Numero 17

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Numero 17 - Marzo/Aprile 2014 Editoriale

L’altro e il suo sguardo

di Stefano Tieri

Lo sguardo dietro ad un fruscìo di una tenda, in un muoversi di foglie (JeanPaul Sartre). Lo sguardo panottico di Dio, di un potere diffuso, di una telecamera (Michel Foucault). Lo sguardo di un ritratto (Jean-Luc Nancy), di una fotografia (Roland Barthes), di un social network. Lo sguardo che da noi parte e a noi ritorna, in una reciprocità che dona – e al tempo stesso riceve – un qualcosa (Maurice Merleau-Ponty). Cosa? Soggettività. Con uno semplice sguardo posso assoggettare l’altro, intimorirlo, annientarlo – oppure gratificarlo in un elogio inaspettato, premiarlo per un’attenzione finalmente concessa, infine amarlo. Uno sguardo completo, totale, dentro cui cullarsi finalmente al centro dell’attenzione, mai come ora amati – che si ribalta in uno sguardo in grado di vedere ogni cosa, che tutto controlla, verifica, sorveglia, induce (e infine conduce). Cos’è allora, in questa polivalenza, lo sguardo? Qualcosa che mette in gioco il soggetto, che lo chiama (ci chiama) direttamente in causa. Possiamo dire che lo crei? Se non altro contribuisce a formarlo. Dobbiamo resistergli, in virtù di una nostra identità originaria (come se ci fosse stato, nella nostra vita, un momento in cui non siamo stati oggetto di sguardo)? Oppure abbandonarcisi senza alcuna remora, proprio perché da uno sguardo siamo da sempre stati “costruiti”? Forse quello che possiamo fare è mostrare cosa ci sia “dietro”, guardare lo sguardo dritto negli occhi, e al tempo stesso da una prospettiva laterale. Svelarne con un lavoro critico i doppi sensi, le contraddizioni, le ambiguità, infine i (sempre presenti) effetti di soggettività: prendere coscienza della sua ingombrante (ma spesso invisibile) presenza, ribaltarne i meccanismi vincolanti, per riuscire, finalmente, a non diventarne schiavo.

In questo numero

Lo sguardo dello spettro

Lo sguardo di Joshua Oppeneimer

Documentare l’atto di uccidere

pagg. 2 - 3

Un appello per salvare la filosofia

pag. 5

Il discorso amoroso II. L’affermazione dell’amore

Intervista a Pier Aldo Rovatti

pag. 11

pagg. 14 - 15


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Filosof ia

Lo sguardo dello spettro

N

ell’ultimo capitolo di Spettri di Marx, Derrida cerca di rendere conto della differenza e del rapporto che si instaura tra spettro e spirito: questione di visibilità, dello sguardo che coglie le implicazioni di uno spettrale che muovendosi senza sosta sfugge costitutivamente alla cattura del concetto. Era questo una dei problemi che Marx si trovò ad affrontare nel suo celebre testo Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte. Rivoluzione, tempi che si moltiplicavano e si disseminavano negli spazi aperti della storia, maschere e travestimenti che richiamavano continuamente la funzione dello spettrale, giocavano qui il ruolo dei protagonisti in quella che Marx definiva “la farsa” dell’evento storico. In questo carnevale delle maschere, che Marx viveva e commentava, lo spettro diventava il focus attraverso cui comprendere gli atti (mancati) di quella rivoluzione sempre più urgente che più di una volta sembrava aver previsto. All’interno di questa problematica Derrida cerca di definire lo spettro nella sua paradossale effettività: “forma d’apparizione, corpo fenomenico dello spirito: ecco la definizione dello spettro. Il fantasma è il fenomeno dello spirito”1. Allo spirito sopraggiunge il vero e proprio “momento spettrale”, quello cioè dell’incorporazione in un corpo, un ritorno al corpo che per la sua paradossalità si manterrebbe ad un livello per così dire ideale. Un corpo astratto che sarebbe il proprio dello spettro nella sua différance dallo spirito. [la teoria del fantasma], più che essere un processo di spiritualizzazione, l’autonomizzazione dell’idealità spirituale, formalizza una paradossale legge dell’incorporazione: l’ideologia, così come, mutatis mutandis, il feticcio, sarebbe il corpo donato, o piuttosto prestato, dato in prestito, l’incarnazione seconda conferita ad un’idealizzazione

produzione di spettralità. La questione del fantasma è qui declinata come effetto distorsivo di una macchina che produce fantasmagorie. In questo senso, Marx può affermare:

di Davide Pittioni iniziale, l’incorporazione in un corpo che certamente non è né percepibile né invisibile.2 Sembra delinearsi uno sdoppiamento nel superamento dello spirito, nel movimento che si dipana a partire da ciò che è ideale: da una parte ci sarebbe il ritorno al corpo reale vero e proprio; dall’altra, attraverso una paradossale sovra-idealizzazione, si giungerebbe ad un corpo a-fisico - non percepibile, ma non invisibile - che costituirebbe il carattere enigmatico dello spettro. Marx, già dai testi in cui si confronta con l’idealismo, si colloca nella prima prospettiva, relegando la seconda all’effetto distorsivo del discorso ideologico che, slegandosi dalle sue condizioni materiali, non fa altro che produrre effetti spettrali. Come nella critica della religione e nella critica dell’ideologia, si tratta di tener conto della “struttura pratica” del mondo, dell’effettività, del lavoro. Come dice Derrida, Marx critica quella che a prima vista è una “riduzione del fantasma”, perché è invece una “riduzione al fantasma”. L’operazione critica non consiste, quindi, nella semplice riduzione dell’idea alla sua materialità in quanto il risultato sarebbe solo il doppio spettrale dello spirito, un fantasma. C’è un lavoro di trasformazione della struttura materiale da compiere, un lavoro “rivoluzionario” che comporti il rovesciamento delle strutture materiali che riproducono la sfera ideologica. Marx sembra dire: “Devi passare attraverso la prova laboriosa di un più lungo percorso, devi attraversare e lavorare le strutture pratiche […]. Altrimenti, non avrai scongiurato altro se non la fantomalità del corpo, non il corpo stesso del fantasma”. E’ in questo solco che è possibile leggere il concetto marxiano di feticismo della merce, l’escamotage del capitale, l’escamotage capitale, che dà i suoi effetti a partire da un dispositivo di

A prima vista una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e capricci teologici.3 Siamo qui, in effetti, nell’inusuale situazione in cui non è l’ideologia a mascherare il suo sostrato “reale”, ma, al contrario, in cui un “lavoro spettrale” si traveste dietro la fatticità della cosa. “Si tratta di portarsi immediatamente, di un colpo al di là del primo colpo d’occhio e dunque di guardare laddove questo colpo d’occhio è cieco”4. Oltre la sua impressione immediata, il valore d’uso nella sua fenomenicità, si tratta di pensare il sovrappiù ideale che dietro l’oggetto si nasconde. Apparentemente, il momento fantomale sopraggiunge quindi rovesciato: cioè a differenza del movimento di spettralizzazione dello spirito, ora è il corpo a incorporare un doppio spirituale. Traducendolo nel contesto in cui Marx si muove, quando un oggetto, dotato di concretezza e solidità5, viene catturato dal campo del mercato, esso diviene merce. Ed è a questo punto che diviene ingarbugliato. La condizione perché un oggetto sia merce è la scambiabilità, cioè la corrispondenza con altre merci al di là del loro carattere particolare. Perché una merce sia tale, nel suo momento-merce, deve spogliarsi delle caratteristiche che ne fanno un valore d’uso: è a questo punto che emerge la sua dimensione sovrasensibile. Nello scambio, nella dimensione sociale dell’iterazione della merce, la merce diviene uno spettro. L’esempio che Marx riporta è quello di un tavolo che si manifesta in un’apparizione. Nel tavolo, “la densità lignea e testona si trasmuta in cosa soprannaturale, in cosa sensibile insensibile, sensibile ma insensibile, sensibilmente sovrasensibile”6. Questa sovrasensibilità non è semplicemente ideale, perché mantiene una sua sensibilità, un corpo spettrale che la rende funzionante. Il valore di scambio, infatti, non esisterebbe per le merci prive di un valore d’uso: sarebbe semplicemente impensabile lo scambio di qualcosa di inutile in senso assoluto. Il sostrato materiale è allora condizione


