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Numero 21- Gennaio/Febbraio 2015

Spazio frastagliato di Davide Pittioni

C’è un’immagine che segna i miei ricordi di infanzia: quella di una fabbrica in abbandono incastonata nel bel mezzo del quartiere residenziale dove abitavo. Quel capannone stilizzato era ormai accerchiato dai condomini e dalle villette a schiera che nel tempo erano state costruite e sembrava ai nostro occhi colmi di meraviglia un’entità mitica – ricordo che con un certo timore la chiamavamo semplicemente “la fabbrica”. Era ormai ridotta alla sua superficie disegnabile e seguiva le misteriose leggi di stratificazione dei murales e dei graffiti. Nel suo divenire rovina, la fabbrica tratteneva la tensione tra due segni opposti: uno interno, che mostrava la sua vita oltre la destinazione originaria, e l’altro esterno, nel rapporto come luogo inutile con il suo ambiente, come vuoto del tessuto urbano. In questa sovrapposizione di significati si poteva scorgere il sintomo delle trasformazioni di quello spazio, l’indice temporale della storia che lo aveva attraversato. La città si allargava, assorbiva ciò che le stava fuori, e nel frattempo ridisegnava i suoi confini. Si creava periferia nell’equilibrio tra il movimento di inclusione e di esclusione dello spazio, nel paradosso di un fuori che delimita il dentro. (“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”, annota Calvino nelle Città invisibili). Un movimento ininterrotto che seguiva un percorso osmotico, a tratti caotico, ma che tracciava lo spazio e lo ordinava: era una vera e propria geografia, tutt’altro che neutrale. Foucault in Sorvegliare e punire scrive: “la disciplina procede prima di tutto alla ripartizione degli individui nello

spazio”. E così potremmo pensare la città e la periferia: “diagramma del potere che agisce per mezzo di una visibilità generale. Ritroveremo a lungo, nell’urbanistica, nella costruzione delle città operaie, di ospedali, di ospizi, di prigioni, di case d’educazione, l’incastrarsi spaziale delle sorveglianze gerarchizzate”. In questa scrittura apparentemente disordinata si potevano leggere i geroglifici sociali dell’esercizio di un potere. Deleuze, a partire dalle riflessione foucaultiane, suggerisce che progressivamente “le società di controllo stanno sostituendo le società disciplinari”. Ci muoviamo ormai in uno spazio diverso, una spazio liscio, globalizzato, informatizzato. Potremmo chiamarlo mercato. Il concetto stesso di periferia si relativizza, nello spazio e nel tempo: la periferia si affaccia nel

mondo, diviene il sud del mondo, e si complica, cortocircuita gli spazi metropolitani – e le loro ripartizioni interne – con gli spazi e i confini globali. Sembra produrre, piuttosto che sostituzioni, nuove stratificazioni, nuove forme che si innestano sulle precedenti, invecchiandole, trasformandole, riqualificandole, per usare un’espressione assai di moda. Nuovi centri si formano a partire da nuove periferie: cosa sono in fondo i centri commerciali, nella loro posizione periferica, ma perfettamente centrata e autonoma? Se lo spazio si fa astratto, composto com’è dai flussi numerici di capitali, merci e informazioni, rimane tuttavia la materialità dei segni che lo trasformano, le rovine, le forze, i bisogni che lo frastagliano. Tutte quelle forme che, come graffiti su un muro, lo riscrivono continuamente.


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Periferie

Sguardi da Alcatraz,

la periferia della periferia d’Italia

A

lcatraz: un nome, un programma, verrebbe da dire. Eppure Melara, checché se ne sia detto, scritto, (s)parlato, non è questo coacervo di trafficanti, aspiranti criminali e suicidi che si vuol far credere. È un rione popolare come tanti, probabilmente molto meno difficile di tanti suoi “gemelli” sparsi in tutta Italia. Come sempre, però, l’estetica è stato lo strumento perfetto per rendere la fama e la nomea di questo quartiere degno di quella di Scampia. Un blocco unico di quattro lati – quattro ali – centrati su di un colle al limes di un quartiere residenziale, quello di Rozzol, e ora divenuto simbolo e piena realizzazione dell’edilizia popolare sul modello dell’architetto francese Le Corbusier. I primi osservatori, cinicamente, l’hanno ribattezzata Alcatraz, appunto, come la prigione inespugnabile di San Francisco, una gabbia senza uscita. Già da fuori, salendo dalla Strada per Basovizza, il complesso popolare si presenta per quello che è: un totem grigio vomitato su di un costone della periferia est dell’estrema periferia est d’Italia. Parte integrante, seppur distaccata, inscindibile ormai da Trieste, anche simbolicamente. Eppure sempre in disparte, nell’indifferenza delle chiacchiere e delle notizie. A volte anche dall’amministrazione. È questo il tragico destino della periferia e di Melara stessa. Cammino nei ballatoi dell’ala blu, la prima a destra arrivando da città da via Marchesetti. Devo incontrare un amico. Mi sento smarrito, non ho mai bazzicato più di tanto da queste parti. Non mi sento sicurissimo, eppure so benissimo che non mi potrebbe mai capitare nulla. Tuttavia è come se si fosse creata nell’immaginario del triestino, e quindi anche in me, una percezione completamente distorta di questa costola di città: qui ci vivono i reietti, gli scarti della società, gente che non può permettersi di stare nemmeno a San Giacomo o a Baiamonti. Ipse dixit. È come se, sotto sotto, ci fosse un non so che di esotico in questi silenzi che rimbombano tra le pareti di cartongesso. Più che ai Caraibi, però, mi sento proiettato in una landa afghana, ma percepisco qualco-

sa di estraneo, diverso. Incontro un ragazzo, un po’ sbriso, che sta facendo scorrazzare il suo cucciolo di rottweiler nel giardinetto: “Scusime, per via Pasteur 24?”. “Che ala xé, la rossa?”. “Sì, doveria eser la rossa.” “Ciò, stago Melara da 25 ani e no savesi gnanche come spiegarte... qua xe tuto un labirinto, no se capissi mai dove che te son. Scusime sa. ‘dio”. La sua sensazione è la mia: camminando su questi nastri di linoleum nero sembra davvero di essere in un dedalo senza una chiara via d’uscita, dove ascensori, portoni, corridoi si susseguono in un tourbillon continuo, ma con un ordine geometrico ben definito, un’uniformità piatta dove tutto è uguale. La messa in pratica del paradosso di Escher. Il “quadrilatero”, appunto, esaltazione della perfezione geometrica, dell’ordine e della pulizia. Le quattro ali, contrassegnate dai contorni colorate alle finestre, marchiano definitivamente l’identità dei melarini, già marcata di per sé. “Ah, l’ala rossa... Sì sì, no passo quasi mai de là sa”. “No xe problemi qua sa, ma de sera xe meio no star là de la piazeta de l’ala giala... Conosso un do de lori che no me piaxi”. Un orgoglio, il loro, di abitare in questo simbolo di degrado sociale ed estetico. No, umano no, non vi è nulla di più degradante di quanto non ci sia nei nostri bei salotti del centro il sabato sera. Tuttavia questa quadricromia così sbiadita sancisce una ghettizzazione nella ghettizzazione, forgia un’identità malata nata per reazione a una città che ha escluso, allontanato, dimenticato i propri concittadini. Curioso come anche altri complessi urbanistici popolari triestini – le Case Rosse di Valmaura e i Puffi di Borgo San Sergio, altro rione nato con l’idea di essere un “villaggio indipendente” dalla città – richiamino nell’estetica questa forte identificazione centrata sul colore, quasi a voler evidenziare in maniera chiara e visibilmente impattante la differenza sostanziale tra chi è destinato a vivere lì e chi nel resto della città. Oramai da tempo Melara è dotata di numerosi servizi: farmacia, posta, supercoop, sportelli sociali, ricreatorio, associazioni sportive, assistenza.

di Lorenzo Natural

Un piccolo mondo che potrebbe sostenersi in maniera autosufficiente: questo lo scopo degli architetti che l’han progettato. Ma proprio dietro a questa apparente buona intenzione si nasconde la diabolicità del piano: non serve che i melarini escano da Melara, qui hanno tutto ciò che serve loro. In un documentario del 2006 realizzato da Rodolfo Bisatti sul complesso popolare di Melara (disponibile al link vimeo. com/44088216), l’autore cerca di trasmettere il messaggio della trasformazione della zona da “quadrilatero a paese”. E se nelle intenzioni dei volontari e dei servizi sociali di rendere più vivibile il quartiere non c’è nulla di male, non si può non sottolineare che, d’altra parte, questa indipendenza tende più ad assumere i contorni di una forzata ghettizzazione. Paradigmatica, come raccontato nel video, di questo sentore è stata la volontà – simbolica – di posizionare il campo giochi all’esterno del quadrilatero in modo che i bambini del quartiere possano incontrarsi con quelli delle zone limitrofe a cavallo tra questi due mondi che qualcuno vorrebbe lontani e privi di scambi osmotici, ma che non hanno ormai nessun tipo di distanza, se non appunto di immaginario. Se si ha la fortuna di stare ai piani alti, la vista da Melara è splendida, ma l’orizzonte sembra ancora più malinconico a vederlo da qui, da questo moloch di cemento grigio, colorato solo sugli infissi delle finestre e, più a fondo, nelle menti di chi ci vive. Dai ballatoi dell’ala verde il sole taglia il vetro degli oblò e riflette sui pavimenti la polvere sollevata da un ragazzino che gioca a muro col suo pallone. Il mare entra pervasivo, ma non si fa toccare, si rende sfuggente. Come una barca, le ali resistono alla marea. Gli occhi subitaneamente si perdono alla vista di un fumo bianco che si alza da un’altra parte di periferia triestina, più a sud. Perlomeno qui l’aria è gelida, pulita. L’orizzonte vasto resta desiderato, ma irraggiungibile. La percezione di Trieste, da qui, è distorta, perché la si guarda, finalmente, da fuori. Trieste, in effetti, è diversa da qui. L’Italia pure è diversa dalla periferia della sua ultima, estrema periferia.


