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Numero 20 - Novembre/Dicembre 2014

Pasolini chi? di Stefano Tieri Per noi, smaliziati occidentali del nuovo millennio, l’eresia ha perduto ogni significato: basta nominarla per far apparire un accenno di sorriso sul volto del nostro interlocutore. Al venir meno di ogni morale – cui potrebbe corrispondere la fine delle ultime “grandi narrazioni”, quella cristiana e quella marxista – consideriamo conclusa la possibilità stessa dell’eresia. Rispetto a cosa si potrebbe ancora essere eretici? Non abbiamo ingiunzioni morali, né lacci che ci ricordano l’appartenenza a una qualche collettività: monadi disperse, gioiamo di questa inaspettata libertà senza renderci conto di altre ingiunzioni, di altri lacci che ci cingono – in definitiva di un’altra narrazione, che passa quotidianamente sotto silenzio poiché ritenuta “normalità”. Alle narrazioni precedenti se n’è via via sostituita un’altra, dai modi melliflui e seducenti. Da un lato sprona a godere e ad assecondare ogni proprio desiderio ma – dall’altro – suggerisce (e fabbrica) quello stesso desiderio che si reputava “proprio”. Non si tratta di un fenomeno recente, ma è con il crollo delle altre “grandi narrazioni” che quest’ultima si è imposta ad unica realtà, organizzando l’ordine del discorso al fine di rimuovere ogni elemento che non possa, a sua volta, diventare bene di consumo. C’è chi fuoriesce dal discorso unico, organizzando pratiche alternative di vita (si pensi agli ecovillaggi)? Eretico! C’è chi propone, complice il periodo di crisi, la condivisione di beni? Doppiamente eretico! C’è chi volta le spalle al dominio della tecnica, passando il suo tempo con occupazioni “inutili” quali la poesia o la letteratura (per non parlare della filosofia)? Tre volte eretico! Il rapporto con l’eresia è però, ora, mutato: essa non viene più addi-

tata quale manifestazione immorale, ma semplicemente ignorata. Il dito si discosta dall’oggetto incriminato e finisce a indicare la “normalità”, in un elogio del migliore dei mondi possibili: quello del presunto benessere, sempre più agognato ma sempre meno raggiungibile, almeno nei termini suggeriti dalla società dei consumi. Quarant’anni fa Pier Paolo Pasolini attaccava, dalle colonne del Corsera, “l’ideologia edonistica delle masse”, il “centralismo della civiltà dei consumi” che annientava ogni realtà periferica, il “rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali” dovuto all’affermazione delle nuove tecnologie (specie della televisione). Si era davanti a una vera e propria “mutazione antropologica”, un’omologazione culturale che riguardò tutti, dall’alta borghesia fino al sottoproletariato, portata avanti nel nome di un’uguaglianza altrove sbandierata e qui

compiuta – in un modo, stavolta sì, eretico – dalla società dei consumi. Un potere (“il più violento e totalitario che ci sia mai stato”) in grado di cambiare, fin nel profondo, un popolo intero, improntato su un modello di sviluppo che “non è in alcun modo rivoluzionario, neanche quando è riformista”, e il cui principale frutto è l’angoscia esistenziale. Oggi quel processo di omologazione sembra essere avanzato oltre ogni limite, annientando la stessa possibilità di vivere in modo radicalmente diverso. Eppure, a saper leggere tra le righe del discorso unico, nuove pratiche di ribellione si fanno lentamente spazio. Scartate e ignorate dall’ordine del discorso che noi stessi – inconsapevolmente – contribuiamo a formare, e anzi forti proprio di questo scarto che ne esalta la “provocatoria indipendenza”, ci ricordano con la loro sola presenza che le alternative sono possibili. Spazio all’eresia!


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Eresie

La disciplina dell’eresia di Daniele Lettig

“C

’è un eretico in sala?”, ci si potrebbe chiedere assistendo alla proiezione di alcune scene del Pasolini di Abel Ferrara. Mi riferisco a quelle della vita domestica del poeta, con la madre e la cugina. È questo il Pasolini “profeta apocalittico”, “lucido visionario”, per tacere di altre definizioni che si sono sprecate dopo la sua morte per incasellarlo e, trafitto come una farfalla (una lucciola?), inserirlo in una bacheca? (Come a dire: non disturbarci con inutili domande; non costringerci a leggerti e a considerarti per quanto veramente dicevi e scrivevi, con tutte le contraddizioni e gli errori in cui chiunque incorre; ci penseremo noi a tirarti fuori e citarti a sproposito, senza averti letto nemmeno di striscio, quando ci farà comodo un appoggio per dire stupidaggini: “ah, i poliziotti figli del popolo contro gli studenti figli di papà…” – quante volte abbiamo udito questo richiamo?). È questo dunque Pasolini “l’eretico”? Quello che si sveglia, si lava, fa colazione, legge i giornali, scrive, si fa intervistare e la sera esce per “scendere all’inferno”, nel proprio inferno privato? Sì, è proprio lui: e il tentativo di Ferrara – forse non completamente riuscito, ma sicuramente da apprezzare – è quello di raccontarcelo senza agiografia e senza prendere posizione sul “caso” nato dalla sua morte oscura, e che ciclicamente viene alimentato da nuove “rivelazioni” che sempre più intorbidano le acque. Anzi, il

film perde di tono proprio nell’unico momento in cui si avvicina pericolosamente allo stereotipo che di Pasolini ci è stato tramandato, ovvero nella scena della partita di calcio con i ragazzini. Per il resto, il racconto di Ferrara si dipana su un registro quasi banale: mostra infatti la minuta quotidianità di un giorno della vita del poeta, il quale – ovviamente – non sa che sarà il suo ultimo. (Lascio qui volutamente in sospeso un filo interpretativo che porterebbe troppo lontano, ma di sicuro interesse, che parte da una frase di un saggio sul cinema dello stesso Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza: «La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi – e non più ormai modificabili da altri momenti contrari… –, e li mette in successione, facendo del nostro presente… instabile e incerto… un passato chiaro,… certo, e… ben descrivibile»). Una rappresentazione piatta, dunque, spezzata dalle inserzioni di due opere pasoliniane: letteraria la prima, la trasposizione di qualche scena di Petrolio, cinematografica la seconda, la ricostruzione di alcune sequenze di Porno Teo-Kolossal, che Pasolini avrebbe voluto girare con Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli (Davoli che qui recita nella parte pensata per Eduardo, mentre nella “sua” troviamo Riccardo Scamarcio, che risulta essere una delle scelte sbagliate di Ferrara: non fosse altro che per la mancanza di quella stupefacente brillantezza degli occhi di Ninetto che colpisce ancor oggi per quanto è vivida e che aveva già affascinato Pasolini, ma che a Scamarcio manca). È proprio la scelta di una narrazione così apparentemente semplice, tuttavia, a permetterci di cogliere la persona Pasolini al di là del personaggio in cui lo si è ingabbiato. E a costringerci a fare i conti con la lucidità di una visione del mondo che nasceva certamente dalle “discese all’inferno”, le quali però convivevano con una quotidianità perfettamente borghese e una estrema disciplina del “lavoro intellettuale”, in un perfetto connubio di esperienza, riflessione teorica, trasposizione immaginativa. È questo l’“empirismo” che, assieme a un’altra parola che ci riporta al punto da cui siamo partiti, “eretico”, dà il

titolo a uno dei più densi volumi di Pasolini. La sua è una scelta di campo, (“eresia”, non va dimenticato, deriva infatti dal latino haeresis e prima ancora dal greco airesis, che designa la scelta, l’atto dello scegliere), vissuta ogni giorno e accettata con tutte le sue contraddizioni; quelle già espresse nelle Ceneri di Gramsci, quando il poeta si rivolgeva al pensatore sardo in questi termini: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, / contro te nelle buie viscere». Contraddizioni che chiunque vive nella propria esperienza, solo che Pasolini le rende esplicite e le rivendica: «Io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi… Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata di chi ha, come dire, toccato “la vita violenta”». È un passaggio dell’intervista a Furio Colombo, concessa dal poeta il pomeriggio prima della morte (e che costituisce il climax del film di Ferrara: per la forza che parole sinora soltanto lette hanno una volta pronunciate, e per la particolare interazione, ricostruita magistralmente, tra l’aplomb distaccato seppure intellettualmente partecipe di Colombo e la partecipazione emotiva con cui Pasolini – un mimetico Willem Dafoe – parla). La “pratica eretica” di Pasolini non è, quindi, né profetica né apocalittica, ma fondata su un continuo confronto con la realtà concreta. Ci mette in guardia dalle semplificazioni («soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice») e si fonda sulla testarda rivendicazione di una parola “ostinata e contraria”: «i pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no… Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso». Decisamente inattuale, in tempi in cui il malinteso buonsenso degli yesmen per i quali “a dire ‘no’ sono i soliti gufi che remano contro” è eletto a pratica comune, e in cui sembra venirci “democraticamente” concessa una “modica quantità” di eresia, sempre però “approvata da sua maestà”.


Eresie

“Giù la testa, coglione”.

