Numero 18

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Numero 18 - Maggio/Giugno 2014 Editoriale

Spettacoli dialettici

di Davide Pittioni

Modernità o tradizione? Ansia del nuovo o ritorno alle origini? È singolare che in un epoca descritta come condizione di “eterno presente”, schiacciata su se stessa da un peso opprimente, priva di slanci, avviluppata nelle sue maglie di potere e produzione, la dicotomia tra vecchio e nuovo si faccia sempre più pressante, viva. A dirla tutta, non è poi così chiaro in cosa si distinguano: se sia una questione di età, di rughe, di usure, di dinamismo, di forza, o di attualità. Eppure già il fatto che il vecchio abbia un nome, e una sua collocazione, comporta anche che abbia degli effetti, di realtà o anche solo immaginari. Così come per il nuovo dovremmo diffidare dei suoi caratteri di originalità. Benjamin non a caso notava: “A essere predominante è certo sempre l’ultima novità, ma solo laddove emerga nell’elemento del più antico, del già stato, dell’abituale”. E aggiungeva che “quanto più un’epoca è effimera, tanto più si orienta secondo la moda”. Come a dire, paradossalmente, che più il presente si estende, e tanto più il passato riaffiora sotto altri aspetti, mascherato dietro al nome di “novità”. Nello “spettacolo dialettico della moda” si mostrava già agli occhi di Benjamin quella contorsione tra novità e tradizione che produceva il presente. E ancora oggi la macchina del capitale recupera, ricicla e riproduce vecchi costumi, significanti, scene, idee. Del resto Umberto Eco – in tutt’altro contesto - lo diceva molto bene: “la risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”. Ogni stagione ha insomma la sua condizione postmoderna, la sua moda, i suoi fantasmi. Cosa coglie allora lo sguardo rivolto al passato? Una purezza, un’origine, una condizione liberata dalla corruzione del

Modernità o tradizione?

presente? Cosa ne è della tradizione? È sicuramente qualcosa di ben più complicato di un “prima” che semplicemente sopravvive. Il Giappone (reportage a pp. 2-3), in questo senso, rappresenta un formidabile laboratorio di integrazione della tradizione nel nuovo modello economico, dove non è difficile concepire un sarari-man che nel ritmo frenetico della sua quotidianità si concede una pausa nella tradizionale cerimonia del tè, con la sua lentezza, la sua sacralità... Piccole trasgressioni, che anziché rompere con il presente, lo alimentano. “La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi”, scrive Marx. Un incubo, o un sogno, che mostra le increspature del tempo – non una linea, ma segmenti impazziti, che perforano la storia, mischiano presenti e passati, stracciano i calendari. Tradizione e modernità ne escono esauste. Maschere sbiadite che sorridono sornione.

In questo numero

La paradossale immagine del Giappone pagg. 2 - 3

Il valore dell’esperienza pag.4

Il tramonto dell’identità

Frammenti reazionari tratti da Gran Torino di Clint Eastwood

pag. 5


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Viaggi

La paradossale immagine del Giappone

“No picture”: mi soffermo, senza pensarci, a osservare questa semplice frase in inglese su di una targa in legno, sotto a una lunga fila di ideogrammi giapponesi. Il cartello su cui è scritto introduce il tempio più imponente di Tokyo, il Senso-ji. Il santuario, eretto nel 645, è dedicato a Kannon, dea buddhista della misericordia, la cui statua d’oro – così narra la leggenda – sarebbe stata miracolosamente trovata da due pescatori nelle acque del vicino fiume Sumida, diciassette anni prima. Distrutto nel marzo del 1945 dai bombardamenti americani, il tempio venne ricostruito nel 1958 grazie alle offerte dei fedeli. Non è certo (dal momento che non è esposta al pubblico) che la statua ci sia, eppure moltissimi credenti – e turisti – affollano il noto luogo ogni giorno: i primi, giunti all’interno del tempio, lanciano un’offerta, fanno due inchini, battono due volte le mani, per poi tenerle giunte nel tempo della preghiera, chiusa infine da un ultimo inchino; i secondi, quasi non sapessero leggere (eppure molti di loro sono giapponesi e gli ideogrammi li conoscono), imbracciano la macchina fotografica e, senza alcun ritegno per l’indicazione, racchiudono in un’immagine ogni cosa li circondi. Mi domando perché mi sia soffermato così a lungo su un cartello del genere, la cui richiesta viene puntualmente disattesa. Dopotutto anche nel nostro Occidente è possibile trovarsi al cospetto di simili richieste, in genere all’interno dei musei o più in generale nei luoghi che, una volta ritratti, perderebbero interesse

per il potenziale acquirente del biglietto d’ingresso. In questo caso, però, la motivazione non può essere di natura economica, dal momento che l’entrata è gratuita. Sarei rimasto con questo dubbio a lungo. A qualche fermata di metropolitana dal tempio, precisamente ad Akihabara, sarebbe stato impossibile trovare un divieto del genere. Dato che, in questo quartiere, tutto diviene immagine: immagini proiettate nei megaschermi ad alta definizione sulle pareti di immensi grattacieli; immagini (provenienti dai manga) personificate da avvenenti ragazze in minigonna e orecchiette da coniglio, nell’atto di distribuire volantini pubblicitari dell’uno o dell’altro locale; immagini sulle insegne dei negozi, che annunciano i prodotti venerati al loro interno. Una contrapposizione del genere, in una città ‘ordinata’ come Tokyo, stona; nel visitare l’immensa capitale bisogna infatti accantonare l’idea di caos che riteniamo tutt’una con l’essenza delle metropoli: sulla strada le automobili (rigorosamente nuove) sono suddivise in corsie che stabiliscono ognuna la velocità da mantenere e la successiva direzione da prendere; sotto terra, alla fermata della metropolitana (che non ritarda mai di un secondo), le persone si incolonnano ordinatamente nei luoghi dove già si sa che il treno aprirà le proprie porte; persino sui marciapiedi i pedoni sembrano essersi autonomamente ordinati a seconda della loro velocità di marcia, in corsie accostate l’una all’altra. Dei clacson, data la disciplina collettiva, non si sente

di Stefano Tieri

alcun bisogno. Anche la pulizia generale, la quasi totale assenza di fumatori (“Please do not smoke while walking”, avverte un’insegna disegnata sul marciapiede) come di immondizie gettate a terra, amplifica l’idea di grande ordine che riguarda tutti gli aspetti della metropoli nipponica, al cui interno ogni tipologia di negozio trova una sua determinata e precisa collocazione: come il già ricordato quartiere dell’elettronica (Akihabara), abbiamo ad esempio quello delle librerie (Jimbocho), quello degli strumenti musicali (Ochanomizu), quello dei divertimenti (Shinjuku), quello dell’alta moda (Ginza), e quello ‘giovanile’ (Shibuya). In quest’ordine onnicomprensivo, si diceva, una simile contrapposizione stona. Bisognerebbe allora domandarsi in cosa consista questa stonatura, e in che modo abbia raggiunto una tale risonanza. Uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, distrutto materialmente – e psicologicamente – da due esplosioni nucleari, il Giappone, negli anni successivi, è stato soggetto di un vero e proprio “miracolo economico”. Questa fase, in cui il PIL è cresciuto in media dell’8% annuo, è stata caratterizzata da una sete di rivalsa nei confronti di coloro che l’avevano annientato. Quasi che, per dimostrare il proprio valore, una volta sconfitto sul piano militare, il Giappone dovesse spostare la battaglia sul campo economico (l’economia non è in fondo un altro modo, più sottile e acuto, di continuare una guerra?), e lì risultare infine vincitore. Parallelamente, però, qualcos’altro doveva essere ceduto: il Paese del Sol Levante, per riuscire a inserirsi nel gioco del capitalismo, ha dovuto abdicare a una parte della propria storia; questo scambio trova il suo perfetto emblema nella rinuncia allo statuto di ‘divinità’ dell’imperatore: come ha colto l’occhio attento di Tiziano Terzani, “l’unica condizione che gli americani imposero a Hirohito per mantenerlo sul trono fu che rinunciasse a essere dio”, e per questa ragione il primo gennaio del 1946 l’imperatore dichiarò alla nazione la sua natura di “umano”, ribaltando così il mito secondo cui la famiglia imperiale avrebbe avuto


