispose: “Il logo è molto semplice, ma significativo: una mela, una mela che...” “...che però è stata morsa...”, aggiunse l’uomo dall’ultima fila. “... Esattamente, signor...?”, chiese con curiosità Jobs. “Adam. Signor Adam Behaim”.

Lorenzo Natural IX


Marine Je voulais entrer en Marine

mais elle n’était pas d’accord

après la pluie, l’eau ruisselle dans le sous-bois Yeah, you have to pick one card... okay, and now discharge another one... J’ai lavé la serviette sur laquelle tu t’étais assise la seule - dernière - chose qui me liait à toi et ainsi, j’ai pensé …peut-être dans le bois de Pincemaille où la pluie glisse sur ton corps en marchant nous aurions pu même - we are opposites! va savoir, entrer dans cette église ou seulement se promener, sic et sempliciter comme ci comme ça semplicemente mais rien ne fut jamais simple et à tes mille balles en français un sourire futile et ingénu et au large il n’y a ni Trieste ni Belgique qui tiennent toi et moi, seuls un moment de bras à fleur d’eau et rien de plus. Ettore Spada Marine Yeah, you have to pick one card... / okay, and now discharge another one... // Ho messo a lavare / l’asciugamano su cui ti sei seduta / l’ultima – unica – cosa / che mi legasse a te // così, poi, ho pensato / … magari nel bosco di Pincemaille / dove la pioggia scivola sul tuo corpo / passeggiando io e te avremmo potuto / forse / - we are opposites! // chissà, entrare in quella chiesa / o camminare così, sic et sempliciter / comme ci comme ça / semplicemente. // Ma nulla fu mai semplice / ed alle tue mille pallottole in francese / un sorriso futile ed ingenuo / e al largo / non c’è più Trieste o Belgio che tenga / io e te da soli / un istante di braccia a pelo d’acqua / e poi più nulla.

X


Sulla vecchiaia. Nella città più “vecchia” d’Italia di Luca Lopardo

Il capolavoro di Cormac McCarthy è “No country for old men”. In Italia viene venduto col titolo di “Non è un paese per vecchi”. Traduzione forse legittima da un punto di vista semantico, ma palesemente falsata se si considera l’opera nella sua interezza, che dalla prima all’ultima pagina pare voler martellare un concetto molto chiaro in chi legga: “Non esiste, oggi, un paese per vecchi”. Una tesi ribadita da un altro fenomenale scrittore contemporaneo, Michel Houellebecq, che ne “La possibilità di un’isola” delinea la situazione della terza età nel mondo occidentale in modo semplice, ma non semplicistico: “La differenza di età era l’ultimo tabù, l’ultimo limite, tanto più forte dato che restava l’ultimo e aveva rimpiazzato tutti gli altri. Nel mondo moderno si poteva essere scambisti, bisex, trans, zoofili, SM, ma era vietato essere vecchi”. Negli ultimi anni va di moda uno slogan, che tutti noi avremo buttato lì al bar: “L’Italia non è un paese per giovani”. Il che è vero, considerando anche l’ossessione con cui sempre di più si straparla, a “destra” e “sinistra”, di generazioni senza futuro, di giovani senza lavoro, di esistenze precarie. Ovviamente, come sottolineato da Massimo Fini, “tenere su un piedistallo i giovani è sempre stato il modo migliore di metterglielo nel culo”, sin dagli anni Sessanta, e ci mancherebbe che il metodo venga abbandonato ora, nel punto più basso di una parabola semi-democratica in picchiata da cinquant’anni. Motivo per cui si continua, ogni giorno, a sentire la solita odiosa retorica sulla difesa di categorie sociali considerate particolarmente deboli o a rischio (i giovani, le donne, gli immigrati, gli omosessuali). Peccato che di provvedimenti legislativi ad hoc, neanche l’ombra – è noto come negli ultimi cinque anni il Parlamento, composto praticamente solo da gente di cinquanta, sessanta, settanta e ottant’anni, abbia prodotto in media una legge per ogni anno e mezzo di “attività”: tutte ad-personam. I diritti universali e inviolabili di ogni individuo vengono, insomma, almeno a parole, tutelati dalle istituzioni. Specie in campagna elettorale. Gli anziani, loro no. Nemmeno a parole. Sono completamente, deliberatamente messi in un angolo. Spesso da soli. Al buio. Gli anziani sono le vere vittime del mondo moderno. Non a caso in Italia, in particolare nel Nord-est e nel Nord-ovest - e, in generale, nell’Occidente globalizzato più ricco, o meno impoverito - il tasso di suicidi tocca le percentuali più alte tra gli over 65 (fonte: Istat.it). Non a caso l’anzianità ha ancora connotazioni pregevoli – non si sa fino a quando – solo nei paesi in via di sviluppo, in Medio Oriente o nei paesi del (cosiddetto) Terzo Mondo. E non a caso,