Periferie

L’altro volto dell’Ilva

Giuliano Pavone a Trieste per presentare il libro “Venditori di fumo”

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i può essere periferia nei confronti di una città, ma anche riguardo a un Paese. Il quartiere Tamburi è forse entrambe le cose: periferia di Taranto, città che è a sua volta periferia d’Italia. Geograficamente: poiché sta fuori, ai margini, quotidianamente dimenticata, e menzionata solo all’occorrenza, quando c’è bisogno che sia ricordata per poter legittimare decisioni altrimenti ingiustificabili. Politicamente: costretta a subire la volontà di un potere percepito come distante, che agisce al di là di ogni legge (anche di quella promulgata da se medesimo), senza alcuna apparente possibilità di potervisi opporre. La storia raccontata da Venditori di fumo, l’ultimo libro di Giuliano Pavone pubblicato per Barney Edizioni lo scorso novembre, è – come si può intuire – quella dell’Ilva. La prospettiva adottata per affrontare l’argomento è di ampio respiro: l’unica in grado di permettere una comprensione della vicenda che non sia superficiale o semplificata. Nel corso del libro si parla ovviamente dell’inquinamento dell’impianto e delle vicende giudiziarie in cui sono stati (e sono tuttora) coinvolti dirigenti, proprietari e politici conniventi; ma non solo: la questione è anche sociale, economica, culturale. Per comprendere come mai un operaio accetti di lavorare al costo di compromettere la propria salute, bisogna considerare la storia del capoluogo pugliese, i dati sulla disoccupazione, finanche la psicologia di quel particolarissimo popolo costituito dai tarantini, che Giuliano Pavone conosce bene, poiché a Taranto è nato e cresciuto. “Vendere fumo. In due parole la sintesi di una storia di inquinamento determinato da logiche di profitto”, scrive l’autore. Il profitto è ricavato non solo sulle spalle degli

operai, ma anche su quelle di tutti i tarantini, obbligati a respirare la stessa aria e ad ammalarsi di tumore e altri disturbi respiratori. Ma il fumo a cui si fa riferimento nel titolo, contrariamente alle aspettative, non è solo quello che proviene dalle ciminiere dell’impianto siderurgico, ma “anche quella cortina di disinformazione e connivenze che l’ha reso invisibile fino a oggi, permettendogli di propagarsi e fare danni così a lungo. Nascondere il fumo con altro fumo”. La coltre di nebbia sembra convenire a tutti: agli industriali, che in tal modo possono agire indisturbati; a politici e sindacati, poiché possono mostrarsi come i più strenui difensori del “diritto al lavoro”; ai media, che così possono godere delle pubblicità ben retribuite dei padroni dell’Ilva. Dalle categorie sopra menzionate rimangono però esclusi coloro che di tutta la storia respirano solamente il fumo ‘passivo’, ovvero i tarantini: lavoratori e abitanti. Perché – tiene a precisare Giuliano Pavone – l’opposizione tra queste due categorie, oltre a essere stata ingigantita e strumentalizzata da politici e media, nei fatti non ha alcun motivo di sussistere: nel periodo 1998-2008, “si stima un totale di 114 decessi e 329 ricoveri fra i lavoratori del settore siderurgico attribuibili alla condizione lavorativa”; mentre fra gli abitanti – negli anni 1998-2010

di Stefano Tieri

– “sono 386 i morti attribuibili alle polveri sottili di origine industriale”. La malattia, esattamente come la morte, quando deve colpire non guarda in faccia a nessuno: tra i casi di tumore maligno attribuibili alle emissioni industriali negli anni considerati, 17 sono stati diagnosticati a bambini. Davanti a una situazione simile, non c’è “ricatto occupazionale” che tenga. Specie se, come in questo caso, si tratta di una formula mistificata: se al momento non sembra esserci alternativa lavorativa al siderurgico, questo lo si deve proprio alla presenza stessa del siderurgico e all’inquinamento di aria, acqua e suoli. “Chi si ricorda – oggi che anche le cozze sono state sfrattate dalla laguna – le ostriche coltivate in Mar Piccolo? Chi ha mai semplicemente sentito parlare del bisso, fibra tessile di pregio ricavata dalla cozza pinna, la cui lavorazione […] era una prerogativa quasi esclusiva del Tarantino? Chi sa che alla fine dell’Ottocnto a Taranto c’erano centinaia di telai in cui si lavoravano il cotone e la felpa?” Altre Taranto si disvelano così agli occhi di chi ha conosciuto la città solo dopo l’imposizione della “dittatura dell’acciaio”, cambiandone la fisionomia e le abitudini, cancellandone la memoria, in nome del lavoro e di un ‘benessere’ collettivo che solo a distanza di anni ha dimostrato il suo vero volto.

Giuliano Pavone,

giornalista e scrittore, è nato a Taranto nel 1970 e dal 1988 vive a Milano, dove ha studiato Scienze Politiche laureandosi nel 1994. L’autore sarà presente a Trieste per presentare “Venditori di fumo”: l’evento, organizzato da Charta Sporca in collaborazione con la libreria In der Tat e con l’associazione ambientalista NoSmog, si terrà mercoledì 18 febbraio (non a caso il mercoledì delle ceneri) nell’aula magna dell’ex dipartimento di Traduttori e Interpreti, in via Filzi 14, dalle ore 17.30.

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Periferie

Sulla banlieue, Charlie e altre cose che non passano alla televisione di Piero Rosso

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a strage di Charlie Hebdo è un’occasione per parlare di tante altre cose. Ci permette di dire che Parigi è un rapporto, prima che una città, tra il visibile e l’invisibile. Qui non ci si confonde mai: il Boulevard Périphérique dice chiaramente al Centro di stare al centro e al resto di starne fuori. Costruito sulla traccia delle vecchie mura di Parigi a confine della città, esso è ancora una muraglia che permette di passare ma non di rimanere, che ripete in continuazione il gioco del dentro e del fuori – e dunque dell’essere o non essere. La strage di Charlie Hebdo ci fa pensare proprio al verbo essere: un attentato nell’11° arrondissement non costituisce un colpo diretto ai beaux quartiers, ma è pur sempre un attacco – il cui arrivo è stato invisibile – sferrato al cuore di una città che non ha occhi per l’esterno. È stato un movimento interessante, quello degli stragisti: prima dentro al Périphérique, poi di nuovo fuori. Seguendo questa oscillazione le sparatorie sono state trascinate in banlieue e lì si sono consumate, mentre Parigi, pian piano, ha ripreso controllo del proprio sguardo, dopo essere stata forzata a vedere ciò che ha sempre rifiutato. Le nostre televisioni ci hanno inviato più immagini delle manifestazioni che degli scontri; il video del poliziotto, freddato sul marciapiede così velocemente da sembrare una finzione, non è stato trasmesso con la stessa forza e la reazione della gente scesa in piazza per la marche du siècle è riuscita in ogni caso a calmare lo choc visivo. La sera della prima sparatoria sono andato a République, dove era stata indet-

to un assembramento a supporto delle prime vittime; dopo aver fatto la fila per uscire dalla metro, tanta era la gente, mi sono ritrovato in una marea silenziosa, migliaia di persone ogni tanto rispondevano ai boati d’applauso scoppiati dall’altra parte di quella grande vasca di carne. La statua di Marianne, come in tutte le manifestazioni parigine, era stata scalata da alcuni dimostranti che esponevano con rabbia la frase Je suis Charlie su dei pezzi di cartone colorati in fretta a pennarello, poco prima che il font che tutti conosciamo si affermasse mondialmente. In basso, come a formarne il controcanto, stava la stessa scritta, composta da centinaia di candeline che una ragazza doveva continuare a riaccendere per colpa del vento. Tutta Parigi dentro una piazza per la libertà d’espressione, si dice. Un uomo parla con il suo vicino: “Sono contento, stiamo mostrando il meglio di noi, non il peggio” e finché resto lì, la manifestazione rimane una bellissima dimostrazione d’affetto. Poco prima di andare via, però, sento una signora al telefono dire: “E i musulmani, dove sono i musulmani? Dovrebbero scendere in piazza per prendere posizione contro il terrorismo!”, un’idea, questa, che si è sentita spesso nei giorni successivi. Dove sono i musulmani? Sempre là, a dieci minuti dalla piazza, a Barbès, alla Goutte d’or, a Menilmontant, ma anche nei quartieri centrali, e ce ne sono tanti, ma tanti, proprio al di fuori dal Périphérique, ma come vederli? Invisibili, adesso li si invoca, perché lo sguardo è sempre una questione di convenienza. Ad averli visti davvero, non esisterebbe un discorso che associa l’Islam al terrorismo, non si

parlerebbe delle “zone buie” della città in cui gli occidentali non dovrebbero mettere piede. Eppure, le barriere visive sembrano essere aumentate in queste ultime settimane; Parigi è sotto la protezione del servizio Vigipirate; uomini vestiti con un cappotto lungo e un po’ malandato stazionano al cancello dell’università, una volta spalancato e ora semichiuso, ci chiedono di vedere la tessera studenti e di aprire la borsa per ispezionarne il contenuto; molto spesso non ci guardano nemmeno. La stessa scena si ripete all’entrata dei grandi magazzini e dei supermercati. Eccolo, l’effetto di controllo: la città ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto e ora nuove barriere – finte, sottili, facilmente penetrabili – sono state messe in piedi: contro il terrorismo internazionale molte porte secondarie sono state chiuse con un nastrino bianco e rosso, di nylon; alla metropolitana, dove ogni giorno viaggiano migliaia di persone, si accede liberamente, mentre, davanti ad alcuni edifici, enormi fucili sono imbracciati con gesti plateali da militari e poliziotti. Ora come non mai si riproduce il discorso del dentro e del fuori, e se non è vero che tutta questa mobilitazione per la libertà di stampa è da buttare, bisogna almeno considerare i valori di verità che ha imposto. Io sono Charlie, infatti, sembra l’insistente risposta alla domanda che ci rincorre sin dalla caduta dei grandi sistemi: Qui suis-je? (Chi sono?). Nessun parigino si è attardato al lavoro, fuori ancora buio pesto, per comprare l’eccezionale numero post-mortem del giornale satirico allo scopo di rispondervi. Al prezzo di una marcia, di un po’ di tristezza e di tre euro ci siamo assicurati un pezzetto di identità e l’abbiamo messa in tasca, affermando ancora una volta che io c’ero, mentre i musulmani non si sono fatti vedere. Sembra che nella foga di rispondere alla domanda Chi sono? Parigi si sia dimenticata di rispondere ad altre ben più importanti. La periferia di Parigi in un certo senso non esiste proprio perché non ha avuto mai modo di rispondere a nessuna di esse.