Viaggi una diretta discendenza dalla dea del sole. Gli effetti di questo ‘scambio’ si possono facilmente individuare a Tokyo. È sufficiente fermarsi nel mezzo di una strada affollata (cosa non sempre agevole: le correnti di persone trascinano in avanti chi, ozioso, si era fermato) e osservare i passanti: la gran parte è costituita dai sarari-man (letteralmente “uomo-salario”), rigorosamente in giacca e cravatta, sempre in corsa tra l’ufficio dove lavorano e importanti riunioni d’affari. Le differenze tra una qualsiasi metropoli occidentale e un quartiere come Ginza, i cui possenti grattacieli privano del fiato e fanno sentire un nulla il minuto osservatore, non si possono rintracciare nelle vetrine dei negozi né nei prodotti contenuti al loro interno, ma solamente nei lineamenti dei volti di coloro che in esse si specchiano, desiderosi. In un piccolo ristorante ad Akihabara, cui si accede tramite una stretta scalinata che porta nel seminterrato, mi si siedono accanto due sarari-man tra loro colleghi; il tempo di mettersi comodi e hanno già tra le mani il proprio smartphone, con cui controllare le quotazioni in borsa dei loro titoli: fino al momento in cui saranno serviti e si metteranno a mangiare, i due non si scambieranno una sola parola. Ogni comunicazione diretta sembra essere sostituita, appena possibile, dalla sua rappresentazione virtuale. La situazione cambia allontanandosi dal centro della metropoli. Yamaka, quartiere periferico di Tokyo (non è nemmeno raggiunto dall’efficientissima ed estesa rete metropolitana), è stato risparmiato sia dal terremoto del 1923 che dai bombardamenti americani del 1945: l’assenza di grattacieli, la presenza consistente di piccoli templi (ogni via ne ha almeno uno) e di casette tradizionali in legno ne sono la prova. Forse è l’assenza della folla a favorire i contatti fra i pochi passanti, ognuno disponibilissimo a fornire un’indicazione e scambiare due chiacchiere (persino quando non c’è una lingua comune tramite cui comunicare): è in luoghi come questi che ci si sente in grado di riappriopriarsi del proprio tempo, prima svenduto irrimediabilmente all’utile e ad una fretta compulsiva. Ma per riuscire a trovare una risposta alla mia domanda mi sarei dovuto allontanare ancora; avrei dovuto cercare un luogo dove il respiro si facesse più lento, dove

l’unica richiesta posta al viandante fosse quella di farsi vuoto per accogliere in tutta la sua interezza il mondo circostante, dove la comunicazione – una comunicazione non più necessariamente di parole – potesse essere nuovamente possibile. “La montagna è quiete e nutre lo spirito, l’acqua è movimento e mitiga le passioni”, scriveva nel XVII secolo Bashō, considerato il maggior poeta giapponese di haiku; simili parole ben si adattano al monte Kōya, meta di uno dei numerosi viaggi del poeta, luogo in cui riuscì a trovare alleviamento all’ansia e alla sete di desiderio che lo attanagliavano. Nell’816 il giovane monaco Kūkai (noto in seguito con il nome di Kōbō Daishi), dopo un lungo viaggio di due anni in Cina, decise di costituire proprio fra le fitte foreste del Kōya-san una comunità religiosa, dando così vita alla scuola Shingon di buddhismo esoterico. Il cimitero monumentale dell’Oku-no-in, a pochi passi dal complesso di monasteri, è ancora avvolto da un’aura mistica: ogni enorme pietra ricoperta dal muschio, ogni altissimo cedro secolare sussurra con una forza espressiva indicibile, negando sul nascere ogni altra parola che abbia la pretesa di racchiudere e descrivere l’esperienza; solo il proprio respiro si accorda con la sinfonia circostante, ed è mettendosi in suo ascolto che la quiete giunge, inaspettata. Tra le pietre tombali vi è il masso dove si mise in meditazione (e dove sarebbe in meditazione tutt’ora) Kōbō Daishi, davanti al quale i fedeli lasciano cibo e bevande per rifocillarlo. Lì vicino un pozzo prevede, nel caso in cui non fosse possibile scorgere il riflesso della propria figura al suo interno, la morte entro tre giorni. Il peso dell’anima, gravata di peccati o di una leggera purezza, è riprodotta dal Miroku-Ishi, una roccia contenuta in una piccola struttura in legno, da sollevare con le mani. Una scultura in pietra, poggiandovi l’orecchio al di sopra, promette – facendosi tramite tra questo mondo e l’aldilà – di far udire i pianti dell’inferno. Poco distante c’è il Tōrō-dō (Tempio delle Lanterne) dove alcuni lumi, fra i centinaia contenuti al suo interno, danno incessantemente luce da più di novecento anni. Le tombe non hanno targhe né riportano (nemmeno le più recenti) le immagini dei defunti: “lo spirito non ha nessun bisogno delle targhe”, scrisse a riguardo Goffredo Parise ne L’eleganza è frigida.

Allontanandomi dal luogo sacro ritrovo il cartello che vieta di scattare fotografie, ed è così che mi raggiunge la domanda che mi stava rincorrendo oramai da giorni. Torno allora al tempio e mi rivolgo ad un monaco, tutto intento a spazzare il terreno mentre recita sottovoce dei sutra. In un fiume di parole cerco di spiegargli perché l’Occidente sia indissolubilmente legato all’immagine, e di quanto perciò per noi sia strano trovarsi davanti ad un simile divieto; gli racconto di Heidegger, di come faccia risalire fino a Platone (dal momento che nel pensiero del filosofo greco “l’entità dell’ente si definisce come εἶδος”) il presupposto affinché il mondo stesso possa ridursi ad immagine; concetto che oggi è tutt’uno con il nostro individualismo, il quale pone al centro del mondo un soggetto che irrimediabilmente oggettifica ogni elemento attorno ad esso. Le parole mi si mescolano in bocca, formano dei nodi; il respiro, prima disteso, si fa affannato. Il monaco mi osserva silenzioso, con un’espressione inizialmente confusa; poi distende le linee del volto in un sorriso, inspira profondamente e mi invita, a gesti, a fare altrettanto: “No picture” – e in questa (non) risposta mi ha confermato, semplicemente, che così è. Mi ricordo allora di un koan (una sorta di indovinello usato nello Zen Soto): un maestro offrì al suo discepolo un melone squisito, chiedendogli in seguito dove risiedesse il gusto, se nel melone o nella lingua. Il discepolo si addentrò in un complesso ragionamento, tirando in ballo l’interdipendenza tra il suo corpo e il frutto; al che il maestro lo interruppe dandogli dello stolto: “Perché complichi il tuo modo di pensare? Il melone è buono. Basta questo per spiegarne il gusto. La sensazione è buona. Di altro non c’è bisogno”. Perché ricercare la ragione di usanze e tradizioni secolari? Non bisognerebbe forse, nel momento in cui ci si voglia immergere in una cultura così lontana, mettere momentaneamente da parte l’idea stessa (quanto mai occidentale) di ‘ragione’, insieme a tutto ciò che riteniamo ‘sapere’? Kyogen, monaco Zen, dopo aver raggiunto l’Illuminazione compose questa poesia: D’un tratto, al suono di un piccolo sasso, al suono di un bambù, tutto ho dimenticato. Le idee che mi affollavano la mente sono svanite, si sono dissolti i pensieri contorti.

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Società

Il valore dell’esperienza di Ruben Salerno And the people bowed and prayed, to the neon god they made And the sign flashed out its warning in the words that it was forming And the sign said, “The words of the prophets are written on the subway walls, and tenement halls and whisper the sounds of silence

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odernità e tradizione, vecchio che arretra e giovane che avanza; libri, piazze e campanili messi da parte per lasciar spazio a parking assistance, management, social, eco-friendly, smartphone, marketing, hashtag, Zang Tumb Tumb... Tradizione: dal lat. tràdere = trasmettere, consegnare Modernità: da Baudelaire modernité = esperienza della vita nella città Sia chiaro, questo non sarà un elogio nostalgico del passato, né si darà credito alcuno al noto proverbio “Si stava meglio quando si stava peggio”. Al netto dei beni inutili (i-pad, navigatore, ecc.) è davvero plausibile una vita normale senza water, frigo o supermercati? Il progresso scientifico e tecnologico non può essere messo in discussione. La domanda da porsi è se stiamo effettivamente progredendo. Cos’è davvero moderno e cosa significa tradizione, ovvero, chi sono i progressisti e chi i conservatori? Due epoche a confronto: quella attuale e il primo ‘800 in Europa. 1) Un tempo l’ossatura politica era principalmente di tipo monarchico, i valori della Rivoluzione (Uguaglianza, Libertà, Fratellanza, ecc.) erano portati avanti da Napoleone, generale e imperatore per autoproclamazione. Senati e parlamenti discutevano, esprimevano pensieri dal valore consultivo e poi si faceva come decideva il capo. Ora sono tutte democrazie o monarchie parlamentari. I valori dell’Unione Europea (Solidarietà, Libertà, Ugualianza, Giusti-

zia, ecc.) sono portati avanti dalla Troika, ovvero una banca privata (BCE), un’agenzia di credito sovranazionale (FMI) e un’assemblea di nominati (Commissione Europea). Senati e parlamenti discutono, esprimono pensieri dal valore consultivo ma poi legiferano come decide il capo. 2) Gran parte del popolo era analfabeta mentre tutta la comunicazione, le leggi e i codici erano scritti su libri, manovrati abilmente dai pochi che li sapevano decifrare. La gente si faceva abbindolare da manifesti e comizi e annegava la disperazione nell’alcol. Ora gran parte del popolo sa leggere e scrivere mentre tutta la comunicazione passa da Internet, nuovo universo i cui codici e le leggi sono ignoti ai più e manovrati abilmente da pochi. La gente si fa abbindolare dagli schermi luminosi e annega il vuoto interiore nell’alcol. 3) L’economia si reggeva prevalentemente sull’agricoltura e l’industria pesante. La ricchezza se la spartivano l’aristocrazia e i grandi capitalisti mentre il proletariato tirava a campare. Ora l’economia si regge prevalentemente sulla produzione industriale di beni di consumo e sullo sviluppo di servizi. La ricchezza se la spartiscono i grandi capitalisti mentre la piccola borghesia tira a campare. Poiché tre indizi fanno una prova, si può concludere che negli ultimi duecento anni, in barba alle rivoluzioni, a due guerre mondiali e una fredda, dalle nostre parti non è cambiato granché. C’è però un’enorme differenza e riguarda la struttura profonda delle due società. Due secoli fa il contadino conosceva molto bene lo scopo della sua esistenza, glielo diceva il prete ogni domenica a messa. L’operaio viveva per il lavoro, l’aristocratico per il potere, il capitalista per il Capitale. Oggigiorno, invece, nessuno sa più che pesci pigliare: solo il capitalista ha ancora qualche sicurezza, tuttavia crack finanziari e svalutazione minano anche le sue certezze. Persino le luci abbaglianti di successo e potere non bastano più. “Così – per dirla con Fitzgerald – continuiamo a remare, barche contro cor-