anche se può sembrare paradossale, da decenni il contesto sociale, culturale e politico italiano è dominato da individui che, più di là che di qua, non mollano l’osso. Fino al secondo dopoguerra, la terza età era veneranda. Un aggettivo che, riprendendo il costrutto sintattico greco e poi latino della perifrastica passiva, voleva indicare la necessità, il bisogno, addirittura l’obbligo – in certe culture tuttora esistente – di venerare l’anzianità. D’altronde chi mai, se non una persona di una certà età, poteva, in tempi non troppo lontani, tramettere la cultura ereditata precedentemente? Cos’altro, se non una fonte palpitante di memoria, poteva essere il perno della famiglia e della società, in una realtà in cui la memoria di sé, della famiglia e della Storia era ancora considerata irrinunciabile? Per secoli, millenni, essere vecchi aveva significato di per sé garanzia di un profondo rispetto da parte del prossimo. E persino la poesia, o le canzoni, dal “Vecchierel canuto e bianco” di Petrarca al “Pensionato” di Guccini, potevano avere come oggetto privilegiato della narrazione una persona “vecchia”. Parola che oggi sembra quasi impronunciabile perché, da una parte, il poco spazio concesso dai media alla terza età lotta ferocemente per alimentare il ripudio verso il decadimento fisico del corpo. Anche i nonni e le nonne, per quanto possibile, devono rimanere consumatori: non sentirsi giovani, ma fare i giovani. Di più: devono essere seducenti: quindi andare in palestra, vestirsi firmati e colorati come dementi, magari con i capelli tinti e le scarpe da ginnastica alla maniera ridicola di Gianni Morandi. Dall’altra parte, “vecchia” è una parola ritenuta offensiva dagli anziani stessi che, esautorati di ogni rilevanza sociale, provano a sganciarsi da una condizione di cui vengono costretti a vergognarsi. In un ultimo, disperato tentativo di concorrere, persino sul piano sessuale, con le giovani generazioni. Inevitabile, quindi, lo scontro inter-generazionale tra ventenni e ottantenni, dove i primi vedono nei secondi la causa della propria totale assenza di prospettive, e i secondi vedono nei primi un avversario irrispettoso nella sanguinolenta prosecuzione della lotta per l’esistenza. Alla consueta abilità di mettere contro poliziotti e operai, i governi occidentali e particolarmente quello italiano sono riusciti nell’impresa, davvero ammirevole, di rompere il patto fra giovani e anziani che durava praticamente dalla notte dei tempi. E così, mentre la disoccupazione giovanile schizza a livelli mai visti prima (40,5% secondo l’ISTAT), dovrebbero far particolarmente incupire provvedimenti, come quelli pensati dall’illuminato Comune di Trieste, di aumentare le tariffe per gli inquilini del-

XI

le case di riposo. Considerati palle al piede da buona parte delle famiglie “moderne”, costretti alla ghettizzazione al riparo dagli sguardi dei giovani, gli anziani – e i disabili – si vedono trattati finanche dalle istituzioni alla stregua di rifiuti da smaltire. Forse perché, a differenza dei giovani, e come dimostrano le proteste per il caldo o il cibo scarso e cattivo di talune residenze triestine per la terza età, gli anziani sanno ancora protestare, ribellarsi, e reagire. In tutto ciò, l’unica e ultima consolazione, se così possiamo chiamarla, è che la situazione attuale rischia di implodere a breve in forme che vent’anni fa avremmo considerato impensabili. Prima o poi, volenti o nolenti, saremo tutti obbligati a vedere l’insostenibilità di un modello di sviluppo che, se da un lato permette alle popolazioni benestanti di vivere più a lungo, rende le loro vite, e soprattutto le parti finali di esse, totalmente prive di senso. Epicuro, nella Lettera sulla felicità, dichiarava: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi.” Non si può dire lo stesso della vecchiaia: quando c’è lei, noi ci siamo. Eccome. Il declino dell’Occidente inizia proprio a partire dalla negazione dell’idea della morte, e, successivamente, dalla paura totale e invincibile dell’ultima soglia, spesso dolorosa, che la precede. Tale negazione, fortemente voluta dalla Dittatura del Mercato, ha spinto l’individuo del mondo nuovo, di ogni età, a procurarsi nel rinnovamento quotidiano del rito consumistico una felicità edonistica – e quindi falsa, come sottolineò Pasolini nelle Lettere Luterane. Eliminata ogni prospettiva, laica o religiosa, di Salvezza, si corre ciecamente alla ricerca di un’emozione perpetua ed effimera, che ci ostiniamo a chiamare felicità. Il “carpe diem” con cui Orazio invitava a cogliere il giorno, selezionando con cura gli acini dal grappolo della vita, è stato soppiantato dal messaggio subliminale dell’inseguire l’attimo fuggente sino all’autodistruzione. In tale prigionia nell’incubo delle passioni, dove peraltro è inaccettabile annoiarsi, la memoria, e quindi anche la vecchiaia, sono zavorre di cui liberarsi. La situazione è praticamente irrimediabile. Inutile prendersi in giro. L’unica soluzione possibile per invertire la caduta risiede nella visione, banale quanto essenziale, che ogni età della vita è preziosa, e non ritrova un briciolo di senso se non nelle sue proiezioni passate e future. Nell’immaginare di nuovo un bambino, con voce sognante, chiedere a un vecchio di raccontargli una fiaba. Quella dell’Uomo.


Note sulla “sopravvivenza delle lucciole”. Per una riflessione su Pasolini e Didi-Huberman di Daniele Lettig

Una delle voci più interessanti del panorama filosofico europeo – nonché dello spazio culturale in senso lato – è senz’altro quella del filosofo, storico dell’arte e studioso dell’immagine francese Georges Didi-Huberman. Negli ultimi anni della sua attività la dimensione dell’immagine cinematografica ha assunto un posto di rilievo, accostandosi alle indagini sul panorama della storia dell’arte, e in questo campo di analisi – che va incrociato con quello delle culture popolari, su cui ritorneremo – si colloca il confronto con l’opera letteraria e cinematografica di Pier Paolo Pasolini. Tali riflessioni sono contenute in due volumi: Survivance des lucioles del 2009 (tradotto in italiano l’anno successivo1) e Peuples exposés, peuples figurants, pubblicato in Francia nel 20122 come quarto volume di una serie dal significativo titolo L’œil de l’histoire. I temi dell’opera pasoliniana su cui Didi-Huberman si sofferma sono i medesimi nei due libri, tuttavia alcune delle osservazioni soltanto accennate nel primo sono più ampiamente discusse e sviluppate nel secondo, che in realtà ne costituisce (con un curioso effetto di anacronia, concetto all’autore assai caro) l’antecedente, riprendendo il contenuto dei seminari da lui tenuti all’École des hautes studes in sciences sociales nel 2008-2009. Nelle pagine di Peuples exposés, peuples figurants dedicate a Pasolini, Didi-Huberman conduce la propria analisi principalmente sulle opere cinematografiche dell’autore di Casarsa, soffermandosi a commentare alcune serie di inquadrature e mettendo in luce lo stretto legame fra esse ed alcune raffigurazioni pittoriche della storia dell’arte: per comprendere Pasolini è imprescindibile infatti soffermarsi sull’«uso intensivo» che questi fa «della