Filosof ia necessaria perchè ci sia scambio: nel mondo del mercato è ciò che Marx definisce feticcio. Ciò riporta la questione alla nozione che Derrida introduce quando si confronta con l’Amleto di Shakespeare: l’effetto visiera. In effetti, anche nel feticismo delle merci ci troviamo di fronte ad un colpo di teatro: un colpo di scena. Un tavolo, ovvio e casalingo, prende vita, si anima, si mette a testa in giù, si automatizza e autonomizza nello scambio. Così nell’Amleto appare un fantasma, il fantasma del padre, dando avvio al dramma. È qui che “una dissimmetria spettrale interrompe ogni specularità”7. Questo avviene perchè la Cosa che appare non si fa vedere in carne e ossa, ma attraverso un artefatto, un supplemento materiale: “l’armatura può essere solo il corpo di un artefatto reale, una sorta di protesi tecnica, un corpo estraneo al corpo spettrale che riveste, dissimula e protegge, fino a mascherarne l’identità”8. L’effetto visiera nasce dalla presenza di questo schermo: “non vediamo chi ci guarda […] Questo qualcun altro spettrale ci guarda, noi ci sentiamo guardati da lui, al di fuori di ogni sincronia, prima e al di là di ogni sguardo da parte nostra”9. Questione, questa, che anche Lacan affronta nel Seminario. Libro XI, dove si legge: “quello che si tratta di circoscrivere, attraverso le vie del cammino che egli ci indica, è la preesistenza di uno sguardo – io non vedo che da un punto ma, nella mia esistenza, io sono guardato da ogni parte”10. Ciò che sembra decisivo per capire l’effetto visiera è quella che Lacan definisce la schisi tra sguardo ed occhio: il fantasma, nascosto dietro l’armatura, ci guarda fino “all’abbagliamento che rende ciechi” (che abbaglia l’occhio). È, cioè, nel paradosso di una invisibilità che si fa vedere, che lo sguardo coglie il fantasma. Il punto morto dell’osservazione è la dissimmetria fondamentale dell’effetto visiera: l’essere guardati dal fantasma senza poterlo vedere nel suo sguardo. Lacan estende il concetto alle cose stesse: “sul lato delle cose c’è lo sguardo, vale a dire che le cose mi guardano, e tuttavia io le vedo. È in questo senso che bisogna intendere la parola scandita dal Vangelo – Hanno occhi per non vedere. Per non vedere che cosa? Precisamente che le cose li guardano”11 La specularità dello sguardo – l’incrocio di sguardi – è preclusa dallo spettro in quanto tale. Analogamente avviene lo

stesso nel feticismo delle merci, la cui definizione da Marx viene improntata curiosamente sul tema dello specchio: L’arcano della forma di una merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali.12

Ma è precisamente questa impossibilità dello sguardo a rendere lo spettro così ambiguo: “una maschera, anzi una visiera, che può sempre non nascondere, sotto l’elmo, alcuno sguardo vivente. L’automa mima il vivente”. Mima il vivente anche nella parola, perchè “la merce parla”14, parla e pensa in una lingua merce attraverso cui si struttura un’uguaglianza formale con le altre merci che rende possibile l’equivalenza15. “Come chi dice, al riparo dalla sua visiera, I am thy Father’s Spirit, si tratta sempre di un corpo visibileinvisibile, sensibile-sovrasensibile”16, la merce, nel suo essere spettrale, motteggia la parola, entra in una comunicazione con le altre merci. Così l’indecidibilità infesta lo spettro stesso: non è infatti possibile discernere tra lo sguardo vivente e l’automa della merce che si nascondono dietro la visiera: “abbiamo suggerito che l’evento intorno al quale qui ci aggiriamo esita tra il ‘chi’ singolare di un fantasma e il ‘che’ generale del simulacro”17 NOTE

Uno specchio sembra quindi frapporsi tra la merce e i produttori. In questo modo, in una opacità deformante, la merce acquisisce quei caratteri sociali che non le sono propri, in quanto proiezioni sullo schermo-merce delle qualità del lavoro. Uno specchio paradossale è quindi implicato nel feticismo delle merci: uno specchio che, come l’armatura del fantasma del padre, interrompe la specularità simmetrica. Non stupirà, allora, che l’esempio di questo fenomeno cada proprio nel campo ottico: “proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio”13.

1 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p.171. 2 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 161. 3 K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro primo, Roma, Editori Riuniti, 1972, p.84. 4 J. Derrida, Spettri di Marx,cit., p.188. 5 “Le merci vengono al mondo in forma di valori d’uso o corpi di merci, come ferro, tela, grano, ecc. Questa è la loro forma naturale casalinga” (K. Marx, Il capitale, cit., p.60). J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p.190. 6 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p.190. 7 Ivi, p. 14 8 Ivi, p. 15. 9 Ivi, p.14. 10 J. Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti della psicanalisi(1964), Torino, Einaudi, 2003, p. 71. 11 Ivi, p.107. 12 K.Marx, Il capitale, cit., p.85-86. 13 Ibidem. 14 W. Hamacher, “Lingua Amissa”, in Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, cit., p. 194. 15 “Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete è il nostro valore” (K. Marx, Il capitale, cit., p.97). 16 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p.161. 17 Ivi, p.212.

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Letteratura

Lettere di Lorenzo de' Medici ai suoi futuri figli

L’OCCHIO: lo sguardo degli scrittori (confronti tra lingue)

di Solivagus Rima

Cari posteri, cari futuri figlioli, avrei potuto tediarvi nuovamente con un noioso testo scritto sul significato del vocabolo OCCHIO, ai fini di portarvi ad una conclusione “stiracchiata”, nella quale vi avrei spiegato la mia opinione riguardo al tema trattato. Ho deciso però di fare il lavoro inverso in questo scritto: dapprima vi dirò la mia opinione e poi vi esporrò brevemente le mie conclusioni “stiracchiate” ottenute da un’analisi linguistica. Lo scrittore non è un individuo bislacco che vi presenta sempre davanti la solita “minestra riscaldata”, credendo d’aver “scoperto l’acqua calda”. Non è il solito “soggetto umano” che si è abituati a vedere: un po’ introverso, talvolta remissivo, in controtendenza o anticonformista; non è un genio, è solo colui che decide di vedere le cose esterne con un “occhio interiore”, colui che vuole vedere al di là delle cose comuni. Tutti siamo potenzialmente scrittori. Lo scrittore è solo un individuo che esprime se stesso!

cato semantico di un vocabolo, ma anche il significato intrinseco e simbolico che la parola si porta dietro. Scelgo, quindi, del tutto casualmente delle “lingue campione” (19, se consideriamo l’indoeuropeo una lingua vera e propria) sia antiche che moderne.

E la somiglianza fra l’OCCHIO otomí, thailandese e il sanscrito netra? Sicuramente sono questioni da approfondire!

1. Lingue indoeuropee (indoeuropeo, greco, latino, sanscrito, hindi, bengali, spagnolo, islandese, svedese, illirico): risulta subito evidente la somiglianza fonica fra i vocaboli nelle varie lingue indoeuropee esaminate. Ovviamente me l’aspettavo! La presenza della radice ak (moto curvilineo) è senz’altro rilevante. Il vocabolo akṣ diede origine a parole sanscrite come “ruota” e “abbracciare” oltre che a parole greche come “valore” e “stima”. Si può affermare inoltre che il sanscrito ak ṣi ha un nesso evidente con ṣak ṣ (“sei”); infatti l’OCCHIO in sanscrito viene visto come lo sguardo rivolto nelle sei direzioni (Nord, Sud, Est, Ovest, Zenit e Nadir).

4. I due geroglifici ci fanno capire l’importanza dell’OCCHIO nelle culture antiche.

Purtroppo pochi hanno il coraggio e il desiderio di esprimere realmente se stessi. Ti hanno detto che con le ragazze devi essere stronzo? Sì, e lo stronzo non esprime; anzi nasconde, cela la propria sensibilità! Ti hanno messo dubbi sul tuo uso della grammatica e sul tuo linguaggio? Non so scrivere, ho paura del giudizio degli altri, scrivere è noioso. Sono tutti luoghi comuni, eppure tutti voi scrivete in continuazione. Vivete, o cari amici, in un’epoca nella quale il linguaggio scritto sta pian piano rinascendo, come una fenice dalle proprie ceneri, e sta acquistando un ruolo preponderante rispetto all’oralità. Chi fra voi non ha mai scritto un pensiero su FB? Chi non ha mai scritto un SMS? Credo pochi...

2. Somiglianza fonica inaspettata fra l’OCCHIO delle lingue indoeuropee e l’aches della lingua degli indiani Yakama.

Purtroppo ha iniziato a diffondersi quasi esponenzialmente un nuovo fenomeno: l’analfabetismo emotivo ed espressivo. Gli individui hanno la capacità di poter scrivere, ma decidono per lo più di non farlo o di limitarsi. Perché limitare noi stessi a una comunicazione scritta di poche righe o di 140 caratteri? Questo non può far altro che limitare la nostra capacità espressiva. Avete l’opportunità di riempire pagine e pagine di Word senza spreco di carta, eppure scrivete così poco. Ora vi mostrerò lo schema di quello che ritengo essere un esperimento interessante per capire non solo l’etimologia e il signifi-

3. Il cinese yǎn significa anche “coprire”, “proteggere”.

5. Le rimanenti “lingue campione” analizzate (vietnamita, swahili, lingua dakota) non hanno fornito alcun risultato interessante. Ma, lasciando perdere le questioni etimologiche e di linguistica, acchiappiamo solo i concetti che ci interessano di quest’esperimento: OCCHIO, visto come “valore”, “cosa da proteggere, coprire, abbracciare”, “merito”, “dignità”, “stima”.Sicuramente quest’articolo potrà risultarvi “stiracchiatissimo” e insensato, ma è pura interpretazione. È un modo come un altro per motivarvi a credere nel potere della scrittura, a credere nel vostro “occhio interiore”. Ritengo che, se tutti scrivessero di più, il mondo potrebbe essere sicuramente un posto migliore in cui vivere.