rente, risospinti senza posa nel passato”. Proprio qui sta l’errore e sarebbe potuta esserci la via d’uscita. Continuiamo a guardare alla Storia, augurandoci che quelle mostruosità non si ripetano più, sperando in un futuro migliore, di ricchezza, pace e felicità. Le vie sbagliate, intraprese in passato, non sono state abbandonate. Al contrario sono stati sgretolati i punti di partenza, i valori su cui posava una millenaria cultura. Parafrasando la citazione di cui sopra: invece di cambiare rotta, abbiamo affondato la barca, abbandonandoci alla corrente. Così il boom economico, il ‘68, la caduta del muro, invece di guidarci verso un mondo cosmopolita, sapiente e più ricco, ci hanno precipitato in una poltiglia di valori fatui e politicamente corretti. Il mondo è rimasto povero, ignorante, classista e ogni giorno più bestiale. Come se l’ignavia dei rematori non bastasse, al timone del vascello non vi sono capitani coraggiosi ma furbi contrabbandieri di ogni stirpe in preda a delirî di onnipotenza e ai canti delle sirene. Il Senato non è il consiglio dei saggi, ovvero di coloro che hanno vissuto/viaggiato/studiato più degli altri e possono condurre il popolo nella crescita, ma un’assemblea di vecchi, resi ciechi e corrotti dalle vicende della Storia. Anzi, ora non ci saranno più neppure i vecchi, grazie al bambino del Fare. Fariseo. Il paradosso è che i progressisti, bruciando la tradizione, hanno cancellato le basi del progresso, conservando invece lo status quo, seppur mascherato da novità. Così, i conservatori, privati di di uno scopo, hanno cominciato a inseguire questo o quel gerarca o capitalista, sempre profeta in patria. Quindi, per rispondere alla domanda iniziale: no, non stiamo progredendo, anzi affondiamo. I pochi che sono ancora a galla, aggrappati ai resti della barca, non hanno altro compito che la testimonianza, affinché ciò che rinascerà dalle ceneri della nostra civiltà (ammesso che rinasca qualcosa) possa comprendere ciò che è stato e, si spera, farne un uso migliore.


Cinema

Il tramonto dell’identità

Frammenti reazionari tratti da Gran Torino di Clint Eastwood

di Lorenzo Natural

In un'epoca di eccessiva civiltà l'unica soluzione è il ritorno a una sana barbarie.

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alt Kowalski è un reduce della guerra di Corea, che vive con il proprio cane in una tipica casetta a schiera in una non ben definita città degli USA, passando il proprio tempo a spazzare il cortile e a bere birra osservando il mondo passare dalla sua sedia a dondolo: un uomo anziano, segnato profondamente dal dolore della guerra e dalla morte della moglie e forgiato dalla passione per le auto maturata in quarant'anni di duro e onesto lavoro nella fabbrica Ford della sua città. Walt Kowalski è anche un uomo schivo, scontroso, infastidito dalle presenze estranee: siano essi i vicini di casa, di etnia hmong, o i propri figli e nipoti, coi quali non intrattiene buoni rapporti, per usare un eufemismo. Kowalski è l'uomo tradizionale, antico, abituato al duro lavoro, legato al proprio Paese e ai propri valori, seppure in modo un po' naif, a volte persino fastidioso. I suoi figli e nipoti sono invece il (sotto) prodotto della versione 2.0 dell'american way of life: individualisti, egoisti, moderni, moralisti, incapaci ad affrontare le difficoltà vere della vita. Per loro Walt mostra solo disprezzo: disprezzo per la nipote che non ha nemmeno il pudore di vestirsi in maniera consona al funerale della nonna (la moglie di Walt), per il figlio che guida un'auto giapponese, un affronto bello e buono per il vecchio, per la nuora che vorrebbe sbatterlo in casa di riposo per disfarsene definitivamente. Thao e Sue sono invece due ragazzi hmong che abitano assieme alla numerosissima famiglia nella casa accanto a quella di Kowalski. Sono due ragazzi a posto,

educati, intelligenti... ma sono “dei fottuti musi gialli”. Eppure, con il tempo, Walt incomincerà ad apprezzare le loro gentilezze, i loro modi garbati, ma soprattutto la loro volontà di mantenere ben salde le loro radici e le loro usanze nonostante siano cittadini statunitensi e, passo dopo passo, ritroverà una certa affinità con tutta la grande famiglia hmong.

degli ‘spooks/bulli’ di quartiere (prendendosela a, poi si oppone con tutte le forze alla scriteriata gang del cugino di Thao, che mischia becero razzismo, questo sì, di strada con mescolanza tribale di simboli e codici paramafiosi, attingendo a quanto di peggio possa offrire il mondo, allo stesso tempo metropolitano e periferico, a stelle a strisce.

Perché? Perché il ‘razzista’ Walt giunge sul punto di esclamare, con malcelata presa di coscienza, “Dio santo; ho più cose in comune con questi musi gialli che con i miei figli!”? Perché il vecchio stronzo Kowalski trova affiatamento con Thao, Sue e la loro famiglia? Perché Kowalski rimane Kowalski, e perché gli hmong rimangono hmong. Nel rispetto reciproco delle leggi e della sensibilità comune. Il vecchio è stato ed è un americano tutto d'un pezzo, figlio di un'America ancora ‘europea’ e ancora legata ai propri valori. Così, allo stesso modo, gli hmong rimangono se stessi, con la loro identità, la loro tradizione, la loro lingua, la loro religione, il loro rispetto del sacro (lo stesso Walt, pur avendo un rapporto estremamente conflittuale con la religione, è rispettoso della sensibilità spirituale). Ed ecco perché un ex reduce della guerra di Corea arriva al punto di sacrificarsi – nel senso pieno del termine – per gli una volta odiati musi gialli.

Da una parte l'affermazione dell'io, dell'individuo, dell'identità forte e chiara (che non significa sopraffazione di quella altrui, sia chiaro) incanalata nel segno della tradizione. Dall'altra il melting pot tribale di strada, moderno, privo di direzione, di passato e di futuro, effimero e legato all'onda del momento, lontano da ogni rispetto dell'altro e di sé, e per questo razzista e discriminatorio, talmente irriverente da arrivare a compiere lo stupro incestuoso, il più osceno dei sacrilegi.

A fare da contraltare, come detto prima, l'imbelle famiglia del figlio di Walt e le gang della città. Prima Walt salva Sue dalle prepotenze

No, non è Walt Kowalski a essere razzista. Sono i pasdaran della modernità egalitarista a esserlo, appiattendo il mondo e a distruggendo ogni differenza etnico-culturale per convertire i popoli in masse insulse di automi consumatori. A distanza di quasi cinque anni, grazie ancora Clint per averci donato una perla di un'attualità disarmante. Peccato che buona parte della critica abbia accolto il tuo Gran Torino come un inno all'integrazione tout court, non cogliendone la profonda analisi sociologica. Non importa, ne abbiamo fatto un'abitudine.

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Qui, lontano dalla fila, la fila del futuro.