cultura pittorica»3. I lungometraggi su cui il filosofo francese si concentra sono Accattone, Mamma Roma, La Ricotta, La Rabbia, il Vangelo secondo Matteo e la Sequenza del fiore di carta: tutte pellicole appartenenti alla prima fase della filmografia pasoliniana, quella che si esaurisce con Uccellacci e uccellini e di cui la Sequenza del fiore di carta costituisce l’ultima appendice4. Didi-Huberman concentra la propria attenzione particolarmente sulla tecnica di montaggio adoperata da Pasolini: esso è «il cuore stesso che fa battere ogni film»5. Il «montaggio ritmico» che Pasolini, secondo quanto lui stesso aveva teorizzato, cerca di sviluppare6, a giudizio del filosofo francese «riesce a far interagire la mimesis (cioè il cinema come registrazione della realtà), la figura (cioè il cinema come operazione formale-significante) e la passio (cioè il cinema come rappresentazione dei gesti e degli affetti umani)»7. Si può quindi affermare che Pasolini consideri il montaggio «su un piano fondamentale – antropologico, in qualche modo – […], come una “forza arcaica”» grazie alla quale può instaurare un rapporto molto stretto con la realtà8. Lo scopo è quello di mettere in contatto le storie che egli immagina, «le sue favole, le sue poesie, i suoi scritti autobiografici o mitologici – e la storia stessa, la storia dei popoli con la quale queste favole si scontrano»: come nel caso del rapporto instaurato fra le immagini di Marilyn Monroe e quelle di un’esplosione atomica nella Rabbia, o dell’analogia fra la posizione in cui Ninetto Davoli si accascia nel finale della Sequenza del fiore di carta e quella del cadavere di un bambino vietnamita9. Pasolini perciò, ci dice Didi-Huberman, vuole con la sua opera «[r]estituire ai po-

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poli la loro parola» dalla quale, assieme ai gesti, traspare la «forza potenziale, la forza rivoluzionaria […] dei miserabili»10. Da qui l’attenzione, su cui il pensatore francese si sofferma, ai volti dei personaggi che Pasolini sceglie per i lungometraggi. Con le proprie opere – e nei film ciò è ancora più valido grazie alla forza delle immagini – egli vuole infatti «[c]omporre una poesia dei popoli moderni» rintracciando «nell’inferno sociale il punto, la zona, lo sguardo, il corpo, il gesto in cui sopravvive la bellezza. Questa bellezza malgrado tutto che bisogna saper ritrovare là dove […] meno ce lo si aspetterebbe»11. È a questo punto che Didi-Huberman introduce la questione delle “sopravvivenze”, da lui intese – sulla scorta di Walter Benjamin che nei Passagen-Werke aveva parlato di “immagini dialettiche” – come frammenti in cui «il Già-stato incontra l’Adesso per dare origine a un bagliore […] in cui si liberi qualche forma per il nostro stesso Futuro»12: dei lampi intermittenti in cui cogliere la discontinuità del tempo, la «conflagrazione di un presente attivo con il suo passato reminiscente» dice Didi-Huberman richiamandosi all’altro grande nume tutelare della sua ricerca, Aby Warburg13. Commentando un passo di Pasolini dedicato ad Anna Magnani, il filosofo francese scrive che bisogna comprendere che agli occhi del poeta «la bellezza dei popoli è una bellezza di resistenza: bellezza di survie e di survivance al tempo stesso»14. Per capire questo passaggio occorre tenere presente che, come lo stesso autore ha ricordato in un’intervista, la parola italiana “sopravvivenza” si può rendere in francese sia con “survie” che con “survivance”: «La survie è quando tutti sono morti intorno a noi, e noi invece siamo ancora e inaspettatamente vivi. […]. Nel campo della storia delle immagini, così come l’ha teorizzata Warburg, la survivance è invece la sopravvivenza alla propria stessa scomparsa. La survivance riguarda tutto ciò che si credeva morto, obsoleto, finito e che invece, in altri luoghi, in altri momenti della Storia, ritorna nuovamente alla superficie del mondo»15. Il problema che si pone nell’opera pasoliniana, osserva Didi-Huberman, è che «questa ricerca appassionata non potrebbe avere luogo senza la concomitante osservazione, o la terribile diagnosi, di una messa a morte dei popoli nella storia moderna. L’esporre i popoli – restituire loro volto, parola e bellezza – non procede, in Pasolini, senza la coscienza viva che i popoli sono, peraltro, esposti alla scomparsa»16: dunque «lo stato di fatto contro cui resiste ancora ogni apparizione della


bellezza dei popoli […] non è altro che la morte dei popoli» 17. Il movimento che porta Pasolini a mettere in luce, grazie ai suoi film, dei popoli sopravviventi è lo stesso che lo spinge ad una critica feroce e appassionata del “nuovo fascismo” e del “genocidio” in atto negli anni Settanta, che troverà la propria espressione simbolicamente più forte nel famoso “articolo delle lucciole” dal quale Didi-Huberman inizia a sviluppare le riflessioni contenute nel suo libro del 200918. Prima di arrivarci, tuttavia, ci pare opportuno segnalare un aspetto che in quel volume compare di sfuggita e che però ai fini della nostra ricerca risulta interessante e degno di essere approfondito: il rapporto fra la rappresentazione dei popoli sopravviventi da parte di Pasolini con le ricerche di Ernesto De Martino, in special modo quelle sulle “apocalissi culturali”19. Anche De Martino, infatti, trova «nell’osservazione fenomenologica dei corpi […] il materiale fondamentale della sua analisi»20. Questa comune attenzione alla dimensione corporale e gestuale delle popolazioni sottoproletarie e contadine, sostiene Didi-Huberman, è il segno che lo sguardo che Pasolini getta sui popoli che costituiscono l’oggetto delle sue opere ha il carattere di una «antropologia delle sopravvivenze»21. Ci avviciniamo a questo punto al centro del problema che ci preme affrontare. Didi-Huberman scrive che «se la pratica del cinema si costruisce come esperienza autentica», come avviene a suo giudizio nel caso di Pasolini, allora «i gesti non sono perduti ma sopravviventi, altro modo di essere efficaci, anche politicamente, nella nostra situazione presente»22: dunque «un cinema come quello di Pasolini ci mostra come un tratto di sopravvivenza possa costituirsi come un fatto di resistenza»23. Questo discorso tuttavia, secondo l’autore francese, non può essere applicato all’ultimissima fase del lavoro di Pasolini, quella caratterizzata dall’“articolo delle lucciole”, da Salò e da Petrolio. Proseguendo sempre sulla falsariga della metafora delle lucciole – che vengono identificate con le sopravvivenze – Didi-Huberman scrive che esse «“scompaiono” nella sola misura in cui il loro spettatore rinuncia a seguirle. Scompaiono dalla sua vista perché questi rimane al suo posto, che non è quello adatto per poterle scorgere»24. Se è vero che Pasolini «sapeva, poeticamente e visivamente, cosa significasse sopravvivenza» e conosceva «il carattere indistruttibile […] delle immagini in perpetua metamorfosi», tuttavia per Didi-Huberman «nel 1975, avendo abiurato i suoi ultimi tre film e lavorando nella bolgia infernale di Salò, Pasolini […] non riusciva più a vedere dove e come il Già-stato venisse a cozzare contro l’Adesso per dare vita al piccolo baluginio e alla costellazione delle lucciole. […] A essere scomparsa in lui era la capacità di