La porta di servizio per l’impresa

“H

ai un’idea? Fanne un impresa!”, si leggeva qualche tempo fa su un cartellone pubblicitario. Un invito ormai ritenuto normale, radicato nella spirituale convinzione che l’unico modello vincente ed efficace sia appunto quello imprenditoriale. Un’evidenza, anzi un’auto-evidenza, inscalfibile. Non sarebbe altrimenti pensabile quella cieca presunzione di verità che gonfia le Leopolde e il dibattito pubblico tutto. È il segno di un paradigma che si diffonde capillarmente in ogni luogo sociale, piegandolo dolcemente ai principi del marketing e della produzione di valore – mai violentemente, perché il suo corollario è una sorta di pacificazione mediatica che alza i toni per confonderli in un indistinto e piatto rumore. Basta prendere in mano un volume di risorse umane: commitment, empowerment, coaching, vision, contratto psicologico, è tutto un fiorire di termini che riscrivono sostanzialmente un intero paradigma produttivo, svuotando di senso gli ultimi residui del classico rapporto di produzione. Non c’è più contrapposizione, esteriorità. Lo stesso tempo di lavoro diviene tempo di vita nel momento in cui è un capitale affettivo, relazionale, culturale, ecc. Se insomma nella visione di Marx il capitale sussumeva il lavoro, ora sembra estendere la sua cattura alla vita intera. Si vorrebbe così eliminare – Facebook docet – quel conflitto insanabile che si verificava nel bordo tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, tra la temporalità sottoposta al comando capitalistico e quella ancora “formalmente” libera, anche se ammantata dal velo ideologico. Apparentemente una novità epocale. Eppure a rileggere qualche passo un po’ datato non si può che guardare a questo fenomeno in maniera leggermente diversa. “Ne risulta che il modo di produzione capitalistico genera non soltanto una continua spinta alla riproduz-

ione, ma anche una spinta al continuo allargamento della riproduzione”, scriveva Rosa Luxemburg nell’Accumulazione del capitale. Il ciclo di riproduzione del capitale non può che essere un processo di progressiva interiorizzazione di un fuori. Se non è quindi l’allargamento del mercato, a causa della “saturazione” dello spazio globalizzato, l’unico modo per reperire un’esteriorità da incorporare diviene intensivo e non più estensivo. Marx e Engels notavano nel Manifesto: “Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? […] con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso di quelli vecchi”. La vita e i suoi rapporti pre-economici vengono così approfonditi e attraversati dal processo di valorizzazione: sono relazioni, sentimenti, idee, servizi, a divenire il sostrato immateriale della riproduzione del capitale. Un punto però rimane controverso ed è quello della contraddizione che si determinava all’interno di questo processo. C’era insomma resistenza, viscosità, nel movimento. Ora il campo sembra invece sgombrato dai conflitti, neutralizzato da tutte quelle mine che ne smuovevano il terreno. Ancora Marx e Engels nel Manifesto scrivevano: “viene tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzitutto i suoi seppellitori”. Uscendo dalla personificazione, era il capitale stesso a entrare in contraddizione con il lavoro proprio nel momento in cui se ne serviva per riprodursi. Oggi assistiamo ad effetti diversi, apparentemente contrari. Il conflitto è marginalizzato: lavoro e capitale si trovano abbracciati in una stretta ideologica che ne fa corrispondere gli interessi. Così, prima di tutto sono i termini a cambiare: l’imprenditore fa impresa nelle aziende, creando posti di lavoro e diffondendo benessere – che poi tutto questo sia un esito collaterale di un’attività che ha dei

di Davide Pittioni

fini precisi, ovvero quelli del profitto, sembra del tutto ininfluente. Le linee di contrapposizione si disperdono: passano tra migranti e lavoratori autoctoni, tra garantiti e precari, tra pubblici e privati. Il conflitto viene spostato dentro il lavoro, mentre l’asse di riferimento capitale-lavoro viene pacificato. Non è raro leggere dichiarazioni di questo tipo: “Noi oggi abbiamo detto con serenità che gli imprenditori sono dei lavoratori e non dei padroni e che la sinistra si candida a rappresentarli” (Renzi dopo una direzione del suo partito). Segno dei tempi: l’impresa e l’imprenditore non solo sono portatori di un interesse universale, una sorta di accesso privilegiato alla logica del mondo, ma impongono il loro sistema di valori all’intera società. Renzi però, nella citazione poco sopra, non coglie il punto: non è tanto l’imprenditore a farsi operaio (potrebbe essere anche vero in un Paese con un alto tasso di piccole imprese), quanto invece l’operaio a farsi imprenditore, come è la società stessa a divenire impresa, a partire dallo Stato – non perché ne occupino la posizione sociale, ma perché attraversati dai dispositivi aziendali da parte a parte. Uomini al centro dell’azienda, industrie dal lato umano, stati governati dal rigore manageriale, precari che diventano flessibili nell’investimento del proprio capitale formativo e umano: è il rischio di impresa, dove le persone trovano la propria soggettivazione nella business-idea della propria azienda e gli imprenditori dettano le regole di funzionamento dei rapporti sociali, non come parti in causa, ma come un tutto che ne rappresenta il fondamento. Così basta avanzare qualche critica all’attività di Eataly e del suo guru Oscar Farinetti, modello all’italiana del capitalismo sociale fatto di vision e precarietà, perché la loro pagina Facebook venga invasa dai commenti di solidarietà dei dipendenti. “Oscar ci dà lavoro, perdio”. Che poi ti sfrutti, è tutta un’altra storia.

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Non di solo pane...

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a vita è un gioco delle parti, proprio come in drammaturgia. Non c’è teatro senza conflitto, postulò Ibsen quasi un secolo fa. L’interazione pacifica tra i personaggi non basta però a rendere una storia interessante, ci vuole un episodio che crei scompiglio, problematiche, movimento. Senza conflitto non si genera energia e senza energia non c’è vita. Ben consci di questo semplice assioma, i registi e gli sceneggiatori della cosa pubblica hanno mosso per secoli le folle e il senso comune, inventando di sana pianta i nemici della patria, dei costumi e di Dio. Dicesi: “estremismo islamico”, intedesi: “l’ennesimo spauracchio di un potere arrugginito che costruisce cortine di ferro e abusa dell’antico motto romano divide et impera”. Il nemico d’Occidente, fatta salva la parentesi in cui andava di moda l’orso russo, è sempre stato l’Islam. “Mamma, li turchi!” gridavano i nostri antenati quando le navi ottomane si avvicinavano alle coste della penisola. La sconosciuta minaccia mediorientale ha sempre spaventato e fatto inorridire l’opinione pubblica: il feroce Saladino, l’impero selgiuchide, lo stato teocratico iraniano, i terroristi palestinesi, talebani, libanesi, iracheni, yemeniti, Boko Haram e, last but not least, l’Isis. Le donne a volto coperto, il proibizionismo alimentare, le esecuzioni e l’integralismo religioso sono fattori inaccettabili e difficili da sopportare. Eppure, nella Babele dei consumi e della morte di Dio, dove il vuoto spirituale regna incontrastato, il fascino tenebroso degli assassini del deserto ammalia alcune giovani menti, restituendo loro uno scopo, una bandiera da seguire. “Allah è grande e Maometto è il suo Profeta...”, recita l’adhãn, la chiamata islamica alla preghiera, e tanto basta ai novelli miliziani per andare al massacro. Sembra quasi che uno slogan, per quanto ben recitato, possa racchiudere in sé ogni trascendenza, il senso della vita o il mistero della fede. Come se Dio, patria e nazione fossero un tutt’uno e, dalle coste meridionali del Mediterraneo alle pendici dell’Himalaya, vigesse un’unica cultura, scorresse un solo sangue e si vivesse allo stesso modo. Invece, anche l’Islam ha avu-

di Ruben Salerno to le sue crisi politiche (l’invasione ottomana), il suo Lutero (Alì), le sue correnti (sunniti, sciiti, kharigiti, alawiti) e le sue eresie (ismailismo, zaydismo, baha’i, ecc.). Così come nel Cristianesimo, la parabola divina dei testi sacri è stata manipolata, interpretata e adattata. Invece di editti e concilî però, ha generato la “Sunna”: libro di codici, precetti e leggi che regola la vita del fedele, basandosi sulle gesta di Maometto e i suoi compagni. In nome di essa sono state educate le masse, combattute guerre, costruite e distrutte nazioni. Così simili, eppure così diversi. Alla caduta degli idoli religiosi occidentali, infatti, è corrisposta in medioriente una crescita esponenziale del dogmatismo più becero. Tuttavia, finché l’eresia capitalista garantiva una casa, una donna e un lavoro, il sogno americano contagiava gli animi più deboli, in cerca di verità da inseguire, pronti a scannarsi per quel po’ di soldi, quel po’ di celebrità. Ora invece, che insieme alle torri è crollata anche quell’illusione, la scelta tra il dollaro e la vita eterna (nei giardini pensili di Babilonia, in compagnia delle bellissime Uri) non è più scontata. Con buona pace di Feuerbach e Marx, il bisogno di risposte ultraterrene sta risorgendo e non c’è scienza che possa cancellare quel desiderio di immortalità che alberga in ogni essere umano, spingendolo a desiderare di essere stato creato con uno scopo, a Sua immagine e somiglianza... Sulla base di quest’enorme incertezza sguazzano i falsi profeti, catalizzando consensi e raccogliendo adepti alla propria causa