Anna Stefani


Terza Pagina THE DRINK Our drink, by chance a coffee at the bar despite the crowd chattering on relentless questions and rumours that will import back another aim, is doomed to spare a drop of promise (till the moment takes over us by and by conversation sinks in our glasses and we won’t have them replenished to sip a word or two on the surface for now a hint in our eyes quick unveils departure; yet we don’t want to but we must depart). We promise without a whistle or a cry-out, nor a sounding shook of hand or a secret message to be concealed in a sea of despise that we will will meet in a place, my dear, where we may trust only our malice, unafraid (should a stranger come) at last, of a single gaze questioning upon us. Angelo da Baciocchi

inserto letterario

Trieste Nuvole vaghe, Un imperturbabile e trascinante profumo di vento Che sbatte alla mia finestra L’armonioso ondeggiare del petroso bosco Di neri pini In pace con il mare In pace con il cielo. Il carsico gabbiano Stanco di errare tra la spumosa frenesia delle onde Stanco di sfoggiare il suo bianco tra I rocciosi imbuti E gli oscuri crepacci, Trova ristoro Tra i manti del crepuscolo E anche lui si tinge di nero. Hai occhi di mare, Trieste E labbra silvestri e rubiconde Hai capelli spettinati dal vento. Il tuo cuore è un porto di vele danzanti. Lucia de Bonis


Gentili lettori, Due parole su queste facciate: abbiamo pensato di cominciare a proporVi (e a proporre a noi stessi) alcune opere di autori stranieri già conosciuti nel loro Paese e in altri, ma non nel nostro. Non siamo traduttori e a lungo ci siamo interrogati sulla questione di riportare solo gli originali o se corredarli di traduzione, propendendo infine per quest’ultima soluzione. Iniziamo da questo numero con un poeta basco: Karmelo C. Iribarren. Nato a San Sebastián nel 1959, nel 1989 distrugge tutto quanto ha scritto fino ad allora ad eccezione di alcune poesie. Nel 1993 la sua prima plaquette Bares

y noches nella collezione di poesia Máquina de Sueños a cura dell’Ateneo Obrero de Gijón. Il suo primo libro di poesie appare nel 1995, La condición urbana (Renacimiento). Seguono: Serie B ( Renacimiento, 1998), Desde el fondo de la barra (Línea de fuego, 1999), La frontera y otros poemas (Renacimiento, 2005), Seguro que esta historia te suena. Poesía completa (1985-2005) (Renacimiento, Colección Calle del Aire, 2005), Ola de frío (Renacimiento, Colección Calle del Aire, 2007), Atravesando la noche (Huacanamo, 2009), Ola de frío (II edizione) (Renacimiento, Colección Calle del Aire, 2009), Versos que el

Retrato del poeta adolescente Un paquete de tabaco, un libro de poemas, cuarenta duros para tomar unas cervezas...

viento arrastra (El jinete azul, 2010, con illustrazioni di Cristina Muller), Otra ciudad, otra vida (Huacanamo, 2011), Seguro que esta historia te suena. Poesía completa (1985-2012) (II edizione ampliata e corretta) (Renacimiento, Colección Calle del Aire, 2012), Las luces interiores (Renacimiento, 2013), La piel de la vida (Baile del Sol, 2013). nel 2014 esce sempre per la casa editrice Renacimiento il primo libro in prosa Diario de K. Che altro dire? Cameriere, minimalista (con le dovute precauzioni nel dare etichette)... si capirà tutto leggendolo.

[Ritratto del poeta adolescente Un pacchetto di tabacco,/ un libro di poesie,/ quaranta cinquini (duro è la moneta da 5 pesetas)/ per prendere qualche birra...// Poca cosa, davvero:/ però per me/ era sufficiente.// E intanto apparivano le donne.]

Poca cosa, es verdad: pero para mí era suficiente. Y entonces aparecieron las mujeres.

La chica de la marquesina Sale de la marquesina y mira hacia la izquierda; vuelve y reinicia su pequeño “claqueteo” nervioso. No aguanta más, se muere, necesita que llegue el autobús; la vida, todo lo que ésta le tenga reservado. Y lo necesita ya, ahora, esta noche de sábado. Mañana es una entelequia, una ficción, un planeta a años luz. Y vuelve a salir y mira y se consume de deseo. Es terriblemente desgraciada un segundo y al siguiente -llega el autobús al fin- se ríe y parece que amanece en el mundo. Y yo la miro y pienso que, aunque solo fuera por eso, por esa fuerza, por sentir lo que ahora mismo está sintiendo ella, merece la pena vivir.

[La ragazza della pensilina Si sporge dalla pensilina e guarda/ verso sinistra;/ si gira e ricomincia il suo piccolo/ “scalpiccio” nervoso./ Non ce la fa più, impazzisce, ha bisogno/ che arrivi l’autobus; la vita, tutto/ ciò che questa le tiene riservato./ E ne ha già bisogno, adesso, questa notte di sabato./ Il domani è un’illusione, una finzione,/ un pianeta ad anni luce./ E torna a sporgersi e scruta e si consuma di desiderio./ È terribilmente disgraziata un secondo/ e quello dopo -finalmente l’autobus arriva- ride/ e pare che albeggi nel mondo./ Io la guardo e penso/ che, fosse anche solo per questo,/ per questa forza, per sentire/ lo stesso che ora sta sentendo lei,/ varrebbe la pena vivere.]


Cosas de poetas Un joven poeta que quiere conocerme. Quedamos en un bar. Hablo yo, él me mira y escucha: no bebo, no fumo, no creo en la salvación del mundo… Y luego un poco de literatura. Pasan las horas. La euforia inicial languidece. Le acompaño hasta su hotel. Me ha encantado conocerte –dice-, aunque… no sé… te imaginaba de otra forma. No pasa nada –le digo-, hace unos años yo también.

[Cose da poeti Un giovane poeta che desidera /conoscermi. Ci incontriamo /in un bar. Parlo io, /mi guarda e ascolta: /non bevo, non fumo, non credo / nella salvezza del mondo... /E poi un poco di letteratura. /Passano le ore. L’euforia /iniziale languisce. Lo accompagno /fino al suo hotel. È stato un piacere /conoscerti -dice-, anche se... non so... /ti immaginavo diversamente./ Non fa nulla -gli dico-,/ qualche anno fa anch’io.]

Asì es la puta vida Yo también, como Baroja, hubiese preferido ser un hombre de acción: no sé… pilotar un mercante, por ejemplo, o atracar bancos, o montar una guerrilla en algún sitio, o, en fin, cualquier cosa, salir en la tele con el Wanted debajo. Pero no: ni guerrillas ni bancos ni mercantes ni guantes ni hostias. Padre de familia, camarero y poeta. Así es la puta vida.

[Così è puttana la vita Anch’io, come Baroja (Pío Baroja, 1872 – 1956, autore di Memorias de un hombre de acción),/ avrei preferito/ essere un uomo d’azione.// Non so.../ pilotare un mercantile/ per esempio,/ o rapinare banche,/ o metter su una guerriglia in qualche luogo,/ o, alla fine, qualunque cosa,/ apparire in tivu/ con il Wanted sotto.// Però no:/ né guerriglie né banche/ né mercantili né guanti né ceffoni.// Padre di famiglia, cameriere e poeta.// Così è puttana la vita.]

Poesie estratte da “Seguro Que Esta Historia Te Suena. Poesía Completa, 1985-2012)


V

ogliamo qui accennare, per sussurri, smorfie e mezze frasi, a quel ricco e inesplorato impianto narrativo, quella pulsante letteratura d’avventura scritta nei secoli dell’era volgare dai castelli. Autori protervi, foschi, grifagni e sospettosi, ma sempre stimolanti, ci lasciano centinaia tra saggi, composizioni poetiche e romanzi, che pure si possono appiccicare e fondere, con operazione di forbici e colla candidamente illegittima, in una lunga opera unica; ne riconosciamo lo spirito. Non è difficile, partendo dalle segrete, grigie d’ossa frante, fino ai cieli immani a cui le merlature alludono, cavarne lo schema metrico, ingannevole ma rigido; lasse disordinate, varie, traboccanti di senso, che si inseguono fiere sui vasti campi ondulati, ornati di fiumi e ponti di pietra, aperti tra un castello e l’altro a perdita d’occhio, sotto il pieno sole di maggio. I narratologi tesaurizzeranno un giorno la struttura dialogica che pervade il discorso eterno delle bandiere, nei loro linguaggi; ora è per noi vitale non perdere neanche una parola - prima che il pensiero si faccia espressione imperfetta, e l’espressione abitudine, e le ultime idee scivolino nel sonno pietoso ma bestiale, guardiano feroce e inflessibile di ciò che è divino - dell’abbondante testo epico, gotico, barbaro, che gli ultimi contrafforti di questa fortezza cremisi, dalla collina, riversano sui tetti sonnolenti nel chiarore, più in basso, per un vento dolcemente tiepido: Al termine di un’alba incandescente, un profeta sogna un colloquio con gli angeli. Essi gli rivelano la morte imminente della donna che ama; al suo risveglio, riflette lungamente sulla visione. Con apprensione e sgomento crescenti, si rende conto che deve esserci un errore nelle disposizioni angeliche, poiché, pur pensando e ripensando, non riesce in nessun modo a ricordare di essere mai stato innamorato. Inizia a considerare metodicamente la portata di una tale rivelazione. Ha per le mani il segreto della falsità del quinto attributo divino, e ne è l’unico depositario; sa che il cielo è approssimativo. Ovviamente, tale conoscenza lo mette in una posizione pericolosa, date le sue assidue e cordiali frequentazioni celesti; decide di adottare un contegno tra il mellifluo e il distaccato, di azzardare un immane bluff con la divinità. Così, il suo commercio notturno non dirada: con servile acquiescenza, segue ad annotare e profetare diligentemente pestilenze e maremoti, in una ossequiosa divulgazione del futuro; da parte loro, i suoi informatori sembrano svagati, quasi timorosi di affrontare la questione, forse ignari, forse cauti. Come per prova, si sforza di intendere la passione, di costringersi, pensarsi, farsi amante, nell’estremo tentativo di ricucire il blasfemo squarcio delle sfere. Nelle notti estive, fra le balze punteggiate di dolmen e fuochi fatui, si finge adoratore devoto, questuante, vago di qualsivoglia metà. Interroga il corpo delle prostitute; postula immaginarie gelosie, fastose promesse di suicidio e indicibili fedeltà;