Periferie

¡Tierra y libertad!

Verso Mondeggi Bene Comune

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a terra è di chi la lavora”, diceva la bocca di Emiliano Zapata più di un secolo fa, mentre con le mani s’impegnava a ridistribuire le terre ai loro legittimi (non) proprietari: i contadini, i lavoratori, il popolo. Con questo gesto, Zapata demercificava sia le terre che il lavoro degli uomini, rinaturalizzando le prime e riumanizzando il secondo. Ricreava, cioè, quel cordone ombelicale che unisce l’uomo alla natura, senza privatizzare ciò che è e che deve restare di tutti. Ora, cosa accade nell’epoca del neoliberismo e della privatizzazione? Cosa succede quando la terra non è più considerata un bene comune, ma una cosa tra le cose, lasciata morire o marcire in stato di abbandono pur di non sottrarle quell’etichetta identitaria che la rende sempre e ossessivamente “di qualcuno”? Due reazione possibili a tutto ciò. La prima: chinare il capo, in – eterna e vana – attesa di un contentino che arrivi dall’alto, di una distribuzione di briciole dei nostri diritti, per le quali ci stanno addestrando a dover ringraziare. E allora eccoci, tremanti come pulcini col becco protratto in attesa di ricevere un vermicello che ci sfami, gioire per un orticello comunale piazzato in mezzo a colate di cemento. Ma c’è una seconda via possibile, ed è di questa che voglio parlare. Sul territorio italiano si sono sviluppati, soprattutto nell’ultimo decennio, numerosi movimenti di resistenza contadina, organizzatisi dal basso per far fronte alla morsa dell’indifferenza istituzionale, lanciando campagne e progetti legati al cibo e alle risorse naturali. Nel 2010 nasce “Genuino Clandestino”, comunità in lotta per l’autodeterminazione alimentare contro l’equiparazione dei cibi contadini con quelli della grande e omologante industria alimentare. Per sostenere un’agricoltura biologica, legata alla territorialità e alla biodiversità, ma anche e soprattutto perché la terra torni a essere davvero un bene comune e un campo d’azione politica. Sono oltre un milione gli ettari agricoli nelle mani demaniali. Terre che molto spesso restano incolte e abbandonate. È

quello che succede, ad esempio, nel comune fiorentino di Bagno a Ripoli, dove ci sono ben 170 ettari di terra, appartenenti alla provincia di Firenze, la quale, dopo anni di mala gestione che hanno prodotto un debito di circa un milione di euro, ha optato per la vendita. Fin qui, niente di nuovo: è la solita italietta alla quale siamo ormai abituati, fatta di grandi acquisti gestiti male (e spesso in modo clientelare) e poi svenduti al migliore offerente. Ciò che invece ha disatteso le aspettative dei burocrati della terra è stata la risposta che si è autogenerata dal basso, a partire dalla rete di “Terra Bene Comune Firenze”. Studenti di Agraria, giovani precari, contadini, gasisti, Wooffers e semplici cittadini hanno dato vita alla campagna “Mondeggi Bene Comune Fattoria Senza Padroni”.

La proposta, consistente nel recupero dell’area della fattoria attraverso un lavoro collettivo dei partecipanti, ha visto un’iniziale apertura possibilista della Provincia di Firenze, che è però subito ritornata sui propri passi. Da lì è iniziato un presidio permanente del Comitato che ha, via via, ampliato le attività agricole, creando numerose occasioni di condivisione e socialità che hanno portato, il 14 ottobre, al fallimento dell’asta proposta dalla Provincia per la vendita della fattoria. È una lotta pacifica, fatta di mani che si stringono nella terra, senza bisogno che questa debba essere di qualcuno per dare i suoi frutti. È un’azione politica, della politica vera, quella che sta tra la gente, in contatto diretto con la terra, e non quella che si rinchiude nelle istituzioni, guardando dall’alto un mondo del quale non sente più odori né sapori. È una lotta che si fa arte, come quella del Teatro

di Francesca Ruina Contadino Libertario, che viaggia in tutta Italia, dal sud fino alla Valtellina, dove ho occasione di incontrarli. Emiliano Terreni, Davide Cecconi e Giovanni Pandolfini, tutti contadini, mettono in scena uno spettacolo dall’eloquente titolo “Ci dispiace, siete su una terra che non vi appartiene più”. I tre attori non recitano, vivono. E si sente. Non stanno tanto incarnando la rabbia desolante di quei contadini americani post crisi del ’29 che si vedevano espropriare le terre dalle banche e dai grandi latifondisti, ma ci stanno parlando di loro stessi. Ci stanno parlando di noi, di quello che succede oggi alle nostre terre e che passa sotto silenzio, coperto dagli schiamazzi di una politica sempre più da rotocalco. L’incontro con i piccoli produttori valtellinesi, con persone che, come loro, si battono per ritagliare un’alternativa alla sarcofagia del sistema, allarga la rete, gli scambi e, con essi, la possibilità di creare un tessuto alternativo al mainstream dell’alimentazione, ma ancor di più, al mainstream del pensiero. Per uscire da un’ottica ciecamente proprietaristica e mercificante, in cui tutto deve essere identificabile e quantificabile – merci e individui –, per smettere di masticare la plastica insapore con cui il capitalismo ci ingozza, è necessaria una resistenza che sia attiva, e non una mera constatazione passiva dello status quo. La lotta di Mondeggi dev’essere per tutti noi un richiamo all’azione, a un agire politico che non sia mera e spregiudicata difesa di interessi personali. Un richiamo a quella che Hanna Arendt chiamava “vita activa”, il “bios politikos” aristotelico, possibile solo se si accetta la dimensione plurale dell’esistenza umana, contro ogni violenza omologante. “La pluralità è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà”, scriveva la Arendt. Mondeggi ci ricorda che la politica siamo noi, con le nostre azioni di ogni giorno, e non una grande narrazione che scende dall’alto e che non ci compete. Ci ricorda che la terra è nostra, di ciascuno di noi in quanto umanità diversificata e non in quanto singolarità nominale.

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Shapes of increase - Orizzonti urbani della Cina di Alberto Zanardo (Maggio 2013)


Terza Pagina Unitè d’habitation

Una inveterata e non pacifica consuetudine con me stesso mi andava persuadendo, recentemente, della mia esistenza; se pure questo assunto ha un suo umoristico valore nella illusiva prassi quotidiana, perde ogni plausibilità in questo luogo. Non mi si sventoli a mo’ di prova il fraudolento abuso di spazio che il mio corpo sembra esercitare: le geometrie gelide che mi sovrastano escludono palesemente qualsivoglia spazio umano, o anche solo antropomorfo. Qui (ma è lecito che un’opinione abiti un qui? davvero sono a Rozzol Melara?), sotto un cielo coerente, il mondo è inscatolato e imballato diligentemente fra vari toni di grigio, e dotato di maneggevoli indicazioni, relative, penso, alla data di scadenza. In questa bigia unanimità, pare che l’unico tipo di esistenza concessami sia appunto quella di ombra, di sfumatura. Non posso nascondere che questa sommessa esistenza tonale, conforme al mio riserbo, nonché a una innata inclinazione al dileguo, mi sia congeniale; tanto più che la sua natura umbratile mi permette di scivolare, non visto, tra gli anfratti di questo allegorico quadrilatero, apprezzarne la consanguineità che ci lega, farmi ombra tra le ombre. Da questa prospettiva, appollaiato a perpendicolo su ciclopiche antenne, il collo torto, gli occhi ovviamente rovesciati dentro le orbite, riesco finalmente a significare quest’universo solo blandamente euclidèo, approvarne le laboriose e aguzze inutilità, gli enigmatici parallelepipedi che bucano la nebbia, qua e là. Sagoma ignara di sole, mi allungo tra altalene deserte e muri di trenta metri, ormai attributo o proposizione del grigio, parente prossimo del calcestruzzo, per quanto non possa disconoscere del tutto la mia antica frequentazione dei colori. Per chi si dà tanta regale obsolescenza? Capziosi delatori la vorrebbero popolata da duemilacinquecento presenze, i cui rapporti sociali reciproci sarebbero descritti e commentati - oh, Le Corbusier! - da emicicli raggiati e oblò,

