Numero 16

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Numero 16 - Febbraio/Marzo 2014

Editoriale

L’università dei tagli

di Stefano Tieri

Il numero di Charta Sporca che avete tra le mani ha la pretesa di voler tracciare una strada diversa rispetto al suo passato: con il nuovo anno abbiamo pensato di proporvi numeri “tematici”, in cui l’argomento principale di volta in volta scelto venga affrontato nella prima parte del periodico, per lasciare invece la seconda parte libera di esprimersi su altre questioni. Il primo argomento non poteva che essere legato all’università, anche a causa delle recenti notizie di cronaca pubblicate a ridosso delle vacanze natalizie, in cui è stata resa nota la prossima chiusura di diversi corsi di laurea all’interno dell’ateneo triestino. Parleremo quindi di un’università “speciale”, che fa parlare di sé sempre più spesso per i suoi aspetti negativi e non per ciò che offre di buono alla comunità: l’università dei tagli. Ogni discorso riguardante il sapere sembra non possa più prescindere da questa fatidica parola, in grado di richiamare una razionalizzazione e organizzazione economica dalla validità auto-evidente, impossibile da questionare (salvo a patto di venire ostracizzati dal discorso e accusati – quando va bene – di essere utopisti). I tagli cui facciamo riferimento, in una prospettiva in cui anche la cultura viene fatta sottomettere alle dinamiche dettate dai meccanismi del mercato e dalle politiche di austerità, non riguardano solo i corsi, i professori (o, più in generale, l’intero personale), le borse di studio,... ma anche gli studenti. Perché sono gli stessi studenti a uscirne impoveriti e “tagliati”, allo stesso modo dell’offerta formativa su cui il loro studio (e, di conseguenze, la loro persona) si forma. Per quanto tempo ancora potrà sopravvivere, una simile università, in queste condizioni? La domanda percorre gli articoli di seguito pubblicati, moltiplicando ed espandendo i suoi interrogativi irrisolti.

L’università dei tagli In questo numero Lettere addio (quasi). Il resto seguirà Anche le “eccellenze” hanno il respiro corto. E non solo per colpa dei tagli ministeriali

Quando Kafka incontra Roth

Dialoghi tra un rivoltante insetto e un seno borbottante

pagg. 2 - 4

Spunti da Il Grande Nord

Sincera apologia della caccia da parte di un (convinto) vegetariano pag. 12

pag. 11

Scontro tra penne

Sui Forconi ed il Movimento 9 Dicembre pagg. 14 - 15


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Università

Lettere addio (quasi). Il resto seguirà Anche le “eccellenze” hanno il respiro corto. E non solo per colpa dei tagli ministeriali

di Daniele Lettig e che ci limitiamo ad elencare sommariamente: organizzazione e gestione dei concorsi al fine di evitare favoritismi e opacità di vario genere; modifiche mirate agli ordinamenti per evitare di fornire una formazione troppo teorica; garanzie sul tema del diritto allo studio (borse per i migliori e i meritevoli, case dello studente); investimenti in ricerca con gli ovvi – rigorosi – controlli per evitare, anche qui, opacità; lotta ai “baronati” di ogni tipo (a cui gran parte delle anomalie sono per qualche verso legate). Gli unici atti concreti sono consistiti in continui tagli di fondi sepolti sotto la maschera della riorganizzazione degli organi di governo e di attività degli Atenei. Non si è invece neppure tentato di incidere sul modo in cui tali risorse vengono adoperate (7), per venire incontro alle esigenze degli studenti e porre qualche rimedio alle criticità di cui sopra. Il risultato sotto gli occhi di tutti è la svalutazione del ruolo dell’Università e più concretamente del servizio che essa svolge o dovrebbe svolgere nei confronti dei suoi utenti e della collettività nel suo insieme.

È

datata metà dicembre la notizia dell’ennesimo ridimensionamento di quella che ci si ostina ancora a chiamare offerta “formativa” dell’Università di Trieste (1). Sarebbe tuttavia più opportuno parlare di una “non-notizia”, vista la pressoché totale assenza di qualsivoglia reazione, salvo qualche voce sporadica che già si era alzata negli anni passati: sempre troppo pochi e sempre i soliti. Comunque, se si spulcia nei database ministeriali i dati che si riferiscono all’ultimo decennio (2), in tutto il sistema universitario italiano ciò che balza all’occhio immediatamente è una graduale crescita degli iscritti contrapposta a un progressivo calo del personale, segno di una costante opera di disinvestimento. Non è una situazione che riguarda solo Trieste, quindi, ed è frutto delle politiche perseguite con continuità da ministri e dirigenti di ogni colore (provenienti sia dalla

A Trieste politica sia dall’accademia, come gli ultimi due, Profumo e Carrozza) da almeno tre lustri. Si può scorgere in questo lasso di tempo un progressivo impoverimento sia delle risorse economiche che garantiscono il funzionamento dell’istituzione, che della funzione di didattica e ricerca che l’Università dovrebbe svolgere. Il depauperamento di soldi e di significato è stato scandito inoltre da un passaggio fondamentale: la legge di riforma cosiddetta del “3 + 2” (3), che recepiva le direttive del “Processo di Bologna” e le applicava al sistema universitario italiano (4). Sia la fase di euforia seguita all’introduzione del nuovo regime (segnata da moltiplicazione di corsi, cattedre e sedi distaccate (5)), sia le violente contrazioni dovute alle successive modifiche legislative (6) non sono riuscite (non sta a noi stabilire se per dolo o per incompetenza) ad aggredire i veri problemi che affliggono da tempo immemorabile l’Università italiana

Per quanto concerne l’ateneo triestino, il numero di iscritti è passato dai 14.170 del 2004/05 ai 17.010 del 2012/13; il personale docente, invece, è passato dalle 954 unità del 31/12/2003 alle 694 del 31/12/2012. Il dato indica chiaramente la perdita di qualità dell’offerta formativa: se gli studenti aumentano, i docenti e i corsi calano (e chiudono). La diminuzione degli insegnanti va imputata senza dubbio al continuo calo della dotazione economica, che consente di coprire solo in parte i vuoti di organico che si creano con i pensionamenti. Il tutto è stato ulteriormente complicato dal famigerato “tetto del 90%” imposto dalla riforma Gelmini. Esso prescrive che un’Università che spende più del 90 per cento del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) per pagare il personale venga definita “non virtuosa”, e le vengano ulteriormente decurtati i finanziamenti: un serpente che si morde la coda. E guardando ai bilanci (8), negli ultimi anni la nostra Università è sempre stata a cavallo di questa percentuale, con lievi oscillazi-


Università oni al di sopra e al di sotto (e relative polemiche da parte dell’ex Rettore Peroni sulle modalità di conteggio del Ministero). In generale dunque la possibilità di nuove assunzioni per riparare almeno in parte alle uscite dei docenti è estremamente limitata e difficoltosa. Nel riflettere su questa situazione occorre evitare un errore: non bisogna infatti pensare che tutta la colpa sia dei tagli dei vari governi e che ci si debba rassegnare e basta. A mio modesto avviso c’è un altro aspetto che bisogna tenere in considerazione, ovvero le scelte che sono state compiute dagli organi direttivi dell’Università negli ultimi anni. Chiaramente, i vincoli imposti dal centro sono stati fortissimi e tali da mettere in difficoltà l’intero sistema. Tuttavia, dato che le scelte sul modo in cui gestire l’istituzione con meno soldi vengono prese in loco, occorre purtroppo constatare che a tutti i livelli (Consigli di Facoltà, di Dipartimento, Senato Accademico, Consiglio d’Amministrazione) si è sempre proceduto navigando a vista e preoccupandosi ben poco del futuro. Provvedimenti presi per tappare falle momentanee e far apparire la situazione migliore di quanto fosse, senza alcuna preoccupazione per l’ultima ruota del carro – gli studenti – ci hanno condotto a questo punto.