stila un compendio credibile dei “non lasciarmi mai”, degli “stammi vicino”. Nelle ore ardenti, all’ombra partecipe dei lecci e degli olivastri neri, osserva intento gli amori dei montoni e delle pecore, il loro insinuarsi tramutarsi consolarsi nell’altro, la pienezza elusiva dei loro orgasmi; ma i lamenti degli esclusi risuonano di un ché di inafferrabile, a metà tra lo straziante e il beffardo, come se esercitassero un dolore sincero ma farsescamente saputo, astuto. Nel frattempo, le chimere mattutine hanno preso a farsi, da fragorose e incendiarie, leziosamente retoriche. Le visioni ostentano un contegno altero, quasi fastidito; gli incubi profetici includono balbettii, messaggi casuali, spot pubblicitari. Con orrore crescente, il profeta si rende conto che la divinità, allertata, sta cercando di sopprimere l’errore. I segni si moltiplicano, inequivocabili: gli angeli gli si rivolgono al passato remoto, con il viso nascosto; da tutti i suoi documenti inizia a scomparire, cifra dopo cifra, la sua data di nascita. Atterrito, prova a liberarsi dell’insidioso segreto. Intavola trattative con l’Erebo, cerca appoggio tra i pianeti e le bestie dello zodiaco (ma le loro risposte sono vaghe e contraddittorie, come se fossero rivolte a qualcun altro); intimamente, intuisce di essere condannato. In un pomeriggio livido di tempesta, il profeta affronta la città, ubriaco; proprio quel mattino, il suo braccio sinistro aveva iniziato a sparire (ma ad essere sinceri, la sensazione di parzialità gli riesce tutt’altro che inedita: da tempo, vive con la percezione precisa di un’assenza morbida e micidiale). A un crocevia, viene sfiorato da una coppia che danza, intrecciata, e il suo sguardo incrocia quello della ragazza. In un attimo, balena alla sua mente un maestoso sistema prospettico: un insieme di sensazioni reciproche e simultanee, di notti segrete e respiri, una sorta di dolcezza puerile; insieme, la nozione atroce del dolore, dell’esclusione, di qualcosa che può essere solo di altri e mai tuo, come una donna che eternamente é lì, è lì, ma l’hai per un secondo e poi svanisce. Con un sorriso ammirato, riconosce il sarcastico tocco della divinità, la sua funerea ironia, che gli fa assaporare i privilegi dell’inesistenza, per poi donargli un dolore tragicamente umano; ne apprezza il fine savoir faire, la complice mano tesa, l’accomodante scappatoia a salvaguardia delle rispettive onorabilità. Fedele al suo ufficio di profeta, si avvicina alla donna, per informarla del suo imminente decesso. (Nota a margine d’un arazzo: Codesta fantasticheria sediziosamente romantica, con le sue curiose inesattezze, sembra esigere una seria e documentata riqualificazione dell’inferno; ci pare di ravvisare infatti nell’autore – ma il suo intento è incerto, e il dubbio rimane – una vaga e compiaciuta predilezione, rispetto alle intricate ambagi del mondo, per le gelide seduzioni del non essere, come un’affettuosa nostalgia del nulla.)

Andrea Piras


Viaggi

C’era una volta un paese di Lilli Goriup e Davide Pittioni Con tristezza e con gioia ricorderemo la nostra terra quando racconteremo ai nostri figli storie che cominciano come le fiabe: c’era una volta un paese... Underground Che la storia sia passata per la Bosnia Erzegovina è evidente, anche solo a un primo impatto estetico. Le lacerazioni prodotte dall’ultima guerra sono visibili nelle macerie che di tanto in tanto squarciano la serie degli ordinati palazzi rimessi a nuovo – edifici nudi, scarnificati, crivellati sull’intera superficie. La memoria del conflitto del 1992-1995 è presente e viva nelle testimonianze delle persone che incontriamo e nelle immagini che si ripetono nei musei. Lo scoppio dei nazionalismi e dell’odio interetnico rimane tuttavia qualcosa di inspiegato quanto improvviso, o perlomeno questa è l’impressione che funge da costante in tutti i frammenti raccolti a proposito. C’è poi un passato più remoto, legato alla storia della Jugoslavia e alla sua disgregazione. È quest’ultimo a essere più difficile da ricostruire, stratificato com’è in diverse narrazioni, esplicite e non. Il volto di Tito ci guarda dalle T-shirts esposte nei negozi di souvenir, in un’atmosfera di pace capitalista da fine della storia; presenza spettrale e innocua, mentre pochi metri più in là, all’interno del museo del vecchio di ponte di Mostar, si ripetono le immagini del bombardamento che, nel 1993, ha portato alla distruzione del ponte. Žižek parla di “balkanism” rifacendosi al concetto di “orientalism” di Said: i Balcani costituirebbero l’”inconscio d’Europa”, ovvero lo schermo sul quale uno sguardo occidentale proietta la fascinazione che prova non tanto per i Balcani in sé, quanto nei confronti dell’idea che di essi si costruisce; come di terre fuori dalla storia, in cui il tempo è sospeso e lo spazio è un altrove più primitivo, più vicino a uno stato di natura (o barbarie) rispetto alla realtà che è abituato a conoscere. Ne parla proprio in polemica con Kusturica, accusato, dal filosofo sloveno, di perpetrare tale stereotipo: questa apparente contraddizione non toglie impatto all’epigrafe ma, al contrario,

apre lo spazio per la prospettiva del fortda che si gioca tra prossimità e distanza, tra la “nostra” prospettiva-aspettativa sui Balcani e su quella che i Balcani ripongono su stessi, e ancora, lo scarto che ci separa dalla possibilità di cogliere pienamente quest’ultima. Il fort-da con cui apriamo lo sguardo sui Balcani non può che essere dialettico. Non trova soluzione o punto d’approdo. Salta continuamente da una parte all’altra della barricata, del confine, del bordo. I Balcani stessi sono un bordo. Tito, tra le altre cose, smarcò la Jugoslavia dalla divisione in blocchi imposta della guerra fredda, così che i paesi non-allineati diventassero quel confine che rompeva la dualità, il da dell’occidente capitalista e il fort del comunismo. Ma la Jugoslavia di allora non fu solo una realtà altra, alternativa e pericolosa società ai confini dell’Europa. Un’immagine su tutte: i funerali di Tito, in presenza della maggior parte dei capi di stato occidentali, anche Pertini, persino la Thatcher. Segno di una vicinanza abissale al mondo occidentale, di una prossimità non solo di interessi, ma anche storica e culturale. Come Sarajevo, tra le grandi capitali europee. Una vicinanza che diventa sempre più vertiginosa, sdrucciolevole, con lo scoppio dei conflitti etnici. Ed ecco emergere i Balcani pulsionali, barbarici, arcaici. I Balcani fungono così da paradigma di un rovesciamento. Tra cristiani moderati e tolleranti e islamici fondamentalisti, la Bosnia ci offre il suo rovescio. Qui, o là, i musulmani bosgnacchi sembrano mostrare il volto moderato della religione; i cristiani, invece, croati o serbi, cattolici o ortodossi, il volto violento. Come la croce che svetta sopra le colline di Mostar, città simbolo della divisione tra cattolici croati e musulmani bosgnacchi. Una croce che ammonisce, e preserva. Se da un lato tanti spettri si aggirano per la ex Jugoslavia, dall’altro lo spirito di quest’ultima sopravvive in alcune espressioni che a un orecchio occidentale paiono inattuali, come lucciole di pasoliniana memoria, condannate a scomparire non

al buio, bensì sotto la luce abbagliante dei riflettori del nuovo fascismo. Nella Bosnia di oggi si parla di pace e di futuro, all’interno del migliore dei mercati possibili, eppure – sono le donne dell’associazione KOS a raccontare, madri e vedove di guerra, cattoliche e musulmane, non certo delle militanti radicali – quel futuro appare quanto mai precario e incerto: la disoccupazione giovanile è al 57% e i cittadini continuano a scendere in piazza per rivendicare lavoro, diritti, nonché per protestare contro l’imposizione identitaria voluta con Dayton. E lo raccontano parlando di popolo e di resistenza, di fratellanza e giustizia. “L’immagine è poca cosa: un resto o un’incrinatura. Un accidente del tempo che lo rende momentaneamente visibile o leggibile”1. Ecco dunque cosa ci sembra di intravedere nello sguardo delle immagini del maresciallo, viziato dal fatto di costituire per noi uno schermo, nel fenomeno della jugonostalgija che riscontriamo in loco: a emergere dalle varie narrazioni compiute su ciò che è stato, più che sugli eventi in sé, è l’idea di un’alternativa che era parsa possibile. 1.Didi-Huberman, G. “Come le lucciole.” Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino (2010), p. 53.

