Numero 18

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Numero 18 - Maggio/Giugno 2014 Editoriale

Spettacoli dialettici

di Davide Pittioni

Modernità o tradizione? Ansia del nuovo o ritorno alle origini? È singolare che in un epoca descritta come condizione di “eterno presente”, schiacciata su se stessa da un peso opprimente, priva di slanci, avviluppata nelle sue maglie di potere e produzione, la dicotomia tra vecchio e nuovo si faccia sempre più pressante, viva. A dirla tutta, non è poi così chiaro in cosa si distinguano: se sia una questione di età, di rughe, di usure, di dinamismo, di forza, o di attualità. Eppure già il fatto che il vecchio abbia un nome, e una sua collocazione, comporta anche che abbia degli effetti, di realtà o anche solo immaginari. Così come per il nuovo dovremmo diffidare dei suoi caratteri di originalità. Benjamin non a caso notava: “A essere predominante è certo sempre l’ultima novità, ma solo laddove emerga nell’elemento del più antico, del già stato, dell’abituale”. E aggiungeva che “quanto più un’epoca è effimera, tanto più si orienta secondo la moda”. Come a dire, paradossalmente, che più il presente si estende, e tanto più il passato riaffiora sotto altri aspetti, mascherato dietro al nome di “novità”. Nello “spettacolo dialettico della moda” si mostrava già agli occhi di Benjamin quella contorsione tra novità e tradizione che produceva il presente. E ancora oggi la macchina del capitale recupera, ricicla e riproduce vecchi costumi, significanti, scene, idee. Del resto Umberto Eco – in tutt’altro contesto - lo diceva molto bene: “la risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”. Ogni stagione ha insomma la sua condizione postmoderna, la sua moda, i suoi fantasmi. Cosa coglie allora lo sguardo rivolto al passato? Una purezza, un’origine, una condizione liberata dalla corruzione del

Modernità o tradizione?

presente? Cosa ne è della tradizione? È sicuramente qualcosa di ben più complicato di un “prima” che semplicemente sopravvive. Il Giappone (reportage a pp. 2-3), in questo senso, rappresenta un formidabile laboratorio di integrazione della tradizione nel nuovo modello economico, dove non è difficile concepire un sarari-man che nel ritmo frenetico della sua quotidianità si concede una pausa nella tradizionale cerimonia del tè, con la sua lentezza, la sua sacralità... Piccole trasgressioni, che anziché rompere con il presente, lo alimentano. “La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi”, scrive Marx. Un incubo, o un sogno, che mostra le increspature del tempo – non una linea, ma segmenti impazziti, che perforano la storia, mischiano presenti e passati, stracciano i calendari. Tradizione e modernità ne escono esauste. Maschere sbiadite che sorridono sornione.

In questo numero

La paradossale immagine del Giappone pagg. 2 - 3

Il valore dell’esperienza pag.4

Il tramonto dell’identità

Frammenti reazionari tratti da Gran Torino di Clint Eastwood

pag. 5


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