Impoverimento dell’offerta formativa

Dal punto di vista degli studenti, l’evidenza più immediata di questo stato di cose è l’impoverimento delle possibilità di scelta dei percorsi di studio, nonché delle altre agevolazioni (9). Abbiamo assistito a continue rimodulazioni e accorpamenti di strutture – il più delle volte decisi con occhio attento soltanto alla parte economica e mai a quella didattica (il caso dell’unione di Giurisprudenza e Scuola Interpreti ci pare emblematico) – , di corsi di laurea, di differenti ambiti di insegnamento, o ancora alla costruzione di corsi interateneo con criteri discutibili, come avvenuto con le magistrali dell’ex Facoltà di Lettere. Tutto ciò implica, come è ovvio, un calo dell’attrattiva dell’Università: viene a mancare la possibilità di scelta, i percorsi sono sempre più irregimentati, molti corsi non si sa fino all’ultimo (e talvolta anche oltre) se partiranno, affidati come sono con contratti ridicoli a persone senza alcuna certezza sul proprio futuro (e che però contribuiscono a tutti gli effetti a far campare l’istituzione). In definitiva, si instaura un circolo vizioso: meno fondi, riorganiz-

zazioni dovute al calo degli insegnamenti, perdita di qualità della formazione. Prendendo l’esempio dell’ex Facoltà di Lettere e Filosofia (per pura comodità, dal momento che è quella che conosco meglio avendoci studiato), se i numeri degli studenti nel complesso sono rimasti stabili (si passa dai 1.289 del 2004/05 – di cui 301 al corso di laurea in Lingue – ai 1.299 del 2012/13 – 411 a Lingue), il pensionamento e il complessivo calo dei docenti ha favorito la chiusura di corsi di studio (prima Interculturalità, poi Beni Culturali, ora Storia e Filosofia) e più recentemente la fusione di quel poco che resta con gli

Nel riflettere su questa situazione occorre evitare un errore: non bisogna infatti pensare che tutta la colpa sia dei tagli dei vari governi e che ci si debba rassegnare e basta. analoghi corsi dell’Università di Udine. A livello didattico gli effetti principali di questa operazione sono due: da un lato, secondo quanto riporta «Il Piccolo», a Trieste rimarrà un unico corso-monstre di “Lettere” al cui interno confluirà tutto quanto rimane delle altre discipline, e il corso di Lingue (quello che da sempre registra il numero maggiore di iscritti che però fa i conti con un cronica mancanza di docenti strutturati, risolta con contratti annuali). Filosofia, Storia e Lettere, la cui tradizione è molto più radicata a Trieste, sono destinate all’estinzione. D’altra parte, il mantenimento dei soli corsi magistrali – per di più in un quadro di Interateneo fallimentare sotto vari punti di vista (10) – costituisce soltanto il prodromo alla chiusura tout-court: quale studente costretto ad andare a studiare le materie umanistiche fuori regione (visto che le triennali vengono chiuse) ritornerà per iscriversi

alle magistrali? Il traguardo che raggiungeremo tra pochi anni sarà perciò quello di diventare una regione humanities free.

Non solo Lettere

Non si pensi, tuttavia, a un grido d’allarme fuori tempo massimo da parte delle “solite” discipline umanistiche, inutili (“con la cultura non si mangia”, sentenziò qualche anno fa un noto Ministro dalla “r” moscia) e sempre pronte a lamentarsi. La situazione risulta critica anche volgendo l’occhio agli altri corsi di Laurea. Riprendendo «Il Piccolo» e scorrendo i dati del Ministero, anche le “punte di diamante” dell’Università triestina (Scuola Interpreti, Ingegneria, Fisica e il Dipartimento di Scienze in generale) non se la passano così bene, con prospettive nere sul futuro. La Scuola Interpreti è passata negli ultimi anni da 50 a 30 docenti, Ingegneria da 150 a 104. L’anno prossimo, secondo quanto emerge, chiuderà la triennale di Ingegneria Navale, e anche questa notizia non suscita alcuna reazione in una città (e in un territorio più largo) che si affaccia sul mare in cui si dibatte continuamente sul rilancio del porto. Anche Fisica, altra supposta eccellenza parte della filiera Università-SISSA-Sincrotrone, denuncia forti problemi a tirare avanti. Visto tutto questo, con le “eccellenze” tanto sbandierate ridotte in tale stato, il programma del nuovo Rettore Fermeglia di far restare Trieste «una Research University, in contrapposizione ad una Teaching University», di costruire un Ateneo in cui «la ricerca di eccellenza sia coniugata ad un ottima didattica, in cui il valore ed il merito siano elementi fondamentali per progredire. Un’Università che guardi ai giovani, alla loro voglia di fare e al loro entusiasmo» (11) risulta come minimo velato da una forte vena di ottimismo mal riposto. La speranza è che almeno una parte dei suoi intenti vadano a buon fine, ma il nostro sospetto, parafrasando Antonio Gramsci, è che questa volta neppure l’ottimismo della volontà (sempre che essa sia sincera) possa far uscire l’Università di Trieste dal buco scavato in lunghi anni di miopia e disinteresse.

Per una nuova Università

Ampliando l’orizzonte, credo che l’Università italiana che si sta profilando è un’istituzione che da un lato accentua invece di correggere i propri problemi strutturali, e dall’altro è sempre meno al servizio degli continua a pagina 4

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Università utenti-studenti, specialmente quelli meritevoli ma con scarse possibilità economiche (e dunque, in questo senso, è un’istituzione classista). Per questo, proprio ora che il dibattito è assente, mi pare sia arrivato il momento di mettere in campo un pensiero alternativo sulla costruzione e la gestione del modello universitario. L’idea da mettere al centro è quella per cui l’Università debba svolgere un ruolo di formazione (e, magari, di emancipazione) per chi la frequenta, e non essere solamente un iper-Liceo (nel caso migliore) o un parcheggio per chi non sa che fare. In ogni caso, essa deve cessare di essere il luogo dello scambio di favori tra fazioni e conventicole a cui tutto interessa fuorché la formazione di persone con abilità non solo pratiche ma anche (almeno un minimo) critiche. Questa sarà la battaglia più difficile, ma occorre almeno provare ad affrontarla. NOTE (1) “Università, pochi docenti. Arrivano i tagli di cattedra” e “Spariscono Comunicazione, Storia e Filosofia”, in «Il Piccolo», 18 dicembre 2013. (2) I dati riguardanti le immatricolazioni, iscrizioni e il numero dei laureati negli Atenei italiani a partire dal 2004/05 sono reperibili all’indirizzo <http://anagrafe.miur.it/index. php>. Per quanto riguarda il personale (docente e amministrativo), si veda il sito http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/cerca.php>. (3) La legge di riforma che riordinava il sistema universitario italiano seguendo le indicazioni del “Processo di Bologna” fu varata dal governo Prodi su impulso del Ministro Luigi Berlinguer nel 1997, e attuata con un decreto del 1999. Con tale legge sono stati introdotti in Italia i corsi di laurea spezzati in un primo ciclo triennale e un secondo biennale (da cui l’indicazione “3+2”). Cfr. la Legge 127/1997 (artt. 17 commi 95-138), attuata dal Decreto Ministeriale 509 del 3 novembre 1999 (reperibile al sito <http://www.miur.it/0006Menu_C/0012Docume/0098Normat/2088Regola.htm>). (4) Il cosiddetto “Processo di Bologna” (dal nome della città in cui i Ministri dell’istruzione europei firmarono la dichiarazione ufficiale del suo avvio) è l’insieme di riforme dei sistemi di istruzione superiore – in particolare universitari – iniziato nel 1999 e che mira alla creazione dello “Spazio europeo dell’istruzione superiore” (quest’ultimo è anche il nome ufficiale della dichiarazione di Bologna). Il Processo nacque dalla volontà dei governi di rendere il sistema dell’istruzione europeo più competitivo con quelli del resto del mondo.

Nel concreto, per ciò che concerne l’Università l’azione più rilevante è consistita in un progressivo tentativo di armonizzazione dei sistemi dei vari Paesi, introducendo dove non c’era (come in Italia) il sistema dei cicli (triennale + magistrale) e, soprattutto, quello dei crediti formativi. Per maggiori dettagli rimando a Wikipedia, dove si trova una spiegazione esaustiva dell’intero processo e dei suoi vari aspetti (<http://it.wikipedia.org/wiki/Processo_di_Bologna#Bologna_.281999.29>), e al sito http://www.bolognaprocess.it>. In questi anni il processo e le riforme che ne sono discese e che hanno modificato l’impianto dell’Università italiana ed europea sono stati oggetto di ampio dibattito critico. (5) Già iniziate, peraltro, con le leggi che attribuirono alle Università l’autonomia statutaria (1989), didattica (1990) e finanziaria (1993). (6) L’ultima modifica, in ordine di tempo, dell’ordinamento universitario è quella messa in opera ai sensi della Legge 240/2010 (la cosiddetta “riforma Gelmini”), che segue da vicino il drastico taglio dei fondi e del turn over del personale imposto dalla Legge Finanziaria per il 2009 (Legge 133/2008). (7) Se si esclude la gigantesca e anche un po’ ridicola, sotto certi aspetti, operazione-monstre di “valutazione della ricerca” (e della produttività) del personale e degli Atenei messa in campo negli ultimi anni come panacea che finalmente in modo “obiettivo” (!) potrà stabilire delle gerarchie di “merito” (parolina magica che ritorna sempre da qualche anno

in qua, a mo’ di password che apre ogni porta) grazie alle quali ripartire i – pochi – soldi a disposizione. Tale opera di valutazione è stata avviata richiamandosi con enfasi ai modelli di altri Paesi (specialmente di area anglosassone) che proprio recentemente ne stanno ridiscutendo risultati e significato. Per un punto di vista critico sul tema della valutazione, rimando all’ultimo fascicolo di «aut aut» (n. 260/2013). (8) I bilanci degli ultimi anni dell’Ateneo triestino sono reperibili alla pagina <http:// www.units.it/ateneo/bilanci>. (9) Lo scorso dicembre all’Università La Sapienza di Roma gli studenti hanno protestato, oltre che contro le politiche opache del Rettore, per l’apertura della nuova Casa dello studente, pronta da mesi e le cui stanze ancora non sono state assegnate (venendo manganellati dalle medesime forze dell’ordine che si preoccupavano, negli stessi giorni, di portare solidarietà al “movimento dei forconi”). (10) Ne cito uno soltanto: varie persone che rientravano nei parametri ISEE dell’Università di Trieste e che quindi potevano beneficiare di Borsa di studio, e iscrittesi a Udine per i corsi interateneo, hanno scoperto a cose fatte di non godere più di questa possibilità in quanto i parametri dei due atenei non sono stati armonizzati. (11) Il programma del Rettore Maurizio Fermeglia si trova all’indirizzo http://www.fermeglia.it>; cfr. anche il blog <http://candidatura-fermeglia.blogspot.it>.