LILLIGRAFIA

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Società

Ascoltare l’invecchiamento di Giovanni Isetta Il tentativo che vorrei compiere in queste pagine è quello di problematizzare il concetto comune di invecchiamento. Un gesto, questo, tipicamente filosofico (chi sta scrivendo è studente di filosofia) e che trova all’origine un impulso fortemente personale (ma che credo possa essere condiviso da molti lettori): i rapporti quasi quotidiani con quei “vecchi” chiamati nonni o genitori, che sempre più frequentemente diventano esperienze difficili, causa di sofferenza, per l’insorgere di quelle che vengono chiamate “degenerazioni cerebrali” (ormai divenute uno dei segni più caratterizzanti dell’invecchiamento contemporaneo). Il potere esplosivo di queste è immenso. Il famigliare inizia un processo inarrestabile di metamorfosi in un’alterità nuova, senza legami col passato. La memoria, la possibilità d’essere autosufficiente, gli stessi ruoli della famiglia, si frantumano. Nulla è più come prima: un figlio che non è più riconosciuto dal padre, gli atteggiamenti violenti, la perdita di pudore, l’incomunicabilità per l’uso di un nuovo linguaggio, l’assenza negli occhi di chi per tutta una vita ci ha cresciuto e amato, il ritorno improvviso come malato di una madre o un padre con il quale non si avevano più rapporti, ecc. Da alcune di queste esperienze è sorta in me la necessità di iniziare un percorso per comprendere più approfonditamente che tipo di processo si fosse attuato nelle persone che mi stavano vicino: considerarlo come la normale conseguenza della vecchiaia non era sufficiente. Certo, il punto di partenza era chi mi stava di fronte e la necessità di comprenderlo ma appena iniziai a far scivolare lo sguardo oltre quella figura si rivelò la vertiginosa complessità della situazione. Troppe erano le persone toccate, le istituzione implicate e le conoscenze in gioco per considerare la situazione dal solo punto di vista di colui che si considera “vecchio”.

Primo scivolamento

Generalmente con vecchio si intende un individuo molto avanti negli anni, caratterizzato da atteggiamenti e abitudini

tipici. Ma si può intendere anche un qualcosa costruito, accaduto o che dura o si verifica ripetutamente da molto tempo; rispetto agli oggetti può indicarne l’usura e di narrazioni l’essere note, conosciute da tempo. In definitiva indica uno stato fortemente caratterizzante fondato su una certa concezione del tempo che permette di identificare una certa figura umana e di inquadrare, all’interno di una rete di relazioni, oggetti e persone che trovano una certa identità nella contrapposizione con ciò che si definisce nuovo. Questa sentenza trova la sua origine in un movimento: l’invecchiare. Con ciò si intende il diventare vecchio, ovvero, l’attuarsi di cambiamenti che nell’uomo si riferiscono al corpo, alla vita affettiva, ad una certa maturazione e nelle cose alla perdita di produttività, di utilità e, in alcuni casi, nell’opposto aumento di valore, di pregio. A fondamento di questo stato di cose si trova il processo di invecchiamento. Relativamente all’uomo tale processo trova la sua definizione nel campo della scienza medica, la quale lo considera l’insieme delle modificazioni della cellula o dei tessuti che, con l’avanzare dell’età, divengono responsabili dell’aumento di rischio di malattia e di morte. Nello specifico la branca della medicina che si occupa dello studio delle patologie legate all’invec-

chiamento è la geriatria e, attualmente, la quasi totalità del sapere sull’invecchiamento si deve a questo campo insieme al contributo delle neuroscienze, a parte della neuropsicologia e della psicoanalisi. Un aspetto che va sottolineato è che non esiste una teoria in grado di spiegare i mutamenti subiti dall’organismo durante l’invecchiamento; tale processo biologico porta già in sé una molteplicità di fattori non riducibili ad una sola causa. In primo piano nel processo di invecchiamento c’è, quindi, il corpo fisico ed è su di esso che si fondano i principali discorsi intorno alla vecchiaia che così si trova drammaticamente limitata al corpo dell’anziano e alle sue “degenerazioni”. Ciò ha costituito un sapere che, legato al progresso della tecnica medica, ha permesso il trattamento delle maggiori cause di morte in età avanzata. Questo, insieme al miglioramento dell’alimentazione e delle condizioni igieniche, ha portato ad un notevole aumento dell’attesa di vita. Si è dato, così, avvio ad un crescita continua della percentuale della popolazione mondiale di età uguale o superiore ai 65 anni che avrà sempre più peso nella struttura socio-sanitaria, economica e politica.

Secondo scivolamento

Sostenere che il processo d’invecchiamento si limiti al punto di vista del corpo dell’anziano non è sufficiente. Pensiamo a chi è stato diagnosticato un probabile alzheimer, appena lo sguardo inizia a scivolare lateralmente dalla figura che si ha di fronte comincia ad apparire sullo sfondo il molteplice e complesso mondo dell’assistenza. Da esso emergono le famiglie, le associazioni di volontari, le aziende sani-


Società tarie pubbliche e private, le case di riposo, le aziende farmaceutiche, ecc. Un mondo fortemente caratterizzato da un aspetto affettivo del prendersi cura, da quello economico e da quello politico di gestione delle risorse. In prima linea ci sono le famiglie. Mogli e mariti, figli, figlie e nipoti vengono improvvisamente colpiti da una situazione alla quale non sono preparati e con difficoltà riescono ad accettare. Dimenticanze, difficoltà a parlare e a compiere gesti quotidiani, sono quelle piccole cose, per lungo tempo passate inosservate e che a lungo andare fanno emergere l’angosciosa consapevolezza che qualcosa sta accadendo. Può essere quella madre o quel padre, colonna portante della famiglia, che ora non riesce più a preparare la moka del caffè, che non si ricorda più il nome dei nipoti che vede ogni giorno, che non riesce più a gestire i soldi e paga dieci euro un caffè al bar. Iniziano le visite mediche per capire quale sia il problema e la cura per la guarigione ma, il più delle volte non c’è un nome, se non probabile, del cambiamento in atto e non c’è una cura che possa guarire definitivamente il “malato”. L’unica via da intraprendere è quella dell’accettazione e dell’organizzazione dell’assistenza. Si inizia a vivere nella sofferenza di un lutto anticipato che, se non viene affrontato in maniera adeguata, può diventare estenuante e portare all’ammalarsi del coniuge o dei figli che ne stanno portando il peso. Ed è qui che entra in gioco l’imponente macchina dell’assistenza pubblica e privata. Attraverso sistemi di valutazione atti ad individuare i deficit cognitivi e l’autosufficienza del malato inizia un fondamentale percorso di sostegno economico, medico e psicologico. In questa fase il ruolo di medici, psicologi e infermieri è particolarmente difficile. Il rischio è quello di focalizzarsi solo sul paziente dimenticando la complessa situazione famigliare sullo sfondo. Ciò può avere molteplici ripercussioni negative, ad esempio sulla situazione economica: occuparsi solo dell’anziano vuol dire aumentare la possibilità che, come è stato accennato poco sopra, s’ammali anche chi gli sta prestando assistenza comportando così ulteriori spese alla sanità pubblica. Un discorso a parte meriterebbero le case di riposo, in particolare a Trieste dove se ne contano più di novanta. Troppo spesso lasciati nell’ombra dell’indifferenza, riflettere sul ruolo che rivestono questi luoghi oggi appare ai miei occhi di fondamentale importanza. Da un lato

andrebbe approfondito il complesso sistema valutativo su cui si fondano le varie classificazioni per l’assegnazione della categoria d’appartenenza, per la quantificazione dei rimborsi economici e dei materiali, e dall’altro andrebbe compreso questo mondo che nell’immaginario d’oggi viene limitatamente legato ai colori della morte, della sofferenza e dell’abbandono[1].

Terzo scivolamento

Nei paragrafi precedenti ho tentato uno schizzo, molto sommario, del processo d’invecchiamento nel tentativo di muovere un primo passo verso la rottura di quei confini che lo limitano ad una specifica categoria di persone. Ora si rende necessario un cambio di prospettiva, un scivolare empaticamente al di là. Ciò significa tentare di fuoriuscire da un discorso d’assoggettamento della vecchiaia per far emergere liberamente il vissuto con l’anziano. Chi ha a che fare quotidianamente con queste soggettività sa che confrontarsi con una persona che non riesce a comprendere le proprie difficoltà e pretende di compiere azioni che non è in grado di fare, che si dimentica dopo poco ciò che le è stato detto dando avvio ad un discorso fondato sulla ripetizione e sulla frammentazione, che ha repentini cambi d’umore, che si muove più lentamente, ecc. è estenuante. Finché tali dinamiche rimarranno all’interno della coppia soggetto sano/ soggetto vecchio non si fermerà questa lotta generazionale che troverà conclusione solo con il giungere della morte di uno dei due soggetti. Uscire da questa staticità stagnante sta diventando sempre più una necessità. Le famiglie hanno sempre meno possibilità, economiche e di tempo,

per sostenere un’adeguata assistenza e la situazione rischia d’aggravarsi se pensiamo all’aumento dell’aspettativa di vita e la diminuzione dei componenti del nucleo famigliare. Si fa sempre più pressante l’esigenza di un’etica che favorisca la formazione di un’alterità intergenerazionale fondata su un senso della comunità che eviti un processo di ghettizzazione (fisica e sociale) dell’anziano. Siamo tutti toccati, dal neonato al centenario, dall’emergere di un processo di invecchiamento (fisico, economico, sociale, emotivo, etico, ecc.) che, per come viene affrontato oggi, pare stia generando stati di soffocante sofferenza e l’ergersi di muri d’indifferenza. Concludendo vorrei esortare ad un maggiore ascolto alla molteplicità di voci implicate in queste dinamiche che il velo della sofferenza e della morte troppo spesso copre di un necessario e rispettoso silenzio. Questo articolo è un primo abbozzo scritto di una ricerca (motivo per cui è potuto risultare a tratti banale, confuso, troppo legato alla mia esperienza personale) e nasce a conclusione di un mese di tirocinio svolto presso il Distretto 2 dell’Azienda per i Servizi Sanitari di Trieste. Colgo l’occasione per ringraziare il personale e le persone incontrate per la disponibilità e la gentilezza accordatami, in particolare F.V. che ha reso questo breve periodo un’esperienza profondamente stimolante e umanamente formativa. Foto di Luca Rossetto https://www.flickr.com/ photos/lukarock/ [1] Voglio accennare brevemente qui un’importantissima esperienza alternativa d’assistenza domiciliare che si sta attuando a Trieste: il progetto Microaree, un welfare di comunità per l’integrazione tra sanitario, sociale, politiche del lavoro e della casa.