vedere […] ciò che non è completamente scomparso, e soprattutto ciò che appare malgrado tutto come novità reminiscente»25. Un Pasolini, dunque, non più in grado di scorgere le lucciole-sopravvivenze che prima invece erano ai suoi occhi così evidenti. Questa affermazione a nostro avviso sottintende un’idea di “sopravvivenza” a cui Didi-Huberman sembra attribuire un valore soltanto positivo. Tuttavia bisogna porsi la questione se non sia possibile pensare le sopravvivenze come il residuo di un “Già-stato che agisce sull’Adesso” il quale abbia carattere negativo, ovvero che costituisca la rappresentazione non delle «condizioni antropologiche di resistenza al potere centralizzato»26 che si esercita sui popoli e sui corpi, bensì delle condizioni di oppressione, degrado e rigido inquadramento che ad essi impone quello stesso potere. È questa a nostro avviso la posta che Pasolini mette in gioco abiurando dalla Trilogia della vita e concependo due opere come Salò e Petrolio, e che Didi-Huberman non coglie nelle sue considerazioni. Ci interessa quindi indagare se e come nell’ultima fase della sua opera, Pasolini sia capace di individuare degli elementi di sopravvivenza che permettono di cogliere una discontinuità temporale, un coagulo di passato e presente che agisce sul futuro, il quale però è di segno diverso: non testimonia la resistenza quanto piuttosto la resa dinanzi all’insopprimibile dimensione oscura e violenta della storia; l’inquadramento – possiamo dire riprendendo due termini d’ascendenza foucaultiana – in una serie di meccanismi di potere e di sapere. Intendiamo rimarcare, quindi, che il fenomeno definito da Pasolini negli ultimi anni della sua vita “scomparsa delle lucciole” non denota un appannamento del suo sguardo (come sembra suggerire Didi-Huberman), ma uno spostamento del fuoco dell’osservazione in un’altra direzione. Se le lucciole rappresentano un genere di sopravvivenza “positiva”, una forma di resistenza al potere, le survivances che il poeta individua nelle sue ultime opere hanno al contrario un carattere “negativo”: testimoniano la consapevolezza che tra tutte le immagini che assumono la funzione di revenants, continuano ad affacciarsi alla nostra memoria e ad agire sulla nostra vita, oltre a quelle che ci consentono di mantenere una posizione di critica al potere ce ne sono altre che testimoniano la persistente presenza della polarità avversa. “Ciò che appare malgrado tutto” e permane malgrado tutto non è solo l’indizio di una possibile alternativa, ma anche il segno dell’incancellabile presenza di quanto a tale resistenza si oppone. Ci pare di poter concludere, perciò, che nell’ultimo Pasolini, non si «dichiar[a] […] la morte delle sopravvivenze […] delle nostre ossessioni, della nostra memoria in generale»27: si afferma decisamente, in-

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vece, che le immagini passate che “cozzano contro l’Adesso” agendo così sulla nostra quotidianità possono avere anche un carattere negativo, e costringerci a fare i conti con la parte oscura e abissale dell’esistenza. Note 1 Georges Didi-Huberman, Survivance des lucioles, Minuit, Paris 2009; trad. di Chiara Tartarini, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino 2010. 2 Id., Peuples exposés, peuples figurants. L’œil de l’histoire, 4, Minuit, Paris 2012. 3 Ivi, pp. 178-9; tutte le traduzioni dei passi citati da questo testo sono nostre. 4 Per questa classificazione di una “prima” fase del cinema pasoliniano, cfr. ad esempio il volume di Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano 1994. 5 Georges Didi-Huberman, Peuples exposés, peuples figurants, p. 190. I corsivi, ove non diversamente indicati, sono nel testo. 6 Cfr. Pier Paolo Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000, pp.198-226. 7 Georges Didi-Huberman, Peuples exposés, peuples figurants, cit., p. 190. 8 Ivi, p. 191. 9 Ivi, pp. 192-5. La citazione è a p. 192. 10 Ivi, pp. 199 e 202. 11 Ivi, pp. 208-9. 12 Georges Didi-Huberman, Survivance des lucioles, trad. it. cit., p. 38. 13 Ivi, p. 39. 14 Id., Peuples exposés, peuples figurants, cit., p. 211. 15 Intervista a Georges Didi-Huberman di Isabella Mattazzi, Una allegoria politica rischiarata dalle lucciole, in «il manifesto», 20 febbraio 2010; ora reperibile alla pagina web <http://www.nazioneindiana. com/2010/02/25/luce-buio-didi-huberman> (url consultato il 07/08/2013). 16 Georges Didi-Huberman, Peuples exposés, peuples figurants, cit., p. 211. 17 Ibid. 18 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, Il genocidio e L’articolo delle lucciole, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 2000 [1975]. 19 Cfr. Georges Didi-Huberman, Peuples exposés, peuples figurants, cit., pp. 21420. 20 Ivi, p. 214. 21 Ivi, p. 219. 22 Ivi, p. 224. 23 Ivi, p. 228. 24 Id., Survivance des lucioles, trad. it. cit., p. 30. 25 Ivi, pp. 40-1. 26 Ivi, p. 41. 27 Ibid.