LINGUA

VOCABOLO

TRADUZIONE

Indoeuropeo

akṣ

muovere tutt’intorno

Indoeuropeo

Greco

oktallós/ophthalmós

occhio

Indoeuropeo

Greco

Latino

oculus

occhio

Indoeuropeo

Latino-falisco

ak ṣi (o netra)

occhio

Indoeuropeo

Indoario

Hindi

âñkh

occhio

Indoeuropeo

Indoario

Bengali

côkh

occhio

Indoeuropeo

Indoario

Thailandese

nattà

occhio

Tai-Kadai

Tai

Vietnamita

mắt

occhio

Austro-asiatico

Mon khmer

Spagnolo

ojo

occhio

Indoeuropeo

Romanzo

Otomí

na dāā

occhio

Oto-mangue

Swahili

jicho

occhio

Nigerkordofaniano

Bantu

Islandese

auga

occhio

Indoeuropeo

Scandinavo

Svedese

öga

occhio

Indoeuropeo

Scandinavo

Sanscrito

FAMIGLIA LINGUISTICA

GRUPPO

LINGUISTICO (o SOTTOFAMIGLIA)

Geroglifico ebraico

lettera ai (occhio)

Afro-asiatico

Semitico

Geroglifico egizio

bilittero jr (occhio)

Afro-asiatico

Egizio

Illirico

okko

occhio

Indoeuropeo

Illirico

Cinese

yǎn

occhio

Sino-tibetano

Sinitico


Cinema

Lo sguardo di Joshua Oppenheimer Documentare l'atto di uccidere inizi del 2000 va in Indonesia per produrre The Globalization Tapes, un documentario sullo sviluppo della globalizzazione. A questo sguardo si uniscono quelli dei lavoratori poveri delle piantagioni che svelano il ruolo devastante dell’esercito e il potere repressivo delle istituzioni economiche. Altri sguardi, quelli dei militari che vengono ad impedire le interviste e allontanano Joshua e i suoi collaboratori. Ma in tre anni di ricerche, interviste, costruzione di rapporti di fiducia, comincia a venire alla luce un qualcosa, una traccia, una memoria...

L

o sguardo ha una sua complessità. Non è solamente il vedere attraverso degli occhi. Uno sguardo si espande nello spazio e nel tempo. Avvolge ogni cosa, dalla più vicina a noi alla più distante e si nutre di ciò che era e di ciò che è. Uno sguardo ha già in se stesso un voler comprendere, non osserva solamente, egli partecipa. Vive della realtà e dell’immaginazione e quando viene gettato, quasi esplodesse, genera un mondo. Ma non esiste uno sguardo, ne esistono molti. Prospettive si intersecano come un gomitolo che continuamente gira su se stesso e ingloba nuove storie, nuove immagini, nuovi volti. I loro sono movimenti dinamici, aperti alla novità, liberi. Ogni sguardo ha delle conseguenze. Avvolge un mondo e in quel mondo vivono uomini, donne, bambini e anziani. Un’intera umanità abita in esso. Un immenso potere, quindi, è insito in ogni sguardo. In esso deve generarsi un discorso di responsabilità. Ogni sguardo deve essere critico. Come dentro ad un labirinto di specchi esso deve continuamente riflettersi, deformarsi, mascherarsi e svelarsi. Il rischio di perdersi è alto, la fatica di orientarsi ad ogni passo è tanta. Dietro ogni sguardo c’è una ricerca. A volte possono passare anni prima che uno sguardo giunga a compimento e quando accade può avere la capacità di generare altri sguardi: prima uno, poi due, cento, mille, un milione... In un documentario come The Act of Killing1 accade tutto questo. Prima di tutto c’è lo sguardo di Joshua Oppenheimer che agli

La storia: Nel 1965 un colpo di stato depone il governo indonesiano. Si instaura una dittatura militare che immediatamente esclude il partito comunista (il più numeroso al mondo al di fuori degli stati comunisti) ed inizia una feroce propaganda contro i suoi sostenitori. In meno di un anno chiunque si opponga alla dittatura militare viene accusato di comunismo e trucidato con l’appoggio del fronte paramilitare chiamato Gioventù di Pancasila. Appartenenti ai sindacati e alla minoranza etnica cinese, contadini privati della propria terra e intellettuali sono giustiziati dai paramilitari e da piccoli fuorilegge. Questi ultimi erano gangsters dediti al bagarinaggio fuori dai cinema e che, con il comunismo che vietava i film americani, avevano visto le loro entrate diminuite di molto. Ciò genererò un odio violento che, dopo la caduta comunista e con l’istigazione del nuovo governo militare, sfocerà nella trasformazione dei piccoli criminali in killer senza scrupoli. Nel 2005 lo sguardo di Joshua devia ed inizia ad interessarsi a questa storia, così cerca e incontra i sopravvissuti. Il continuo ostacolo dato dai continui interventi dei militari e la paura di possibili ripercussioni portano l’impresa vicino al fallimento. Ma il venir prelevato dalla milizia e il contatto con loro dischiude una possibilità. Joshua scrive: “Not only did we feel unsafe filming the survivors, we worried for their safety. And the survivors couldn’t answer the question of how the killings were perpetrated. But the killers were more than willing to help and, when we filmed them boastfully describing their crimes against humanity, we met no resistance whatsoever. All doors were

di Giovanni Isetta

open. Local police would offer to escort us to sites of mass killing, saluting or engaging the killers in jocular banter, depending on their relationship and the killer’s rank. Military officers would even task soldiers with keeping curious onlookers at a distance, so that our sound recording wouldn’t be disturbed”2. Data la sorprendente disponibilità degli assassini (i gangsters appassionati di cinema) di raccontare le loro gesta come se fossero stati degli eroi (ed effettivamente sono considerati tali dal governo e da gran parte della popolazione), il lavoro documentaristico di Joshua diviene quello di svelare lo sguardo di coloro che quarant’anni prima avevano causato la morte di migliaia di persone così da portare alla luce le conseguenze devastanti dell’atto di uccidere. Preso contatto con i vecchi componenti di una delle più efferate squadre della morte di Medan e colpito dal loro amore per le pellicole americane, Joshua propone di fare un film dove essi stessi siano gli attori, sceneggiatori e registi che mettano in scena le loro gesta. L’effetto finale è sconvolgente per vari motivi. In particolare c’è un gioco di sguardi all’interno del film dove il protagonista (Anwar Congo, il quale causò la morte di più di mille persone) vedendosi recitare si rende lentamente conto della brutalità dei gesti compiuti (tanto che ad un certo punto guardando una scena del film alla televisione chiederà perplesso “ma ero così cattivo?”) fino al punto che, interpretando la parte di una vittima, raggiungerà una drammatica consapevolezza del male commesso. Il complesso sguardo di Joshua riesce così a mettere in scena tutta la devastante fragilità, banalità e vuota crudeltà di tali uomini tanto acclamati dalla propaganda del regime. Uno sguardo gettato nel passato attraverso gli occhi del presente e che sta già avendo importanti conseguenze sul cambiamento dello sguardo di un popolo sulla propria storia. 1 Un film di Joshua Oppenheimer. Con Haji Anif, Syamsul Arifin, Sakhyan Asmara, Anwar Congo. Documentario, durata 115 min. - Danimarca, Norvegia, Gran Bretagna, Svezia, Finlandia 2012 2 http://theactofkilling.com/statements/

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Ilaria Gramigna Policreti


Terza Pagina

inserto letterario

Albayzin Reclinàti sotto il sole di giugno tra mulattiere polverose e strade che anticamente percorremmo in sogno camminiamo, tentando già di evadere dalle bianche mura che avemmo in dote al principio, dapprima spoglie e rade e che già inturgidiscono, distorte ad angolo cieco in fondo alla via; quando un rossore soffuso di gote gentile mi innamora della mia stanca sorte. Nell’eterno vagare cupo dell’umana cavalleria il tetro rombo di passi e fanfare cessa a un tratto: un lamento di chitarra sorge sommesso, dalle piazze chiare di ciottoli e fonti. I finti bazar accumulano, davanti ai nostri occhi complici, la memoria – una gazzarra imprecisa, di argenti e specchi vacui, che non riflettono che il proprio volto ma una merce può darsi, che ti blocchi la ridda urlante di ricordi, tolto il tempo, una pietosa ora d’oblio...