inserto letterario

ammiccanti al niente della corte. Balle, ovviamente. Le sproporzioni del cinereo reame, la cui effettiva contiguità alla città adriatica che lo tange è assai dubbia, escludono inquilini che non siano puramente retorici; partecipano piuttosto del titanico e del ciclopico, lo affratellano a olimpi declassati e anni ottanta, lo smascherano recinto sacro partorito dalle viscere dell’altipiano, témenos di bizzosi dèi carsici. La supposizione è avvalorata dai pochi fantasmi che attraversano i corridoi, misteriosamente gommati. Con tremore, con letizia, li riconosco miei fratelli in grigio, compagni d’ombra, al pari di me periferici di professione. Al passaggio, ci scambiamo cenni distratti, allusivi. Di nascita e cultura periferica, siamo consci di portare con noi, ovunque si vada, rozzolmelara elzaidin santamariadipisa zen harlem levele, la distanza, la differenza, la periferia di un centro che non è in nessun luogo. Intuisco, dai suoi socio-funzionali recessi, che questa particolare forma dell’assurdo altro non sia che il parto abnorme di una tensione, di una periferia che ambisce a farsi centro; ambizione superflua, e oltremodo risibile. Noi lèmuri, adepti del grigio, sappiamo che non c’è scampo dall’altrove; sappiamo di esercitare da sempre, furbescamente ammantati di subalternità, una tirannide segreta sul mondo. Forse, il nostro compito è quello di preservare lo sfacelo, accudirlo, come zelanti angeli della fine; le modalità di liquidazione sono da decifrare nei graffiti, nei cocci di vetro, nei saloni di parrucchiere abbandonati, predicati di un futuro laconicamente privo di capigliature da acconciare. (Ma perché una sciarpa arcobaleno continua a danzarmi davanti? non sa che la sua presenza è impossibile? oppure se ne frega?) Sospetto, pavento, contemplando il mortuario crittogramma, di non muovermi come banale spettro in un luogo del mondo ma che del mondo, questa immane cattedrale della cenere, non sia altro che la suprema Scatola, l’apocalittica Confezione, da consumarsi preferibilmente entro il.

Andrea Piras


Il sorriso di Buddha

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all’ampia terrazza dell’ostello Terra Brasilis, il Centro si distende alla vista in tutto il suo splendore moderno: la Catedral Metropolitana de São Sebastião cattura lo sguardo con la sua forma tozza e possente di piramide, avvisando che da lì in poi inizia il suo regno, la Cinelândia, tutta una costellazione di grattacieli di vetro, lucidi o a giochi di scacchi, di teatri, di musei nazionali, fino al porto e alla stazione degli autobus. Quello che il Centro non vuole esibire, vuole nascondere con quella distanza, sono alcuni vicoli squallidi e luridi, qualche edificio diroccato dagli intonaci scrostati, persiane a brandelli e fregi dinoccolati nel loro sfaldarsi. Tutto questo universo di decadenza malamente celato in altre zone della città, motivo di vergogna quasi, Lapa lo ha accettato dall’inizio (o almeno questo è un pensiero), puntando su di esso fino a renderlo un aspetto affascinante ed essenziale nel suo essere movida per tutti i gusti: il locale elegante, il bar sportivo, le innumerevoli discoteche lungo av. Mem de Sá, si perdono in vicoli e locali sempre più gretti e oscuri, ma dai quali non si rifugge con sdegno, anzi. Seguendo gli Arcos da Lapa e lasciandosi il Centro alle spalle, incamminandosi idealmente verso il quartiere di Santa Teresa, gli schiamazzi non possono che portare in via Manuel Carneiro. Gli Arcos, prima di confondersi nelle pendici della collina trasferendo i suoi binari in qualche vicolo acciottolato, si fanno impianto scenografico a due mosaici dove la scritta Lapa troneggia, rendendosi toilette di lusso per i numerosi ubriachi. Proseguendo, infine, si raggiunge la celebre Scalinata Selarón. La fatiscenza, impreziosita

da locali pittoreschi e colori brillanti, diventa fascino. Questa è Lapa, fra il Centro e Santa Teresa, tra il quartiere degli affari, delle banche, dei musei e quello residenziale, tranquillo, discreto; un torrente di luci e vociare. O almeno tale era nell’estate 2014. Spense la sigaretta. Era rimasto il solo turista ad occupare i divani della terrazza. Il non affascinante signore (o particolarmente brutta signora, ancora non l’aveva capito) che si occupava delle pulizie ridacchiava tra sé catturato dagli auricolari e un piccolo schermo. Niente da fare, se voleva anche lui divertirsi, o quantomeno svagarsi, doveva uscire. Si vestì lentamente e con cura, salutò l’essere ridente, tondeggiante e sereno come un piccolo Buddha sudamericano, asessuato – per ora – come un Dio occidentale, che tutto preso nel suo candore divino salutò con un gesto di indifferente benedizione. Uscì in Rua Murtinho Nobre, le bougainville ciondolavano radenti i muri scrostati dei giardini, l’umidità permeava ogni spora di notte. Decise di non cimentarsi nella scoscesa Ladeira de Santa Teresa e proseguì nella direzione opposta per Rua Dias de Barros. Camminava con le mani in tasca, affacciandosi ogni tanto a un muretto dal quale si scorgeva parte del Centro, Saúde e Gamboa, godendosi il digradare dolce della vegetazione e le prime case prima della ressa di luci. Superò il murale “queremos o nosso bonde” dove Neymar Jr., David Luiz, Hulk, Julio Cesar, Oscar, Fred e gli altri giocatori della nazionale brasiliana viaggiavano vittoriosi sul tram giallo che, appunto, il quartiere rivendicava e voleva in funzione. La strada si allargava formando una piazzetta da cui si diramavano altre piccole strade e un paio di bar si affacciavano, modestamente affollati da


giovani e signori intenti a chiacchierare di calcio e altro. Entrò nel primo e ordinò un paio di birre, nascondendosi in un angolo e osservando la clientela vociante. Uscì: per ora il piccolo Buddha si divertiva sicuramente più di lui. Il segreto di tanta serenità doveva essere probabilmente legato a qualche tarlo interiore, chi ne ha e chi no, chi si lascia confondere dal suo lavorio e chi sa zittirlo, magari passandoci sopra con l’aiuto di un paio di cuffiette. Mentre pensava queste cose seduto alla pensilina, notò che poco sopra la piazzetta, da un cortile, giungevano le note di musica locale suonata dal vivo. Una cosa vale l’altra, – pensò – che io stia a pensarmi addosso qui o lì non fa alcuna differenza, se non che lì l’ambiente sembra più interessante. Si incamminò verso quel cortile, all’entrata un paio di ragazzi vendevano i biglietti per entrare. Lo guardarono male, lui, da solo, impacciato nel suo essere straniero; accettarono i suoi soldi accennando un sorriso leggermente imbarazzato. Salì la piccola scalinata che portava al locale, capì l’imbarazzo dei ragazzi di sotto quando vide che sotto un porticato addobbato con qualche telo colorato uno stuolo di coppiette danzava ridente mentre la piccola band suonava in un angolo: cantante con tamburello, chitarrista, violoncellista e... non capiva cosa fosse il quarto strumento. Approfittò della zona “sfiniti” per confondersi il più possibile e non farsi vedere lì, solo e spaesato. Accese una sigaretta. Lì dov’era poteva benissimo essere confuso per il compagno di quella ragazza imbronciata sedutagli accanto. Sì, sicuramente qualcuno li avrebbe potuti prendere per una coppia appena entrata in crisi, solita storia: lei vuole che lui la porti a ballare, lui che non sa ballare e non gliene frega nulla di imparare (del resto, amore, non sei neppure così bella da giustificare un qualunque mio sforzo in questa direzione) ma lei ci tiene così tanto che lui accetta comunque, sa che non si divertirà e così è e finisce che nemmeno lei si diverte. “Buon rientro a casa, piccioncini, ancora meglio se me ne torno a casa da solo e tu pure, ti dirò. Anzi, per darti pure quest’ultima botta – col cazzo che ci volevo venire io qui – mi prendo una birra e faccio lo stronzo ignorante cafone, che lo stesso da stasera non ci parliamo più”. L’aveva pensata così bene che quasi finì col crederci. Si allontanò da quella sedia e da quella ragazza (ma sì, brava, fai pure finta di non accorgerti che vado al bancone, come fosse già finita tra noi... dopo ne parliamo e vedi come che ne parliamo... io, intanto, ho dalla mia la solidarietà e il rispetto di tutti i maschi qua dentro, io i cojones di dirti “col cazzo che imparo a ballare” li ho avuti... fate largo, buddies, e piano con le pacche sulle spalle che mi rovinate la giacca di pelle) e raggiunse la cassa. Ci aveva provato, a divertirsi, non gli era andata così

bene e si era pure lasciato con la ragazza, e dire che avevano passato dei gran bei momenti. “Autoironia, baby, è così che si va avanti nella vita, altrimenti uno è bello che spacciato dall’inizio. – recitò fra sé e sé sedendosi qualche sedia più in là – Domani questi qui parleranno del tipo che è venuto da solo a una serata di coppie che ballano o di quello che ha litigato con la sua fidanzata a inizio serata, o ancora meglio di quello che si è fatto tre birre da mezzo nel giro di mezz’ora e adesso sembra uno straccio, altro che Buddha. Ma io intanto li ho coglionati, ‘sti fessi, tutti quanti... mi son divertito alle loro spalle... e un poco anche alle tue. Sì, sono uno stronzo, baby, ma è così che si va avanti nella vita, uno stronzo col dono dell’autoironia è un eletto, bellezza. Ma tu nemmeno mi ascolti, va, va, ecco che arriva il tuo vero ragazzo. Fatti due domande su dove è stato finora. Ora sorridi, eh? Va beh, buon per te. Vorrei dire che è stato bello stare con te questi cinque minuti ma non è vero, mi hai fatto venire in questo cazzo di posto e non so neanche ballare, io, prossima volta col cazzo, resto a casa col piccolo Buddha in terrazzo...” La musica continuava a scorrere intorno, la gente ballava, la ragazza vicino la quale si era seduto poco prima era stata invitata a danzare. Sorrise catturato dal suo delirio interno, per la sua recitazione da maestro. “Virginia Woolf mi fa una pippa a me, dammi due birre e vedi che stream of consciousness ti tiro... ma sono stanco ormai. Anche la Woolf doveva sentirsi così dopo aver scritto tutte quelle chiacchiere, anche Joyce, anche Ulisse. Sarà ora che ce ne andiamo a letto, che dici? Di’ ciao ai tuoi amici qua. Ciao, ragazzi, un bacione, siete stati dei grandi... e vaffanculo”. Tornò lemme lemme all’ostello, ciondolando per la via ormai deserta. Era uscito; quantomeno poteva dire di essere uscito, aver bevuto qualcosa, aver ascoltato della buona musica, essere stato in buona compagnia di se stesso per una volta. Le chiavi entrarono nella serratura con uno sfregamento metallico, la porta si aprì lentamente. Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto e si diresse in terrazzo. Il Centro era sempre là davanti con le sue luci e il vociare che saliva da Lapa, soltanto l’omino non c’era più, scomparso assieme a schermo e cuffiette. “Anche i Buddha ogni tanto hanno riso abbastanza e se ne vanno a dormire... ora vacci anche tu” pensò.