che, paradossalmente, è molto più terrena. Mentre le masse di nuovi fedeli si scannano a colpi di mortaio sulle montagne del Sinai e dintorni, i leader dei vari schieramenti commerciano in petrolio e armamenti, spartendosi terre e bottini. Ignorando tutto ciò, i protagonisti dell’intreccio continuano a recitare la proprie parti, come da sceneggiatura. I buoni (la Nato, la democrazia, ecc.) invocano nuove crociate, Poitiers o Lepanto; i cattivi (i terroristi islamici) minacciano l’equilibrio e lo status quo; poi ci sono i traditori (i giovani di cui sopra), i rinnegati (i musulmani occidentalizzati), le vittime (donne e bambini), gli eroi e i martiri. Insomma, tutte le premesse per una grande performance, dal testo alla regia, dalla scenografia al trucco ed ai costumi. Il pubblico, grazie a Internet, è sconfinato, per la gioia dei produttori. L’unico rischio però, nel giocare ad essere Dio, sta nel farsi sfuggire di mano la Storia ed essere travolti dagli eventi, costringendo gli attori a recitare a soggetto, o come in una piéce d’avanguardia, ad improvvisare. Accade così che le vicende prendano pieghe inaspettate: personaggi secondari, ritenuti prima inoffensivi, diventano principali; la distinzione tra il bene e il male si affievolisce e armi apocalittiche finiscono per essere imbracciate da mani inadatte... Il resto è silenzio. Sipario. Applausi.


Eresie

Un’eresia vi salverà di Mendacibus come spendono questa ricchezza. Se chiamassero Michelangelo per una scultura o Leonardo per un’invenzione invece di comprare stupidaggini, forse sarebbe meglio. 8) Eresia culturale: forse il Colosseo stava meglio sotterrato, mentre come delle formiche i cittadini di Roma gli cavavano qualche pezzettino, mentre ora passano sfrecciando in auto sotto la sua mole. 9) Eresia triestina: questa bella città, nonostante gli eventi spettacolari, i tentativi artistici, il dibattito politico e il nuovo ponte curto elegante e colorato sul Canale, si sta restringendo dentro il suo guscio, mentre i suoi abitanti fanno al contrario la strada che i loro avi avevano fatto arrivando da ogni dove per raggiungerla.

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resia, cioè «dottrina contraria al dogma». L’eresia è immaginaria e, dal punto di vita del dogma, si fortifica con la paura: la paura del diverso, dello sconosciuto, di ciò che è fuori dall’ordinario. Da ciò che è incontrollabile. Questo scritto dunque, tutto insieme, è un’eresia. Ma esso contiene tante eresie, come piccole paure in forma letteraria che ora definirò meglio. Potreste chiamarle banalità, volgari sentimentalismi oppure falsità scientificamente inattendibili o semplicemente eresie, così come faccio io. Ma ricordatevi: le eresie vanno bruciate! Al rogo! Queste eresie sono una forma letteraria ritrovata in un vecchio papiro egizio, in un archivio a cavallo tra passato e futuro. Sono brevi frasi spesso accompagnate da una citazione di un libro o di una notizia. Il loro scopo è scardinare, in maniera solo a tratti razionale, alcuni aspetti del nostro tempo. Io mi limito a riportare queste Eresie così come contenute nel documento originale. Il numero tredici è casuale. O no? 1) Eresia virale: Ebola è la peste del nostro tempo. Dopo aver letto Armi, acciaio e malattie di Diamond: forse occorre allora ritornare nei vecchi santuari abban-

donati, sperando che tornino di nuovo di moda. E magari anche l’arte ne ricaverà qualcosa di buono: avete presente il Decamerone? 2) Eresia mortale: torna sulla scena del mondo la Morte, non quella dei videogiochi e dei film d’azione, ma quella delle danze macabre al suono di vanità di vanità di Branduardi. La Morte non è più uno scherzo, è violenta, brutale e tragicamente vera! 3) Eresia mortale: la morte non è più di massa, ma di mass media. Chiedete all’ISIS. 4) Eresia sul denaro e sul tempo: stiamo tornando indietro all’Ottocento, quando i lavoratori vivevano senza diritti. È un caso che sia uscito Il capitale di Piketty proprio ora? 5) Eresia sul denaro e sul tempo: andate a leggere lo Statuto Albertino (1848), esso è modello per le cosiddette riforme di cui si sente parlare dai politici, spacciate per innovazioni. 6) Eresia sul denaro e sul tempo: forse dire che siamo tornati all’Ottocento è un’eresia. Il modello è il Settecento quando un’aristocrazia di super-ricchi viveva in ville dorate e i poveri non avevano da mangiare. 7) Eresia sul denaro: il problema non è quanto ricchi siano i super-ricchi, ma

10) Eresia triestino-migratoria: scoprendo il mondo, i triestini che fuggono dalla loro città in declino la raccontano a quelli che non la conoscevano. Così tutti vengono a vedersi lo spettacolo della decadenza. Facciamo sì che l’ultimo spettacolo di questa città, la sua fine, sia un grande successo. 11) Eresia universitaria: ma l’Università «italiana» di Trieste non è stata un cavallo di battaglia degli irredentisti che non volevano (per principio o per condizioni) andare a studiare a Graz, a Vienna o a Firenze? E se essa adesso sta riducendo il proprio numero di studenti e la qualità dei servizi non significa sconfessare o tradire quelle battaglie? 12) Eresia per donne: avete mai notato come tra i dottori della chiesa cattolica ci siano quattro donne? Una proporzione di donne nettamente maggiore rispetto ai Presidenti della Repubblica Italiana, ai Presidenti degli Stati Uniti o ai Papi donne. Ma se la conoscenza è potere, perché le donne non sono al potere? 13) Eresia di dimensioni: spariscono i partiti di massa per mancanza di tesserati o perché si trasformano in movimenti, spariscono le guerre di massa perché ci sono solo scontri isolati, i mass media non se la passano bene tra crisi di giornali e tv. Siamo sicuri che lasciare il Novecento dietro le spalle sia così male?

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Vukovar Watertower di Alberto Zanardo


Terza Pagina

inserto letterario

Per C. Una nave carica d’oro e di canto si affaccerà al porto del tuo pianto. I marinai avvinti dal viaggio ti sorrideranno come chi ha atteso da te una parola tremante in un ventaglio verde-azzurro di illusioni, dall’altra parte dell’oceano nostalgico di oracoli. Qualcuno chiamerà nel tuo nome una sorella, l’amata, l’odore della patria, l’osteria dove ammontano tutti i saccheggiati ricordi. Vorranno cantarti canti allegri di mare e sconci e acconciare per te sola una treccia di sgraziati inviti tra risucchi d’onda tremebonda e risolini di una giovane luna nello scintillio di bottiglie bionde di Laško. Ti guarderanno come si guarda ad una musa o alla spiaggia, la più ambita, quella che ritorna sempre in sogno dopo la bufera. Nessuno ti domanderà perché piangi (forse il fumo quando insiste il tamburo di ‘Stand by me’ ti adombri il viso). Più di qualcuno vorrà regalarti un forziere abbagliante di baci e sedurre il tuo orecchio con nenia di sirena.

Sarà solamente a notte nella città fonda dalla veranda incapace alle pieghe del sonno che ascolterai la chitarra della nave d’oro tremolare per la miriade di trasparenze della costa confuse con le luci arancio-violette. Anche tu sarai una di quelle per cui più non vale la pena di partire dalle cose del mondo. Sentirai allora tra le armonie più soffuse un’eco di passi nella tua stanza, la porta si sarà già chiusa, la luna inarcata nel cielo come un gatto smilzo e malizioso un’ombra sarà passata alla luce filtrante del lampione nebbioso di zanzare. Si fermerà ai piedi del letto gelido come un altare dove sacrificare ore e giorni, avviluppati gli anni nelle trame della coperta che neppure un dio può sciogliere. Mormorerai allora tu la parola che l’ultima nota della chitarra tace e sottointende e finisce in una fuga di intenti e speranze? Una nave carica d’oro e di canto si affaccerà al porto del tuo pianto. maggio, ottobre 2014