Andrea Piras


Il

cameriere conduce cortesemente i clienti al loro tavolo. “Va bene qui? O forse è meglio qui?”. I quattro si scambiano uno sguardo d’intesa “Meglio qui, grazie” e si siedono in un tavolo da cinque. Il ristorante l’ha scelto Marco, come sempre. L’unico requisito che deve avere, a parere di tutti, è che sia abbastanza di lusso, tranne i prezzi. Accanto a loro una coppia di giovani innamorati sta finendo di mangiare, mentre un anziano malinconico sorseggia un calice di vino rosso all’angolo, con sguardo ieratico. “Mi scusi, il bagno dov’è?” chiede Lorenzo al giovane cameriere effeminato “In fondo a destra, scenda le scale, dritto davanti a Lei” “Grazie mille” e si alza con un piccolo scatto, dirigendosi verso la toilette. “Insomma, avete sentito?” esordisce Filippo con piglio divertito “Lorenzo ha detto che si sposa, ma ci credete? Io personalmente no, ma l’avete vista quella? Secondo me è finta come una bambola”. Gli altri due si guardano divertiti “Secondo me gli vuole spillare tutti i soldi” dice Marco, “È capitato a più di qualcuno, grande amore grande amore, e poi scappano con i soldi, magari alle Maldive.” “Io tutti ‘sti soldi Lorenzo non credo nemmeno ce li abbia, no? Insomma ok, l’autosalone e tutto, ma non ha pagato la cena nemmeno alla sua laurea…” dice Matteo con tono seccato, quasi distratto. “Ce li ha, ce li ha, i suoi sono pieni fino alle orecchie, credimi” risponde sicuro Marco. “Sarà, ma a me sembra piuttosto che lei sia una di quelle poco serie, a cui piace dormire un giorno qua, un giorno là.” Ribatte Matteo, chiudendo velocemente il discorso, poiché Lorenzo era ormai a pochi passi dal tavolo, di ritorno dal bagno. “Insomma, che si dice? Bello questo posto, il bagno è una figata, dovete andarci! Pulito e profumato, bella scelta Marco” “Davvero?” risponde Filippo “Beh, un salto io lo faccio, me la sto facendo addosso” e si alza tempestivamente. “Che vi avevo detto? Filippo è ingrassato o no come un bue? Guardate che pancia!” esclama Lorenzo. “C’ha pure il doppiomento!” dice Matteo, e tutti tre scoppiano a ridere. “Meno male che la salute era importante, la piscina, la corsa, la bicicletta, ma da quando lavora seriamente, che fatica muovere le chiappe eh?”. Marco alza improvvisamente un braccio “Cameriere, un litro di vino rosso e uno di bianco, grazie, il mangiare vediamo poi, quando il ragazzo torna dal bagno, grazie!” “Il ragazzo? Sembra abbia quarant’anni dai” continua sugli stessi toni Matteo, facendo palesemente divertire gli altri due. “Cambiamo discorso dai, la partita l’avete vista ieri?” dice Marco, improvvisamente ricomposto, con il cellulare in mano e intento a scrivere un sms. “Che batosta la partita!” urla Filippo di ritorno dal bagno “4-0 senza storie!”. Il cameriere porta il vino e alcune pagnotte di pane in tavola, i quattro approfittano della sua presenza per ordinare il pranzo. Un antipasto per tutti, un primo a testa, e un secondo solo per Filippo. Gli altri tre si scambiano un’occhiata divertita, e iniziano a sorseggiare il vino dal loro calice. Marco lo vuota in un solo sorso, e se ne riempie un altro. Improvvisamente gli squilla il cellulare “Scusate” dice piano mentre sguscia fuori dal tavolo e si allontana un poco prima di rispondere, premendosi l’orecchio con l’indice. “Avete visto con che velocità ha vuotato il suo bicchiere?” dice immediatamente Matteo “Accidenti!” risponde Filippo “Ma dico io, due litri doveva ordinare? Se fossi stato qua quando li ha ordinati gliel’avrei impedito, insomma non è solo per il fatto che poi se ne va in giro ubriaco, ma la salute, la salute è importante

ragazzi!” “Sì, sì va bene è importante, ma come fai a lavorare ubriaco il pomeriggio? Io già con un bicchiere so che non combinerò niente il pomeriggio, mi butto sul divano e via…” ribatte Matteo. “Si pure io, bevo un bicchiere e basta, se no poi Claudia non mi parla per tutto il giorno, sapete da quando sto con lei..” “Si, si, lo sappiamo… Lorenzo, lo sappiamo” dicono gli altri due assieme tagliando corto ed evitando bene di incrociare gli sguardi. Intanto Marco riprende il suo posto e si riempie un altro bicchiere. “Scusate era mia moglie, ultimamente è un periodaccio… non mi lascia un secondo di calma, poi con il problema della piccola…” “Non preoccuparti, non ti devi scusare con noi, comunque per qualsiasi cosa sai che puoi contare su di noi” dice con tono sommesso Filippo. “Grazie ragazzi, non è sempre facile affrontare i problemi, le preoccupazioni. Ogni tanto penso a quanto terribile dev’essere non avere qualcuno su cui si può contare veramente, qualcuno che non ti volta le spalle appena ti allontani, qualcuno che, nonostante i difetti, ti apprezza per quello che sei veramente. Non so proprio come farei senza di voi!”. Probabilmente a causa del secondo bicchiere di vino trangugiato a stomaco vuoto, o da un lampo di intima sincerità, Marco si era lasciato andare in questa sorta di elogio agli amici, i quali, un po’ imbarazzati e stupiti non seppero che dire. Improvvisamente Filippo riesce a cambiare discorso e a focalizzare l’attenzione su una partita che veniva trasmessa nella saletta adiacente a cui si trovavano. Lorenzo e Matteo, invero non troppo abilmente, dandogli corda iniziano un discorso zoppicante sul calcio, distogliendo definitivamente l’attenzione sul discorso dell’amico, ormai decisamente alticcio e sconfortato. Fortunatamente poi il cameriere porta le pietanze, e i discorsi riniziano a sgorgare spontanei dalle bocche piene e semipiene dei quattro uomini. Una volta finito di mangiare, Matteo finge di dirigersi verso il bagno per poi rivolgersi alla cassa per pagare il conto. Filippo e Marco, una volta scopertolo, protestano energicamente mentre Lorenzo finge solo di farlo, essendo accaduto proprio quello che sperava. Usciti dal ristorante, decidono di fare quattro passi sul lungomare, e Matteo, dopo pochi passi prende subito parola dicendo: “Sapete, stavo ripensando a quello che hai detto prima, Marco. Alla difficoltà di affrontare i problemi, le preoccupazioni; alla necessità di avere un appoggio, un sostegno su cui contare. Io molte volte mi sento al contrario solo, così solo che non riuscirei mai a pronunciare un discorso simile. Spesso avverto una tale tristezza, una tale malinconia nelle persone e negli oggetti che mi circondando, che non posso non articolare pensieri cinici e pessimistici, sul mondo e sulla vita. Ogni tanto mi sento addirittura come quel tale che gridava “Al lupo! Al lupo!”, ma che in realtà non lo aveva avvistato, e che poi, la volta in cui lo avvistò e gridò “Al lupo!” nessuno gli credette e finirono tutti sbranati. Capite ciò che intendo?” In quel momento gira lo sguardo verso i suoi amici. Filippo ha le cuffie agli orecchi e segue in modo trasognato la partita per radio, Marco ha in mano il cellulare e scrive un sms con sguardo inebetito, Lorenzo, con le mani in tasca fischietta e guarda altrove, verso alcune ragazze che corrono sulla spiaggia, poi si gira e guarda Matteo con tono mal celatamente interessato “Scusa… dicevi?” “Niente” risponde Matteo, “Niente…”

Matteo Mascarin


Il cimitero marino ‘Giuro, il corpo rimane immobile dopo la scarica di bastone, tremenda. Gastone gli molla il bavero e la testa di quell’altro becca una pietra tra l’erba e si apre. Giuro, con il rumore del martello nel cocco. Ha le mani sporche di terra, qualche taglio, niente di che: non c’era stata alcuna lotta, no? Non c’era mica sangue. Se ne rimane lì zitto a guardare il casino che ha fatto’ - il vecchio sdentato si ferma, prende fiato, afferra il bicchiere con il vino e lo vuota. Dall’altra parte del campo parte una raffica d’imprecazioni: il guardiano continua a maledire i santi del mare, mentre il gruppo attorno al vecchio fa volare le carte sulla bara apparecchiata a dovere. Ogni tanto invocano: -‘San Brendano barcaiolo di ‘sto cazzo!’ perché il fesso ha sbagliato la giocata.

Il senzadenti continua a interrompersi, ed è così impegnato a farlo che non segue più il gioco; il fesso tiene troppo le mani in tasca, l’altra coppia lo accusa di barare; in lontananza il guardiano li schernisce entrambi e li ridicolizza come osa fare solo con i beccamorti; in più manca il fante di spade. Dal fondo del cimitero parte uno strillo, i vecchi si danno alla fuga, s’incespicano nelle pale e nei rastrelli, schivano alla buona gli annaffiatoi che il guardiano gli sta lanciando furiosamente addosso e che rimbombano contro le lapidi. I vecchi, stretto in pugno il mazzetto dei propri punti, si sparpagliano, ma continuando ad accusarsi reciprocamente di fanticidio. Lo sdentato maledice le serpi dei parenti morti, manda sciagure ai bari schifosi. Quando non ha più niente da scansare e nessuno da mandare alla forca dei batticarte, nonostante la concitazione, riprende a pensare a quelle gocce che battono sul coperchio, al loro ticchettio rilassante. Si vede all’interno della bara, gli occhi chiusi per godersi su tutto il corpo il rimbombo morbido del legno; ha un cuscino sotto la testa ed è ben addobbato. Le scarpe di cuoio nere, le mani giunte sopra il torso: vi stringe un rettangolino sottile e plastificato. Sgrana gli occhi, volta latesta per controllare, scorge il guardiano proprio sopra la tomba fresca che sta facendo roteare un pesante incensiere di ferro. ‘Addio rivincita’, pensa.