Università

Discorso ai giovani

A

foso mattino di estate cittadina. Nella penombra collosa della casa, interrogo la pagina di ECDL del sito web dell’Università, ma essa rimane muta: non è aggiornata dall’ultimo appello, passato ormai già da un po’. La terribile consapevolezza che questo silenzio costituisce un potenziale ostacolo tra il momento della mia laurea e me mi assale. Inveisco contro me stessa per aver rimandato l’adempimento dell’incombenza, fatale per laurearsi in Filosofia. In fondo sapevo che la burocrazia funziona secondo la logica del karma. Mando una mail all’indirizzo informativo di ECDL, per chiedere se ci saranno degli appelli in un prossimo futuro. Mi è spiegato che il servizio è temporaneamente sospeso, e che il suo regolare svolgimento dovrebbe ripartire dopo l’estate, assieme alla ripresa della normale vita accademica. Ma allora mi dovrò laureare, me misera! Potessi almeno sapere se “dopo l’estate” significa settembre, ottobre o più avanti, ovvero: in coincidenza con le scadenze richieste per la laurea, o meno. In quest’ultimo caso potrei cercarmi delle altre “ulteriori attività formative” da svolgere, se solo mi fosse dato sapere… Non importa se questo significa buttare via i due esami di ECDL che avevo già dato precedentemente e i relativi 20 euro – tale era il loro costo – davvero non importa, mi basta sapere. Vomito tutto questo al telefono con l’ufficio ECDL, dopo che la comunicazione per mail si era interrotta di fronte a interrogativi esistenziali siffatti. Infine, la voce dall’altra parte della cornetta si manifesta, con un: “Ma cosa vuole che le dica, io sono appena tornata dalle ferie! – il mio respiro si fa corto – provi a chiamare la signora Tal dei Tali, lei la potrà aiutare”. Ringrazio e riaggancio, ancora priva di risposte ma illuminata da una speranza. Cerco subito il profilo della signora sul sito dell’Università. Vi compare anche il suo numero di telefono. Lo compongo, un po’ emozionata. Lei mi risponde con cortesia e io mi libero del mio fardello in una manciata di parole. La reazione però non è quella che a questo punto avevo preso il coraggio di aspettarmi. Sempre molto gentilmente, la signora si dice stupita per il fatto che l’ufficio ECDL mi avesse indirizzata a lei. Stupita, in quanto lei era l’esaminatrice di ECDL, e ora gli esami sono sospesi poiché a lei non è stato rinnovato il contratto. L’egoistico sentimento di mestizia che mi

piomba in mezzo al petto è subito scacciato via dalla cognizione dell’inopportunità della mia telefonata, data la situazione. Mi scuso, non potevo saperlo, ribadisco che ero stata indirizzata a lei dall’ufficio. Non c’è problema. Arrivederci, arrivederci. I giorni sgocciolano via nel tentativo di capire quali siano le fantomatiche “ulteriori attività formative” che potrei fare in alternativa; sono disposta praticamente a tutto. Un gioco di rimandi tra le diverse segreterie mi porta finalmente a scoprire che: 1. L’esame di informatica – l’alternativa che alla mia limitata conoscenza creaturale appariva come la più ovvia rispetto a ECDL– mi è precluso, in quanto prevede un voto in trentesimi, qualità quest’ultima che non è conciliabile con l’essenza dell’ulteriore attività formativa; 2. Fare 150 ore di tirocinio, e solo dopo che questo fosse stato approvato tramite un iter, probabilmente non sarebbe stato conciliabile con

di Lilli Goriup il riuscire a laurearmi entro i tempi da me agognati; 3. Posso però finire il patentino europeo del computer privatamente! Evvai! M’iscrivo quindi al primo appello utile presso l’Enfap della mia città facendomi prestare del denaro dai miei cari e, dopo giornate trascorse spasmodicamente davanti al computer a esercitarmi, infine, sostengo gli esami. Cinque moduli in un pomeriggio, tutti quelli che mi mancavano. Per la Filosofia questo e altro, d’altronde. L’epilogo di questa storia è che sono riuscita a consegnare tutte le carte in segreteria per tempo e mi sono laureata; sembrerebbe inoltre che il test center di ECDL presso l’Università sia stato ripristinato: sul sito compare un appello del 10 dicembre (io mi sono laureata il 4). Un lieto fine dunque, ma con la morale: non procrastinare le cose. Bisogna infatti essere veloci ed efficienti, proprio come l’apparato lo è nei nostri confronti.

Inceppamenti di Davide Pittioni Quelle sagome apparse in Università al rientro dalle vacanze invernali hanno avuto almeno il merito di riaprire una discussione sull’Università, attorno a quelle criticità che ormai ci siamo abituati a vedere con indifferenza, o forse soltanto a non vedere.”Così vanno le cose, così devono andare” cantavano i Csi. Alle volte, però, interviene una piccola interruzione della normalità; un corpo estraneo, una voce, una parola, che stona sul rumore assefuante di una macchina che si riduce a riprodurre meccanicamente l’esistente. Un salto nella catena che paradossalmente può gettare una luce su tutti quegli inceppamenti, quei disagi, quelle sofferenze che si ampliano e acquistano il titolo di una presunta normalità. E i piccoli effetti, dettagli di cui tante volte alziamo le spalle, sono ormai sempre più capillari: la cancellazione di alcuni lettorati lo scorso anno (in un corso di lingue!), cancellazione di corsi dei più svariati, l’estetica, la filosofia contemporanea, linguistica, l’ecdl che scompare per qualche mese, ecc. Pleonasmi di altre epoche, eccessi da tagliare. Ac-

cadono, tra impercettibili malumori, poi la macchina e gli inceppamenti che ne battono il ritmo ritorna al suo funzionamento, obliterando l’inconveniente attraverso il semplice riconoscimento della sua superfluità. Ma è ormai un intero sistema ad essere saltato, dai diritti allo studio fino alle strutture. Lo dimostrano le borse di studio garantite al 75% degli idonei, le aule studio che vanno in letargo per il natale, gli edifici venduti, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario. L’Università diviene questo: un ritmo che tortura, frequenza che risuona senza urti. Ecco allora i tanto attesi effetti delle riforme e delle finanziarie degli ultimi anni. La razionalizzazione, la ristrutturazione, gli stacchi del servizio. Su ogni stacco, un prelievo. In ogni interruzione, un lieve spostamento. Si crea una macchina che funziona guastandosi e che così facendo genera esclusioni e vuoti. Da qui un interrogativo: come innestare in queste discontinuità normalizzate e funzionali delle “vere discontinuità” che permettano di invertire questa tendenza preoccupante?

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FRAMMENZIO www.youtube.com/user/frammenzio/videos


Terza Pagina

inserto letterario

Infanzia Qual è il senso a rivangare remota un’infanzia, quell’età dell’oro? La storia non può dirci nulla la storia non vive di aneddoti, momenti prevalenti su altri e gustosi detti memorabili. La storia, più che altro, dissemina i tuoi singolari ricordi nell’altra faccia di un’epigrafe per studenti novelli. L’insegna del barbiere azzurra o quella della casa avita su cui mai facesti conto aggiungono, semmai, inopportuna nostalgia, né la filologia, se anche chiarisse il gioco in cerchio di fanciulli iscritti al ginnasio dell’Atene classica chiarirebbe le fonti di quest’età. Né qui è da integrare la parola mancante stentante all’angolo del cortile come una bicicletta arruginita. Se anche tu avessi il testo ricostruito in versi o in prosa mai udito, materia di prima fattura, infarcita di colori nuovi e sonorità candide potresti raccontare, né puoi rifare l’intento che cacciava ogni noia. Ma oggi il lucore inaccontentabile del tetto di canneto che un giorno visse di un tiro a pallone spedito malamente in porta per la strada lunga e disimpegnata - che era un mondo intero e ammetteva ogni gioco e tutto il mondo sembrava un giocattolo e non c’era tempo d’avanzo alle mode si staglia desolante e specchiante un mare di improbabili e probabili ricordi. Sai bene che è meglio non essere preda dell’abbaglio e non stare muti come chi si beva una balla. Meglio, invece, dare di getto un’occhiata ai paesi scavati azzurri sui monti tremolanti.