Roland Barthes ai tempi del digitale di Stefano Tieri

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aturalmente non voglio più saper niente di questa dimora che si è disonorata, così come di mia cugina Clara de Chimay che ha lasciato il marito. Ma conservo la fotografia della prima ancora intatta, così come quella della principessa quando i suoi grandi occhi non avevano sguardi che per mio cugino. La fotografia acquista un po’ della dignità che le manca quando cessa di essere una riproduzione del reale e ci mostra cose che non esistono più” (Alla ricerca del tempo perduto. All’ombra delle fanciulle in fiore, Marcel Proust). Se la memoria può essere considerata il protagonista del capolavoro dello scrittore francese, non stupisce che la fotografia faccia spesso capolino fra le sue pagine, né che si ritagli più volte un ruolo centrale nella narrazione: nel costante viaggio fra presente e passato la fotografia è al tempo stesso ciò che è stato e ciò che, nel momento in cui la si guarda, continua ad essere per noi – pur, magari, non essendo (non esistendo) più. Che cos’è la fotografia? Se è difficile definire cosa sia ‘in sé’, è più facile descriverla a partire dalle proprie esperienze: è quello che fa Roland Barthes ne La camera chiara, breve ma intenso scritto mandato in stampa nel lontano 1980, prima che la fotografia digitale fosse ideata e, quindi, si diffondesse sostituendo il suo ‘antenato’ a pellicola. E oggi, a più di trent’anni dall’uscita del libro? La diffusione della fotografia digitale, che ha permesso un abbassamento dei costi (niente più rullini da sviluppare, ciascuno con un numero ridotto di foto), ha portato di conseguenza ad un’inevitabile proliferazione di scatti, ad un’intensa quanto continua produzione di immagini virtuali. Fotografiamo ogni cosa, non più solamente con macchine fotografiche (di cui si è sfaccettato anche il mercato: oggi possiamo infatti scegliere tra compatte, reflex, bridge o mirrorless) ma con cellulari, tablet, console videoludiche, persino con degli (apparentemente) semplici occhiali: ogni immagine che passa davanti ai nostri occhi potrebbe potenzialmente essere catturata – e non è affatto escluso che, in un prossimo futuro, ciò accada. Sarebbe sciocco credere che una rivoluzione del genere non avrà

(non stia avendo?) effetti sul nostro comportamento: “non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine”, sottolinea Barthes. La Fotografia, insomma, “crea o mortifica a suo piacimento il mio corpo”. Il giorno in cui dietro ad ogni superficie si nascondesse più o meno velatamente uno sguardo in grado di catturarci (e immobilizzarci) per l’eternità, che ne sarà della nostra vita privata? “La ‘vita privata’ altro non è che quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto. Ciò che devo difendere è il mio diritto politico di essere un soggetto”. Cambia radicalmente, nel passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale, la stessa ‘vita’ dell’oggetto foto: fintanto che è legata ad un supporto materiale come la carta può venire “attaccata dalla luce, dall’umidità, essa impallidisce, si attenua, svanisce; non resta altro che buttarla via”; la finitezza della sua ‘vita’ è, forse, quel che la rende affascinante ai nostri occhi: ogni elemento è prezioso anche perché deperibile, finito, esattamente come lo siamo noi. Con il digitale, all’opposto, tutto può, molto più facilmente, restare: copie di backup, cloud computing e diffusione esponenziale delle immagini che decidiamo di condividere tramite i social network (quasi

che ogni cosa, per esistere, debba necessariamente essere condivisa su queste piattaforme) rendono come eterno ogni singolo scatto. E noi finiamo col rimanerne, irrimediabilmente, intrappolati. La memoria, in questo presente che va costituendosi come successione continua di scatti, risulta così, proprio da questi scatti, distrutta. Una memoria senza ricordi: “Non solo la foto non è mai, in essenza, un ricordo […], ma per di più essa blocca il ricordo, diventa rapidamente un contro-ricordo”. I ricordi, in quanto fotografati, diventano immagini e sono bloccati – meglio: segregati (nelle secrete era impossibile per i singoli detenuti, separati l’uno dall’altro, interloquire tra loro) – nell’istante dello scatto, un istante che schiaccia con la sua forza (“la fotografia è violenta: non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista”) gli istanti circostanti, bloccando in questa staticità dell’immagine il fluire del divenire: “il Tempo è ostruito”. “L’essenza della fotografia è di ratificare ciò che essa ritrae”: è qui in gioco una certa precedenza di verità concessa all’immagine: è principalmente il visto ad essere ritenuto vero, non il suo odore, il suo suono – non il percepito, in ogni sua sfaccettatura. Se proprio non si vuole fare affidamento sulla propria memoria ‘fallace’, non volendo accettare ciò che invece è il suo valore

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(quanto trasformi le esperienze, come ne selezioni e conservi con cura quelle più care), come possiamo racchiudere un ricordo senza temere che qualche suo aspetto venga perduto? Se il problema sta nella ‘verità’ dell’immagine, si può allora ricorrere al linguaggio, “per natura fittizio”: una narrazione – “vaga” e “discutibile” – che, nel susseguirsi di parole mai definibili fino in fondo, diviene vita. “Se era questa nozione del tempo evaporato, degli anni passati non separati da noi, ciò che ora intendevo mettere in così forte risalto, era perché, in quello stesso momento, nel palazzo del principe di Guermantes, quel rumore dei passi dei miei genitori che accompagnavano Swann, quel tintinnio rimbalzante, ferroso, interminabile, stridulo e fresco della campanella che mi annunciava che finalmente Swann se n’era andato e che la mamma sarebbe salita in camera mia, io li udivo ancora, udivo proprio loro, pur situati così lontano nel passato […] Dunque quello scampanellio c’era sempre, e fra esso e l’attimo presente c’era anche quel passato indefinitamente trascorso che ignoravo di portare dentro di me” (Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato, Marcel Proust). L’ostruzione scivola via, il Tempo si ritrova all’improvviso – in uno scampanellio, le cui tracce rimangono impresse su di una pagina ingiallita.