Il guardiano si riassesta: tra i sentieri di ciottoli persone smagrite, secche spighe di carne, se ne vanno da tempo. Tornati a casa con i soliti venti minuti di lutto nelle tasche, tra fiacche storie di morti cercheranno la propria, racconteranno ai bambini del nonno e della sua leggendaria dissenteria. I vecchi sparecchiano il tavolo, lo calano sul fondo e richiudono la buca con poche palate di terra. 21 a 0, cappotto. Il fesso si mette a ridere, guarda il cumulo di terra sotto i piedi ed abbaia: -‘il cappotto di legno! Dai mischia, che vediamo chi ha freddo!’. L’occhio del senzadenti si precipita tra l’edera, che lentamente prende possesso del territorio dei cipressi, si rituffa tra le carte per poi riemergere sfiatato tra gli scheletri dei ricci. Là, tesi sul mare, risuonano gli stridii dei gabbiani. Un gheppio scompiglia le fronde degli alberi nel prendere il volo. Dal camposanto si leva un urlo a zittire tutte le nature circostanti: “Uccello bolscevico! Un giorno sarò io a cagarti addosso!” ma non lo sta già più seguendo; egli guarda il liquame colargli dalla fronte, ficcarsi a gocce pesanti nella terra. Non gli fa schifo; sui capelli, sulla camicia, sull’asso di coppe. Gioca ancora una mano, ma non riesce a non pensare alle gocce, già a qualche metro più sotto: può sentirle picchiettare all’esterno, sul coperchio; può sentire i nomi spodestati dalle maree, rarefacendosi ad ogni cambio di direttiva stagionale, la burocrazia del tempo di poter illudere la putrefazione e l’inorganico; l’arrivo di una nuova luna. Dalla finestra della casa del guardiano, un attimo prima che la luce si spenga, vede i plichi dei documenti accatastati raggiungere l’altezza della lampadina sul soffitto, estranei come i nomi propri degli alberi.

Giulio Blason & Piero Rosso


La lotta tra gli elefanti Chi sarà il primo? Chi vincerà la lotta fra gli elefanti? Quanta sabbia dovrà ancora soffocare i tuoi piccoli polmoni negri? E il vento porterà la tua anima in cima alla montagna più alta? Forse non è giusto che le leggi del mondo siano scritte solo da chi ha l’iPad … Morte, mio amico, ti schiaccia già oggi … Piccolo schiavo d’erba, soffri per il peso degli elefanti assassini. Ma il mare lontano porterà il tuo nome fra le onde, odorerà di sale il tuo pianto fra le sponde. Fra falesie di roccia regnerai, finché nel ricordo di tutti rimarrai … Chi ammazzerà tuo fratello? Chi comprerà il cuore di tua madre per 599 euro? Quanto coltan ti verrà strappato dalle tue piccole mani? E qualcuno ti prenderà in giro perché ti senti ricco con un pugno di mosche? Morte, mio amico, ti schiaccia già oggi … Piccolo schiavo d’erba, soffri per il peso degli elefanti assassini. Ma il mare lontano porterà il tuo nome fra le onde, odorerà di sale il tuo pianto fra le sponde. Fra falesie di roccia regnerai, finché nel ricordo di tutti rimarrai … Vinceranno entrambi gli elefanti, mi sa, sotto il loro peso l’erba perirà, come alla biforcatura di un fiume il tuo cuore si dividerà, sparirà il tuo viso chiazzato di fango … anche quando le onde ti porteranno via, anche quando il tuo nome schiacciato sarà.

Solivagus Rima


Opinioni

Un appello per salvare la filosofia Intervista a Pier Aldo Rovatti

di Stefano Tieri la ricerca scientifica e tecnologica acquista significato”. Perché, come già scriveva Friedrich Nietzsche, la scienza “dipende in tutto e per tutto in ogni suo fine e metodo da concezioni filosofiche, ma lo dimentica facilmente”. Tra i primi firmatari c’è il filosofo Pier Aldo Rovatti, teorico del “pensiero debole”, già professore nell’Università di Trieste di filosofia estetica, teoretica e contemporanea. Gli abbiamo chiesto cosa ne pensa.

Hanno giustificato il taglio della filosofia da scuola e università dicendo che si tratta di una disciplina troppo specialistica.

L

a filosofia scompare, viene fatta dissolvere lentamente, nel momento in cui le viene negato – passo dopo passo – lo spazio da sotto i piedi. Ma in questa progressiva dissolvenza non si dà per vinta e lancia dietro sé una richiesta d’aiuto. Dai centri di potere cominciano ad affermarsi idee precise: abbreviare il ciclo di studi superiore da 5 a 4 anni (con la conseguenza di ridurre lo studio della filosofia da 3 a 2 anni); e, a livello universitario, eliminare l’insegnamento della filosofia teoretica dai corsi di laurea di pedagogia e scienze dell’educazione. Come mai? Una disciplina troppo specialistica, questa la motivazione ufficiale. Simili misure rappresentano una cartina di tornasole di una scelta (politica) già presa da tempo: la preferenza per un tipo di sapere tecnico, fortemente improntato all’applicazione, che volta le spalle all’umano – e, in questo gesto deciso, lo dimentica. Una tecnicità che invade ogni campo del sapere e dell’azione (qualcuno sta pensando ai governi, e ministri, “tecnici”?), facendosi forza con la pretesa d’assoluta “oggettività” contro cui poco vale il pensiero critico della filosofia. I filosofi Roberto Esposito, Adriano Fabris e Giovanni Reale lanciano così il loro appello, chiedendo al nuovo governo impegni precisi non solo per l’ammodernamento delle strutture in cui si vive il sapere (scuole e università), ma anche per il sostegno ad una cultura “autenticamente umanistica, come sfondo all’interno del quale anche

La cosa fa sorridere. Il caso è stato sollevato dalla Società italiana di Filosofia teoretica che ha stigmatizzato questo aggettivo, volendo anche far notare che la divisione della filosofia in tanti “rami” è un’operazione incongrua e, in un certo senso, assurda. Tra questi tanti rami ce n’è uno che mantiene un nome generico e altisonante al tempo stesso – ovvero filosofia teoretica – che possiamo tradurre semplicemente con filosofia. La filosofia dovrebbe essere animata da un esercizio di pensiero critico che non ha confini di tipo storico, né di categoria, e che è proprio il contrario dello specialismo. È qualche cosa dove il docente di filosofia teoretica può fare proprio perché non ha restrizioni di tipo classificatorio, il che gli permette di prendere gli esempi da dove vuole, tanto da Platone quanto da Derrida. L’accusa di “specialismo” è veramente irrisoria e dimostra la malafede, la volontà di buttare a mare la filosofia in quanto tale.

Spesso viene anche detto che è qualcosa di inutile. Cosa ne pensi? Qualche anno fa Jacques Derrida fece una conferenza a Trieste, in seguito alla quale uscì un volumetto scritto da lui e me insieme (“L’università senza condizione”, ndr), sul fatto che la filosofia non debba avere condizioni, dev’essere incondizionata. Il che si può collegare con una certa “inutilità”: questa parola lascia trapelare il fatto che la filosofia, per essere utile, debba essere al servizio di qualche pratica specifica (e quindi ne riceva, in qualche modo, un effetto di ritorno). Mentre la filosofia non dovrebbe essere condizionata né dalla struttura organizza-

tiva della disciplina dentro la scuola, né da frontiere problematiche o tematiche.

È emblematico il fatto che l’insegnamento della filosofia sia stato tolto proprio dai corsi di laurea che dovrebbero preparare i futuri insegnanti (pedagogia e scienze dell’educazione). Sono stati così ciechi da non riconoscere che sarebbe invece proprio quello che serve. Al posto della filosofia hanno messo delle propedeutiche per insegnare meglio le varie discipline. Dei consigli per essere migliori (a livello di prestazione) nell’insegnare questo o quell’altro. L’idea che ho sempre avuto è che la filosofia intesa come esercizio critico del pensiero dovrebbe essere presente in tutti i comparti del mondo universitario, anche in quelli scientifici. E dovrebbe essere presente, a maggior ragione, anche nella scuola superiore. Certo, la presenza pura e semplice della parola filosofia, da sola, non garantisce nulla: ci possono essere cattivi insegnanti. Se poi gli insegnanti vengono formati in una scuola che censura la filosofia, è chiaro che il risultato sarà molto deludente.

Nella nostra società alla riduzione dello spazio concesso al sapere umanistico corrisponde un’ulteriore valorizzazione della tecnica, il che si riflette giocoforza nella politica. Anche nel “nuovo” governo Renzi ci sono dei ministri tecnici, guarda caso proprio nei ruoli “chiave”. Voi avete lanciato questo appello al governo Renzi, che cosa vi aspettate? Il nuovo ministro dell’istruzione (Stefania Giannini, segretario di Scelta Civica, ndr) viene da un’area politica che ha collegamenti più con il mondo della Confindustria che con quello umanistico: c’è poco di buono da aspettarsi. In ogni caso l’esempio del politico e del tecnico funziona fino a un certo punto. Al discorso dei “tecnici” in politica bisogna affiancarne un altro riguardante l’ignoranza. Un’ignoranza doppia: il tecnico ignora la strategia politica, mentre il politico in generale ignora il resto, al punto che noi siamo un po’ presi alla sprovvista quando vediamo che a un certo ministero viene chiamato un ministro che ha tutta un’altra storia personale che non ne sa nulla. Vogliamo che la persona che arriva lì ne sappia qualche cosa.