A. da Baciocchi


Io, Maurice & la divertenza di Giulio Debelli

Il mio amico Maurice era un ragazzo divertente. Era giovane e di bell’aspetto, di mestiere faceva il cuoco e la cosa che più mi incuriosiva era la sua scanzonata ignoranza, costantemente impegnata a boxare con l’intelligenza viva che immeritatamente possedeva. I duellanti, di solito, finivano al tappeto una volta per uno. Poco tempo fa, credo fosse Settembre, stavo raccontando a Maurice (ovviamente su sua richiesta) le mie esperienze londinesi. Il ragazzo voleva il pepe e quindi faceva domande specifiche in modo da far deviare il mio racconto sul sesso. «Sei mai stato con una negra?» «Certo, molte volte, due delle mie fidanzate erano ragazze di colore. Sono persone molto solari e molto divertenti, sono quasi sempre felici e spesso sono anche molto religiose... beh, immagino che questo dipenda molto dalle loro origini... non ne sono sicuro, posso solo dirti che le donne in questione erano entrambe così.» «È vero che hanno un odore diverso?» «Mah... non saprei» «Mi hanno detto che hanno un odore diverso!» «Non lo so, ogni volta che baciavo Sarah, una stupenda meticcia di origini jamaicane, venivo avvolto da un profumo di agrumi, come se mi stessi trovando in un aranceto; proveniva dai suoi capelli. Era molto bello, eccitante e rilassante allo stesso tempo» «No no, io intendevo l’odore della loro figa!» «Lo so cosa intendevi ragazzo, ho omesso la risposta di proposito.» «E perché scusa?» «Perché non lo so, non ricordo o forse perché non te lo voglio dire... voi gente ordinaria, sempre a cercare le risposte dai marinai e dai vecchi. Ma chi sono io, un prete?! Guarda non ne so un cazzo di queste cose. Non ho tutte le risposte! E poi, scusa, perché chiedere risposte quando puoi cercarle. Indaga, cazzo! Verifica! Provaci almeno... Cristo santo, hai la gioventù a tua disposizione!» Così Maurice, il ventenne più divertente che io abbia mai conosciuto, abbassò lo sguardo per pochi istanti. Poco dopo i suoi occhi ripresero a fissarmi, nuovamente vivi e sempre più divertiti. «Parlare con te mi piace molto» mi disse. Rabbonito sbuffai: «Non ricordo più l’odore della sua fica, Maurice. Ero sempre ubriaco e poi, amico mio, tu mi chiedi di raccontarti storie di 15 anni fa... sono solo vecchie storie che puzzano di muffa e polvere... sono stantie» «Stan-chè?» «Oh cazzo, stantie. Storie stantie! Significa che sono ferme in un tempo passato. Ho quarant’anni bello, sono in lista d’attesa per l’impotenza!» Ridacchiando mi disse: «Beh, io non sarò mai impotente, vedrai!» «Ma davvero, bambino, e che cosa ti da la convinzione che ciò che affermi sia vero?» Allora scoppiò a ridere di brutto. Poi, facendo spallucce: «Finché avrò la lingua e le dita...» Sghignazzammo un po’ e lo salutai. Era tardi e avevo un appuntamento nella notte.

Ecco questo è Maurice, il mio nipote finto. Camminando tra i vicoli oscenamente lerci della città vecchia mi resi conto che soltanto due persone avevano il dono di mettermi di buon umore, solo lui e Denise. Appena quei due entravano nel mio campo visivo il mio umore migliorava notevolmente. Avevano il raro dono della “divertenza”. In quei giorni ero praticamente sempre ubriaco e non legavo affatto con i miei coetanei: questi quarantenni stronzi, sconfitti dalla vita, sempre in lotta con i loro mutui o con le rate delle loro preziose automobili del cazzo. Vestono casual nel tentativo di ingannare l’età matura, non li ho mai capiti, io lo so che mi vesto come un idiota ma a me piace e lo faccio apposta. Mi piace quando mi giudicano fuori luogo e fuori moda o quando dicono: “Hey, hai visto quello? Porta ancora i jeans scampanati come negli anni novanta!”... che poi sarebbero gli anni settanta ma lasciamo perdere. Cazzoni, non ho bisogno di sentirmi alla moda... me la faccio da solo la mia tendenza. Comunque, stavo dicendo che in quel periodo di spritz e gin lemon andavo spesso a trovare Maurice nel ristorante in cui “rubava la paga”. Lì mettevo in scena il nostro giochetto preferito. Entrando rubavo una lunga tovaglia bianca, me la avvolgevo intorno le spalle a mo’ di tunica e, a braccia aperte in stile predicatore-visionario, raggiungevo la cucina dove con voce Gassmaniana esordivo circa così: “che la pace sia con te, o mio giovane amico! Con te che hai il dono della divertenza!”. E poi giù a ridere come due cretini. Bevevo fino a tardi e alcune notti aspettavo il suo agognato fine turno. Era sempre felice quando mi vedeva e così sparavamo cazzate allucinanti passeggiando lungo le rive per poi andare in testa al grande molo a fumare qualche canna e bere fino all’alba il vino che rubava al ristorante. I suoi sogni e le sue paure erano identici ai miei. L’uomo e il ragazzo avevano origini diverse e una diversa educazione, i loro vestiti e il modo di portare i capelli... ma tutto questo scompariva quando ci si raccontava delle proprie paure e dei propri sogni. Quelli erano sempre gli stessi. L’uomo sconfitto ascoltava il ragazzo e cercava di spiegare dove e perché aveva sbagliato, dove aveva iniziato a perdere la guerra. Voleva parargli il culo e metterlo in guardia ma Maurice non aveva i mezzi per poter usare a proprio vantaggio la mia esperienza. Fra qualche anno, ne ero quasi certo, Maurice sarebbe diventato come me e questo mi faceva rabbia. Volevo aiutarlo ma non ce l’avrei mai fatta. Impossibile. Troppo amore per la vita. Troppa divertenza. Maurice mi manca molto. Non è morto, intendiamoci, sono io che ho cambiato città. Sono partito, quel posto mi stava ammazzando di noia. A parte Maurice era una città di dormienti, di ex benestanti, di ex esseri umani. Oggi mi sono alzato presto e ho preso l’autobus per andare al lavoro. Dalla verde periferia piena di giardini alberati al centro città... down town “la grigia”. BAM! Le porte della corriera si spalancarono di scatto presentandomi al marciapiede. Sono sceso a stento, la sbornia della seratina di ieri evidentemente aveva lasciato il segno! Sulla strada mi ha subito avvinghiato il tanfo terrificante della metropoli: un misto di merda di cane e smog. Dio ci ha scorreggiato addosso lasciandoci l’eco delle urla della sua merda oppressa. Perfetto. Ho sempre amato London.


Triste Trieste

San Silvestro Soffi di luce traforano l’ombra. I giusti, autori eterni del domani, coltivano l’attesa di una giusta fine, e noi ancora qui a trattenere ogni fiato di vita, anche il più vile. Preludio. La notte si sgrana in arpeggi vasti e solenni, giù dalle arcate antiche della chiesa concorde, sui nostri volti bambini; e la mente ritorna alle piazze e alle fonti, ai fantastici monti che serbano Granada... Sbagliamo forse ad essere soltanto? Sospesi sulle volte, vani segni da tempo muti – l’angelo, l’agnello alludono a gloriose inesistenze. Fuga. Tra il marmo e il vuoto un intreccio molteplice di linee descrive mosse di scacchi invisibili; come foglie dal ramo un ordine segreto è sottratto all’arbitrio del silenzio. Forse, la pallida armonia del nulla affascina anche noi dannati, il nostro disordine, forse, esige qualche giustificazione. Non so decidermi. Una fantasia di deserti di lune e carovane e amanti e millenari canti di proibita poesia riempie la sera della nostalgia di una notte persiana mai vissuta, nostra nel gemere di una chitarra.

Andrea Piras

Nella triste Trieste che ha bruciato la sua casa e s’incenerisce mille volte quando frigna di uomini dell’est che lavorano l’altoforno nella Servola nera e al porto fermo forse ti ho incontrato quella volta sola, su quella spiaggia stretta come un palmo di neonato: ci siamo fatti un dono piccolo una mattina invernale. Ci siamo tanto amati. Tu forse non sapevi che dietro la rena, dietro le pinete e la tavolozza girandola dei bambini che giocano stavano forni a mille gradi. Forse l’ho nascosto io che oltre gli scogli, fin dove si perde la vista e ci smarriamo, dove potevamo essere il sole, là le scie delle navi petroliere affondavano, scavavano. Forse non avevo il coraggio di pensare che il palazzo promesso, Miramare, stava alla giusta distanza per celarsi quello che non voleva vedere. Parlo della triste Trieste per dirti che non possiamo nasconderci nulla: il baluginio di una storia fasulla non ci deve sviare, proibirci di cercare. Non stringiamo nelle mani un bene fatto ma un farsi e insieme procederemo verso i limiti della verità gettando nel pozzo e ripescandole, abbandonate sulla riva e ritrovate di notte tutte le nostre certezze. (Conservo come la reliquia del mio corpo stesso il sassolino, l’uovo affusolato dal mare che hai trovato tra i bambini che giocavano su quella breve spiaggia sotto quel sole caldo anche a gennaio)

Giacomo Pirani


Fine settembre 1943 di Ettore Spada

La notte andava rinfrescando mentre la Virtus scivolava lenta sul mare appena increspato da una leggera brezza. Guido stava appoggiato al parapetto e guardava i piccoli lumi offuscati di case lontane, abbarbicate sui colli in scarni grappoli come acini di luce nell’oscurità della costa. Uno a uno il loro chiarore diminuiva per la lontananza fino a scomparire improvvisamente, nascosto da un folto di macchia. Tirò fuori dalla tasca il tabacco, lo arrotolò con cura in una cartina spiegazzata e si accese la sigaretta parando la fiamma col bavero della giacca. La boccata di fumo si disperse nell’aria. Nel frattempo una leggera nebbia aveva preso a pettinare l’acqua. «Vignirà caligo fisso... meio cussì... - Disse il comandante, apparendo alle sue spalle, - Guido, perché no te se buti un po’ in branda? ‘Desso saria lo stesso el turno de Libero...» «No digo mai de no a la branda, comandante. Cussì tignirè voi de ocio sti gnochi», rispose indicando col capo i due soldati tedeschi fermi alle mitraglie. «Più che do gnochi me par do susini, sai bravi a cascar con quel che i pica de sonno... almeno no i farà monade, se spera» «Staremo a veder. ‘Notte, comandante» «Notte Guido, e mandime Libero su!» «Guido! Guido! Sveite!» «Chi xe? Cossa nassi?» Aprì gli occhi di scatto. Libero era di fronte a lui, lo sguardo leggermente allarmato. «Guido! La nave no parti!» «Come no parti?» «No parti, te digo! …e no se riva gnanca a trovar Goran!» «Te disi che...» «Mi no te digo gnente, so solo che i gnochi i se gà innervosì e il comandante parla de sabotaggio e partigiani...» «E no te me disi gnente! Dove se semo fermai?» «Vicin Sebenico, el capitan vol scender a terra e zercar socorso. Vol che te vadi anca ti» «E quando te me lo disevi questo?! Dio can, levite che me movo!»