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Storia

L’amore ai tempi del maoismo

Mao, su questo, era stato chiaro. «La rivoluzione non è un pranzo di gala», non è questione di eleganza o delicatezza, veniva dichiarato nel Libretto rosso, la sua opera più celebre. Che poi, che il titolo vero non fosse questo ma bensì Citazioni del Presidente Mao Tse-tung (o Zedong, a seconda della romanizzazione che vi piace di più) e che lui invece, non lo scrisse mai, è un altro discorso. Ad ogni modo, leggendo la «bomba atomica spirituale di potenza senza pari», come fu definita, emerge una visione della rivoluzione come frutto dello sforzo delle masse popolari investite di spirito di abnegazione, fedeltà alla causa, prudenza, onestà e sobrietà, guidate da un partito comunista, va da sé, almeno altrettanto illuminato. Tale spirito rivoluzionario non poteva che permeare nella sua totalità la vita dei lavoratori – a casa come in fabbrica o nei campi, il buon marxista non poteva ovviamente lasciarsi andare a comportamenti da feticista della merce, né ad altri atteggiamenti tipici del decadentismo borghese, come il libertinismo o peggio, il concubinato, diretto retaggio dell’arretratezza imperial-feudale. D’altra parte, quella cinese «è una grande rivoluzione, ma dopo la sua vittoria, la strada da percorrere sarà molto più lunga […]. È, questo, un punto che va illustrato fin d’ora affinché i compagni […] insistano nel loro stile di vita semplice e di lotta ardua»1 ed evitino «l’inerzia» e la «ricerca dei piaceri»2. Ancora più evocative sono le parole della signora Fong, personaggio della scrittrice Yiyun Li, che in risposta al marito, marxista fedifrago innamorato di una giovane donna, esclama: “Ti consideri

un buon marxista […] ma, non fu Marx ad insegnarti la bigamia, né il Presidente Mao a dirti d’avere una concubina!”3. Ma fu davvero così? Come era d’uopo all’epoca, Mao si sposò a quattordici anni, dopo qualche anno passato a scuola, con una ragazza diciottenne di un clan vicino. Il suo primo matrimonio non ebbe una grande riuscita, terminando qualche anno dopo con la morte di lei. Senza perdersi troppo in lutto, il nostro, coglie l’occasione per emanciparsi dall’autorità paterna. Si trasferisce prima nel vicino a capoluogo di contea e poi a Changsha, capoluogo di provincia. Dove conoscerà il suo insegnante di scienze sociali e, soprattutto, sua figlia, Yang Kaihui. Nonostante il professore sia poco incline ad una relazione tra i due, il futuro eroe della rivoluzione non si perde certo d’animo e, avendo colto nei suoi studi, il segreto del capitalismo occidentale –la diversificazione-, intreccia contemporaneamente una relazione con un’altra ragazza, Tao Yi. Diventato ormai una personalità politica di spicco, il nostro scrive su numerose riviste, toccando, tra le altre, la questione matrimoniale. In principio, lanciando appassionati strali contro il «vergognoso sistema dei matrimoni combinati», ed a favore delle unioni romantiche – poi, radicalizzando la sua posizione, tanto da comunicare in una lettera ad amici la sua risoluzione a non volersi mai sposare, suggerendo anzi, a chi avesse già contratto tale legame, di spezzarlo e agli altri, di non stringerlo proprio. Senonché, nella Cina agricola non s’ignora certo cosa tiri più di un carro di buoi -il pensiero del sol dell’avvenire, cos’altro?-, tanto che il nostro, ritrattando molto velocemente, sposerà giusto qualche settimana dopo, Yang Kaihui, la figlia del suo ex-professore, da poco deceduto. Diventato ormai padre di famiglia, il nostro viene travolto dalla guerra civile. Bloccato nelle campagne dello Jiangxi, mentre fonda una piccola repubblica sovietica, fa la conoscenza della giovane e bella He Zizhen, destinata a diventare la sua terza moglie e a dargli altri sei figli. I quasi vent’anni di differenza non scoraggiano i due. D’altra parte, si dirà, l’a-

di Nicola Bocola more è cieco e vuoi mettere il fascino di colui che da li a poco sarebbe stato noto come il “quattro volte grande”. Tanto cieco quest’amore da non vedere che intanto, l’altra moglie del Gran Timoniere, bloccata a Changsha con i figli, continuava fiduciosa ad aspettare il suo ritorno, finendo per essere catturata e giustiziata dai nazionalisti del Kuomintang per essersi rifiutata di tradire il marito4. Ma anche le storie più belle finiscono. He Zizhen, da poco madre per la sesta volta, viene spedita in Unione Sovietica con la prole per questioni di “sicurezza”. Mao, dal canto suo, senza la moglie è vittima del suo stesso irresistibile fascino socialista. Di lui s’innamora follemente la venticinquenne attrice Jiang Qing, con cui andrà a convivere lo stesso anno e che sposerà qualche mese più tardi. Il fatto che sia tecnicamente ancora coniugato con He, è evidentemente, solo una formalità borghese. Tuttavia, nemmeno la giovane attrice riuscirà a fargli mettere la testa apposto. Con una similitudine con certi fatti di cronaca nostrana, Mao, ormai vecchio, era solito organizzare cene e balli che finivano regolarmente in orgia, in cui affluivano giovani ragazze di belle speranze dalle campagne – anche in questo caso, non necessariamente maggiorenni5. Non bastando, tanto per continuare il parallelo, pur ultrasettantenne, la sua ultima fiamma si dice fu la sua assistente, Zhang Yufu, cinquanta anni più giovane. In sua difesa, d’altra parte, lui l’aveva detto: la rivoluzione non è questione di eleganza, «non è un pranzo di gala». È un bordello. Anzi, un postribolo, con buona pace della signora Fong. 1 “Rapporto alla seconda sessione plenaria del comitato centrale uscito dal VII congresso del PCC” (5 marzo 1949), Opere scelte, vol. IV, pp. 89-90 2 Ivi, p. 89 Y. Li, A Thousand Years of Good Prayers. Harper Perennial, p. 42 3 Z. Li, The Private Life of Chairman Mao: The Memoirs of Mao’s Personal Physician. Random House Inc, p. 53 4 J. Mirsky, “Me and Mao’s girl”, The Spectator., 29-10-11


Società

2014 - “Jonesplanet”:

un appello dal pianeta Terra! Articolo scritto da una lucciola e riportato fedelmente

1977 – esce il disco di rock progressivo italiano “Forse le lucciole non si amano più” del gruppo esordiente “La locanda delle fate”. 1978 – il 18 novembre, a Jonestown, avviene uno dei più grandi suicidi di massa della storia, quello di quasi un migliaio di persone. James Jones (o Jim Jones) fu un predicatore statunitense, conosciuto per aver fondato la setta religiosa The People’s Temple of the Disciples of Christ (o Peoples Temple). Il “Tempio del Popolo” venne fondato nel 1955. La setta si basava su vari principî che avevano importanti implicazioni in ambito sociale. Jones proponeva di costituire una comunità, che sarebbe andata a combattere il razzismo, il sessismo e l’imperialismo dell’America dell’epoca. Alla fine degli anni ’70 fondò Jonestown (in Guyana), che sarebbe dovuta essere una nuova “terra promessa” per gli adepti del “Tempio del Popolo”. Il 18 novembre 1978 Jim Jones, che aveva già cominciato a dare evidenti segni di squilibrio mentale (stupri, molestie sessuali, violenze), convocò tutti gli abitanti di Jonestown in un’assemblea generale e li spinse al suicidio, facendo ingerire a tutti una bevanda avvelenata con del cianuro. Poi si sparò un colpo alla testa. Pochi furono gli adepti sopravvissuti. “E quando il vento ancora si fermava un po’ tra i miei capelli, inventavo favole” Jonestown era un’isola di felicità; le persone potevano vivere in una comunità libera dalle brutturedelmondo,dovenoncisarebberostate distinzioni di razza o di sesso o di ceto sociale. Parimenti “Jonesplanet”, il nostro pianeta attuale “globalizzato”, ci dà la possibilità di credere in dei valori: l’omosessualità viene accettata, gli animali sono uguali agli uomini, siamo liberi, ogni persona può essere felice, esiste libertà di pensiero e di espressione della propria opinione. Ma un’acuta analisi della realtà può farci chiaramente capire che è tutto ciò finto perbenismo, è solo “apparenza”… che la sensibilità umana ha una data di scadenza ormai vicina. “Jamesplanet” è il mondo in cui viviamo, un mondo che sembra darci tante certezze, ma che in realtà ce le toglie tutte, privandoci del-