Lì, forse, il pupazzo di neve e la miccia del petardo sono ancora un gusto per perdere il tempo. Lì, forse, da lontano le cose non chiedono un nome si mescolano con il resto in un milione di varianti e hanno la parvenza tutte di un vetro. Ogni gioco del mattino è lo stesso della sera e in questi riflessi che non danno luce a un destino un bambino, un’altra volta, si ride delle ingiurie del padre, zittisce, deride della madre quel crucciato far sì che il meglio vada a lui rifugge per strada in un gomitolo di angoli che dischiudono la parata dei suoi compagni e si affida ancora al gioco come a un dio. E’ sempre un buon momento per una prova di coraggio, perché l’amico si rimangi la sfida. Un guizzo di paura ardita che scardina la porta della casa diroccata, i cori crudeli allo scemo del villaggio, il salto e la corsa, lo sputo e il pugno può darsi diano sfogo alle ire del vicinato siano la ragione di un’altra fuga di un altro momento di quiete, altra noia soffocante come una domenica mattina. Sia assopito qui l’intuito del gioco: anche il dio ozia e appanna gli oracoli. Ed è forse l’epifania decisiva quando l’adulto compare alla finestra. Anche allora quando rincasa solo senza la fantasia dei compagni il bambino induce lo smarrimento in un imprevedibile frammento di mondo: un mestolo, un fazzoletto; un pane, una mensola e col gesto più sciocco, la parola più sgarbata il riso imprigionante fa sembrare le cose più di quel che sono.

Angelo da Baciocchi


Cari lettori, Nel mese di dicembre è uscito presso la casa editrice D’If (collana “i miosotìs”) la raccolta di poesie Esecuzioni di Giuseppe Nava (Como, 1981). Come l’autore le definisce, Esecuzioni sono “un progetto di rielaborazione metrica di documenti originali risalenti alla prima guerra mondiale, in particolare sentenze di tribunali militari”. Il progetto nasce dalla lettura di una di esse: scoprendovi alcune regolarità metriche, Nava la riscrive quasi per gioco mantenendo o cambiando solo la posizione dei termini “in modo da costituire una struttura nuova ma che utilizzi le stesse parole”. Dalla casualità prende poi piede un lavoro sistematico che vuole “far emergere le storie che premono dietro l’ufficialità della sintassi e del lessico, dietro la retorica dell’onore e della patria” proprio dando massima importanza a quell’apparato linguistico. Ufficialità e artificio retorico, così gonfiati, non possono che esplodere, lasciandoci di fronte al nudo cinismo e brutalità che coprono. Ringraziando e complimentandoci con Giuseppe Nava, cogliamo l’occasione per offrirvi alcuni frutti del suo lavoro.

in una trincea da poco occupata di fronte alle posizioni nemiche nascosto dietro sacchetti di terra colpito allo scoppio di una granata da un sasso sulla spalla o neanche si allontanava senza permesso il soldato c.f. da volterra usando il fucile in suo possesso si sparò così durante il percorso all’indice della mano sinistra essendo consapevole egli stesso non essere bastante al soccorso la scusa del dolore alla spalla non presentando contusioni questa è chiaro che con dolo egli volle così pensatamente e consciamente lesionarsi per lasciare il posto abbandonare sottrarsi a quelle operazioni di guerra imminenti e considerando la sua condotta di cattivo e codardo sottoposto da spingere a colpi di moschetto al combattimento all’avanzata non sia usata alcuna clemenza ma anzi che di esempio perfetto della disciplina necessitata sia la pena per il reato commesso la morte con fucilazione al petto

[l’ispettore generale del movimento di sgombero] occorre imporsi con qualunque mezzo imporsi con mezzi straordinari avere ragione di quelle cause che hanno pervertito gli sciagurati una lotta d’aggressione morale una lotta d’aggressione fisica lottare contro le orde di sbandati ricondurre subito all’obbedienza far serrare riordinare i reparti chiamare a rapporto gli ufficiali i graduati tutti i capi plotone sfilare in formazione regolare dinanzi alla mia persona in silenzio come quel pomeriggio sulla piazza di noventa di piave il tre novembre stavo in piedi sull’automobile rispondevo salutando al comando attenti a sinistra quando m’accorsi un sigaro piantato nella bocca la faccia atteggiata a riso di scherno mi fissava con aria di sfida un soldato con aria di sfida valutai secondo la mia coscienza dare subito un esempio terribile piegare gli sbandati all’obbedienza affermare una forza superiore fermato pertanto lo sfilamento saltato giù dall’automobile di corsa penetrato entro le file ho bastonato nella schiena quel soldato e legato dai carabinieri l’ho fatto prontamente fucilare contro il muro della casa vicina ho operato con la sola visione del bene della patria in pericolo

Giuseppe Nava


Un piccolo paese collinare si propone il compito di diventare un deserto. Per fare ciò, decide di indurre i suoi abitanti a sospettare la sua inesistenza: inizia cambiando impercettibilmente i suoi connotati, giorno dopo giorno, in quelli di una lucertola. L’operazione è lentissima, va come va il sole sulla volta celeste, necessita dei suoi tempi solari e nessun paesano la coglie, se non come un brivido al pomeriggio, quando le mogli sbattono i tegami sull’asciugaposate e i bambini vóciano per un piatto di pasta e ceci e una merendina e i gatti dormono. Prosegue tagliando i suoi tramonti, o meglio, ciò che è a lui possibile, gonfiando tetti tramezzi terrazze e inversamente stringendo e schiacciando la visuale dell’occaso. In breve, grandi cartelli turistici spuntano nei crocicchi: invitano la popolazione, melliflui, a emigrare in una cittadina rutilante di prodigi, distante poche centinaia di metri, mappata come l’unico centro della zona nel raggio di chilometri. Annota nel suo diario il crescente disagio dei cittadini, ma anche la loro sorda incomprensione o disinteresse per la faccenda. Rusticamente agendo quale piccolo paese, non calcola l’incidenza delle nuove variazioni sul progetto generale e antico di metamorfosi rettile. Le incongruenze cozzano tra loro e causano un aumento rapidissimo di effetti imprevisti: interi vicoli collassano in scrosci d’acqua spumeggiante; i bambini nascono dopo due settimane di gestazione, anfibi. Ora, sembra che le folle riunite nelle piazze, sventolando i cappelli, discutano a viva voce delle stranezze del paese, e magari, della sua stessa esistenza, ma non c’è modo di esserne sicuri: forse commentano le partite di calcio con ira; forse non parlano nemmeno, si ignorano a vicenda, spintonandosi.

Iniziano gli omicidi: scale che danno nel nulla, pianterreni senza fondo, solài gonfi di serpenti. Il paese sa di poter contare sulla sua meschinità, sulla sua cattiveria da quattro soldi, sulla sua crudeltà grossolana, campanilistica; il livore di generazioni si è sedimentato sulle sue mura, ormai appartiene a lui, anche gli agguati e le fucilate al petto nel buio della notte, al ritorno dalla campagna, non sono delitti individuali, sono un rito comunitario. Alcune persone iniziano a lasciare le case: il paese osserva, e pensa sia arrivato il momento di diventare invisibile. Le periferie cominciano la loro ritirata, le traiettorie di luce che traforano i fusti della vegetazione si insinuano anche, sottilmente, tra l’edera che ricopre i muri e oltre. Nei pergolati, i vecchi osservano le case che pian piano si fanno trasparenti, e fumano. La chiesa medievale con il vialone al fianco - che negli ultimi mesi ha assunto l’aspetto di un dorso verde, a scaglie - mostra, attraverso i suoi tetti incerti, la radura sottostante. Una luna spettrale sorge sul colle battuto dal vento; i paesani sono ancora tutti lì. Alcuni rabbrividiscono sotto le coperte sopra la nuda terra, la maggior parte si guarda intorno con movimenti pigri, tentando forse di raccapezzarsi - alcuni si grattano la nuca, perplessi. Gli spiazzi vuoti delle fondamenta sembrano attirarli: molti vagano incuriositi nel luogo dove sorgevano le case avite, ingoiate dal vuoto in pochi giorni. In generale, il paese deve constatare che i suoi abitanti si adattano piuttosto in fretta alla sua sparizione; molti sono già tornati ai tramestii d’ogni giorno, pochi sono quelli ancora stupiti che si attardano pensosi, nessuno guarda il cielo. Mentre sta ancora riflettendo sul deserto mancato, e rivede i dati demografici aggiornati, il paese si rende conto che nessuno dei suoi abitanti esiste.

Andrea Piras


Metz, 26 luglio 2013 Ti ho seguita un poco, non tanto, credimi: soltanto da rue de Chapeliers a place St. Louis sotto qualche finestra illuminata ancora e troppi, troppi aneliti sopiti. Poi hai voltato à droite – place du Quarteau (queste strade si assomigliano un po’ tutte e tu somigli a molte altre...) e lungo la Moselle, adesso, l’inflazione nei punti di sospensione a dirmi: fu... Due lettere, una sillaba, un soffio mal riuscito – quasi un aborto. E tu, soltanto troppo bella per avere il coraggio di parlarti come la luna o una pietà di Michelangelo.