La scialuppa venne calata in acqua. Il comandante vi prese posto assieme a Guido e altri due marinai. I due tedeschi con gli altri membri dell’equipaggio rimasero a bordo ad attenderli. Una fitta nebbia copriva il cielo e la costa. «Caligo fisso, gavevo dito mi! Ma ancora ne va ben, lassa star... meno de un’ora e va via». La nebbia infatti cominciava a spaccarsi lasciando intravedere chiazze sempre più larghe di mare. I suoi lembi scivolavano discreti sull’acqua con la fretta impacciata di un ospite che voglia togliere presto il disturbo. «E pur ve confido che me piaseva sta nebbia...» Giunsero allora: tre rombi, dapprima lontani, poi avvicinantisi in un crescendo di tuono. Dalla nave arrivò il suono di qualche grido irato. Appena il primo spitfire apparve in vista le mitraglie della nave cominciarono a sparare. «NO!» urlò il comandante. Inutile. Sapevano tutti e quattro che ormai erano troppo lontani - che era troppo tardi - per fare qualcosa. Certo, soltanto a due nazisti poteva saltare in testa di fare fuoco da una piccola nave caricata con trecentottanta tonnellate di munizioni. Accadde tutto rapidamente: il primo aereo riuscì a passare indenne. Il secondo fu centrato in pieno e precipitò in acqua. I due superstiti, rincorsi dalle mitraglie, fecero un paio di cerchi prima di passare sopra la barca e sganciare due bombe. Appena tornò la calma, il comandante ordinò di tornare indietro e controllare che ci fossero superstiti. Trovarono un paio di marinai piuttosto malconci e, aggrappati a una trave, i due tedeschi delusi e arrabbiati. Mentre si dirigevano a riva, si accorsero che ancora qualcuno era riuscito a salvarsi e si dirigeva a nuoto verso la terraferma. Approdati, trovarono di una decina di uomini ad aspettarli. Ragazzi come loro, facce lunghe e provate, partigiani. Per prima cosa li radunarono tutti, poi afferrarono i tedeschi e li condussero in mezzo a una macchia. Seguì una raffica. Il comandante della nave prese a parlare col loro. Gli altri si erano seduti sulle rocce, avevano appoggiato i fucili alla spalla e fumavano. «Sì, munizioni... Albania...» Guido si era seduto con gli altri. Il suono della risacca giungeva vicino, la nebbia si era dissolta.


Sbilferesie Storie di fantasmi M

i chiamo Zuan e sono uno Sbilf. Sono quindi un “folletto” della Carnia, vivo in un incavo di un tronco d’albero, proprio nel boschetto che parte dal Monte Bivera e arriva fino alle grotte della Bèlin. Abito in provincia di Udine, nei dintorni di Sauris di Sopra, fra l’amabile odore del legno che brucia (almeno qui ne fanno buon uso) e il profumo dello speck del prosciuttificio Wolf. Mi nutro di dolci fiori di canapa, di deliziosi funghetti e di frutti di bosco. Sono vecchio, ormai ho più di un millennio di vita e vi posso dire che qui, come in tutti i paesi che ho visitato, sono sempre stato particolarmente curioso. La mia casa è piena di ricordini e di cartoline. Nel mondo Sbilf è opinione comune considerare le storie di fantasmi delle vere e proprie sciocchezze. Risulta “eretico” e in controtendenza chiunque provi ad avvicinarsi un po’ al mondo del paranormale, del sovrannaturale, dell’occulto. Ma io non sono come gli altri: sono un girovago, uno spirito libero che ama confrontarsi anche con culture diverse e soprattutto con le cose nuove. Per cui oggi vi parlerò di quattro luoghi infestati da spiriti e da fantasmi, per me sono molto importanti, perché ebbi modo di visitarli con molta attenzione durante alcuni dei miei innumerevoli viaggi.

Castello di Duino

Si trova nel comune di Duino-Aurisina, in provincia di Trieste. Fu abitato dalla famiglia tedesca Thurn und Taxis, che per secoli detenne il monopolio del servizio postale dell’impero tedesco, e dalla quale si sostiene derivi il termine “taxi”. Ma lasciamo perdere il gossip! Dietro al castello di Duino, oltre ad una storia antichissima, c’è una ben nota leggenda, conosciuta come la “leggenda della dama bianca”. La dama bianca è lo spirito di una donna morta, indossa abiti di colore bianco, non ha né bocca né occhi. La leggenda racconta che in un tempo molto lontano la rocca di Duino fosse abitata da un cavaliere crudele, che disprezzava oltre-

Eresie

di Solivagus Rima

srsolivagus@gmail.com

modo la sua gentile sposa. Ella lo amava tanto da sopportare tutte le sue cattiverie e ogni tipo di violenza. Ma un giorno lui escogitò un tremendo piano per ucciderla e la spinse giù dalle mura del castello. Ella si pietrificò sulla scogliera. Ora il suo spirito, la dama bianca, aleggia peregrina nel castello; è un’anima in pena, rassegnata, ma anche oltremodo misteriosa.

Castello di Attimis

Qui fu scattata una foto. Difficile stabilire se presso il castello superiore di Attimis o presso quello inferiore. Nella foto è possibile vedere una presenza color bianco latte, lattiginosa. Forse un fantasma. Citato per la prima volta nel 1106, il castello superiore di Attimis appartenne per buona parte della sua storia a famiglie nobili di cultura e lingua germanica. Il maniero fu abitato ininterrottamente almeno fino al terremoto del 1511, evento che comportò l’abbandono anche di molte altre strutture fortificate, non più adatte alle nuove esigenze difensive legate all’introduzione della polvere da sparo. Il castello è stato messo in luce ed in parte restaurato alla metà degli anni ’70.

Sepolcreto di Aquileia

Il sepolcreto di Aquileia, lungo la via XXIV Maggio di Aquileia, ci dà un chiaro esempio delle usanze funerarie dei romani. Il sepolcreto si trovava fuori dalle mura, proprio perché era vietata la sepoltura all’interno delle mura cittadine. Aquileia è una delle città romane più importanti dell’odierno Friuli-Venezia Giulia, assieme a Cividale (Forum Iulii) e a Zuglio (Iulium Carnicum). Qui invece si parla di una storiella circolante sul web. È la storia di tre giovani viaggiatori alloggianti all’albergo “L’Aquila Nera”, che si trova proprio a due passi dal sepolcreto romano di Aquileia. Strani rumori si sentono nelle stanze dei tre e un lungo fracasso, come di un terremoto...

Castello di Bardi

Si trova su uno scoglio di “diaspro rosso” a Bardi, in provincia di Parma. Si chiama

anche castello dei Landi. Il nome “diaspro rosso” è usato dall’associazione ONLUS che si occupa di organizzare eventi all’interno del prestigioso castello. Il nome Bardi deriva dai Longobardi. Il fantasma del castello ha la particolarità di essere stato fotografato. Abbiamo fotografie di Gianni Santi e Daniele Kalousi. LETTERE E CONTRASTI. Passano una notte all’interno del castello. Gianni è scettico, Daniele no. Sala delle torture, 1995. Suoni, canti e voci nell’antica locanda del castello. Fortificazione medievale. Passi cadenzati e rullare di tamburi nei corridoi della ronda. Luci, cerchi di pietre nella piazza d’armi. Forme lattiginose e nebulose. Potrebbe essere il fantasma di un monaco, un’anima inquieta. Daniele Gullà. Altra foto di un uomo visto di profilo. Vari Ghosthunters si sono occupati del caso, rilevando un notevole abbassamento della temperatura in alcune stanze. Le stanze erano chiuse. La leggenda che sta dietro il castello di Bardi destò subito il mio interesse. Sensazione di alcuni che si sono sentiti un impedimento quando si entrava nelle stanze. Odore particolare di zolfo. Dietro alla storia del fantasma si cela una leggenda, quella di Moroello. Egli è il capitano delle guardie e Soleste è la sua giovane amata. Ella è stata promessa in sposa dal padre a un feudatario vicino. Moroello, a causa di una guerra improvvisa, è costretto a partire con i suoi soldati; Soleste sale frequentemente sul mastio della fortezza per attendere ogni giorno il ritorno del suo amato. Ad un certo punto, Soleste vede all’orizzonte dei colori che non sono quelli degli stendardi dei Landi, pensa che l’amato sia stato sconfitto e si getta dal mastio. In realtà lui ha vinto. Moroello infatti presto torna al castello, apprende la notizia del suicidio di Soleste e si getta nella piazza d’armi dagli spalti. Muore brutalmente. Presso il castello ora vengono organizzati vari eventi, come la “cena con delitto medievale” e la “serata di halloween”, durante la quale vengono celebrate le sette paure dell’uomo.