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Geopolitica

La democrazia non ha copyright di Andrea Muni

Il

quattro febbraio scorso è arrivato in visita in Italia – accolto calorosamente dal suo omologo italiano Emma Bonino – il ministro degli esteri egiziano, ministro di un governo militare instauratosi questo agosto in un bagno di sangue (seicento civili uccisi, secondo le fonti militari, solo nei giorni successivi al colpo di stato). Il ministro si è recato in visita diplomatica in Italia per raccontare dei “progressi democratici” dell’Egitto. A distanza di due anni e mezzo dalla rivoluzione quasi-pacifica che ha detronizzato Hosny Mubarak (grazie al complice, ma fondamentale, laissez-faire dell’esercito), e a distanza di un anno dalle libere elezioni del parlamento che aveva investito Hamed Morsi dei poteri di presidente, la violenza è tornata quest’estate a farla da padrone per le strade del Cairo, e non solo, di Alessandria, di Suez, e di molte altre città egiziane. Questo agosto è stato l’ultimo periodo in cui si è – dolorosamente – sentito parlare di Egitto, di arabi e di primavere, poi il silenzio. Eppure i morti continuano, la violenza continua, cambiano solo i nomi, gli eroi della resistenza si tramutano misteriosamente in terroristi da incriminare o eliminare1. Le primavere arabe sono state senza dubbio il fenomeno politico più eclatante di questi ultimi anni. È accaduto però un fatto decisamente inaspettato, un fatto che gli ideologi anglo-americani della democrazia semplicemente non potevano (e non potrebbero mai potuto) concepire. I popoli arabi che si sono rivoltati hanno votato in maggioranza per partiti ad ispirazione islamica nel corso di libere elezioni (compresa la Tunisia). La popolarità dei partiti ad ispirazione islamica ha turbato moltissimo quasi tutti coloro che fino a prima delle libere elezioni osannavano i principî democratici ripor-

tati in auge dallo slancio delle “primavere”. In molti si sono chiesti “Ma sono davvero primavere democratiche queste? Queste primavere che ‘si danno’ la democrazia per poi gettarsi tra le braccia dei partiti islamici, sono davvero ciò che credevamo? Sono davvero il segno dell’uscita del mondo arabo dalle tenebre”. Ma quali tenebre? Le tenebre dell’estremismo islamico? Forse è importante ricordare che l’estremismo islamico è nato come reazione politica, sul finire della Guerra fredda, alla dominazione sovietico-americana. L’estremismo islamico è un effetto, un effetto spesso cavalcato dalle potenze occidentali in chiave antisovietica fino alla caduta del muro: vedi Afghanistan e Kosovo. I peggiori dittatori, quelli che sono caduti o stanno cadendo negli ultimi anni, non erano affatto estremisti, non erano per niente appartenenti, né alleati, di movimenti estremistici. Dal partito baathista, di ispirazione laica e sunnita di Saddam, al socialismo nominalmente islamico di Gheddafi, fino ad arrivare ad Assad (che addirittura fino alla morte del padre viveva agiatamente in Inghilterra con la famiglia), le “primavere arabe” hanno combattuto sempre dittatori filo-occidentali (spesso divenuti sgraditi) o filo-sovietici, mai dittatori ad ispirazione islamica radicale2. L’estremismo islamico, al contrario, in tutti questi casi, si trovava dall’altra parte della barricata (non che questo possa nobilitare in alcun modo le mostruosità e le violazioni di diritti umani di cui è foriero – non si tratta in alcun modo di rivalutare l’estremismo religioso, si tratta piuttosto di capire perché esso sia politicamente e democraticamente vincente in molti paesi arabi). Si tratta anche di stabilire una distinzione tra i partiti ad ispirazione religiosa (come i Fratelli musulmani, o la nostra Democrazia Cristiana), e le formazioni politiche esplicitamente ed effettivamente integraliste e violente. L’uni-

ca cosa che notoriamente accomuna i partiti ad ispirazione religiosa e le formazioni integraliste, è una speciale attenzione per il sociale, per i poveri e per gli ultimi3. Il vero fenomeno arabo è stato quello di veder combattere fianco a fianco dei fondamentalisti islamici insieme a quelli che – in maniera etnocentrica – saremmo tentati di chiamare “i genuini partigiani della democrazia e della libertà”. Come i partigiani bianchi e rossi in Italia dopo l’ 8 Settembre (e con episodi tristemente simili a quello nostrano, e dimenticato, di Porzus), i combattenti per la libertà hanno incarnato valori differenti, e divergenti. Ma il punto è proprio questo, anche nell’Italia del dopoguerra l’Assemblea costituente si è composta proporzionalmente ad un risultato elettorale. La nostra Costituzione è stata scritta distribuendo i valori che esprime in maniera proporzionale al risultato elettorale (qualcuno forse ricorda le complesse vicissitudini politiche che hanno portato a definire la nostra Repubblica come «fondatasul lavoro»). Non è stato così in Egitto invece, dove le opposizioni hanno preteso di scrivere la costituzione alla pari con le forze di governo (questo è stato il motivo ufficiale del colpo di stato, compiuto, è bene ricordarlo, per conto delle opposizioni “democratiche” da un esercito ancora comandato da un generale tutt’altro che inviso al detronizzato Mubarak – generale Al-Sisi – che surrealmente è anche il principale favorito per le future elezioni presidenziali). In Italia, una volta instaurato il sistema di elezione democratica dei parlamentari a suffragio universale (che esiste nel nostro paese da soli sessantotto anni), si è formata un’Assemblea costituente che, dal ’46, ha espresso un Presidente del consiglio mentre lavorava alla stesura della Costituzione. Tutti i partiti politici, vincenti o perdenti, hanno accettato l’esito del risultato elettorale (o per lo meno diciamo che non si è verificato quello che invece è accaduto in Egitto). Ora, la faida che si consuma in Egitto, adesso, mentre scrivo, nel silenzio dei media internazionali, è dovuta ufficialmente alla pretesa del maggiore partito del paese (i Fratelli musulmani) di dare un’impronta preminente alla nascente costituzione. Le opposizioni “democratiche” hanno risposto prima con manifestazioni di piazza, e poi (appoggiate dall’esercito) con un colpo di stato. Io credo che il problema sia proprio questo: le cosiddette opposizioni democratiche e liberali credono che l’unica democrazia


Geopolitica possibile sia quella occidentale. Si tramutano mostruosamente in forze capaci di propiziare un colpo di stato, pur di non sottomettersi al risultato democratico quando questo sia da loro ritenuto “sbagliato”. Le opposizioni democratiche e liberali dei paesi arabi, in fondo, credono e operano nella convinzione di essere le uniche ad abitare degnamente la casa della democrazia, mutuandone l’ideologia dall’Europa o dall’America. Nasce morto il sogno che le “primavere” possano ispirare l’Occidente a concepire nuove forme di organizzazione politica. Il problema allora è tutto qui: cos’è democrazia? È la scelta a maggioranza, da parte di un popolo, del proprio leader? Non solo. È la garanzia di una costituzione? Non solo. È una giustizia uguale per tutti? Non solo. È la libertà di stampa e di espressione? Non solo. È la garanzia di ritorno alle urne al massimo ogni cinque anni? Non solo. In Egitto si è potuto gustare fino in fondo il dramma umano dell’impossibilità di fondare la Legge su qualcosa di diverso da una cieca volontà politica; si è potuta osservare in atto l’impossibilità di riferirsi al bene, alla morale, a principî condivisi universalmente, proprio nel momento in cui la Legge deve essere “inventata”. La costituzione infatti è ciò a cui l’organo legislativo dovrà sempre – platonicamente – guardare e sottostare nel promulgare le leggi. Ma la costituzione è scritta da politici, e in proporzione ad un risultato elettorale, non c’è scampo, non c’è spazio per il bene. Non è questione di buoni o cattivi, è una battaglia, è una lotta che bisogna sforzarsi di mantenere democratica e pacifica. È proprio per questo motivo che è sbagliato considerare – come hanno fatto le opposizioni democratiche egiziane – che la democrazia è tale solo se omologata a quella occidentale (come se le nostre poi fossero così scevre da intrighi e segreti); questa convinzione infatti, la convinzione di essere il bene, ha condotto le opposizioni “democratiche” a propiziare un mostruoso colpo di stato. Bene, forse è arrivato il momento di dire forte che nessuno ha il diritto di dire l’ultima parola su cos’è la vera democrazia, perché la democrazia resta pur sempre null’altro che una modalità attraverso cui si governa uno stato, e perciò è qualcosa che ogni singolo stato, o popolo, crea a suo modo. La democrazia non è un’idea, non è un marchio depositato, non è un brand pubblicitario come la Coca Cola o la Nike. La democrazia, e il futuro di ogni singola democrazia, sono nelle scelte di un popolo, anche e persino quando ancora – senza avere il diritto di voto – si sol-