la nostra linfa vitale. Sarebbe bello ritrovare i sogni e le illusioni perdute. “Pazzi, forti eroi, tutto era sbagliato” Jonestown era realismo, non illusione. Jones, con il suo carisma e la sua forza, diede una possibilità alla formazione di un “nuovo Rinascimento”, alla genesi di un nuovo mondo, una piccola comunità leale e fedele. Il mondo al di fuori era fatto di illusioni, di brutture, di pazzie… Sembra che “Jonesplanet” sia in conflitto con il modo esterno, ma in realtà il verme di questa società è insediato all’interno di essa. Tutto è così reale, fin troppo reale. È come se noi stessi fossimo il Jones di noi stessi. Chiusi in una stanza, nella quale un “nuovo Grande Fratello” spia costantemente noi, che siamo sia vittime che carnefici. Ma qual è la fonte di tutto questo malessere? Il continuo arrovellarsi delle nuove generazioni sui problemi esistenziali è di contributo, anche se nulla è più come una volta. La morte sembra più una scena da film splatter che la perdita di una persona cara; è troppa la superficialità con cui alcuni studenti di infermieristica e di medicina postano foto e selfie con cuori, polmoni, organi veri su Facebook. Siamo come confinati in una realtà a sé stante, siamo privi di coscienza scientifica e di razionalità, ma anche di fede e di irrazionalità. Non sarebbe forse meglio credere ancora ai demoni della Prussia e ai folletti dell’Islanda? Credo di sì. Nemmeno mi esprimo sul “Knockout game” 1 e sulla “Neknomination” 2. Come nel caso di Jonestown, il nostro problema non è all’esterno della società, ma a suo interno. I sentimenti irrazionali non esistono più, quelli irragionevoli sì. “Troppo scuri i silenzi, nei dintorni e qui dentro” Ecco la “cellula emblematica” dell’album de “La locanda delle fate”. In questa frase emerge il rimpianto per l’età dell’oro e la consapevolezza di vivere un momento di malessere. È il momento di riflessione di un Uomo travagliato… L’illusione è unica possibilità per l’Uomo di sopravvivere alle brutture della realtà. Deve accontentarsi del suo rifugio onirico.

di Solivagus Rima

“Forse le lucciole non si amano più” Forse è vero che viviamo in un mondo in declino, che troviamo rifugio in cose fin troppo terrene. Forse il sogno, l’illusione, è la nostra unica certezza, la nostra unica speranza di salvezza. La dimensione onirica! Ma realtà e illusione devono rimanere due insiemi distinti. È l’apparente intersezione fra essi che rende il nostro mondo così instabile. I sogni devono rimanere illusioni; se il sogno si mescola alla realtà, si finisce per morire, come accadde a Jonestown. Infatti il sogno non tradisce, gli individui “idealizzati” sì. Siamo realmente liberi a “Jonesplanet” o siamo chiusi in gabbia? “È più facile dominare chi non crede in niente. E questo è il modo più sicuro di ottenere il potere” - Gmork, il lupo de “La storia infinita” di Michael Ende. Jones, ipocrita, un giorno lanciò la Bibbia con violenza a terra per dimostrare che Dio non l’avrebbe fulminato. Criticò il Vecchio Testamento come libro razzista e sessista, ma lui non era da meno. L’illusione come pura illusione, il sogno come puro sogno, possono aiutarci a sopravvivere – la consapevolezza di stare sognando, non speranza che i sogni diventino realtà. Il sogno deve rimanere sogno e la realtà rimanere realtà. Alla fine l’episodio di Jonestown fu un suicidio o suicidio-omicidio? Buoni saluti, una vostra affezionata lucciola 1 “Knockout game”: uno dei tanti nomi dati dai media americani al fenomeno degli assalti di due o più aggressori a vittime casuali incontrate per strada. Il “gioco” prevede che si tiri un pugno ad un’ignara vittima per metterla fuori gioco e che il video dell’aggressione venga postato sui social network. 2 “Neknomination”: è un “gioco” che consiste nel filmarsi mentre si beve una pinta di una bevanda alcolica (solitamente birra) tutta d’un fiato e pubblicare il filmato sui social network..

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Musica

SOLO RUMORE Cinque dischi per la primavera .SELTON – SAUDADE “Sono brasiliani, sono giovani, belli e bravi”: così ci introduce la band Renato Pozzetto. Ma-che-stai-a-dì? Fermi lì, i Selton sono quattro ragazzotti la cui biografia merita almeno un breve riassunto: originari del Paese dell’Ordem e Progresso, si sono conosciuti a Barcellona, dove suonavano cover dei Beatles nella bellissima cornice del Parc Guell. Lì vengono scoperti da Fabio Volo, all’epoca uomo di MTV per Italo-Spagnolo e non ancora santone e redattore di massime per giovani scontenti di se stessi. Scontato fu l’arrivo in Italia, o un po’ meno il primo disco, Banana à Milanesa, che vanta soprattutto delle cover di Cochi e Renato (e qui il cerchio si chiude). Il termine saudade, di fatto intraducibile in italiano, indica la nostalgia per la patria e allo stesso tempo la gioia nel ricordarla: un sentimento contrastante, di gioia e amore, che descrive alla perfezione il disco. L’opera dei Selton è infatti un amalgama di britpop, canzone italiana e ritmi brasiliani, un momento di lacrime e di sorrisi: un prodotto unico, orecchiabile e adatto ad ogni stato d’animo. Brani preferiti: Across The Sea, Vado Via, Solo Un Ricordo.

TODD TERJE – IT’S ALBUM TIME Terje Olsen è uno dei maestri della disco scandinava (al pari di altri mostri sacri quali Lindstrom e Prins Thomas). Ingordo fin da giovanissimo di qualunque disco associabile all’etichetta di elettronica (techno, house, dance, dub) ma anche esploratore di generi più comuni (come dimostrano le passate collaboNUMERO VI

- MAGGIO

razioni con Robbie Williams e i Franz Ferdinand), il dj e produttore norvegese mischia poi tutte queste influenze nei suoi lavori. Echi di Micheal Jackson, degli anni 80, di “Ritorno al Futuro”, di Giorgio Moroder; beat trapananti anni 2000, campionamenti di pianoforte e fiati, ogni tipo di sintetizzatore esistente sul pianeta Terra: mastro Terje, con la sua decennale esperienza, crea un vortice di suoni che inevitabilmente genera shakerate di bacino. Brani preferiti: Svensk Sas, Delorean Dynamite.

M+A – THESE DAYS

Elettro pop da Forlì: la storia di Michele e Alessandro è quella di chi nasce con la musica in famiglia, nel sangue, e non può fare a meno di farla. Una band molto contemporanea, più da studio che da live, che tramite un prodotto valido e apprezzato ben oltre i nostri confini nazionali è riuscita anche a partecipare al Glastonbury per giovani talenti. Con una voce avvolgente, un mix di percussioni (ora gestite dal nuovo arrivato Marco) e di strumenti, quali sintetizzatori, fiati e chitarre, il secondo disco degli M+A è un ottimo lavoro che meriterebbe molta più notorietà nel contesto italiano. Brani preferiti: When, Down The West Side.

FOXHOUND – IN PRIMAVERA

La solarità e la nebulosità della bossa nova, la formazione sulle grandi pietre miliari del rock maledetto, un sentimento pervasivo di gioia, il tema (mai realmente scelto) della solitudine, le registrazioni del disco in una casa iso-

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Tutti i numeri arretrati di Charta Sporca sono consultabili online dal sito www.chartasporca.tk

lata sul lago di Garda. Perché non dare una chance a un gruppo di 21enni di Torino? Brani preferiti: Erase me, Summer Yeast.

REAL ESTATE – ATLAS

Atlas è il terzo disco di questa band, che succede all’omonimo Real Estate e a Days, lavori che hanno ricevuto trasversalmente solo critiche positive. Il contesto musicale di cui fanno parte questi ragazzi del New Jersey è quello del surf rock, di cui ho parlato qualche mese fa introducendo una band molto affine, i Beach Fossils. Il disco è un eccellente compromesso tra un atmosfera pop molto rilassata, delle distorsioni di matrice shoegaze, alcuni momenti di neo-psichedelia e la voce sognante di Martin Courtney. Una qualità incredibile sia a livello musicale che nei testi, una band di qualità che, pur rimanendo sempre fedele al proprio genere, riesce a non stancare mai. Musica da gita in bicicletta in una mattina primaverile. Brani preferiti: Talking Backwords, April’s Song. Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

chartasporca@gmail.com www.chartasporca.tk In copertina una foto di Stefano Tieri


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