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Viaggi

La città opaca C

i sono dei villaggi all’interno della grande città. Passare per le strade meno conosciute del 18° arrondissement significa, per la maggior parte dei parigini, essersi persi o ricercare la grande avventura: le vetrine sporche e polverose dei negozi sono piene di richiami al Grande Fuori, tra i coloratissimi tessuti di Wax olandese, il profumo del curry e i trattati economici in edizione Folio che promettono di liberare i francesi dai fantasmi della guerra d’Algeria. Il Fuori, a ben guardare, proietta le sue immagini all’interno del perimetro tracciato dal Boulevard Périphérique, il quale delimita da ogni lato l’inizio della banlieue, assecondando un gioco d’ombre che la ville lumière non si aspettava di produrre: per ogni strada illuminata dalle lampade da interno borghese, esiste un angolo buio alla vista e alla parola. Esso si annida negli anfratti con tutta la forza del Fuori. I volantini grezzi e mal stampati dei Sans Papiers ricordano una battaglia vecchia e mai terminata, discorsi dai molteplici accenti rimasti inascoltati. C’è qualcosa di invisibile e indicibile che riempie gli spazi vuoti della capitale del ferro e del vetro, che attornia le delicate strutture metalliche, ragnatele architettoniche che permettono di vedere tutto, illuminare tutto, vendere tutto; qualcosa che sfugge al grande faro della torre di controllo, la Tour la cui luce rotante possiede tutto lo spazio, i cui fari crepitanti ogni ora scandiscono il tempo. Parigi è una capitale in vetrina, opaca a comando. A ogni angolo della strada, in un carrello del supermercato, sopra una latta piena di carbone, vengono arrostite le pannocchie, all’urlo di maïs chaud! maïs chaud! e vendute per un euro. Non è cibo per i francesi; in fin di giornata, quando qualche prostituta ha già cominciato, le scorte sono finite, ma chi ha mangiato è un soggetto invisibile. Sembra strano, ma anche in questo villaggio oscuro esistono dei punti di luce. Di fronte ai venditori ambulanti, alle vetrine che vendono platani e radici di zenzero, tra le luci insistenti di un localino ben tenuto, branché, ragazzi in vestiti smart bev-

di Piero Rosso ono cocktail, spendono dai 12 ai 20 euro per un piatto unico e lo consumano bene in vista. La vetrina del locale, splendente sulla strada sporca, mette in mostra uno stile di vita diverso, il bobo – radical chic di Parigi, bourgeois-bohème – che dal centro della città, dai Beaux Quartiers dove una volta risiedeva la testa della capitale allarga le braccia verso i quartieri del piscio nelle strade, delle Malboro contraffatte del Metro Barbès-Rochechouart, degli assembramenti di alcolisti sulle panchine da Château Rouge a Marcadet. La testa ha ordinato di stiracchiarsi e dagli anni sessanta quelle braccia non hanno mai finito di allungarsi, da ovest verso est, come una colonizzazione in casa propria che ha rinunciato al fucile e combatte a colpi di debito. Barbès, Château Rouge, La Goutte d’or incarnano un divieto visivo, sono luoghi di cui nessuno parla perché alimentarne il mito, non dire, significa fare una selezione del vedere: a molti conviene ripetersi come una filastrocca che questi luoghi selvaggi un giorno saranno bonificati, che la civilizzazione non può restare a guardare quello che succede in questi buchi neri della modernità. Eppure, basta una passeggiata distratta per accorgersi degli effetti della gentrification, l’imborghesimento delle zone popolari, la proiezione delle eleganti ombre del sesto, settimo e ottavo arrondissement sullo sfondo grezzo dei quartieri che nel passato non facevano nemmeno parte della città. Ragionando per cerchi concentrici, procedendo verso l’esterno, a un certo punto tra i nomi delle vie appaiono i faubourg, i sobborghi che si creavano fuori dalle mura principali, e che adesso sono quasi parte del centro. Parigi ha dapprima eliminato dal paesaggio alcune zone e i suoi residenti – ha creato il Fuori della banlieue, sia come “luogo di amministrazione” sia come “luogo di esclusione” – e poi ha cominciato a riprendersi tutto, senza guardare in faccia alla racaille (gli scarti, la plebaglia) che vi si era insediata. Nota personalissima. C’è un luogo che mi è capitato di visitare molto spesso e che mi ricorda il gioco di luci e ombre di questi

quartieri popolari: sotto la struttura che sostiene le rotaie della metro numero 2 tra la stazione di Stalingrad e quella di La Chapelle, c’è un campo da basket dove la racaille si ritrova a giocare. Per i cestisti abituati al parquet di legno questo posto ha dell’incredibile: i canestri irregolari in altezza e diversi tra loro sono delimitati da una solida gabbia che non lascia spazio per la rimessa laterale, che di conseguenza non esiste. La notte è un riparo per i senzatetto. Ci si gioca una pallacanestro diversa, mai veramente di squadra. Si passa la palla una volta sola perché è difficile che te la ritornino. All’interno della rete tutti i madrelingua francesi mettono in chiaro di essere nati altrove, soprattutto colonie. C’è chi si presenta in camicia, chi gioca con la tuta da operaio e gli scarponi antinfortunistica, chi fa mostra dei muscoli e tira solo da metà campo. C’è uno spirito istrionico che non fa parte della Parigi da cartolina. L’ultima volta che ci sono stato ho incontrato un ragazzo ucraino appena emigrato a causa della guerra civile. Ci siamo parlati principalmente a gesti e mozziconi di inglese. Non mi sorprende di averlo conosciuto lì, all’interno di un perimetro buio e ben recintato, venti metri per otto in cui la lingua francese non serve.


Scienza

Shall we shale, mr President? Fracking e shale gas: la manna del sottosuolo (ma non del mio giardino)

di Giulia Massolino gas naturale alla Russia e stia per raggiungere l’Arabia Saudita come primo esportatore mondiale di idrocarburi.

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n quest’epoca storica chi ha in pugno l’energia, ha in pugno il mondo. Per questo, negli Stati Uniti si sta parlando di “fracking revolution”. Il fatto che il gas naturale sia una rivoluzione è ormai fuori da ogni dubbio. E, come ogni rivoluzione, porterà le sue vittorie e le sue sconfitte. Se ne è parlato anche all’interno della manifestazione Trieste Next, il cui tema quest’anno era appunto un provocatorio “EnergEthic”. Con il termine fracking (idrofratturazione) ci si riferisce ad un processo che consiste nell’iniettare ad alta pressione acqua, sabbia ed agenti chimici nel suolo, attraverso pozzi orizzontali scavati ad una profondità di alcuni chilometri, con lo scopo di fratturare le rocce e far sì che rilascino il gas naturale (shale gas) in esse intrappolato. Questa procedura è stata ideata attorno al 1960, ma è al 2011 che risalgono le esplorazioni estensive su tutto il territorio americano alla ricerca di idrocarburi, ed è lì che è esploso il fenomeno. In effetti, il fracking non sarebbe potuto nascere in nessun altro Paese per due motivi: in America il proprietario di un terreno esercita diritti di proprietà anche su tutto ciò che vi è al di sotto (detiene i diritti minerari) e solo negli USA vi è un mercato capitalistico con attori che possano e vogliano investire ingenti quantità di denaro in un’attività tanto rischiosa. Questa fortuita combinazione di fattori ha fatto sì che all’improvviso venissero scavati migliaia di pozzi sul suolo americano, creando (si stima) 3 milioni di posti di lavoro e facendo sì che l’America, in pochi anni, rubasse il posto di maggior produttore di