Ettore Spada


Letteratura

Quando Kafka incontra Roth Lasciarsi divertire: dialoghi tra un ripugnante insetto e un seno borbottante

“Sono diventato un seno. Per spiegarmi il fenomeno hanno parlato di “massiccio influsso ormonale”, di “catastrofe endocrinopatica” e/o di “esplosione ermafroditica di cromosomi” manifestatasi fra la mezzanotte e le quattro del 18 febbraio 1971, trasformandomi in una ghiandola mammaria scissa da qualsiasi forma umana, una mammella come si immaginerebbe di vedere soltanto in un sogno, o in un dipinto di Dalì.”1 Tutto iniziò con improvvisi fastidi all’inguine, cose da nulla, passeggere, che si ignorano e si lasciano scivolare via sotto la doccia. Ma col passare del tempo i pruriti tornarono insistenti e una voglia strana si formò alla base del pene. Che sia cancro? Meglio chiamare subito un medico. Ma quello che si era insinuato sotto l’epidermide del professor David Kepesh era ben altro: una necessità mutante, un incontrollato divenire corpo del desiderio. Nessuna repressione, nessuna privazione verso la pura estasi tattile. Ora, il seno-David Kepesh, vive nella stanza di una clinica. Perennemente disteso a letto, visitato dal suo medico, dalla sua infermiera, dal suo analista, da suo padre, dalla sua fidanzata: il suo è uno speciale caso di metamorfosi, un’incomprensibile, preziosa, mutazione. Egli ha ancora una coscienza con la quale riflette molto sulla sua nuova condizione: ricordi, sensazioni, turbe, godimenti, angosce, desiderî. Chi era David Kepesh? Che cosa sono ora? Sono pazzo? Perchè proprio un seno? Qual è l’origine di tutto questo? Che mi rimane ora? Di chi fidarmi? Sono pazzo? C’è un senso? un destino? una fine?... Paranoia, insicurezza, cecità. Il seno non ha occhi ma ha un capezzolo con il quale può sentire e parlare con chi sta intorno. Ed è così che avrà inizio un vortice

di parole, un continuo riflettere su se stesso attraverso gli altri che cercherà di gettare le fondamenta di questa nuova identità. Dentro il seno-David Kepesh c’è il pulsare della vita, il non contemplare la morte, l’esaltazione verso il futuro, il volersi realizzare come seno. Ma vero tramite di sensazioni, cuore pulsante dell’involucro ovale, sensibilissima epidermide, crogiolo erotico, è l’esperienza tattile. Massima espressione del limite ultimo dell’appagamento del desiderio: tutto ricorda il glande l’istante immediatamente precedente l’eiaculazione: David Kepesh è immagine carnale dell’eterno, incessantemente libero, desiderare erotico. Egli ora è l’essere esistente-desiderante Kepesh, diventato una ghiandola mammaria di settanta chili. Un perfetto, liscio, pulsante, voglioso seno borbottante: meravigliosa metamorfosi, sogno oscuro divenuto realtà organica. La metamorfosi di Gregorio in un insetto ripugnante, è una rappresentazione formale della privazione di qualsiasi interiorità. È la faccia cupa e tetra di un’ipocrisia latente, che consuma Gregorio giorno dopo giorno. Un lavoro sfiancante, una famiglia sulle spalle, la responsabilità di mantenere un ordine, quello famigliare. La famiglia diventa il bersaglio dell’invettiva kafkiana; la cellula famigliare, il teatro del focolare, nel quale si consuma un lento omicidio. L’insetto Gregorio è l’estrinsecazione del putridume, del nudo meccanicismo, animalesco e barbaro che regola i rapporti famigliari. L’improduttività di Gregorio fa emergere il vuoto affettivo, la distanza incolmabile, dei membri della famiglia nei suoi riguardi. Il polo estremo è rappresentato dal padre: la mela conficcata nella schiena è la dolorosa ferita, mai rimarginata, l’immagine di un dolore che Gregorio porta dentro di sé, letteralmente conficcato nella carne. Racconto surreale nel quale il reale schiaccia, opprime ma soprattutto svuota. È un graduale svuotamento quello a cui Gregorio va incontro; svuotamento totale della soggettività, riduzione all’esteriore, all’oggettivazione implacabile prodotta in concomitanza da una società che opprime fino a schiacciare e da una famiglia distante, lontana, assente. La metamorfosi a cui Gregorio va incontro è un processo inesorabile di reificazione dell’anima; passando per un’animalità ridotta a cumulo

di Giovanni Isetta e Matteo Sain

di impulsi primari, il percorso tracciato da Kafka culmina con la morte: essa rappresenta nell’ottica kafkiana l’unico spiraglio verso una cessazione del dolore e della solitudine, dell’amarezza e dell’inestirpabile assenza di senso di cui la vita è intrisa. C’è anzi nella morte la promessa di una comprensione e di una quiete che la vita non può assolutamente offrire: “Aveva (è vero) dei dolori in tutto il corpo, ma gli sembrava che lentamente divenissero sempre più tenui e che sarebbero finalmente scomparsi del tutto. La mela marcita nella sua schiena e la parte infiammata intorno, tutta coperta di un sottile strato di polvere, la sentiva appena. Alla sua famiglia ripensava con commozione ed amore. La sua convinzione sul fatto che doveva scomparire, era forse ancora più decisa di quella della sorella. Rimase in questo stato di meditazione vuota e tranquilla sinché l’orologio della torre non scoccò le tre di notte. Visse ancora tutto il tempo che il cielo mise a rischiararsi fuori della finestra, poi il suo capo senza volere si chinò, e debolmente gli sfuggì dalle narici il suo ultimo respiro.”2 Due esistenze opposte e allo stesso tempo gemelle nella loro metamorfosi organico-esistenziale. Due uomini che si trovano ad affrontare la venuta al mondo di un essere-altro di se stessi, manifestazione tangibile della loro interiorità... si è quasi tentati dall’immaginare, se ci lasciassimo divenire, quale sia la nostra metamorfosi... risvegliarci una mattina e scoprirci come ripugnante insetto o seno borbottante...

NOTE 1 P. Roth, Il seno, Einaudi, Torino, 2005, p. 11 2 F. Kafka, La metamorfosi in Racconti, Mondadori, Milano, 2006, p. 215

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Cinema

Spunti da Il Grande Nord

Sincera apologia della caccia da parte di un (convinto) vegetariano

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ecensire un’opera – in questo caso un film – di dieci anni fa potrebbe apparire un’operazione anacronistica, anche se, parafrasando Montaigne, «ciò che me ne rimane è qualcosa che non riconosco più altrui», che sento mio. In ogni caso Il Grande Nord, splendido, per tematiche e fotografia, docufilm del 2003 del francese Nicolas Vanier, che descrive il rapporto del cacciatore Norman Winther (che interpreta se stesso) con la natura attraverso i paesaggi dello Yukon, non ha fatto altro che darmi lo spunto per una breve analisi su un fenomeno spesso molto dibattuto: la caccia. Il fenomeno della caccia è oramai diventato argomento tabù nella società dei consumi. Si badi bene che, quando parlo di caccia, lo faccio riferendomi all’attività legale dedita al procacciamento del cibo e non alla mera attività ludica o al bracconaggio. Vi chiederete a ragione: come fa un vegetariano a tratteggiare l’apologia della caccia? A mio avviso ci sono numerose ragioni, alcune delle quali il film stesso mi ha aiutato ad analizzare. È interessante sottolineare come la pratica della caccia sia necessaria se si vuole veramente proteggere l’ambiente (e sbaglio, o gran parte delle levate di scudi contro la caccia provengono da cerchie ambientaliste e, lapalissiano dirlo, animaliste?): ristabilisce l’equilibrio naturale in cui l’uomo è parte attiva della catena alimentare. Nel film è emblematico il passaggio in cui Norman descrive come «un problema» l’assenza di cacciatori nel Grande Nord in quanto «prelevando delle piccole quantità di animali, evitano che una specie si moltiplichi troppo a detrimento di un’altra. Questo non nuoce affatto alle popolazioni degli animali selvatici, al contrario, le rivitalizza». La caccia, inoltre, garantisce il rispetto sacro della vita e dell’ambiente, in cui l’uomo si situa. E non occorre pensare a lontane quanto affascinanti popolazioni nomadi, ma basta osservare la nostra meno esotica, ma più aderente a noi, tradizione prein-