Cannabis

di Solivagus Rima (srsolivagus@gmail.com)

G

iacomino è a una festa all’università. La musica impazza, sul palco si festeggia. Parla un rappresentante di un partito. Il pubblico applaude. Giacomino no. Il rappresentante esprime il suo odio verso la mafa. Il pubblico applaude più forte. Giacomino riflette. Il rappresentante parla della legalizzazione della cannabis, motivandola con la frase “Ogni tanto una cannetta ci sta!”. Il pubblico gioisce. Giacomino no. Giacomino non è un perbenista. Giacomino pensa. Egli sa che, anche se la mafa non vive di droga, ci mangia comunque intorno. Lui sa che, se non si legalizza e si proibisce, la mafa ride. Ma oltre a questo Giacomino sa e che, anche se non si legalizza, il rappresentante del partito compra comunque la droga illegalmente, perché in lui vige la perla filosofica “Ogni tanto una cannetta ci sta!”. Giacomino sa che il rappresentante parla parla, ma sotto sotto dà pane alla mafa. Giacomino conosce la cannabis. Sa che la frase del rappresentante è banale. Per questo motivo risponde così… elencando quelli che secondo lui sono motivi (storici, culturali ed economici) più validi dell’ “Ogni tanto una cannetta ci sta!” per argomentare la legalizzazione della cannabis: “La cannabis (canapa) è una delle droghe psicoattive delle quali viene fatto maggiormente uso. Nonostante il fatto che il suo uso sia illegale in molti paesi, la cannabis viene usata da milioni di persone in tutto il mondo. Migliaia di persone affette da AIDS, sclerosi multipla o da altre patologie fanno uso illegalmente di cannabis con l’unico scopo di migliorare il loro stato di salute. Esistono tre varietà della pianta di cannabis: cannabis sativa, cannabis indica e cannabis ruderalis. Tutte e tre sono indigene dell’Asia centrale e meridionale. Le foglie sono sette (o nove) e sono suddivise in pinnule dentellate. Inoltre la pianta di canapa è composta da varie parti, le quali servono per ricavarne prodotti di diversa utilità: Fibra lunga: tessuti per abbigliamento, arredamento, corde, tappeti Fibra corta: carta, feltri isolanti, geotessili, compositi Canapulo: pannelli isolanti, materiale inerte per edilizia, lettiere Semi: olio alimentare, cosmetica, vernici, resine La cannabis è sempre stata presente, come in tutta Europa, anche nell’agricoltura in Italia fin dall’antichità. La coltivazione della canapa tessile fu introdotta nel-

la nostra penisola dall’Oriente. Possiamo trovare una traccia di quest’origine nella cultura e nella lingua indoeuropea. Infatti il nome sanscrito della canapa, ganja, che è attualmente associato soprattutto alla cultura creolo-giamaicana, ci fa chiaramente capire che l’origine della pianta di cannabis non può essere altro che orientale. Inoltre la parola ganja evidenza in modo particolare la sacralità e l’importanza che questa pianta aveva nell’antichità. Infatti la palese assonanza fra i nome ganja e quello del famoso fiume sacro dell’India, il Gange, non fa altro che darci prova di questo. Oltretutto ganja in sanscrito, con una pronuncia un po’ diversa ma molto simile alla parola che sta per “canapa”, significa anche “tesoro” o “stanza dei gioielli”. Ecco perché questa pianta si può considerare non solo sacra, ma anche molto importante per l’antica economia orientale. Negli anni ‘30, l’antropologa Sula Benet evidenziò la possibilità che gli antichi israeliti facessero un uso sacrale della cannabis, desumendo l’informazione dai versetti della Bibbia in cui si parla di kaneh bosm (‫ֵהנְק‬ ‫) ֶׂםשֹב‬. Inoltre si può parlare, anche se con sguardo più critico e scettico, delle contemporanee teorie che sostengono che la cannabis sia un’erba aliena donata da alcuni misericordiosi e buoni extraterrestri all’umanità attraverso una popolazione africana del Mali, i Dogon. Infine i Rastafariani, fedeli del famoso culto degli anni ‘30, il Rastafarianesimo, ritengono la marijuana molto importante non solo per la preghiera, ma anche per la meditazione. Il primo esempio nella letteratura italiana dell’esistenza della canapa nell’antichità l’abbiamo con Girolamo Baruffaldi, presbitero italiano nato a Ferrara nel 1675. Egli compose un poema in otto libri intitolato Il Canapaio, con una grande attenzione per la coltivazione della canapa, che rivestiva una grande importanza per l’agricoltura della zona di Cento e che trovava largo impiego nella flotta veneziana. Ma i problemi per la cannabis iniziarono nei anni ‘30 negli Stati Uniti. Di fronte all’avanzata della rivoluzione industriale, nacque in America il movimento della chemiurgia, una branca dell’industria che si occupava della preparazione dei prodotti industriali esclusivamente da materie prime agricole. Uno dei fondatori fu Henry Ford, che invece di indirizzare tutti i suoi finanziamenti sull’industria, propose di integrare la produzione agricola con quella industriale, utilizzando prodot-