In tutti gli altri Paesi i diritti minerari dei giacimenti al di sotto dei terreni sono virtualmente detenuti, o strettamente controllati, dai governi. Per fortuna. Sarebbe da chiedersi, infatti, quali informazioni abbiano ricevuto i proprietari terrieri che hanno ceduto i diritti minerari del proprio terreno alle compagnie di fracking riguardo ai possibili rischi. Una libera scelta si basa indispensabilmente sulla completezza di informazioni disponibili oltre che sulla loro comprensibilità. Anche nel caso in cui, dunque, i proprietari siano stati adeguatamente informati, ipotizzando un livello di istruzione medio, sarebbero davvero riusciti a comprenderne le conseguenze? Tra queste sono contemplate: il possibile inquinamento degli acquiferi (e di conseguenza dell’acqua nelle case), la perdita di gas e sostanze chimiche in forma gassosa, il continuo passaggio dei camion a servizio dei pozzi, l’utilizzo di abnormi quantità di acqua. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, dunque non è scontato provare compassione per chi abbia deciso di “vendere la terra al diavolo” in cambio di un ingente ritorno economico. Ma l’aria e l’acqua non conoscono i confini di proprietà. Anche i vicini di chi avesse accettato si ritroverebbero a subirne tutti i disagi e, peraltro, senza averne ricavato un cent. Le compagnie che si occupano di fracking, ovviamente, negano che le procedure possano inquinare le falde acquifere, poiché i pozzi sono scavati a profondità di gran lunga superiori. A onor del vero, se le operazioni di estrazione fossero eseguite correttamente, non si dovrebbero presentare perdite di sostanze inquinanti negli strati più superficiali del terreno, ed esistono tecniche per ridurre le esalazioni di gas. Ma la differenza tra teoria e pratica è più grande in pratica che in teoria: molte famiglie lamentano di non poter più aprire i rubinetti di casa o di essersi dovute trasferire a causa dell’inquinamen-

to dell’aria (senza, ovviamente, esser riuscite a vendere la propria casa). In Italia va anche messa in conto l’elevata sismicità del territorio, sul quale le operazioni difracking potrebbero provocare terremoti catastrofici (secondo alcune fonti avrebbero innescato il terremoto in Emilia). Se è vero, infatti, che i terremoti sono fenomeni naturali che l’uomo non può causare, è altrettanto vero che, per dirla con una metafora, a pestare la coda al can che dorme ci si rende responsabili della sua reazione. Stanno nascendo sempre più movimenti contro il fracking in Europa e nel mondo. L’Unione Europea per ora lascia la decisione agli Stati; In Italia è in fase di approvazione alla Camera un emendamento (D.L. 133/2014) che lo vieta. All’interno della manifestazione Trieste Next (26-28 ottobre 2014), alcuni studenti di giurisprudenza hanno messo in scena una diatriba legale riguardante il fracking. Il processo è stato affrontato dal punti di vista di tre diversi sistemi giuridici, ipotizzando così di trovarsi innanzi ad un tribunale italiano, ad uno francese ed infine ad uno americano. In tutti e tre casi, la compagnia di fracking è stata condannata (nel caso degli Stati Uniti, è stato il pubblico presente in sala, in qualità di giuria a puntare i pollici verso il basso). Essere sollevati da questi risultati mentre si continua a guidare la propria auto è, tuttavia, un atteggiamento ipocrita, almeno tanto quanto lo è la disparità di attenzione rivolta al fracking (USA ed UE) rispetto allo sfruttamento dei pozzi di idrocarburi (Africa e Russia). Si chiama “Not in my back yard syndrome”. Siamo disposti a tutto per preservare il nostro stile di vita, purché le conseguenze siano abbastanza lontane dall’essere ignorate. Ora che si sono affacciate al mondo occidentale, ecco fioccare le proteste. Se è vero che tutto ciò che accade in America approda in Europa dopo una generazione, c’è solo da augurarsi che nel mentre si siano riuscite a sviluppare delle tecniche per rendere questa procedura meno dannosa, e siano aumentate l’efficienza e la diffusione di fonti rinnovabili. Presto potrebbe toccare al nostro, di giardino.

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Psicoanalisi

L’inconscio a cielo aperto di Carmelo Bene

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“impresa”, così la chiama nella sua autobiografia, di venire al mondo fu compiuta da Carmelo Bene in data 1 settembre 1937 a Campi Salentina. Nasceva in casa, come spesso accadeva all’epoca, nel “Sud del Sud dei Santi”: una levatrice, una casa piena di donne, un parto difficile. “Strappato per i capelli. Una disdetta”. Questo essere “sopravvissuto alla nascita” fu sempre percepito da Bene come una sorta d’ errore madornale, un iperbolico scherzo del caso. “Più che nato sono stato abortito, ecco io mi considero a tutti gli effetti un aborto vivente”. Bene viene alla luce in una casa segnata dal lutto, c’era stata un’ altra nascita prima della sua, una sorella morta l’anno dopo essere venuta al mondo. Un lutto ignorato pervicacemente, quasi deriso, dal piccolo Bene. “Mia madre me lo raccontava sempre, ma non ne ho mai voluto sentire parlare. Sai, i bambini sono molto gelosi dei fratelli. È morta? Meglio così. Visto che ci siamo… almeno s’occuperanno un po’ meglio di me…”. I suoi scritti autobiografici sono scanditi da un costante richiamo alla sua terra di provenienza. “Un Sud in perdita costante, il Sud dell’inazione, del girare a vuoto, delle chiese, delle Madonne di cartapesta. Un Sud minoritario ed antistorico, che nella sua costituzione rifiuta ogni aspirazione riformista”. È qui che risiedono le origini antropologiche, origini di estromissione e di vuoto, di Carmelo Bene. Questo “Salento del vuoto” resterà sempre scolpito in lui, più vivo, muto e persistente di ogni ricordo familiare. Eppure sarà proprio nel vuoto, nella mancanza della parola, nell’esitazione, che Bene saprà trovare i semi di un’arte drammatica unica: un inconscio a cielo aperto. La fabbrica di tabacco di proprietà della famiglia Bene, che esportava per Chesterfield e Philip Morris, è lo strano sfondo dei pomeriggi del giovane Carmelo. “Vedo montagne di donne ‘d’ogni forma’, ‘d’ogni età’ (…) Mi ritrovo quattrenne palleggia-

di Anna Cicogna to da questa montagna di nudo donnesco animale, negli spogliatoi d’una azienda”. Come contraltare la chiesa, il rito, il servir messa anche quattro volte al giorno. Erano solo in due in paese ad avere il corredo necessario, tonaca e cotta, e a saper accendere l’ incenso. Rimpallato tra la carnalità esposta, il sudore del lavoro e le grida di millequattrocento operaie (che giocano con il figlio del padrone) immerse fino alle cosce nel trinciato di tabacco, e i paramenti sacri, il rito, la liturgia in latino, i fumi gravi dell’incenso. Un bambino inorridito dalla crudezza dell’esposizione dei corpi, affascinato dalla celebrazione rituale. “Da questo paradiso, da questo stupore, perché l’ infanzia è stupore (…); da queste mie madonne straordinarie, nell’ora che doveva essere della mia felicità, quando rientrato in quel monte di tabacco che mi aspettava e che era la mia casa, mi ritrovavo in una bolgia dantesca, in un’interferenza che non vedevo l’ora cessasse per tornare a quell’altra mia vita, meravigliosa, religiosa, inesistente”. “Questa interferenza era fatta di nudi femminili che poi si rivestivano di certe specie di tute sollevate fino al pube, che sguazzavano nel letame, in una quantità indescrivibile di tabacco. Le ragazze, cento, duecento, trecento, si divertivano ad acchiappare topacci enormi dilaniandoli con i denti, se li lanciavano: era questo il loro gioco preferito”. Le donne della casa, i rumori della fabbrica, le donne-operaie che giocano con i

topi, sono vissuti come un’ingerenza troppo forte, come un qualcosa di impossibile da simbolizzare, terrificante nel suo presentificarsi; qualcosa da cui Bene vorrebbe distanziarsi, ma che al contempo vertiginosamente lo assorbe. Dall’altra parte ancora la chiesa e il rito. Le Madonne, scevre di ogni carnalità, senza odore, una proiezione. Un rifugio, una coperta con la quale velare le brutture, attutire i colpi sordi dell’angoscia. Un bel giorno, dopo tutto il tempo trascorso a vezzeggiare statue di cartapesta “biondissime, come Cerere”, Carmelo Bene, bambino, confonde se stesso con queste madonne straordinarie. “Anch’io dimenticai quelle mie meravigliose madonne, presso le quali mi ero rifugiato a scongiurare la donna, alle quali masochianamente avevo delegato il mio Super-io. In nome della pura assenza, ripresi a quelle Veneri la madonna che ero. E da buon settenne iconoclasta seppellii in me la santità donnesca (…) Mi ritrovai a sette anni a sentirmi la Madonna.” Sentirsi la Madonna significa identificarsi con un’immagine, divorarla, ingoiarla, letteralmente. Svanire in una proiezione totalmente irraggiungibile, assimilarsi ad un’alterità di perfezione ultraterrena, inaccessibile, oltre ogni distanza. Ma cosa vuol dire in parole povere “identificarsi”? Può essere utile riprendere questo concetto così come è stato teorizzato da Freud: “L’ identificazione non è dunque