Ettore Spada


In treno Fendo la fosca bruma indifferente, con la sinfonia d’una spenta carcassa d’acciaio e luminoso ingegno, uniti da un’impari fratellanza che non durerà; Dai vetri infradiciati di nauseante luce bianchiccia sparuti cocci di mondo sobbalzano agli occhi già esausti: E già mi pare di essere a bordo da sempre, di essere stato partorito dal treno, da effluvi di ammonia intrecciati ai tratti sinuosi di sue ospiti amene, E che la mia vita si compia da ere nel suo gelido grembo di lamiere, mentre corre il suo ventre su aride zolle di terra distante, eterea, come sospesa tra gli astri morenti d’una galassia antichissima, Stanca di roteare senza apparente ragione, e che prega incessante di esser inghiottita, d’accartocciarsi nella notte, come suo figlio che corre, figlio d’acciaio e d’ingegno, che non durerà.

Taldesardus Gales

In biblioteca (a F.) Certo fu per fare dispetto all’abitudine quando alzammo gli occhi dallo studio (un quaderno di latino con una bestia da circo in copertina; due esercizi d’algebra che di lineare hanno solo le righe e esile una raccolta di un poeta che si diede la morte per disamore). E incrociammo nel nostro sguardo un intrepido assenso e tutto lo stupore (nostalgico già di un incontro a sera) che trovano due sconosciuti nel piacersi. Adesso che ci conosciamo un poco di più nulla di eclatante è accaduto e tu sei lì con la tua ambizione e ti fai una ragione di qualche voglia del momento (casomai ti passasse una nuvola per la testa la stai a guardare come chi guarda a notte la porta socchiusa da cui sfugga una musica di sax e il fumo di una sigaretta incallita... “...Oh, my funny Valentine”) Forse ti ricorderai di questi versi mentre su te sola piegata nello specchio curerai le tue labbra con un tocco unico di rossetto per somigliare una dimenticata diva del cinema che beve i caffè migliori della città e ascolta languidamente all’ombra della pioggia l’ennesimo petulante che le sussurra all’orecchio. O forse li scorderai per malumore mentre i telegiornali continueranno l’ultima notizia a sciorinare assiduamente ma tu sarai lontana come un enigma e non basterà un bacio a decifrarti assorta come un cielo da macchina da presa avrai in un filo di voce la battuta che segna per qualcuno l’uscita di scena. 8-10.IX.2014

A. Da Baciocchi


?

“Magnifico”*

Dialogo tra Adam e Ratatoskr sul Natale e su altre feste

di Solivagus Rima

srsolivagus@gmail.com

“G

uardami in faccia i miei occhi parlano e tu dovresti ascoltarli un po’ più spesso…”

R. – “Ma tu chi diamine sei?” A. – “Sono Adam, il protagonista del film Upside Down (2012). Vivo nel Mondo di Sotto, fra povertà e miseria. E tu chi sei?” R. – “Mai visto ‘sto film! Io sono Ratatoskr, uno scoiattolo; rappresento “la velocità” nella mitologia norrena, permetto l’antagonismo fra bene e male. Senti, ma cosa ne pensi dell’amore?” A. – “L’amore è qualcosa di indefinito e indescrivibile. È un ascoltarsi, un comprendersi; è vivere negli occhi di qualcun altro. L’amore è perfezione, è unione di più mondi differenti”. R. - “Cazzate! L’amore è consumismo! Non sopporto l’amore in ogni sua forma, soprattutto quando è presente nelle feste. Odio le feste! Le odio!” A. – “Non è assolutamente vero che l’amore è consumismo! Le feste sono come il nettare rosa delle api del mio Mondo, le quali aleggiano sui tetti della società. Il Natale ad esempio, fra i vari esempi di festa che si possono fare, è solo armonia, è un modo di rendersi altruisti e amare i propri cari e il prossimo”. “Parliamo allo stesso modo ma con diversi argomenti, siamo nello stesso hotel ma con due viste differenti…” R. – “Ma dai, non essere ridicolo! Il Natale cade il 25 di dicembre, è una data importante… lo ammetto. Ora ti spiegherò un po’ di cose. Sono pigro, sono solo Ratatoskr… quindi mi sa tanto che citerò Wikipedia come mia unica fonte; tanto per quello che devo dire è più che sufficiente, caro mio! Innanzitutto, come molti ormai sanno, il 25 dicembre è il giorno della nascita del dio persiano, ellenistico e romano Mitra, avvenuta, secondo il culto mitraico, nell’anno 1200 a.C. Inoltre, il Natale sostituisce la celebrazione romana del Sol Invictus. Originariamente Babbo Natale era vestito di verde. Sarebbe divenuto rosso solo dopo che la White Rock lo vestì di rosso e di bianco per la vendita di acqua minerale nel 1915 e per la vendita di ginger ale nel 1923. Ancor prima di queste pubblicità, la figura di Babbo Natale apparve

vestita di rosso e bianco in alcune copertine del periodico umoristico statunitense Puck.” RIFLETTI SU CHI È SOLO A FESTEGGIARE IL NATALE, MENTRE TUTTI GLI ALTRI SONO IN COMPAGNIA. “Non esiste prospettiva senza due punti di vista…” R. – “Inoltre: la Festa della donna in realtà è estremamente “politica” ed ora si è persa quasi totalmente la memoria storica delle sue reali origini. Nel secondo dopoguerra, cominciarono a circolare fantasiose versioni della storia, secondo le quali l’8 marzo avrebbe ricordato la morte di centinaia di operaie nel rogo di una inesistente fabbrica di camicie (Cotton) avvenuto nel 1908 a New York, facendo probabilmente confusione con una tragedia realmente verificatasi in quella città il 25 marzo 1911, l’incendio della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori (123 donne e 23 uomini).” HA SENSO CELEBRARE LA DONNA SOLO UN GIORNO? PECHÈ LO FACCIAMO SENZA SAPERNE IL MOTIVO? “È possibile abbia sogni sbagliati, un po’ illusi al momento…” R. – “So che la ricorrenza di san Valentino ha sostituito in epoca cristiana i Lupercalia romani, celebrati il 15 febbraio; questi riti erano però dedicati alla fertilità e non all’amore romantico. Nel 496 papa Gelasio I dedicò il 14 febbraio al santo e martire Valentino, presumibilmente anche con lo scopo di rendere cristiana la festività romana. Sebbene la figura di san Valentino sia nota anche per il messaggio di amore portato da questo santo, l’associazione specifica con l’amore romantico e gli innamorati è quasi sicuramente posteriore, e la questione della sua origine è molto controversa. Secondo alcuni potrebbe essere questa: a metà di febbraio si riscontrano i primi segni di risveglio della natura e nel Medioevo, soprattutto in Inghilterra e Francia, si riteneva che in quella data iniziasse l’accoppiamento degli uccelli e quindi l’evento si prestava a considerare questa la festa degl’innamorati”. È NECESSARIO IL 14 FEBBRARIO PER CELEBRARE L’AMORE DI COPPIA? E CHI

È SOLO? CHI PENSA A CHI È SOLO? “E io devo smettere di cercare le scarpe nel frigorifero…” R. – “31 ottobre! La parola Halloween rappresenta una variante scozzese del nome AllHallows-Eve, la notte prima di Ognissanti (1 novembre). Fare “dolcetto o scherzetto” è un’usanza della notte di Halloween, quando i bambini girano travestiti andando di casa in casa a chiedere dolci e caramelle. Quindi, pongono agli inquilini delle case la famosa domanda “Dolcetto o scherzetto?”. La parola “scherzetto” è la traduzione dall’inglese “trick”, una sorta di minaccia di fare danni ai padroni di casa o alla loro proprietà se non viene dato alcun “dolcetto” (“treat”). Ma “Trick or treat” (“dolcetto o scherzetto”) in realtà significa anche “sacrificio o maledizione”. La pratica del travestirsi risale al Medioevo e si rifà alla pratica dell’elemosina, quando la gente povera andava porta a porta a Ognissanti e riceveva cibo in cambio di preghiere per i defunti il giorno della commemorazione dei morti (il 2 novembre). Questa usanza nacque in Gran Bretagna e in Irlanda, anche se pratiche simili per le anime dei morti siano state ritrovate anche nell’Italia meridionale”. NON È FORSE CONTRADDITTORIO CELEBRARE IN QUESTO MODO LA MORTE DA PARTE DI COLORO I QUALI PIANGONO UN LORO CARO MORTO? “Fuori è magnifico, fuori tutto è magnifico…” A. – “Ognuno pensi quello che vuole, ma io rimango convinto che le feste siano importanti per la celebrazione dell’amore! Forse nel 2015 si potrebbe pensare di personalizzarle un po’ di più… in modo che ogni persona festeggi quello che desidera quando lo desidera!” R. – “A questo punto basta! Voglio una festa pure per me… smettiamola con queste farse (per lo più consumistiche)! Aboliamo tutte le suddette feste!! Scambiatevi tutti un bacio, poi datevi un pugno… celebrate tutti me, Ratatoskr.” *“Magnifico”: singolo del rapper italiano Fedez cantato con Francesca Michielin.

