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NUMERO XIV - SETTEMBRE/OTTOBRE 2013

Tre Parole

di Stefano Tieri Potrebbe essere la prima volta che ci leggi. Magari hai iniziato da poco a percorrere i corridoi dell’Università e hai intravisto, in un angolo di un’affollata aula studio o di una biblioteca, questo giornale. Oppure potresti averci trovato (“strano, non l’ho mai visto prima d’ora!”) nella tua libreria di fiducia o in emeroteca. In entrambi i casi ti starai forse domandando cosa troverai all’interno di queste pagine. L’occhio ne percorre rapidamente la prima: quando starà leggendo queste righe avrà già colto, oltre al nome del giornale, un curioso sottotitolo: “il periodico culturale dell’Università di Trieste di cui nessuno sentiva bisogno”. Frase da cui partire, in mancanza di altre informazioni, per capire cosa si ha sottomano. Parole provocatorie, certo, di cui forse non si coglierà immediatamente il senso: se è vero che di questo giornale non si “sentiva bisogno”, non è tanto per le discutibili capacità di chi ci scrive (su questo giudicherete voi lettori), quanto per gli argomenti trattati: è la cultura – che qui si ha la pretesa di affrontare – ciò di cui oramai non si sente bisogno. Ma poi, possibile sia veramente così? Ad interpretare (mai esegesi fu più facile) la volontà politica di chi delibera sui finanziamenti destinati all’Istruzione (e, più in generale, su quelli riservati alle realtà culturali), si hanno ben pochi dubbi a riguardo. Dubbi che non vengono certo meno a leggere i dati Istat, i quali registrano come più della metà degli italiani con più di sei anni non abbia letto nemmeno un libro lo scorso anno. Possibile che i due aspetti siano tra loro nettamente separati? Non si tratta piuttosto di un unico discorso, che tende a sostituire un tipo di cultura (agli occhi di qualcuno costosa e non renumerativa: “con la cultura non si mangia”) ad un’altra (maggiormente redditizia e facilmente spendibile secondo le logiche del mercato)? In quest’ultima le lunghe ore destinate alla cura di sé, ore oziose (nell’ac-

Esiste un’arte che possa definirsi libera, svincolata dalle leggi del consumo e della produzione? Se esiste, difficilmente le sarà dato spazio all’interno della critica e nelle rassegne internazionali. Marco Tracanelli ha provato a rompere il muro di gomma che circonda la selezione di ciò che “merita” e ciò che “non merita” d’essere visto, e lo ha fatto con quella provocazione capace di colpire e smuovere le coscienze. Una grande imbarcazione di carta (che riprende il nome della nota “corazzata Potëmkin”), costruita con i fogli di giornali indipendenti, è stata ormeggiata davanti ai Giardini il primo giugno, giorno dell’inaugurazione della Biennale di Venezia. Impossibile ottenere le autorizzazioni necessarie all’installazione: anche sul lungomare dei Giardini c’era infatti bisogno del nulla osta della Biennale, mai arrivato. Lungi dal voler cambiare i propri piani, rievocando in questo modo il gesto di ribellione della corazzata da cui prende in prestito il nome, la nuova Potëmkin è rimasta lì. Ma prontamente, su pressione della direzione della Biennale (come ci fa sapere Marco Tracanelli), è arrivata dall’autorità portuale una sanzione amministrativa di 2000 € per occupazione abusiva di spazio pubblico, insieme alla richiesta di rimuovere l’imbarcazione. La sfida al regime di monopolio della Biennale, però, rimane in questa fotografia: anche quando lo spazio viene negato è sempre possibile ritagliarselo da sé. cezione latina del termine) passate tenendo in mano la Recherche o I fratelli Karamazov, sono negate, a vantaggio di ogni forma di spettacolarizzazione, sostituite da un’arte che muore nel momento stesso in cui nasce, ad esclusivo vantaggio (economico) del committente.

di una direzione diametralmente opposta: le tre parole formano un triangolo in cui ognuna di esse, toccando le altre, le rende più chiare, ne disvela il significato che qui si intende dare loro. Parole non casuali, che rivelano la nostra missione parresiastica: Diogene di Sinope ci sarà accanto, nella propria bótte, e ci aiuterà con i suoi gesti “estremi” (ritenuti tali solamente da chi si assopisce sulle consuetudini universalmente riconosciute, smettendo così di interrogarle) ad indicare la nudità del Re; una nudità polivalente, cui corrisponderà una pluralità di dita,

Ecco: si tratta allora, forse, di cercare di definire l’idea di cultura che si ha intenzione qui di promuovere. La si potrebbe racchiudere in tre parole: inattuale, critica, folle. Se la direzione che il Paese ha intrapreso è quella descritta poc’anzi, noi ci poniamo su

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una molteplicità di diverse mani scriventi e di differenti sguardi sul mondo. Ma come? Non cesserà così di sussistere ogni princìpio regolatore? Che cosa avremo l’ardire di indicare, allora? Ogni dogmatica e pacificante certezza, la violenza fideistica di ogni credo globale. Si scaverà, mossi dal dubbio, nel sottosuolo, mai paghi di una verità di comodo, coerente alla grande narrazione ripetutaci incessantemente ogni giorno. Un atteggiamento contro ogni logica economica e razionale – perciò inattuale, critico, folle.


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