Psicoanalisi semplice imitazione, bensì appropriazione in base alla stessa pretesa eziologica. Essa esprime un “come”, e si riferisce a qualche cosa di comune che permane nell’inconscio”. Nel processo identificatorio non si imita qualcuno, ma lo si diventa, letteralmente. L’assunzione inconscia dell’immagine dell’altro trasforma il soggetto concreto. A questa prima identificazione ne seguono ovviamente moltissime altre nel corso dell’esistenza, proiezioni sempre molto distanti dal bambino “molto timido, solitario e introverso”, “vestito di tic”, sempre malato che il giovane Bene è. Si sceglie donna, adulta, bellissima e perfetta. Si sceglie divino, si sceglie immortale. Il soggetto, diceva Lacan, è rappresentato da un Significante per un altro Significante. Ma ciò non vuol dire altro che è sempre una parola ciò che viene al posto del soggetto: una parola rappresenta il soggetto non nel senso che gli dà forma e voce, traducendo i suoi pensieri, ma, molto più vertiginosamente, “la parola rappresenta il soggetto” è da intendersi nel senso che essa mette in scena qualcosa che non esiste: il soggetto, appunto. La parola inscena un soggetto che non c’è, che non la precede, ma che ne è l’effetto, il risultato. Il soggetto è sempre già svanito, abolito, nella parola: sia quando la ode che quando la pronuncia. In Carmelo Bene la parola fondamentale, il significante che insiste, è “aborto”. Nell’atto stesso di descrivere la propria nascita Bene non riesce a fare altro che negarla, la esclude dall’orizzonte stesso della possibilità.“Più che nato, sono stato abortito, sono stato rifiutato, escluso, estromesso. Mi considero a tutti gli effetti un aborto vivente.” Questo sentirsi “non vivo” si tradurrà poi nella fascinazione di Bene per il vampiresco. Il vampiro è infatti il “non morto” per definizione, e pertanto però anche il “non vivo”: esso è un aborto vivente, una abitatore della sospensione, è colui che non può vedersi nello specchio. Al non-morto non resta che “concentrarsi nella toletta fine a se stessa: un bottone nell’asola sbagliata (il vampiro non si riflette…), determina, compromette la parola”, racconta ancora Bene nella sua autobiografia. Afasia, impossibilità di nominare, impossibilità di affermare la propria identità e presenza di fronte al vuoto che lo rispecchia. Impossibilità di dire “Io”, perché manca quel primo aggancio, quella figura, quella immagine che, pur comparendo nello specchio, è troppo palesemente lontana dall’idea che egli ha di sé. Pur essendo l’Io

– come diceva Lacan nel suo primo seminario sugli scritti tecnici di Freud – un oggetto fatto come una cipolla (lo si potrebbe pelare e si troverebbero all’infinito le identificazioni successive che lo hanno costituito), resta pur vero che ogni identità si fonda su quel “grado zero” che è l’assunzione della propria immagine allo specchio. Un’assunzione che è sempre mediata, e vegliata, dalla presenza di un altro che autentifica e “permette” il primitivo e giubilatorio accoppiamento del soggetto con la propria immagine. Mancando a Bene questa forma simbolica di autoriconoscimento, egli visse tutta la vita a contatto diretto con quella corporeità, deliziosa e al contempo terrificante, che ne farà il genio attoriale. Da qui si comprende forse anche meglio la fortissima ambivalenza amoreodio, scherno-paura, manifestata da Bene nei confronti del corpo materno e in generale nel suo rapporto con la maternità. “La scrofa ti espelle dal suo ventre abominevole, ti cestina nella discarica della vita. Se dell’incontinenza delle generali defecazioni materne, a noi estranee, non siamo via via informati, di quella “puttanaccia” di nostra madre siamo più che certi. Ogni maternità è un mostruoso delitto. Qua e là si combatte l’ aborto e non la messa in luce. Cosa c’è di più laido del famigerato ossequio alla maternità!? Con e senza bambino. Strafottute madonne”. Donna e madre sulla quale incombe l’ombra dell’orrore e del godimento. Orrore non arginato, non mitigato, scandalo della prossimità perturbante del reale della corporeità. La corporeità è infatti ciò che resta sempre escluso dal normale processo identificatorio, che

appunto è un accoppiamento tra ciò che io penso di me (un pensiero) e ciò che vedo di me (un’immagine). L’unica rappresentazione del femminile che restava al di fuori di quest’informità oscena, nell’immaginario del giovane Bene, era la Madonna. O meglio, la sua immagine, il simulacro pulito e asessuato di Maria Vergine. Bambino, spinto dalla necessità di scoprire su cosa poggiasse la sospetta perfezione di quest’unica donna che sfuggiva alla “volgarità” dall’esistenza, in chiesa, di nascosto, Bene solleva un giorno la veste di una statua di cartapesta. “La prima volta che fruga un simulacro di donna sotto la veste è in una chiesa a Campi. Orrore. Sotto le vesti di Maria c’è solo legno”. Sotto la coltre dell’ideale, in cui si era rifugiato per non soccombere all’oscenità della corporeità e della materia, Bene incontra solo la rigidità del vuoto, ovvero l’altra faccia (assente) della carne. Nessuna alternativa all’infamia della madre, delle “donnone che pestano tabacco”: solo il vuoto celato da una stoffa azzurro-gelo. “Quelli che vedono non vedono quello che vedono, ma quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. È l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude, nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu. Divina è l’illusione”.

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo icando da qualche parte una muta serpentesca fatta di beats e versi ormai fuori luogo, o odiarlo, ritenendolo solo uno specchio che riflette male idee provenienti da qualche altro contesto musicale. Insomma, è difficile rimanere indifferenti, non esiste un giusto mezzo, una visione neutrale: ma la linfa vitale del rap è costante.

Quando nel 2006 Nas pubblicò il disco ‘Hip Hop is Dead’ pensai subito a due cose: che il titolo era davvero figo e che era una grande verità. A metà della scorsa decade infatti era in continua proliferazione il circuito dell’hip hop meno liricista e più giocherellone del Dirty South, il cosiddetto ‘crunk’, la cui comparsa allo stesso tempo aveva drammaticamente ridotto la qualità dei testi e aumentato il livello di ignoranza dell’universo rap. Un titolo che quindi indicava una perdita del potere pastorale dei rapper, della capacità di penetrare la corteccia cerebrale con rime efficaci e creative, di manipolare una lingua comune per trasformarla in un linguaggio battagliero, tutto in favore di un mondo più glitterato e commerciale, esasperazione della mondanità sfarzosa che anche il gangsta rap celebrava già da anni. Seguì un terremoto, come ovvio, in un mondo bellicoso ed emotivamente esasperato come quello della black music. Ma, non me ne voglia Nas, l’hip hop non è mai morto, probabilmente non lo sarà mai: il movimento con la doppia H è un grande, vorace, immenso macrofago, che fagocita qualunque tipo di contesto musicale e artistico per riproporlo con caratteri rinnovati e peculiari.

Il pregio del rinnovamento perenne è tangibile non solo in termini artistici e concettuali, ma proprio visivamente: chi non si rinnova non esiste più. Le generazioni di rapper hanno una velocità di ricambio molto spedita e, tranne qualche nome veramente grosso, è difficile cavalcare l’onda per più di una decina d’anni. Basta guardare il declino di un dinosauro come 50 Cent: in 10 anni è passato da 16 milioni di copie vendute a meno di 500 mila. Ecco, Eminem è sempre uguale e tiene botta, ma perché forte della base solida di ragazzetti bianchi incazzosi che negli anni non è mai diminuita. Ma i troni si stanno liberando, e nuovi re approcciano la scena. Il primo di questi è senza dubbio Kendrick Lamar, probabilmente il migliore sulla scena ora, forte di una capacità di scrittura che ha avuto pochi eguali nel passato e che rimanda alla qualità aurifera del rap anni ’90. Uno che non è mai sceso dalla vetta è di sicuro Kanye West, che della mutevolezza dei propri dischi ne ha fatto un’arte: sono infatti pochissime le analogie tra il calore old school dei primi lavori e lo scarno minimalismo elettronico del suo ultimo LP Yeezus, così fuori da ogni logica di genere da essere a stento considerabile come rap, semmai

Non ci sarà mai un collasso così totale di stimoli da poter impedire un suo ennesimo sviluppo: semmai sta all’ascoltatore accettarlo e metabolizzarlo o rifiutarlo come un corpo estraneo. Proprio come un monumentale Giano bifronte, ciascuno di noi può stimarlo per la sua capacità di rinnovarsi radicalmente ogni 4-5 anni, scar-

NUMERO VI

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come una forma di avanguardia musicale, dove l’unico fil rouge sembra essere una rabbia mal stemperata che cavalca una serie di beats oscuri. Una delle etichette che sta attraversando un ottimo periodo di forma è l’Hellfyre Club, per la quale sono usciti gli ultimissimi lavori di milo e Open Mike Eagle, dove un flow morbido incontra basi palesemente elettroniche, condite da testi con innovativi riferimenti culturali, quali citazioni filosofiche e patogenesi di malattie autoimmuni. Tra i collettivi più prolifici quello più di rilievo è quello degli Odd Future, capitato dal giovane Tyler The Creator e supportato da alcuni dei migliori rapper emergenti, quali Earl Sweatshirt, Left Brain e Hodgy Beats: una sorta di Wu Tang Clan fissato per lo skate, le droghe e Jackass, che fa dell’ironia oscura e del politicamente scorretto il suo cavallo di battaglia. E poi ci sono Mac Miller, Run The Jewels, Young Fathers, Mick Jenkins, Clipping.. Insomma, se qualcuno è morto, forse non è l’hip hop, ma lo stesso Nas.

Per ascoltare la rubrica Solo Rumore, collegati al nostro sito! Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

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