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Cinema

Francesco Rosi “Il cinematografo va oltre, va molto oltre”

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rancesco Rosi, cittadino”: con queste sole parole voleva essere ricordato il grande regista da poco scomparso a 92 anni. E proprio con l’occhio del cittadino che si impegna nella e per la polis, con l’obiettivo di descriverla e, se possibile, fare qualcosa per cambiarne le storture, Rosi ha toccato i vertici della sua produzione cinematografica. Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre la sua filmografia al “cinema di impegno” o “di denuncia”. Nelle sue opere migliori infatti – un’infilata che comprende Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Uomini contro, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti, Cristo si è fermato a Eboli – la dimensione del racconto, anche (se non soprattutto) quando affronta episodi realmente accaduti, si salda con intuizioni tecniche innovative grazie alle quali le pellicole rimangono ancor oggi capolavori non solo narrativi ma anche visuali. Un esempio tra i tanti è l’uso sapiente della fotografia, grazie alla collaborazione con grandi fotografi di scena come Gianni Di Venanzo. O ancora le scelte di montaggio e di racconto: come nel caso di Salvatore Giuliano o del Caso Mattei, in cui è lo stesso regista che assume la funzione del narratore con la propria voce – e nel secondo caso anche comparendo direttamente. La pellicola dedicata alla vicenda del bandito siciliano, girata nel 1962, rappresentò una vera e propria svolta per il cinema italiano e non solo. Innanzitutto per il modo di raccontare la storia, che grazie alla voce fuori campo di Rosi sembra costruirsi

passo dopo passo davanti agli occhi dello spettatore, e poi anche per alcune precise scelte registiche, come quella di mantenere sempre nell’ombra il viso di Giuliano: “un escamotage – ha ricordato Giuseppe Tornatore nel libro-conversazione con Rosi del 2012, Io lo chiamo cinematografo – non solo visivo, ma una prospettiva etica e politica”. Il lungometraggio ebbe un successo straordinario, replicato l’anno successivo da quello di un altro capolavoro, che mantiene ancora dopo cinquant’anni un’attualità e una potenza straordinarie: Le mani sulla città, racconto della speculazione edilizia nella Napoli del dopoguerra nato da uno scambio di idee tra il regista e un suo amico di lunga data, lo scrittore Raffaele La Capria. Due sequenze su tutte bastano per cogliere la forza della pellicola: quella del crollo del palazzo, all’inizio, e quella dove il protagonista, il palazzinaro Nottola interpretato da Rod Steiger, spiega il meccanismo della moltiplicazione del valore di un terreno tracciando un quadrato sulla sabbia. Su tutto, poi, vale la frase posta in esergo al film: “I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realtà che li produce”. Dopo due lungometraggi di diverso respiro, ma non per questo meno interessanti, Il momento della verità storia di un giovane contadino andaluso che diventa un talentuoso torero, e C’era una volta… ispirato ad alcune storie del seicentesco Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile, gli anni Settanta sono segnati dalla collaborazione tra Rosi e Gian Maria Volonté, che sarà l’interprete di quattro film a partire da Uomini contro, del 1970. A lungo boicottata (il regista venne anche accusato di vilipendio alle forze armate), questa pellicola, ispirata al volume di Emilio Lussu Un anno sull’altipiano e girata in Jugoslavia, racconta l’inumanità della guerra e l’insensatezza degli ordini diramati dai comandanti dell’esercito italiano, per i quali i soldati erano pura carne da macello sacrificabile per i più alti scopi bellici. Volonté interpreta il tenente Ottolenghi, di idee

di Daniele Lettig socialiste, che si oppone diverse volte ai superiori prima di morire in un attacco inutile. Nei due film successivi l’attore milanese veste invece i panni, rispettivamente, del presidente dell’Eni Enrico Mattei e del boss italoamericano Lucky Luciano. Il caso Mattei, che valse a Rosi la palma d’oro al festival di Cannes, è un vero e proprio giallo, girato con ritmo serrato e con una peculiare tecnica a mosaico: alle scene di ricostruzione storica e ai flashback sono giustapposte le parti documentarie, in cui è lo stesso regista ad intervenire portando all’attenzione dello spettatore le varie ipotesi sulla morte di Mattei, senza però prendere posizione. Anche in questo caso, come ha notato Tornatore, chi spara – o chi commette un crimine – è sempre in ombra, nascosto: a sottolineare, forse, che in Italia non c’è mai una sola verità a cui togliere il velo. E questo filo conduttore è rinvenibile anche nel lungometraggio successivo, Cadaveri eccellenti, che riesce nella difficile impresa di trasporre sullo schermo la spietata riflessione sul potere condotta da Leonardo Sciascia nel Contesto. Della lunga filmografia del cineasta napoletano si potrebbero ricordare poi altri momenti importanti, partendo dalla bellissima trasposizione di Cristo si è fermato a Eboli, il racconto del pittore Carlo Levi del suo periodo di confino in Basilicata. Il consiglio è di andarli a rivedere, e di offrirsi così la possibilità di apprezzare la tecnica e la capacità di affascinare lo spettatore che caratterizzano i lavori di un maestro del cinema. Magari tenendo a mente un’affermazione dello stesso Rosi, riferita a Salvatore Giuliano, ma che ha un valore più ampio: “ero consapevole che stavo raccontando qualcosa che andava raccontata. Che poi venisse fuori un gran film o solo un bel film, francamente non potevo immaginarlo. Quando restavo solo con me stesso […] sentivo di avere riprodotto, in modo autentico e provocatorio un mondo, un momento storico, una situazione sociale e culturale da sottoporre alla conoscenza e al giudizio del pubblico italiano”.


Educazione

Chi si occupa dell’Università?

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ssieme al clima natalizio, agli addobbi di via Mazzini e al consueto allarme per il calo dei consumi, puntuale è arrivato anche quest’anno l’annuncio del Rettore Fermeglia: l’Università resterà chiusa durante il periodo festivo. Come prevedibile la biblioteca Generale – unico ambiente a disposizione degli studenti, nel corso dei quindici giorni di “serrata” – non si è dimostrata sufficiente a rispondere alle esigenze di tutti; il primo lunedì di gennaio la situazione degli ambienti cittadini destinati allo studio si presentava tragicomica: nell’entusiasmo dei buoni propositi di Capodanno, “la Generale” era infatti presa d’assalto (pavimenti e davanzali compresi), così come l’emeroteca, le biblioteche civiche e l’unica aula studio rimasta aperta nel complesso di Cattinara. Banale cronaca della normalità, si dirà. Meglio ancora: soluzione necessaria all’ormai patologica assenza di finanziamenti nell’ambito accademico. Problema liquidato così, con la deresponsabilizzazione di chi riveste una qualsivoglia carica politica all’interno dell’Università; se i soldi non ci sono, quale colpa imputare ai suoi vertici istituzionali? Poco importa il taglio di un servizio essenziale, specie per gli studenti fuori sede o per quelli economicamente svantaggiati. Poco importa la temporanea cancellazione di uno spazio pubblico, per il mantenimento del quale ogni iscritto paga annualmente una quota considerevole. Poco importa l’ennesimo svilimento di una parola – Università – che dovrebbe significare apertura globale, disponibilità comune. Poco importa, più nel dettaglio, che una buona parte del risparmio derivante dal taglio di servizi utili a tutti, finanzierà la “meritocrazia” di chi avrà le risorse – economiche ed umane – di arrivare al dottorato.

Infine poco importa che, appena un anno fa, Fermeglia in persona promettesse di affrontare assieme agli studenti il problema della carenza di luoghi adeguati allo studio. È sufficiente buttare là qualche cifra, agitare l’idea che da questo taglio dipenda l’assunzione dei nuovi ricercatori e concludere con un giudizio di valore sullo “spreco inutile” di scaldare nuove aule: chi si oppone alla decisione è un ragazzetto viziato, un folle privo della coscienza necessaria a comprendere il disagio delle nostre strutture pubbliche. Nessuno pare interrogarsi sul valore politico di questa scelta (perché di scelta politica, appunto, si tratta); presa consapevolezza della difficile situazione causata dai costanti tagli al comparto formativo, pare assurdo non poter discutere criticamente, nel merito, le priorità della nostra Università. Voglio poter dire – senza essere tacciato di idealismo – che i servizi essenziali destinati all’intera “utenza” non possono rappresentare una fastidiosa voce di bilancio, da comprimere a piacimento. Essi devono essere interpretati come la realizzazione di quel principio di uguaglianza sostanziale, fondamento dell’istruzione superiore e dell’ordinamento italiano in genere. Come sapremo riconoscere quei capaci e meritevoli privi di mezzi, ricordati dal trentaquattresimo articolo della nostra Costituzione, se non sapremo rendere l’Università un luogo in cui davvero strumenti ed ambienti della cultura siano accessibili e fruibili a tutti? Peggio ancora, nessuno pare denunciare il disegno complessivo, evidente dall’osservazione delle politiche promosse dal nostro ateneo. Assieme all’annichilimento del valore dello spazio pubblico, in questi ultimi mesi è rimbalzata la notizia di una previsione di bilancio pronta a sforare il tetto massimo del 20%, per la quota di finanziamenti ottenuti tramite la tassazione degli studenti. Tut-