di Lorenzo Natural dustriale in cui l’animale cacciato viene rispettato cibandosi di tutte la sua carne, annesse lingua, fegato, trippe, che oggi i più, schizzinosi per natura, non osano toccare, e limitandone il consumo in occasione di determinati momenti del mese. L’attività venatoria pone, poi, sullo stesso piano l’uomo e l’animale, il cacciatore e il cacciato (che è cacciatore a sua volta). Certo, l’uomo è in possesso dell’arma da fuoco, ma anche l’orso nei confronti del salmone si trova in una posizione privilegiata: la forza bruta che nell’uomo manca è sostituita dall’ingegno, qualità intrinseca ed endemica del nostro essere umani, come lo è la velocità per il ghepardo, il mimetismo per il camaleonte, il veleno per il serpente. Evidentemente ciò non è chiaro ad alcuni primitivisti d’accatto che vorrebbero sì la caccia, ma solo con arco e frecce, come se non fosse anche questa un’invenzione tecnica prodotta dall’ingegno umano. Ma, soprattutto, la caccia garantisce l’affrancamento dall’allevamento industriale degli animali destinati alle nostre tavole. Sembra assurdo che la crociata anti-caccia provenga per lo più da individui non vegetariani. Perché? Anche qui ho isolato una serie di motivazioni plausibili. Evidentemente i più non conoscono o non vogliono conoscere le condizioni di vita e di morte degli animali d’allevamento di cui poi si cibano tanto più che si rifiutano di approfondire l’argomento, forse perché non vogliono privarsi del pollo con le patate o del panin porzina, senape e kren... per carità, nessun moralismo, ci mancherebbe, ma non si demonizzino i cacciatori! Correlata vi è la deresponsabilizzazione dell’individuo divenuto mero consumatore che preferisce non vedere, né agire in prima persona, delegando ad altri il procacciamento del proprio fabbisogno alimentare, additando, perlopiù, chi si “sporca le mani”. Vi è inoltre la convinzione che nella caccia vi sia una certa vena di sadismo ludico. Non posso ovviamente garantire

per l’intera categoria dei cacciatori né intendo farlo, ma evidentemente l’uomo medio moderno – sempre pronto a criticare ciò che gli è diverso – non comprende il mondo in cui il cacciatore stesso agisce, mondo che egli conosce perfettamente (al di là, ripeto, dei cecchini della domenica) e in cui è in sintonia. Forza alla crociata è data anche dalla sistematica equiparazione dell’animale all’uomo, grazie anche a propagande come quella della Disney che hanno creato cuccioli da coccolare con sembianza e atteggiamenti sempre più antropomorfi, ridicolizzando l’animale e rendendolo un umano in miniatura, sradicandolo dalla sua natura. Propaganda, voluta o meno, ancor più ridicola perché rende il cinghiale un maialino cresciuto e peloso, mentre il topo un animalaccio che si può uccidere senza che l’opinione comune – eccezion fatta per pochissimi attivisti – si muovano. Insomma, animali di serie A e di serie B. Se, poi, tutti questi motivi vi sono indifferenti, converrete con me che la carne industriale proveniente da animali allevati con metodi forzosi e mangimi di pessima qualità sia meno sana di quella da selvaggina... Per quanto mi riguarda, alla scelta vegetariana contribuiscono la difficile reperibilità di carne cacciata (non credo mica che dobbiamo diventare 7 miliardi di cacciatori, si badi bene), l’obiettiva incapacità a procurarmi la carne di persona , ma soprattutto una scelta etica e di personale benessere dovuta a una presa di coscienza attraverso la visione di quel che sta dietro l’industria dell’allevamento intensivo. Nel rispetto della vita e della morte che, come osserva Norman, «dona sostentamento a cinque altre vite». Ecco quindi le ragioni della mia sincera apologia della vera caccia. Con un malcelato velo di disprezzo per tutti quegli snob radical chic col nasino all’insù come la signorina di Guerra e pace descritta dal principe Andrej, tanto magnanima e sensibile «che sviene se vede ammazzare un vitello e […] non tollera la vista del sangue; ma con ottimo appetito mangia poi quello stesso vitello preparato con la salsa».


Viaggi

Rosso Zastava

Ovvero Belgrado, impressioni di un breve viaggio di Tommaso Tercovich perché ancora incompiuta. Essa cresce con le offerte dei fedeli ed entrandoci si può avvertire la sensazione di essere partecipi di un’opera collettiva. Stridenti i contrasti tra l’immagine della scavatrice dentro l’edificio e le icone sacre con san Giorgio.

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uest’anno basta capodanno a Trieste, si va all’estero! Non voglio scrivere un articolo che sia guida al viaggiatore o consigli per l’uso, ma semplici impressioni di un viaggio al crocevia di pensieri. Sono uno di quelli che pensa che un viaggio sta nelle impressioni di viaggio e che un’applicazione del telefono sia solo un ottimo strumento in certi momenti e un impedimento in altri. Certo può aiutare sia chiaro, ma per conoscere bisogna perdersi nei luoghi e nei pensieri di una realtà che non si trova come una pappa pronta su un display luminoso. Quest’anno basta capodanno a Trieste, si va all’estero! Il primo pensiero è quello di spendere poco (di questi tempi), quindi subito sono escluse tutte le capitali occidentali ed extraeuropee. Il pensiero scende subito verso “l’entroterra triestino”: i balcani, la Serbia, Belgrado. La città si trova in un luogo, più mentale che fisico, estremamente attraente. Cento anni fa la Prima Guerra scoppiava anche per la spinta nazionale e anti-austriaca di questo potente paese e nel settembre del 2013 è entrato in vigore “l’Accordo di stabilizzazione e associazione” che segna il primo passo per entrare nell’Unione Europea. Passando attraverso una guerra sanguinosa. Poche ore di macchina, i pedaggi si possono pagare tutti in euro e l’ostello in pieno centro, al quarto piano di un palazzo signorile che avrebbe bisogno si una ristrutturazione, costa solo una decina di euro a notte. La città è ricca di luoghi di visitare e locali da vivere. Vi offro pensieri legati a luoghi che portano a Trieste:

Il kalemegdan: la fortezza che dà il nome all’intera città. È il verde cuore pulsante, che chiama alla mente sangue di battaglie e guerre mentre è adagiato sulla confluenza della Sava e del Danubio. Da qui si gode una vista su Belgrado e una vista interiore su tutte le sue caratteristiche. Non perdetevi due anguste grotte subito oltre la cittadella, dove il fumo delle candele accese dai fedeli rende viva l’atmosfera di devozione e le immagini dei santi ortodossi appese alle pareti. Una giovane madre aiuta il figlio ad accende una luce mentre poco più in la un prete ortodosso benedice padre e figlio sotto la stola facendogli baciare il crocifisso. Penso alla chiesa serba ortodossa di Trieste e trovo uno dei tanti fili sottesi tra città legate. I fiumi: in ogni luogo che si visita i fiumi sono importanti. Qui a Belgrado si uniscono due acque molto diverse: l’acqua marroncina della Sava e quella blu nobile del Danubio. Non serve aver letto Magris per perdersi nei pensieri sul tempo. Un anno nuovo incomincia e si mescola a quello vecchio, chissà su quali sponde fluirà la nostra vita. Sul Carso l’acqua dei fiumi scompare nel terreno mentre qui un calmo fluire abbraccia il viaggiatore che si lascia ammaliare. I fumi danno una risposta molto più concreta alle mie domande “noiose”. Numerose chiatte e locali offrono divertimento a poco prezzo e musica dal vivo. Stamberghe galleggianti e tuguri alla moda rispondono ad ogni desiderio di ebbrezza e una buona birra non si rifiuta. Splendido il tramonto ramato sulle acque. La chiesa serbo ortodossa di San Sava: questa opera grandiosa è tanto interessante

Il piccolo appartamento dove ha vissuto Ivo Andrić, premio Nobel Jugoslavo, scrittore de “Il ponte sulla Drina” e diplomatico. Un altro filo riporta ancora a Trieste, dove in piazza Venezia c’è una targa che ricorda la casa dove visse. Simpatica la guida baffuta che presenta brevemente gli oggetti esposti, peccato solo che ci voglia un po’ per trovare l’entrata di questa nicchia letteraria causa cartellonistica in cirillico. Esco di lì pensando a ponti e a fiumi, a unione e differenza-separazione. Il motto dell’unione europea (prossima casa della Serbia) è “uniti nella diversità”: ma non è un controsenso? Fortezza di Smederevo: per capire il vero carattere di un paese bisogna visitare la capitale e la provincia. Questa immensa fortezza, bastione a difesa “degli infedeli”, sotto il controllo turco fino al 1867 rappresenta molta storia europea. Da una parte si sente Istanbul con i suoi profumi e i suoi minareti, dall’altra Vienna con palazzi e danze. Tutto il continente, con la sua storia moderna si restringe improvvisamente. Tutto però rimane nella testa di chi passeggia tra i potenti bastioni mentre la realtà consegna un cielo azzurro e un Danubio rilucente al sole di gennaio. Come dimenticare un po’ di sana Jugonostalgija? Tra la tomba mausoleo di Tito e i palazzi grigi di Novi Beograd, risultato dei piani urbani della Jugoslavia del dopoguerra. Bandiere con la stella rossa (acquistabili per poco insieme a berretti partigiani) si alternano a bandiere serbe e alle scritte: 1389. Le traballanti Zastava rosse sono ancora in circolazione mentre Storia e kitsch ai bordi delle strade si mescolano, con nostalgia. Il ritorno è breve. La sensazione è di non essere andato lontano, almeno qui sanno dove sia la nostra città – ah ah, Trst Trst! –, non come a Roma.