leva in una rivoluzione di piazza che fa cadere un mostruoso dittatore. Il primo atto di democrazia è infatti, spessissimo, una rivoluzione di piazza in cui il popolo si ribella ad un autocrate (spesso osservato con indifferenza dalle forze armate): Mubarak appunto, o nel recente passato Ceausescu in Romania, o Rheza Palawi in Iran (il quale dopo essere stato portato al potere dalla CIA ai danni del precedente presidente democraticamente eletto Mossadek, è stato deposto dalla rivoluzione islamica di Khomeini). Diverso è il discorso per Libia e Siria, stati in cui si è consumata una vera e propria guerra civile “organizzata” tra eserciti nemici. Gli esempi sono innumerabili, e non sono così lontani nel tempo, queste cose continuano a succedere, continuano ad accadere alla periferia del nostro occidente indebitato, silenziate. Le primavere arabe sono scomparse dai mezzi di informazione, sono scomparse nel preciso momento in cui hanno smesso di rappresentare un buono spot per la democrazia liberal-capitalista occidentale. Il colpo di stato in Egitto di questa estate è passato sotto gli occhi di tutto il mondo nell’indifferenza più totale. L’eco dei massacri dell’orrendo dittatore siriano Assad si è attutita, da quando ci si è accorti che la maggior parte dei combattenti delle forze di liberazione siriana è di ispirazione islamica ed integralista. In Libia, oggi, esplodono autobombe e pozzi, in Libia (solo un anno e mezzo fa) è stato assassinato l’ambasciatore americano. In Tunisia si rimandano le elezioni da un anno, per timore di un nuovo successo politico ad ispirazione islamica. Tutto tace, da molto, come se la democrazia col brand avesse fatto breccia e fosse solo questione di tempo, come se ora dovessimo solo aspettare che queste bestie di arabi imparino piano piano ad essere come noi. Silenziamo allora le primavere, diventia-

mo allergici al loro profumo, quando non è più quello rassicurante di una democrazia liberal-capitalista benedetta in anticipo dalla morale universale (da quella morale universale che non è altro che il più raffinato prodotto, e strumento di dominazione, della democrazia liberal-capitalista stessa e della sua colonizzazione mondiale). Note 1 Per brevità rimando integralmente alla “affascinante” intervista col ministro degli esteri egiziano Nabil Fahmy, pubblicata da Repubblica il cinque febbraio scorso Cfr. http://www.repubblica.it/esteri/2014/02/05/ ne ws/la_rivoluzione_non_mor ta_cos_ nasce_il_nuovo_egitto-77728781/. Sempre per brevità rimando all’articolo del giorno precedente, sempre di Repubblica, in cui en passant si dà notizia dei settanta morti – definiti nel dubbio terroristi – che la guerra civile tutt’ora in atto nel paese ha causato nel solo mese di gennaio. Cfr. http://www. repubblica.it/esteri/2014/02/04/news/egitto_ blitz_dei_militari_in_sinai_30_terroristi_ uccisi-77644725/ 2 Si potrebbe ricordare, a onore del vero e per non rischiare di sembrare ideologici, la tragica e pesante repressione delle proteste in Iran all’indomani delle discusse elezioni presidenziali del 2009 vinte da Ahmadinejad. Questo giugno, in compenso, la “particolare” Repubblica islamica iraniana ha espresso democraticamente come proprio presidente il moderato Rouhani, spiazzando i falchi americani e manifestando così il proprio desiderio di rinnovamento. 3 Questo tema imporrebbe uno sviluppo di ben più ampie dimensioni. Dai Salafiti egiziani fino ad Hamas in Palestina, le ragioni del favore incontrato non solo dai partiti islamici, ma anche da gruppi politici integralisti, sono collegate ad una massiccia ed attiva presenza di questi soggetti politici nel “sociale”.

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Filosofia

Il discorso amoroso

«perché la cultura di massa sviluppa tanto i problemi del soggetto amoroso? In realtà quello che mette in scena sono dei racconti, degli episodi, non il sentimento amoroso […]. È forse una distinzione un po’ sottile […]. Ciò significa che, se lei mette un soggetto innamorato in una “storia d’amore”, con ciò stesso lo riconcilia con la società. Perché? Perché raccontare fa parte delle grandi costrizioni sociali, delle attività codificate dalla società. Con la storia d’amore la società ammansisce l’innamorato»5

II. Affermazione dell’amore

Il

discorso amoroso costruito da Roland Barthes rappresenta l’affermazione totale dell’amore-passione attraverso la messa in scena del gioco di forze che costituisce il soggetto amoroso. Affermare l’amore nella sua totalità significa affermare la gioia e la sofferenza e implicitamente anche il rischio della perdita dell’altro e della fine dell’amore; significa volere tutto ciò che l’amore porta con sé, dalla felicità al dolore, fino al limite della catastrofe. Amare è «un’arte di vivere al di sopra dell’abisso»1. Sembrerebbe che l’amore-passione sia oggetto di forte critica poiché ritenuto estremamente pericoloso; e tuttavia, l’amore appare anche come un oggetto ridicolo, non abbastanza importante da essere preso in carico da alcun discorso speculativo profondo (come per esempio la filosofia). Proprio in questo scarto si situa l’affermazione del discorso amoroso tentata da Roland Barthes. Si tratta di mettere in scena il discorso amoroso, di parlarne, e contemporaneamente di affermarlo come valore: «La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine [...]. Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione»2 La questione fondamentale che egli pone è una questione di valore: non si tratta di analizzare il soggetto amoroso e nemmeno l’amore, ma di affermare nietzschianamente l’amore-passione. Barthes gioca su un doppio terreno: egli afferma la follia che conduce il soggetto amoroso a perdersi nei vortici della passione e considera l’amore come una forma di delirio;

di Matteo Sione l’affermazione, però, sta nel fatto che Barthes nella follia amorosa non vede una malattia e non cerca una guarigione, poiché «essere pazzo non è necessariamente essere malato, anche se nel nostro mondo i due termini sono diventati complementari»3. Barthes sostiene il delirio amoroso come valore, rimettendolo in gioco. L’amore non deve soggiacere ad alcuna legge che ne limiti i confini, poiché tale legge risponde alle esigenze del potere normalizzante della Doxa […]. Seguendo le analisi condotte da Gilles Deleuze e Félix Guattari in L’anti-Edipo, i discorsi psicoanalitici che cercano di sostenere una verità assoluta riguardo all’amore e al soggetto amoroso potrebbero rappresentare una costruzione repressiva. Secondo la psicoanalisi lacaniana l’amore vero è la relazione duale che si base sull’ordine simbolico, e la coppia potrebbe essere intesa come la culla di Edipo. Questo significherebbe qualificare l’amore attraverso il fine della costruzione di una famiglia normale, ove per normale s’intende edipica, ovvero borghese4. Il soggetto amoroso barthesiano è, invece, proprio colui il quale si sottrae all’incasellamento edipico: è l’io immaginario che passa da uno stato all’altro (da una figura all’altra del discorso amoroso), senza sosta e in maniera caotica, continuamente sottoposto al tentativo di normalizzazione da parte della Doxa e di un sapere, la psicoanalisi, che lo inserisce nel quadro della follia. La Doxa, sembrerebbe interessarsi in maniera positiva all’amore-passione, dedicandogli spazi e tempi importanti. Ogni giorno, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, si parla in qualche modo dell’amore passionale e quasi mai in maniera spregiativa. Tuttavia, Barthes sottolinea una particolarità che rende tali discorsi una forma sottile di normalizzazione repressiva:

La costruzione della storia d’amore è il modo attraverso cui viene creata una sorta di messa in scena, una rappresentazione, che ha il fine di costringere il soggetto amoroso in una parte, bloccando la sua «produzione desiderante»6 e riportandolo in questo modo alla normalità: «tutta la produzione desiderante viene schiacciata, sottoposta alle esigenze della rappresentazione»7. […] La psicoanalisi sembrerebbe dunque imbrigliare il libero desiderio del soggetto amoroso, chiudendolo nel mito tragico di Edipo: il «nuovo idealismo»8 vuole la normalizzazione dell’innamorato. Tuttavia, il soggetto amoroso barthesiano è una figura che gioca sul limite: tra follia e ragione, tra gioia e disperazione. Il soggetto amoroso è simile alla figura dello schizofrenico9 poiché non rientra, se non a causa della violenza repressiva, nelle categorie prestabilite dall’ideologia psicoanalitica. Il soggetto amoroso, come Werther, inorridisce davanti ai luoghi comuni, non si rassegna alla ragionevolezza normalizzante della Doxa e, come lo schizo, lascia scorrere il suo flusso desiderante. È qui che il soggetto amoroso può giocare il suo piccolo ma fondamentale ruolo rivoluzionario: «il desiderio è rimosso proprio perché ogni posizione di desiderio, per quanto piccola, ha di che mettere in causa l’ordine stabilito di una società: non che il desiderio sia asociale, al contrario. Ma è sconvolgente; nessuna macchina desiderante può essere posta senza far saltare settori sociali tutti interi. Checché ne pensino certi rivoluzionari, il desiderio è nella sua essenza rivoluzionario […] e nessuna società può sopportare una posizione di desiderio vero senza che le sue strutture di sfruttamento, d’asservimento, di gerarchia vengano compromesse […]. È dunque d’importanza vitale per una società reprimere il desiderio – anzi trovar meglio della repressione, perché la repressione, la gerarchia, lo sfruttamento, l’asservimento siano essi stessi desiderati […]. Il desiderio […]