ti vegetali (sopratutto la cannabis) per fornire all’industria tutte le materie prime di cui aveva bisogno. Rimaneva però un grande problema riguardante l’estrazione della fibra, lavoro che si doveva fare a mano. Questo rendeva la produzione estremamente lenta, col risultato di aumentarne i costi. Ma con l’invenzione del decorticatore, una macchina in grado di mettere a nudo la corteccia dei fusti delle piante, la produzione di canapa fu indirizzata verso il suo futuro successo illimitato. Qualche tempo dopo, la rivista tecnologica statunitense Popular Mechanics pubblicò un articolo che presagiva un futuro prospero per le piantagioni di cannabis. Ma non tutti videro di buon occhio questo possibile successo della pianta di canapa nel mercato. Harry Jacob Anslinger, che aveva già avuto precedenti esperienze come federale durante il proibizionismo, fu nominato capo del Federal Bureau of Narcotics (Ufficio narcotici). Egli, sapendo di non poter attaccare direttamente la cannabis, pianta molto diffusa e coltivata in America, decise di introdurre il nomignolo messicano marijuana, che fino ad allora era sconosciuto negli Stati Uniti. Da una parte si poterono allontanare i sospetti dai reali scopi dell’operazione, dall’altra fu possibile collegare l’uso della droga alle minoranze etniche, soprattutto messicani e negri, cavalcando con facilità il razzismo e la xenofobia di quell’epoca. Fu in quegli anni che la propaganda negativa nei confronti della cannabis invase anche il mondo del cinema con film come: Marijuana: The Devil’s Weed (1936) o Reefer Madness (1936). Di quest’ultimo venne fatto nel 2005 un remake sotto forma di musical, in chiave satirica. Nel remake viene fatto un interessante gioco di parole, ai fini di sottolineare il fatto che il protagonista vive un amore combattuto fra due donne: Mary Lane (una brava ragazza) e Mary Jane (la droga della perdizione - marijuana). Nel 1937 Anslinger, durante l’audizione del Congresso degli Stati Uniti, dichiarò: “Ci sono 100.000 fumatori di marijuana negli Stati Uniti, e la maggior parte sono negri, ispanici, filippini e gente dello spettacolo; la loro musica satanica, jazz e swing, è il risultato dell’uso di marijuana. Il suo uso causa nelle donne bianche un desiderio di ricerca di relazioni sessuali con essi”. Dopo poco la propaganda negativa di Anslinger prese piede e in pochissimo tempo nacque il “nuovo mostro” della marijuana. Il mercato fu subito invaso da pub-

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blicazioni negative (nella rivista Cosmopolitan) e il cosiddetto reefer (cannone o spinello) iniziò ad essere sinonimo di degrado, di depravazione morale, di violenza inconsulta. Nel 1941 Henry Ford costruì un’automobile progettata quasi interamente con prodotti vegetali, tra cui cannabis e altri derivati. Il motore utilizzava una miscela con il 10% di etanolo, mentre la carrozzeria era composta con una speciale plastica biodegradabile. Così nel 1967 in California fu condotta una ricerca scientifica, che dette dei risultati tutt’altro che terrificanti, sulla cannabis. Nel frattempo anche i soldati in Vietnam scoprirono la marijuana; e anche nel loro caso si scoprì che la cannabis non aumentava affatto la loro aggressività verso il nemico, anzi avveniva il contrario: diventavano forse più amichevoli. Anche molte star di Hollywood, come l’attrice statunitense Shirley MacLaine, dichiararono nelle interviste d’aver fumato marijuana e di essere a favore della sua legalizzazione. Nel 1968 il presidente repubblicano Richard Milhous Nixon dovette affrontare il movimento popolare che chiedeva la decriminalizzazione della marijuana. I risultati furono del tutto imprevisti e Nixon, dopo esserne venuto a conoscenza, cestinò il rapporto senza nemmeno guardarlo. Poi fece approvare una legge per il controllo dei narcotici, la quale collocava la marijuana nella “drug schedule I”, la categoria delle droghe più pesanti e pericolose, come la cocaina, la morfina, l’eroina. La collocazione nella “drug schedule I” fu irragionevole e infondata. La marijuana era infatti una delle medicine più sicure della farmacopea e avrebbero dovuto collocarla nella “drug schedule II”. Nixon, inoltre, rese la marijuana la priorità numero uno della DEA. Fino a poco tempo fa, l’opinione pubblica riguardante la marijuana si basava su una politica di governo totalmente mal informata …” Ma Giacomino è contrario alla legalizzazione. Giacomino sa che alla fine vincerà sempre la breve frase “Ogni tanto una cannetta ci sta!”. Giacomino conclude: “Nel 1975 Pierpaolo Pasolini avrebbe sostenuto in un articolo, pubblicato sul Corriere della Sera, che colui che fa uso di droghe lo fa perché si sente un “diverso”. Lo fa perché ha bisogno di “normalizzare” se stesso. Lo fa per mancanza di cultura, per riempire un vuoto esistenziale, per un senso di paura del futuro.”


Dal 27 agosto scorso Charta Sporca è una rivista iscritta al tribunale di Trieste. Cogliamo l’occasione per riproporvi il nostro manifesto, comparso finora solamente sul numero zero (uscito nell’ottobre di due anni fa):

«Tenderà a rimettere in discussione tutto, ché in definitiva mi rifiuto, sia inconsapevolmente che consapevolmente, a ogni forma di pacificazione»: queste le parole di Pier Paolo Pasolini, che introducono la poesia il cui titolo è stato scelto come nome da questo periodico accademico. Sarà un foglio macchiato per le eccessive riscritture, correzioni, cancellature, figlie del dubbio che anima ogni uomo cosciente: - siamo Charta da Cultura: tratteremo ogni aspetto della nostra epoca ma non ci limiteremo ad essa, poiché l’Arte non ha tempo e qualsiasi passato è presente per chi sappia leggervelo. Faremo nostra l’ottica strabica, volutamente anacronistica, del viandante apolide per istinto. - siamo Charta Bastarda: una ventina di studenti, che forma un gruppo eterogeneo nelle idee e nei principî, pronto anche a darsi contro l’un l’altro, sullo stesso foglio, noncurante delle profonde macchie d’inchiostro che porterà questo scontro tra penne. - vogliamo sporcarci le mani, ogni pilatismo è bandito; né il politicamente corretto, ovunque annunciato e di cui si armano i pavidi, sarà di casa. Ognuno avrà il coraggio e la forza delle proprie idee.

NUMERO XI-

Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013).

GENNAIO/FEB

BRAIO 2013

NUMERO

Ecco a voi, o Lettori, il primo questo nuovo numero di anno. per i nostri estimat Abbiamo buone notizie per chi ci biasima ori (meno buone, invece, Charta Sporca ): l'associazione cultura , che edita questo le ha ottenuto dall’Un periodico, iversità, fondi necessa ri alla stampa per il 2013, i riusciremo, inoltre, del giornale; ad aumentare la fino a 750 copie tiratura per numero.

Ma la nostra attività in mente di organiz non finirà qui: abbiam o zare, dato il riscontrato lo successo scorso anno una serie di in iniziative confere simili, in cui la presenz nze d’ambito cultura le venga accomp a di personalità afferma te agnata e alternat di giovani student a da interventi i (e non). Proprio giorni stiamo in questi componendo appuntamenti, il calendario degli grado di fornirvpurtroppo non siamo ancora in modo vi terremoi delle date precise, ad ogni su queste pagine costantemente aggiorn ati sia che sul nostro sito internet. Buona lettura!