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Scontro tra penne

Sui Forconi e sul Movimento 9 Dicembre Luca Lopardo VS Lorenzo Natural

LUCA LOPARDO: Sulla questione dei “Forconi” e del “Movimento 9 dicembre”, partirei dalla sintesi di un passaggio tratto da Chi troppo chi niente dello studioso di Oxford Emanuele Ferragina. Etnologi e sociologi come Banfield e Putnam, nei rispettivi lavori sull’arretratezza del Mezzogiorno, hanno fatto passare l’idea, banalizzante e semplicistica, che i problemi del sud-Italia (ma anche dell’Italia in generale, rispetto alla superiorità civica del nord-Europa) siano dovuti al “familismo amorale” e all’incapacità dei cittadini di organizzarsi in movimenti collettivi. Tale tesi non trova riscontro nella storia d’Italia. Ferragina fa riferimento particolarmente al movimento dei fasci siciliani del biennio 1893-1894 (curiosa assonanza con l’odierno, peraltro), oltre che a eventi come l’omicidio di Giuditta Levato nel 1946. Se ci soffermiamo sui fasci siciliani, notiamo come i meridionali siano stati eccome capaci di organizzarsi in un collettivo finalizzato ad annullare le diseguaglianze sociali, senza perpetrare violenza: a fronte di un soldato ucciso, furono 92 i contadini uccisi nel tentativo di Crispi di sedare la rivolta e l’occupazione delle terre. Interessato a mantenere lo status quo, Crispi falsificò documenti ufficiali e fece passare tale rivolta spontanea come una cospirazione, mai provata, dei Borboni ai danni del nascente Regno d’Italia. Solo una volta fallita la rivoluzione, e dopo averci rimesso la vita – notando contemporaneamente la collusione dello Stato – i meridionali si rifugiarono di nuovo nel familismo. Insomma, al di là delle date, i parallelismi ci sono tutti: desecretate le rivelazioni di Carmine Schiavone, abbiamo la prova definitiva di un interscambio trentennale fra mafie e Stato. Quest’ultimo garantisce a potenziali cani sciolti di spartirsi il potere nel Mezzogiorno, garantisce a se stesso i seggi in Parlamento, e garantisce al popolo la soppressione dei diritti individuali faticosamente conquistati e dati per acquisiti. Personalmente, pur nutrendo forti dubbi sugli artefici della sommossa, non posso non riconoscere come a un cittadino vilipeso dalle istituzioni non rimanga altro che unirsi alla protesta e chiedere la chiusura di un Parlamento mai così legato alla criminalità organizzata, ricattato da essa e condizionato in questo palese mantenimento dello Status Quo. LORENZO NATURAL: Innanzitutto andrebbe osservata una cosa: i “forconi” sono qualcosa di diverso dal “Movimento 9 dicembre” latu sensu. La protesta che descrivi tu, quella di un Sud emarginato, perennamente sottomesso e socialmente lacerato non è la stessa di quella di Roma o di quella delle città del Nord. È chiaro che la crisi economica ha prodotto un odio vero e proprio nei confronti della classe politica italiana: naturale che numerose categorie si siano ritrovate unite sotto determinate parole d’ordine, come sovranità popolare, rappresentanza politica, rinnovamento morale della classe dirigente. Ciò che a mio avviso è inter-

essante notare è la mancanza di un punto di riferimento chiaro da parte di questi movimenti: non esiste un vero programma, non esistono veri capi, non esistono direzioni politiche o metapolitiche univoche da perseguire. In piazza è scesa la rabbia della gente che si trova in difficoltà, ma non sa davvero a che santo votarsi: manca di linguaggio, di proposte, di conoscenze. Questa gente pretende a ragione dalla politica stessa delle risposte serie e concrete: che ne può sapere di sovranità monetaria (tema trattato in modo molto marginale dal movimento, perdendo a mio avviso una grande occasione) l’operaio che ha appena perso il lavoro? Poco o niente. E in modo legittimo, per giunta. Manca, in sintesi, un vero nucleo rivoluzionario che – di per sé – dovrebbe essere “elitario”, o perlomeno in grado di possedere gli strumenti per poter dare forma al movimento, il quale – in caso contrario – non farebbe altro che continuare a oltranza una protesta senza capo né coda, sbagliando, magari, pure gli obiettivi da colpire. LUCA: C’è sicuramente differenza. Quello che ho capito io è che ci sono due paradossi: il primo riguarda gli aderenti; il secondo, gli oppositori – e ci riallacceremo alla questione dei referenti politici. Il livello culturale medio degli aderenti è molto basso. Si tratta di individui scolarizzati ma fondamentalmente ignoranti, che nove volte su dieci hanno votato quegli stessi politici ai quali va riconosciuta la paternità della crisi attuale, e nei confronti dei quali ora scendono in piazza a manifestare. Si scagliano contro il Fiscal Compact, l’Euro e la Merkel, come se uscire dall’Euro, tornare alla lira e tornare a stamparci le nostre monetine potesse essere la panacea a un male che dura da prima del 1861 (le prime forme di associazione da cui derivarono i primi clan camorristi, per dire, nacquero tre secoli fa). Non hanno proposte. Le loro idee sono propugnate da gente come Alemanno. Mi sembra un aspetto non secondario, oserei dire decisivo. Secondariamente, gli oppositori a forme estremiste di rimostranza perpetrate in alcune città (penso alla Ubik di Torino di cui alcuni minacciavano l’incendio), come l’ANPI di Torino, ravvedono in questo movimento sedicente spontaneo la regia di gruppi di estrema destra, tipo Forza Nuova, CasaPound e la stessa Forza Italia. Sui social network hanno dato pessima prova di sé, li si becca sempre di qua o di là a straparlare di chiudere i confini e mandar via con le buone gli immigrati (clandestini e no), cantano buone intenzioni sui moduli prediletti da Burzum. Tuttavia, la lodevole azione di contrasto rispetto a specifiche azioni fasciste da parte dei gruppi partigiani o anti-fascisti non dovrebbe travalicare in una generalizzazione altezzosa di tutti gli aderenti al “Movimento 9 dicembre”, i quali sono sì per lo più illetterati e presuntuosi nel voler contrastare oggetti non meglio compresi – né descritti – ma rappresentano quella massa abnorme che ha fuso il proletariato


Scontro tra penne e la piccola e media borghesia in un’unica marmellatona di disoccupati, precari, individui derisi e disgregati. È solo gente che vuole lavorare: ciò non pare un delitto. Non lo è nemmeno studiare, ma chi studia ha il dovere di osservare fenomenologicamente la vicenda, farne seria esegesi e offrire interpretazioni equilibrate, magari pure qualche risposta. Fare di tutta l’erba un fascio (nel senso di “branco di fascisti”) è, oltre che scorretto, stupido; e indegno di uno studioso che possa dirsi tale. LORENZO: Devo convenire con te sul fatto che in gran parte dei casi gli aderenti non brillano certo per formazione culturale né per capacità di intraprendere un vero progetto politico. Non concordo invece su gli altri due punti. Sebbene sarebbe alquanto stupido scaricare ogni tipo di responsabilità della crisi di questo Paese che – ci tengo a precisare – non è solo economica, ma anche sociale, culturale (lo è probabilmente in gran parte dell’“Occidente”), le battaglie contro Ue, Euro e compagnia bella sono del tutto legittime. In Italia è in atto uno smantellamento sociale ed economico dal 1981 con il divrozio tra Tesoro e Banca d’Italia, prosegue con Maastricht e Mani Pulite e raggiunge il proprio climax nel 1997 con l’aggancio nominale Lira-Euro, fino ad arrivare alla crisi di oggi dove l’Italia continua nell’opera di privatizzazione e di smantellamanto del tessuto aziendale e le politiche di austerità non fanno altro che soggiogare tutti i soggetti mediopiccoli, che in Italia sono la maggioranza, che fanno impresa. In tutto questo la politica nostrana è stata connivente ed eticamente impresentabile. Per tutto ciò non vedo grossi errori nell’indirizzo della rabbia espresssa dal Movimento, se non, come già ampiamente detto, nell’assenza di proposte vere. Non concordo nemmeno quando l’ANPI – che continua a ricevere fondi statali per un’attività estremamente politicizzata – invoca lo spauracchio del neofascismo e dell’estrema destra: si è voluta la democrazia, con tutti gli annessi e connessi? Ora non si torni a climi da anni di piombo in cui “sparare al fascista non è reato”: abbiamo già dato. Sull’ultimo punto: hai ragione quando affermi che chi studia ha dovere di osservare e analizzare quanto succede. Solo che a star lì a studiare dal di fuori, magari con informazioni filtrate da tv e giornali non se ne ricava granché di interessante. A volte provare a confrontarsi con il popolo medio, con la sua rabbia, mettendo a disposizione gli strumenti di cui si è in possesso aiuta a capire tante cose, nel bene e nel male. Solo dall’incontro tra popolo ed élite (intesa in senso spirituale, non economico) può scaturire una scintilla di organicità veramente rivoluzionaria. Sempre se questa è la volontà d’azione. LUCA: Hai ragione, Lorenzo. Infatti ho addirittura intervistato uno di loro, capace di esprimersi correttamente e, per quanto mal pensante, tutt’altro che depensante. Non c’è lo spazio per confutare quello che affermi, e non sono un economista: detto questo, in breve, con il 1980 in Italia e nel mondo sono successe alcune cose. Il mercato mondiale approdava a una globalizzazione quasi definitiva che quotidianamente avalliamo, dalla lattina di Coca Cola al volo