di Collettivo UP

Attivismo Critico

to ciò attraverso una scappatoia legale – introdotta dal decreto legge “spending review” del 2012 – che considera nel conteggio percentuale solamente gli studenti italiani, iscritti in regola. Studenti stranieri e fuori corso vengono dunque valutati “zero”, tanto ai fini del computo di bilancio, quanto per il calcolo del “costo medio standard per studente”, indice sulla base del quale gli atenei italiani riceveranno i finanziamenti statali nei prossimi anni. Il messaggio politico sotteso a queste scelte appare univoco. L’ateneo triestino è sempre meno accogliente nei confronti dei “privi di mezzi”, siano essi ragazzi alla ricerca di strumenti e luoghi adeguati allo studio, oppure studenti-lavoratori, fisiologicamente in ritardo con gli esami. Se questo fosse davvero l’unico modello di Università possibile, alla luce dei finanziamenti provenienti da Roma, un amministratore responsabile avrebbe comunque un’ultima soluzione da promuovere: rimettere il proprio mandato e prendere le distanze da un sistema lontano ormai anni luce dalla propria vocazione originaria. Al contrario, il Rettore Fermeglia ha recentemente espresso valutazioni positive e soddisfatte nei confronti delle politiche ministeriali in tema di Università e Ricerca, facendoci così dubitare dell’effettiva irrinunciabilità di queste decisioni e delle sue personali opinioni in merito. Parlando di responsabilità, tuttavia, non è possibile tacere quella riconducibile a noi studenti. L’assenza di dialogo e partecipazione, l’immobilismo, il disinteresse, la disinformazione, l’indifferenza, il menefreghismo, l’ignoranza e l’assenza di coscienza politica, l’autoreferenzialità sviluppata dalla rappresentanza hanno permesso l’affermazione di un’Università sempre meno inclusiva ed eguale. La sintesi scontata pare essere: se non ti occupi dell’Università sarà Lei ad occuparsi di te.

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Politica

Contropolitiche della stupidità. Omaggio a Pepe Mujica

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i è concluso ufficialmente il mandato di Pepe Mujica. Dopo quattro anni di governo il settantottenne presidente dell’Uruguay ha cessato di svolgere il suo mandato presidenziale, lasciando l’incarico al proprio collega di partito Tabarè Vasquez, vincitore delle ultime elezioni. Mujica non è ricandidato, né ricandidabile, perché le leggi dell’Uruguay non prevedono un secondo mandato presidenziale consecutivo (mica male come idea, no?). Questo piccolo paese di tre milioni di persone, l’Uruguay, una vera e propria periferia del mondo, resterà per lungo tempo innamorato di quest’ometto: mezzo storpio, gobbo e capace in soli quattro anni di avviare nel suo paese una serie di riforme a dir poco epocali. Durante la presidenza di Mujica l’Uruguay ha polverizzato le moltissime sacche di povertà assoluta ancora presenti nel paese portandole, in quattro anni, dal 12% allo 0,5% (in Italia siamo al 10%, per la cronaca). Mujica ha coordinato gli iter legislativi che concederanno pieni diritti civili agli omosessuali, ha legalizzato l’aborto (che era ancora un tabù solo parzialmente legalizzato), fissandone il limite legale a tredici settimane. Inoltre, è forse utile ricordare che l’Uruguay non ha legalizzato, bensì statalizzato, la produzione e il commercio di marijuana (che sono due cose ben diverse), sferrando così un geniale colpo basso ai cartelli della droga (in particolare a quelli del limitrofo Paraguay) e garantendo al contempo nuovi importanti introiti per le casse statali. In Italia la figura di Pepe Mujica, ex guerrigliero tupamaro durante gli anni sessanta (formazione di guerriglia urbana a cui si sono ispirate anche le BR), è stata utilizzata propagandisticamente durante tutta la campagna elettorale (delle ultime elezioni presidenziali) del Movimento Cinque Stelle, campagna che si concluse, in una piazza San Giovanni gremita, proprio con una registrazione audio di un celebre dis-

corso del presidente uruguayano. Mujica è infatti divenuto celebre in Europa, ancor più che per le sue importantissime (e praticissime) scelte politiche, per la decisione di devolvere il 90% del proprio stipendio di presidente in beneficenza (e per la rinuncia a vivere nel palazzo presidenziale – a cui ha preferito la sua piccola fattoria, per altro intestata alla moglie collega di partito). Un ultimo particolare fondamentale di Pepe Mujica è che quest’ometto, che si è fatto 15 anni di galera, di isolamenti, di torture, che ha condotto una vita da guerrigliero e ha governato il proprio paese in un modo che persino Il Guardian è stato costretto a lodare – ebbene, quest’ometto è un fioraio, un giardiniere. Mujica non è un teorico della decrescita, né un intellettuale marxista, non ha studiato, non è neppure un tecnico (nemmeno in campo agrario), in gioventù è stato herrerista (nazionalista), anche se contemporaneamente affascinato dalla rivoluzione cubana. Questo ometto dall’immagine innocua e povera sembra proprio un uomo qualunque che ama definirsi un “luchador social”, un combattente sociale. Sarebbe stato veramente positivo se il Movimento Cinque Stelle, invece di sfarinarsi nel giro di mezz’anno, si fosse dotato davvero di leader simili a lui, invece che di prime donne arriviste ed esaltate che hanno deluso tre quarti dei propri elettori nel giro di neanche un anno. Mujica, diversamente dai leader del Movimento Cinque Stelle, ha guidato infatti una coalizione larghissima, il Fronte Amplio, in cui sono confluiti anche partiti cosiddetti tradizionali molto differenti tra loro: dai comunisti ai cattolici (come è tipico del Sud America), dagli omosessuali ai contadini. Questa grande coalizione è stata tenuta insieme dalla figura di Mujica, portando avanti con coerenza un accordo politico preso su pochi punti strategici e ben definiti.

di Andrea Muni Quello che il Movimento Cinque Stelle non è riuscito a fare in Italia, a causa della scarsa caratura morale (e carismatica) dei suoi leader, Mujica, in Uruguay, lo ha fatto davvero. Ha ottenuto consensi incarnando effettivamente quell’ideale di società, di uomo e di soddisfazione individuale propagandato dal suo partito politico. Mujica ha fatto il leader, è riuscito a sembrare quello che diceva di essere, una rara forma di coerenza che gli ha permesso di ottenere grande consenso. Ho pensato un giorno che forse Muijca è riuscito davvero ad essere così perché si è fatto 15 anni di galera (come ostaggio politico), anni in cui certamente avrà pensato più o meno ogni giorno che sarebbe morto a causa del fatto che aveva voluto combattere la dittatura militare invece di farsi i fatti propri. Ho pensato anche che, più scioccamente, facendo il giardiniere sotto il sole, gli si fosse semplicemente fusa qualche rotella. Ma poi, a un certo punto, mi è parso di capire la sua strategia seduttiva: Mujica ha voluto mandare un messaggio, incarnandolo, al popolo uruguayano. “Yo no soy pobre, pobres son los que creen que yo soy pobre. Tengo pocas cosas, es cierto, las mínimas, pero solo para poder ser rico”. Pepe Mujica (“Io non sono povero, poveri sono quelli che credono che io sia povero. Ho poche cose, è vero, il minimo indispensabile, ma solo per poter essere ricco davvero”). Qual è stato effettivamente il messaggio di Mujica? Cos’è stato il gesto-Mujica al di là delle strumentalizzazioni e delle facili (e a volte un po’ sterili) apologie che si possono fare di quest’ometto? Mujica (e il suo Uruguay) hanno insegnato al mondo, forse per la prima volta, quale potrebbe essere la nuova strategia democratica attraverso cui combattere in maniera vincente, e dal di dentro, il capitalismo. Mujica ha infatti affascinato l’elettorato attraverso la sua genuina soddisfazione alternativa, attraverso


Politica l’esibizione della gioia infantile e fiera che ricava quotidianamente da una vita allegramente vissuta secondo valori totalmente rovesciati rispetto a quelli presupposti dal turbo-capitalismo. Mujica sembra felice di vivere con mille euro al mese... . Il Presidente dell’Uruguay ha fatto venire voglia a tutti i suoi elettori di essere come lui, ha fatto sentire al proprio popolo che ci si può sentire dei re in una vita umile, che si può vivere con immensa soddisfazione una vita qualunque, banale, potremmo dire anche grigia, quasi di sussistenza. È di questo che oggi abbiamo disperatamente bisogno: non tanto di nuovi eroi, quanto piuttosto di qualcuno che ci aiuti e ci provochi ad eroicizzare il tempo in cui viviamo, e noi stessi dentro di esso. Le cose non miglioreranno, la crisi è irreversibile, ma questo non può essere un buon motivo per odiare (silenziosamente) ogni giorno di più il nostro prossimo. La guerra tra poveri è iniziata, per fermarla dobbiamo capire che col nostro prossimo, anche con quel prossimo invisibile che siamo noi stessi, dobbiamo imparare a giocare il gioco di ricordarci a vicenda quanto le nostre vite “infami” siano più intense, eroiche e belle di quelle di coloro che si ingrassano mettendoci gli uni contro gli altri. Abbiamo bisogno di raccontarci, e mostrarci a vicenda, che siamo più felici di quelli che si soddisfano con telefoni sempre più costosi, case sempre più grandi, rimborsi sempre più gonfiati, posizioni lavorative entusiasmanti, saune sempre più calde, mentre noi non abbiamo nulla. Dobbiamo imparare a non invidiare tutto questo, ma davvero. Abbiamo bisogno di reimparare a credere davvero che essere semplici e grigi è più bello che essere vincenti (e di successo) nel mondo del capitale. Questa rivoluzione, questa sovversione della soddisfazione individuale è qualcosa che Mujica ha effettivaamente innescato in Uruguay, qualcosa che possiamo iniziare a costruire anche qui. Ma tutto questo è qualcosa che può partire dal basso, soltanto dal basso, dal misto di fiera disperazione e complicità che tutti proviamo. Mujica non è comunista, non ha mai inteso imporre il comunismo in Uruguay: ha fatto molto di meglio. Oggi si può fare molto di meglio del comunismo in effetti: si può offrire diritti, lavoro e serenità alle persone, liberandole dalle aspettative di una super-vita e dalla grottesca sensazione di essere fortunate se lavorano, e di essere