Filosofia minaccia una società […] perché è rivoluzionario. E questo non significa che il desiderio sia qualcos’altro rispetto alla sessualità, ma che la sessualità e l’amore non vivono nella camera da letto di Edipo, sognano piuttosto il mare aperto e fanno passare strani flussi che non si lasciano immagazzinare in un ordine stabilito. Il desiderio non “vuole” la rivoluzione, è rivoluzionario da sé e involontariamente, volendo ciò che vuole»10 La produzione desiderante fluirebbe liberamente attraverso i tagli e i flussi dell’amore passione. La psicoanalisi gioca un ruolo repressivo nel momento in cui tenta di bloccare e di incanalare il desiderio nella farsa di una rappresentazione mitica. Tuttavia, se l’amore «al mare affida la sua ventura»11 si apre lo spazio propriamente rivoluzionario del desiderio. […] Affermare l’amore significa in definitiva offrirsi con forza alla travolgente passione amorosa e proferire il sì nietzschiano dell’amor fati. L’affermazione tragica dell’amore passa attraverso l’alleggerimento della sofferenza dal fardello opprimente del risentimento. Pronunciare io-ti-amo – la figura fondamentale del discorso amoroso barthesiano –, gridarlo con forza attiva, significa affermare l’amore, fin dove il dolore ridiviene innocente. Il proferimento dell’io-ti-amo, la parola che esce attraverso le labbra come grido d’amore, è un atto insieme osceno e inattuale. Gridare o sussurrare allora la parola, la frase, io-ti-amo è rimettere in gioco il sentimento tragico dell’amore e la sua oscena affermazione: «si tratta […] del momento impossibile in cui l’oscenità può veramente coincidere con l’affermazione, con l’amen, con il limite estremo della lingua»12. L’io-ti-amo raggiunge i limiti della lingua (l’indicibile), li percorre e li infrange essendo pura tautologia, e giunge al momento impossibile (poiché impensabile e irrappresentabile) dell’affermazione tragica dell’amore, dell’affermazione dionisiaca. L’io-ti-amo, l’affermazione dell’amore come amen nietzschiano, si dispiega in quanto insieme di forze attive come prodotto della volontà di potenza affermativa. Queste forze attive sono in lotta con le forze reattive del risentimento, di cui potrebbero essere espressione i discorsi svalutativi della psicoanalisi. L’ioti-amo costituisce l’elemento

affermativo dell’amore ingabbiato nella prigione delle numerose forze svalutative e repressive che lo circondano come delle luci accecanti. [...] L’io-ti-amo è come una piccola lucciola: «noi stessi – in disparte […] rispetto al regno e alla gloria, nella lacuna aperta tra il passato e il futuro – dobbiamo dunque trasformarci in lucciole e riformare, così, una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire sì nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi»13 Il sì pronunciato come il sussurrio del bagliore di una lucciola e l’io-ti-amo gridato nella notte abbacinante della volontà negativa sono l’apertura di uno spazio: il luogo dell’amore in una nuova comunità del desiderio. Desiderio che si libera finalmente delle reti edipiche e che si afferma in maniera rivoluzionaria contro le forze repressive del mondo «inondato di luce»14. L’io-ti-amo non è un sintomo del delirio amoroso da analizzare e non è nemmeno una domanda di presenza o un appello d’aiuto, ma è l’affermazione dell’apertura di uno spazio, di una riscoperta del cosmo dell’amore, di un suo ritrovamento (in senso archeologico), come se l’amore fosse stato sepolto sotto le macerie della nostra cultura. Forse, potrebbero essere proprio la follia del soggetto amoroso e il suo delirio (l’amore-passione) a costituire l’essenziale per l’apertura di un varco che permetta di addentrarsi nei territori della volontà affermativa: «la follia non è necessariamente un crollo (breakdown);

LILLIGRAFIA

essa può essere anche un’apertura (breakthrough)»15, l’apertura di uno spazio in cui si dispieghi la forza rivoluzionaria dell’amore.[...]Ecco allora che si disvela il compito rivoluzionario dell’affermazione dell’amore-passione: pronunciare, gridare io-ti-amo, per ristabilire e ricreare lo spazio dell’amore, spazio ricolmo di gioia tragica. NOTE 1 Jean-Louis Bouttes, Le destructeur d’intensité, citato in Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2001, p. 96. 2 Ivi, p. 3. 3 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino, 2002, p. 147. 4 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, op. cit., da cui il seguente estratto (p. 53): «la psicanalisi prende parte all’opera di repressione borghese più generale, quella che consiste nel mantenere l’umanità europea […] sotto il giogo di papà-mamma, e nel non finirla mai con quel problema». 5 Roland Barthes, “Il più grande decrittatore di miti del nostro tempo ci parla d’amore”, in Id., La grana della voce, Einaudi, Torino, 1986, p. 294. 6 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, op. cit. 7 Ivi, p. 57. 8 Ibidem. 9 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, op. cit. 10 Ivi, p. 129. 11 Luce Irigaray, Amante marina. Friedrich Nietzsche, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 22. 12 Ivi, p. 151. 13 Georges Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 92. 14 Ibidem. 15 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, op. cit., p. 147.

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo .‘And the winner is..’ Queste sono le parole chiave del febbraio musicale appena trascorso. Tra il fenomeno globale dei Grammy Awards e il Festival di Sanremo la musica è tornata alla ribalta, di nuovo in prima pagina. Vi riassumo brevemente cosa mi è piaciuto del Festivàl di quest’anno: niente. Ora vi riassumo quali vincitori dei Grammy Awards ho apprezzato, categoria per categoria: nessuno. In realtà, qualcosina questi due ‘super’ eventi me l’hanno lasciata: un’insana voglia di creare categorie, vincitori e vinti. Il clou delle uscite musicali sarà tra i mesi di aprile e maggio, ma nulla vieta di fare il pagellone delle principali novità di questo inizio d’anno.

Il miglior disco

BROKEN BELLS – AFTER THE DISCO Ve li ricordate gli Gnarls Barkley? Ecco, negli Gnarls c’era un tipo mulatto, alto, con un signor afro e degli occhiali a goccia. Il suo nome (d’arte) è Danger Mouse, producer e compositore. Insieme all’italianissimo Daniele Luppi, 3 anni fa aveva pubblicato un disco chiamato ‘Rome’, concepito come la colonna sonora di uno spaghetti western contemporaneo: capolavoro, e superospiti in quasi ogni traccia. Danger Mouse è la prima metà dei Broken Bells; l’altra è James Mercer, cantante e leader dei The Shins, orecchiabilissima e storica band indie. I Broken Bells fanno un pop leggero e di qualità, un ibrido in cui si fondono tastiere dance anni ‘80, falsetti canori , percussioni r’n’b, chitarre blues e cori gospel: una miscellanea di elementi perfettamente amalgamati tra di loro dove non esiste un filo conduttore; A Perfect World’, traccia d’apertura dell’LP, riesce a toccare un po’ NUMERO VI

- MAGGIO

tutti questi aspetti; ‘Holding On For Life’, secondo estratto, è sulla stessa falsariga. Dal momento che la band è tutto tranne che monotona, il disco spesso esce dal seminato e lascia spazio al background di uno dei due componenti: questo spiega la presenza di ballate blues, quali ‘Leave It Alone’ o ‘The Angel And The Fool’, dei sintetizzatori che fanno da contorno a ‘No Matter What You’re Told’ o della freschezza della title track ‘After The Disco’. A 4 anni dalla prima omonima fatica, i Broken Bells si confermano ad altissimo livello, raro esempio di progetto altisonante e prodotto di grande qualità.

Gli italiani

BE FOREST – EARTHBEAT Il ritorno alle sonorità dark wave e shoegaze è arrivato anche dalle nostre parti. I Be Forest sono parte integrante di questo revival anni ’80 e vanno annoverati a pieno titolo tra i suoi migliori interpreti. A 3 anni di distanza dal primo disco, Cold., la band pesarese dimostra di essere completamente padrona del genere, senza cadere in una banalissima riproposizione di stilemi altrui, e allo stesso tempo di possedere una notevole capacità di elaborazione e creazione. In Earthbeat si fondono atmosfere gotiche, oscure e sinuose, e una colorata energia, frutto dell’innesto di nuovi strumenti, quali fiati, arpe e xilofoni, che dipingono un atmosfera non più oscura e spaventata, ma incantata e sognante.

Il video

METRONOMY – LOVE LETTERS Love Letters è il primo estratto del nuovo disco dei Metronomy, quarto episodio della band elettro pop di Joseph Mount. Io dico solo che il video è diretto da Micheal

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Tutti i numeri arretrati di Charta Sporca sono consultabili online dal sito www.chartasporca.tk

Gondry, e si vede, e che è splendido, e lo vedrete pure voi.

Il singolo

MODERAT – LAST TIME Il trio berlinese, a margine del nuovo disco II, sforna un altro piccolo saggio su come fare elettronica, un bignami musicale per giovani produttori in erba. Lo spread con Berlino sta aumentando, occhio.

Il disco da rispolverare

SLOWDIVE – SOUVLAKI Souvlaki è un disco nato nel ’93, quando una parte del campus universitario non aveva ancora emesso il primo vagito. Perché riproporlo ora? Perché gli Slowdive, perno musicale dei primi anni ’90, sono finalmente tornati insieme. Souvlaki è un disco di rara bellezza e incredibilmente d’avanguardia per il periodo storico in cui uscì. Distorsioni shoegaze, accenni di elettronica, Brian Eno alla produzione, ballate da lacrimoni, il singolone ‘When The Sun Hits’, Rachel Gosswell e la sua straordinaria vocalità: questi sono solo alcuni dei motivi per cui concedere almeno un ascolto allo storico lavoro della band di Reading. Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

chartasporca@gmail.com www.chartasporca.tk In copertina la rielaborazione di un fotogramma del film La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock


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