low-cost per San Pietroburgo fino al fidanzamento con un ragazzo o una ragazza in Erasmus. L’Italia in quegli anni non solo ha voluto rimanere ferma, insensibile e impaurita dalla competizione economica su scala globale, ma col craxismo ha dissipato il surplus accumulato negli anni d’oro e ha creato quella immane bolla di debito pubblico che stiamo pagando noi: senza un tetto agli stipendi della pubblica amministrazione, senza sburocratizzare, senza smantellare gli enti inutili, senza eliminare pensioni auree o retributive. Quando la Lira ha agganciato nominalmente l’Euro lo spread italiano ha perso tanti di quei punti che 400 miliardi di euro (500 secondo altre stime) sono stati regalati al Governo Berlusconi, e da questo buttati a mare con la legittimità del voto popolare italiano. Ora con il Fondo “salva Stati” abbiamo investito 40 miliardi di euro in titoli tedeschi tra 2011, 2012 e 2013, che ci rendono il triplo: con questi 120 miliardi di ritorni da fondi di investimento (NON è capitale, che serve a pagare gli stipendi) si contribuirà a risanare progressivamente il deficit come previsto dal Fiscal Compact. Siamo tutti d’accordo che l’Europa di oggi non è quella sognata da De Gasperi o Adenauer, ma forse, piano piano, si arriverà a limarne i difetti strutturali. Il mondo è uno solo e finora è stato un giocattolo squisitamente occidentale: con la globalizzazione anche India, Cina e Brasile, per dirne tre, parteciperanno a una gara da cui sono sempre stati esclusi. Rientra nelle rispettive libertà in gran parte, sinora, negate. Quindi la vera rivoluzione che possiamo fare è ricominciare da capo, rendendo l’Italia un paese moderno che elimini tutto ciò che al momento non le consente di sopravvivere con agio e civiltà. Inutile fare discorsi in stile anti-modernista che, peraltro, mi troverebbero concorde. Il Mondo va altrove e l’unica cosa che possiamo fare è tutelarci, senza snaturare quel poco di buono che abbiamo. Questi movimenti fanno capo sempre e comunque alla Società dello spettacolo. LORENZO: De Gasperi sognava un’Europa in cui le terre italiane erano merce di scambio... Senza indugiare troppo sui vasti temi che hai toccato, riparto dall’ultima tua riflessione. Se l’unica vera soluzione in questa società e in questo mondo globalizzato è «tutelarci senza snaturare quel poco (che per me poco non è) di buono che abbiamo» allora converrai che cavalcare la famosa tigre non può essere una soluzione: ne verremmo probabilmente sbranati. La soluzione è tornare a essere fieri di essere parte di una comunità, dalla più piccola alla più grande, intesa come il Paese Italia, con i suoi pregi e i suoi difetti. Per farlo va da sé che non possiamo continuare a seguire e copiare modelli stranieri, uniformarci a direttive sovranazionali, pensare sempre di essere peggio degli altri. Ricordiamoci che cosa ha rappresentato il nostro Paese per secoli. Nel merito dei movimenti di cui abbiamo discusso il mio timore è che, appunto, facciano parte di questo stesso sistema, indi puro gioco e strumento dello status quo. Ma qualora la direzione virasse verso la riaffermazione (che non vuol dire soppraffazione) di valori comunitari, tradizionali, genuini non avrei dubbio con chi schierarmi, anche se il Mondo dovesse continuare ad andare da un’altra parte.

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Rubrica Musicale

SOLO RUMORE Nel tentativo di bloccare il foraggiamento dei dinosauri della discografia, sempre prolifici sotto le feste, vediamo di trovare qualche buon disco del 2013 per cui valga la pena di rompere il porcellino.

MY BLOODY VALENTINE – mbv

Il premio ‘Sconvolgenti Ritorni’ del 2013 va sicuramente alla band di Kevin Shields e soci, che si ripresenta sulle scene a 22 anni di distanza dalla pietra miliare ‘Loveless’. Da veri padri e padrini dello shoegaze, questo disco è un enorme tappeto sonoro con infiniti effetti di chitarra e voci eteree, fedeli alla linea. Una bellissima conferma che mette d’accordo due generazioni (‘Papà, ti ho preso un regalino!’ sogghignerete aggiungendo questo disco alla vostra mensola dedicata). Best Tracks: She Found Now, If I Am.

BEACH FOSSILS – Clash The Truth

Avere l’opportunità di ascoltare questo disco è già un lusso, perché l’uragano Sandy aveva completamente distrutto tutto il materiale già registrato da questi 4 newyorkesi, salvo un back up fortuito. 14 tracce che fondono insieme la spensieratezza surf rock, le chitarre distorte primi anni ‘90 e una batteria veloce e incalzante. Best Tracks: Careless, Crashed Out.

MODERAT – II

Trio nato dalla collaborazione tra il genio musicale di Apparat e i molti più discotecari Modeselektor, i berlinesi Moderat hanno sfornato un gioiello che esplora lo scibile dell’elettronica moderna con una continua e disarmante qualità. La prova indiscutibile che campionatori, sintetizzatori e mixer sono cose serie. Best Tracks: Bad Kingdom, Milk.

NUMERO VI

- MAGGIO

VAMPIRE WEEKEND Modern Vampires Of The City

Terzo album per questo gruppo, icona della scena indie americana. Io mi immagino che il disco sia nato così: la festa a SoHo è terminata, i bicchieri di plastica sono finiti, il pavimento è appiccicoso per via del gin lemon finitoci sopra a fiumi, c’è casino ovunque; quattro post-teenager amorosamente inconcludenti si consolano tra di loro per il party mal riuscito. ‘Basta con ‘ste ragazzate, da domani solo eleganti piano-bar e gallerie d’arte post-moderne’. Si chiude un ciclo: i VW sono pronti per il mondo dei grandi. Best tracks: Unbelievers, Step.

ARCADE FIRE - Reflektor

No vabbè, ma hanno bisogno di presentazioni? Rivoluzionare i canoni dell’alternative rock e diventarne il baluardo più solido e conosciuto non bastava? Oh, non vi accontentate mai. Occhio, stavolta vi faranno pure ballare. Quarto disco e quarto capolavoro. Canada in our hearts. Best Tracks: Reflektor, Afterlife.

Lilli

JON HOPKINS – Immunity

Lui, Jon, dovrebbe essere l’esempio da seguire per noi immatricolati. Studia, si applica, fa un disco, non lo cagano, studia e si applica ancora di più, fa un secondo disco, a qualcuno piace, fa la colonna sonora di un film indipendente, ne fa un’altra, fa un terzo disco, diventa quasi artista dell’anno. LP complesso e bipolare: servirà più di un ascolto per coglierne ogni sottile vena. Elettronica cerebrale, che però non stanca mai. Morricone sotto acidi. Best Tracks: We Disappear, Open Eye Signal.

Per altro materiale, inclusa una succosa playlist su Spotify, potete dare un’occhiata al mio orribile blog alternativecomeunoskinnyrisvoltato.wordpress.com.

Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno

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In barba ai bolscevichi, questi qui sono tutti italiani e vengono da Pesaro, che negli ultimi anni è diventata una piccola culla musicale paragonabile alla Seattle a cavallo degli anni 90. Post-punk oscuro, intenso, energico, a tratti malinconico. Come? Sì sì, sono italiani, giuro. Best tracks: Ecstasy, Hidden.

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di Stefano

‘La mia banda suona il pop’. Per davvero eh, visto che questi ragazzotti sono in tutto una decina. La cosa è stata a lungo un problema, perché all’inizio i loro dischi sembravano un’accozzaglia di note a caso, condita da video coloratissimi e vestiti sgargianti. Una ventata di maturità ha comportato, oltre a dei jeans dai colori meno discutibili, anche una notevole pulizia dei suoni, ora diventati più equilibrati ed armoniosi. Senza perdere l’atmosfera scherzosa e giocosa che li contraddistingue da sempre, i Campagnoli! vi faranno sentire felici e spensierati come quando andavate alla disco della domenica pomeriggio. Best Tracks: Cemetery Gates, What Death Lives Behind.

2012

NUMERO XI-

elina Prima cand Tieri

LOS CAMPESINOS! – No Blues

di Francesco Baldo SOVIET SOVIET – Fate

Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO)

di Charta Sporca

Per contattarci:

sono consultabili online

chartasporca@gmail.com www.chartasporca.tk

dal sito www.chartasporca.tk e dalla nostra pagina Facebook

In copertina la rielaborazione di una foto originale di Roberto Barnabà


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