addirittura privilegiate se – quando lavorano – vengono pagate. Mujica, che ha combattuto la lotta armata, si è accorto che oggi il desiderio di convincere gli altri a fare la rivoluzione è diventato perversamente un modo già “capitalistizzato” di provare a rendere la propria vita meno grigia di quella degli altri. L’esibizione, e la socializzazione, di un’altra forma di soddisfazione individuale è la vera mossa politica che sarebbe capace di far crollare l’intero sistema capitalista in non più di due/tre generazioni. Tra l’altro tutto questo è già in atto, i consumi sono crollati, e i presunti accenni di ripresa non li hanno mai fatti davvero aumentare, e la ragione di tutto questo è che stiamo già imparando tutti a soddisfarci con meno, con altro. Tutti stiamo già imparando a restituire importanza a valori a costo zero (o quasi) quali l’amicizia, la famiglia, il quartiere, l’osteria. Lo sappiamo che stiamo perdendo tutti, sentiamo che questa sensazione è condivisa anche da persone che sono molto diverse da noi. Mujica è l’incarnazione storica (e certamente anche parzialmente propagandistica) dell’eroe del miglior film anticapitalista degli ultimi sessant’anni: Lego movie. In questo geniale cartone animato infatti, il potente e malvagio Lord Business viene sconfitto da una banda di geni, speciali e alternativi, solo quando questi iniziano a collaborare (tutti insieme) rimettendosi agli ordini (e alla geniale stupidità) di “quello speciale”, un fittizio prescelto che non è altri che un tizio qualunque: l’uomo più stupido, banale e apparentemente totalmente asservito al sistema. Lui è quello speciale, lui è l’eroe, solo lui può cambiare le cose. La stupidità è l’ultima carta che possiamo giocarci. Solo uno “stupido”, oggi, si soddisferebbe di una vita qualunque... Sono riusciti a farci credere che un esistenza media

è frustrante: la magia del capitale. L’unico reale e possibile soggetto rivoluzionario della nostra società è proprio quell’uomo qualunque che tutti siamo, e di cui dovremmo imparare ad essere ogni giorno sempre più fieri (invece che disgustati). Perché quest’uomo scemo (che per fortuna abita ognuno di noi) è proprio l’uomo che un giorno dirà semplicemente, senza neanche incazzarsi: piuttosto che vivere come Renzi (o Grillo, o Salvini, o chi per loro), preferisco campare con mille euro al mese: io sto meglio di loro, loro non possono fare niente per me. Non ho bisogno di essere razzista, né comunista, né decrescista, né turbo-capitalista: ho solo bisogno di guadagnarmi da vivere, per tutto il resto so molto meglio di loro quali sono le cose che mi soddisfano davvero. Mujica lo sa, e anche noi... i Lord Business di tutto il mondo (e specialmente quel piccolo Lord Business che abita segretamente ognuno di noi), loro, ci invidiano: ... quando vedono qualcuno che è felice con niente perdono la testa: odiano, amano, si arrabbiano, fanno colpi di stato, sfottono, civettano, ma infine si inginocchiano, mostrano la loro invidia, vorrebbero essere noi, ci sfiorano un ginocchio, cercano di baciarci. Se non cediamo noi (alle lusinghe della super-vita che la io-crazia mondiale sponsorizza), presto cederanno loro – tutti i Lord Business che ci abitano – al fascino della nostra “altra soddisfazione”. “Masochismo. Il masochista non è chi prova piacere nella sofferenza. Forse è piuttosto colui che accetta la prova della verità e vi ci sottomette il proprio piacere: Se sopporto fino alla fine la prova della verità, se sopporto fino alla fine la prova a cui mi sottometti, allora io avrò espugnato il tuo discorso e la mia affermazione sarà più forte della tua” (Michel Foucault, Lecons sur la volonté de savoir).

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo Per chi scrive di musica, o ambisce a farlo, dicembre non è il mese delle feste, del maglione con le renne e dell’ingozzamento a tavola, semmai quello delle imperdibili, attesissime classifiche di fine anno. Il medagliere olimpico della musica è utile per tante cose: per tirare un po’ le somme degli ascolti dell’anno, per crogiolarsi nel piacere di dire “li ho scoperti prima io ‘sti qui’”, per vergognarsi di aver perso una certa meravigliosa uscita, per avere un tema facile per un articolo. Ma, soprattutto, per controllare di non aver perso qualcosa, qualche bel lavoro che si rischia di non ascoltare mai. E allora giù di Pitchfork e compagnia bella a prendere nota di tutto. Questo numero allora ha due scopi: anticiparvi che ho fatto una collenzioncina dei (miei) 50 brani dell’anno (ascoltabile nel sito di Charta Sporca) e proporvi qualche lavoro che a me è piaciuto tantissimo e merita di non essere perso nell’apparato digerente dell’anno appena giunto.

EAST INDIA YOUTH – TOTAL STRIFE FOREVER

Un pop a colori caldi, morbido e soleggiato, molto anni ’80, così tanto anni ’80 che ti domandi dove hanno trovato il vortice spazio temporale per arrivare fino a noi. Ascolti Way To Be Loved e Change Heart ed entri in pace col mondo. Fastidiosamente gioioso, amplificatore di belle giornate.

ALVVAYS – ALVVAYS

Vedi sopra, con aggiunta di qualche chitarra non male. Saranno mica parenti? No. Riuscire a citare due dischi pop di qualità in fila mi fa ritrovare fiducia nel mondo. Archie, Marry Me, Next Of Kin e Atop A Cake sono dei pezzoni.

THE DRUMS – ENCYCLOPEDIA

Il fatto che siano caduti in disgrazia dopo Let’s Go Surfing è un peccato, ma è il destino di ogni gruppo biondiccio e a righine dopo settembre, no? Ora sono personcine mature che fanno un disco per ascoltatori maturi che parla di temi maturi. Sì insomma, fine del surf pop, però si sono tenuti stretti quella collezione di vecchi sintetizzatori analogici. E allora esce questo disco con suoni leggeri ma che parla di cose impegnate, tipo la versione per bambini di Guerra e Pace, che alla fine non può

SHY BOYS – SHY BOYS

Un cioccolatino di poco più di 20 minuti, semplice ed essenziale, con un cantante di 140 Kg che canta come un usignolo e un 2012

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KIASMOS – KIASMOS

TOPS – PICTURE YOU STARING

Milo è un Kanye West di 20 anni, con qualche differenza dall’originale. È senza: i morbidi muscoli glutei di Kim Kardashian, i completi bianchi firmati, quella divina pretenziosità, gli incisivi diamantati. È con: la raccolta delle opere di Schopenhauer, i Pokemon, un vocabolario da letterato, i DVD di Harry Potter. Fa un rap fittissimo, colto ed ingenuo, su strumentali spaziali. Questo suo sobborgo di dentifricio non è un disco hip hop, è l’horror vacui di un promettentissimo paroliere.

- MAGGIO

non piacere e che è coronato da I Hope Time Doesn’t Change Him, per me traccia dell’anno a mani basse. Tristemente bello.

È l’ennesima perla nordica, opera dei signor Arnalds e Rasmussen (documentatevi sui rispettivi lavori perché meritano). Un continuum raffinatissimo di tracce tra minimal e ambient.

MILO – A TOOTHPASTE SUBURB

NUMERO VI

barlume garage rock che sembra suonato da chierichetti (si senta And I Am Nervous). Fresco e tenero.

a voi e auguri: Un caro saluto nno è di tutti. questo complea

I

Mish

ima Buzzati de “Il gnare la Ci un pae deserto dei copertin a il sono persona cioso saggio brul Tartari” pass cavalloè attravers lo e roc- : che ci ato ci ha ggi che ato da nero si, diffi appaion donato all’o un e rizz o e semplic cili da dec misterio te rocc onte da delimita to ifrare. eme a mo pianiosa, men una pare O - comnon esse nte siam o divi tre in verd pripren re in grado noi sa i dern cato militaresono indo e berretto o di e il e l’in invisibi ssati da signifihan segn no un amento le... nio del lasciato tra il che le ince veloce e ines turbidere orab della Storia... i-

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Gli arretrati, insieme ad altri contenuti esclusivi, sono consultabili online all’indirizzo www.chartasporca.it

Quando ascolto Dripping Down, il primo estratto, e realizzo che l’ha scritta un mio coetaneo, la mia vita sembra ancor più triste e vuota di quel che è. Brian Eno e Thom York escono a ballare e li raggiunge Caribou reduce da un pic nic: nella mia testa suona tipo così. Un lavoro sfaccettato e bellissimo.

THEGIORNALISTI – FUORICAMPO

A me di solito non piacciono i gruppi italiani, per tanti motivi, validi o meno. Per il retaggio della neomelodica, per i testi vuoti di chi si finge cantautore per un giorno, per le novità esterne mai colte, perché in fondo sono gruppetti del cazzo tutti uguali tra di loro. Questo disco è invece stranamente bello; l’unica sfiga è che sembra fatto per essere portato sotto l’ombrellone della riviera romagnola ed invece è uscito in autunno. Ascoltatevi almeno Promiscuità, Mare Balotelli e Aspetto Che. Piacevole eccezione alla regola? Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

redazione@chartasporca.it Web:

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