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Direttore responsabile: Stefano Tieri Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti

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Il Manif

RCA A SPO CHART in IO 2012 rimettere in NUMERO VI - MAGG à a ché «Tender tutto, one to, sia discussi a mi rifiu che i definitiv evolmente a ogn inconsap olmente, ione»: consapev di pacificaz Paolo forma le di Pierducono le paro intro queste che o è stato Pasolini, il cui titol questo ia da la poes nome demico. come acca scelto o chiato periodic foglio mac itture, un e riscr Sarà eccessiv cancellature, per le ni, anima correzio dubbio che iente: del cosc figlie o uom ogni

“Scendere in campo” o “salire cabina dove in politica”... hanno caccia to la democrazia. “prestarsi” o “impegnarsi” (nuove), parole ura: …è questo il Nel d’ordine, ha dilemma cherta da Cult tto ripreso a macina frattempo la Politica, quella poi è arrivat aspe a Lei. No, non o Cha ci porterà re discorsi, ad con la P maiusc fino la democrazia, ogni - siam ola, ci alle urne, in quella E la legge del offrirci visioni o quella quella angusta connon mercato sono del mondo. Si, centina trattèerem ra epoca ma enormi monop è mimetica, si nasconde, poiché ia di liste, simbol nost c’è la crisi, essa, la sobriet ma la legge del dellavero, i, facce oli nazionali: Maxi format siasi à è d’obbl mo ad po e qual mercat Sono i saldi si o famiglia a igo, ma limitere o (ohadella di fine stagion tem televisi destra, conven compra, si vende, si contra chi per one, non che poi è la stessa poi… e, è la Politic di magazzini ienza e qualità ttatee, l’Ar se mo presentenelFare a impegnata della Repub cosa). a sinistra, soddisf è capiti posto ato lo. blica Italian a svendersi Non vi appesa erve ica,sbagliato, ti spenna o rimbor a si vende in tristi e povere passatto legg strab ntiremo ancora no. sato al centro. di tutto e noi, sappia con prolissi l’ottaica attenzione, stica, del popolo di bocca prestaz ra ioni, discorsi sulle caccia roni il terreno è nost di voti to. (i vostri) buona, tam prossime ente anac per istin scivoloso, basta . Ai granide volu ci facciam un passo distrat elezioni, che infarciscono e apol o andare bene qualsia tvdant to e…ssvvtt, e giorna vian si cosa. li. Vi vi trovate con il culo per terra. darem a:o solo un consiglio: I Bastard lo rta Capito scivolo che Cha ? enti, siamo stud ina di ogeneo una vent gruppo eter cipî, prin un i forma e nei idee a dars nelle sullo anche pronto l’un l’altro, curante contro foglio, non chie mac stesso profonde porterà che delle penne. stro d’inchio scontro tra questo

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un tailleur grigio in trappola da è già tutto uno la donna «presa capolino, ed i loro cravatta, eccolo fare gono i politic to dal nodo della sky appaia: non si sottrag e – l’uomo blocca in attesa che Noam Chom or fervore (gara a cui a nelle sue giacch ncine blu, tà” – di a con maggi Il pubblico strepitè seduto su comode poltro una gara a chi acclam – di “istituzionali allora? o di riverenza .e fumo». Ognun ausi, uno spellarsi le mani, posto, l’alone d’Israele, certo.. in cui è stato e dello Stato teca la rica dice: d’Ame scrosciare d’appl ». ante quello che violenze degli Stati Uniti ti). tutto resta uguale non è import locali presen ma in fondo che, saputala, . Denuncia le ma della parla, parole titolo sue saperla il alle Infine Noam youtube è tanto di dato, toglie forza cercando su in Italia non , potete farlo «il problema cui è stato circon non importa: alle sue parole ed importanza La verità, tanto, per dare peso riascoltarlo legacy”. o perso, o se volete its roots, our volgarizzand a tutto ciò, Se ve lo siete ing World Order: ndo le alla gnare “The Emerg contenuti, riempe amrivolte anche conferenza: stu- i nostri di conferenze pubblicità,

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afia Lilligr

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II

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I

che agli pagine di a nanza, oltre ambiti del sapere. alle nostre frenicamente dei più diversi a sono cittadi Abbiamo dato spazio miccando schizo Sono sicuro nostro sistem La critiche al messa denti. lasciate ai margini; salvo destra e a manca? pagnate dalla con noi sulla state accom che ab- realtà erci, poi, che era la stessa che concorderete la nostra degli aspetti di Stefano Tieri spa- accorg ad essere stata relega- risposta, premiando in evidenza certo a a o meritassero romantica (di biamo ritenut modo il parlare Cultur da questo sistem scelta un po’ o e la vicial margine tobre del zio, allo stesso posto era stata d’antan) con l’affett ato dal ta suo nell’ot affianc Al sempre fa, . avete to di cultura è stato malato Un anno a” (ha anche finora ci scritto, stampa riferisco, qui, affermata una “cultur la nanza 2011, veniva primo numero di fare cultura (mi uare a definir rato. il cora senso contintelevisiva, sud- dimost nato alla Terza Pagina). e distribuito : . Il gruppo volgare e a voi e auguri Charta Sporca idee ma pe- tale?) o, serva dell’au caro saluto eneo nelle cazione del dita del mercat al facile e de- Un anno è di tutti. allora, eterog principio fonda- Oltre alla pubbli ta all’interno questo comple un di riodico – distribuito dience, svendu concorde in turno. e, al di fuori abbiamo orga- magogico slogan di rassementale (seguir nto esterno, il dell’Università – imento di Ita- Ci saremmo forse dovuti ioname , nel Dipart ogni condiz presto è ciclo ), nizzato critico chiuso, un I proprio spirito liendo studenti lianistica oramai cresciuto, raccog

elina Prima cand

Tutti i numeri arretrati di Charta Sporca sono consultabili online dalla nostra pagina Facebook

VII

Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Piero Rosso Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

chartasporca@gmail.com www.chartasporca.tk


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