Charta Sporca n.6

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NUMERO VI - MAGGIO 2012

Autodisciplinati di Stefano Tieri

Un “grande fratello” orwelliano che tutto guarda, ascolta, controlla, e alla più piccola inadempienza punisce. È in questa immagine che ci culliamo, paghi della nostra “libertà”, quando pensiamo ad un regime totalitario, magari davanti ad un televisore a sgranocchiare snack americani e ingurgitare birra cinese. Ma l’oppressione non si manifesta più necessariamente (non solo, almeno) tramite la violenza, fisica o psicologica che sia. Là dove la concezione di “libertà” è profondamente mutata è difficile rendersi conto di questa spinta invisibile: se è vero che ogni azione è percepita come libera, ricade sistematicamente all’interno di una precisa gamma di comportamenti, ritenuti perciò “normali”. Le pratiche di quella che potremmo chiamare “oppressione della normalità” sono più velate, dolcificate, e ricordano da vicino un’altra celebre distopia della letteratura: “Brave new world” di Aldous Huxley, teorico di una civiltà la cui stabilità è fondata sull’indottrinamento sistematico e sull’altrettanto sistematico utilizzo del soma («nel mondo nuovo l’uso del “soma” non era un vizio personale; era un’istituzione politica; era l’essenza stessa della Vita, della Libertà e del Perseguimento della Felicità, garantiti dalla Carta dei Diritti», chiarisce l’autore nel “Ritorno al mondo nuovo”), specchio dei nostri – ahinoi diffusissimi – psicofarmaci. Possibile concepire l’infelicità come una malattia, al punto da ricercarvi una cura chimica? Possibile creare, in provetta, l’infelicità? Forse la domanda pecca di malizia, ma i risultati sono evidenti: siamo sospinti all’interno di un circuito – quello del consumo – totalizzante e continuo, un circuito che crea desideri (Marcuse parlava di «falsi bisogni»), i quali a loro volta, lungi dal soddisfare il soggetto, ne richiamano degli altri, in una catena infinita. Ma il denaro non è infinito, e nell’impossibilità di soddisfare ogni desiderio se ne soffre la mancanza. Ecco allora la “soluzione”: l’indebitamento (condizione che è divenuta infatti, negli ultimi anni, normalità). Un indebitamento che è però una sottile e velata pratica di controllo: il “sentirsi in debito” è in qualche modo un “sentirsi in colpa” perché qualcosa, di non

dovuto, ci è stato dato; e il legame creato ci assoggetta, senza via d’uscita, al creditore. Preso atto, come si accennava prima, che il debito costituisce una costante della nostra esistenza (al punto da non essere nemmeno più necessario il gesto dell’indebitamento, in quanto – almeno in Italia – ognuno nasce già debitore di qualche decina di migliaia di euro), in che misura esso costruisce la nostra vita, la nostra identità? Il rapporto fra neoliberalismo, il suo prodotto – il soggetto indebitato – e le conseguenti pratiche di controllo sono da qualche mese argomento d’analisi di un seminario tenuto dai filosofi Pier Aldo Rovatti e Massimiliano Nicoli. Ci incontreremo con loro in un dibattito aperto dove verrà esposta e discussa la ricerca che stanno portando avanti. Vi invitiamo a partecipare all’incontro che si terrà il 22 maggio nel dipartimento di italianistica (via dell’Università n.1) dalle ore 20.30. Dalla normalizzazione all’automatizzazione il passo è breve: prima di risvegliarci automi, chiediamoci dove sia finita la nostra libertà, «la libertà di dire no» (Ernst Jünger, “Il trattato del Ribelle”).

I

Lilligrafia


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