Numero 9

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NUMERO IX- NOVEMBRE 2012

Tirando le fila di Lorenzo Natural

Gentili lettori e lettrici, da quando – poco più di un anno fa – Charta Sporca faceva la sua prima timida apparizione tra le varie facoltà, le cose, in senso generale, non sono cambiate di molto. Quel numero 0 del giornale recava in prima pagina una foto delle innumerevoli manifestazioni che in quel periodo si succedevano ininterrottamente. Oggi la situazione ci appare come un déjà vu: proteste contro i tagli all’istruzione, scontri, scioperi... La scelta, quindi, di intraprendere quest’avventura poteva sembrare ossimorica rispetto alla situazione in cui tentavamo di insinuarci. Bene, a distanza di un anno, abbiamo la presunzione di aver scelto una strada giusta: la serietà, il metodo e – soprattutto – la continuità di portare avanti mese dopo mese il discorso Charta Sporca sono risultati ingredienti vincenti per cercare, nel nostro piccolo, di ridare un senso, una profondità, una reinterpretazione quasi avanguardista (cosa c’è di più avanguardista oggi se non il lavoro di ripresa di determinati concetti?) non solo alla parola, ma allo spirito di Cultura. L’interesse che ha riscontrato il nostro giornale – non privo di critiche negative che, se formulate cum grano salis – ha sempre stimolato a migliorarci e a «rimettere in discussione tutto» – ci ha spinto a prendere coscienza della bontà del nostro lavoro. Ed è per questo, e non per una mera smania di grandezza, che abbiamo deciso di trasformare Charta Sporca da “gruppo universitario” in “associazione culturale”. Ovviamente ciò non comporterà un automatico innalzamento delle nostre capacità di analisi, ma rappresenta uno spunto da cui vogliamo ripartire per cercare, numero dopo numero, di ampliare il discorso comune che assieme a voi lettori abbiamo intrapreso. Nel nome di questa voglia di ritagliarci uno spazio sempre più importante, ma mantenendo la stessa

linea iniziale, scevra di inutili individualismi, di compromessi o di accordi con ciò che dalle righe di questo giornale combattiamo (nb: a scanso di equivoci e di malelingue che hanno messo in dubbio questo punto, mi preme sottolineare che tutte le spese occorse a stampare le copie del periodico provengono esclusivamente da fondi universitari destinati agli studenti), non mi resta che augurarvi buona lettura, riportando, in calce, l’ultimo punto del nostro Manifesto, più attuale che mai: «vogliamo sporcarci le mani, ogni pilatismo è bandito; né il politicamente corretto, ovunque annunciato e di cui si armano i pavidi, sarà di casa. Ognuno avrà il coraggio e la forza delle proprie idee».

La targa, scrostata dal tempo, divorata dagli anni, riflette la noncuranza con la quale le istituzioni pubbliche si sono curate (e si curano) dell’Università e del mondo della ricerca. Non solo la forma ma il contenuto stesso della targa è stato svuotato: un tempo la via ospitava infatti i dipartimenti di Filosofia e di Italianistica; ma il primo è stato chiuso anni fa (superstite la sola aula Ferrero, accessibile da un altro edificio), il secondo la scorsa estate. Nel primo, inutilizzato ed abbandonato da allora, il tetto è crollato, riducendo parecchio la speranza di un riutilizzo futuro. Il secondo è stato chiuso e messo in vendita quest’estate: e se, ipotesi da non ritenere irrealizzabile data la crisi del settore edilizio, l’edificio rimanesse invenduto? Avrà una sorte analoga del fratello, se non peggiore. L’Università viene erroneamente considerata da noi studenti come un servizio donatoci da un padre magnanimo, di cui perciò accettiamo acriticamente ogni aspetto; mentre siamo proprio noi a sostenerla: sia tramite le esose rette universitarie sia, in maniera indiretta, per mezzo del FFO (il “Fondo di Finanziamento Ordinario”, soggetto ad ingenti tagli dai governi negli ultimi anni, è infatti pagato con le tasse di tutti i cittadini – noi compresi). L’Università è nostra, non credete sia ora di riprendersela?

Stefano Tieri

Direttore Responsabile: Stefano Tieri; Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo; Sito Web:www.chartasporca.tk; Per contattarci:chartasporca@gmail.com

I


Quella dose di non detto di Piero Rosso

L

a storiografia benjaminiana permetteva di ritrovare all’interno di un caos inconscio ciò che è uguale a se stesso con caratteri nuovi, e di superarlo. Questa operazione passa inevitabilmente per un meccanismo simultaneo di accettazione-negazione di se stessi. Considerando che il ricordo non è la ricostruzione storiografica del sé, è questo il carburante filosofico di cui siamo in cerca: quella vera e profonda dialettica con il sé inattuale che viene oliato e rigettato nel meccanismo della storia. In epoca moderna si è visto il rivolgimento di questo meccanismo: quello scoppio ha creato una serie di tentativi di preservare il sé come astorico, fuori dal tempo. Goethe fece il famoso viaggio in Italia dal 1776 al 1778. Cosa fu, in fondo, se non la maturazione del suo Classicismo, che è già di suo un distacco dal presente? Baioni ricorda: “Goethe si sforza continuamente di comprendere tutto quello che incontra in Italia, il paesaggio, le città, i monumenti artistici, la natura, nella loro forma ontologica e atemporale”, e lo riconosce come uno dei limiti di quel bearsi classicista. Egli fu dapprima Sturmer und Dranger, ma non trovando in quel movimento una conciliazione con la società – come avrebbe potuto? – si rifugiò a Weimar, dove dall’incontro con Schiller nacque il famoso Classicismo weimariano, cioè una nicchia fuori dalla storia. Sempre Baioni: “Goethe aveva escluso deliberatamente le forze dinamiche della storia, dolorosamente evidenti nella tragedia della Rivoluzione francese perché si era reso conto del fatto che l’identità poetica di società e natura, sulla quale si reggeva l’umanesimo classico, non trovava riscontro nella realtà storica, dominata invece dal caos e dalla brutalità delle lotte politico-sociali. Eppure, è proprio in questo disaccordo tra poeta, società e natura che si intravede la chance rivoluzionaria. Non tutti hanno affrontato il decadimento sociale con una fuga; c’è chi se ne è nutrito. Allen Ginsberg racconta il decadimento, a suon di bebop, nel suo ululato – The Howl: “I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked/ dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix / angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly conncection to the starry dynamo in the machinery

of night”. Non tutti trasformano il decadimento in una forma artistica; molti preferiscono evitarlo. Goethe sentì il bisogno del distacco da quella Germania irrealizzabile, capì che il Prometheus – la lotta dell’uomo contro la Natura – o il Ganimed – l’amore panico, universale dell’uomo nella Natura – non erano piu’ modelli possibili. Sebbene nacque un Werther, che spopolò, per Goethe non fu abbastanza, e la dissonanza del suo borghesotto in fuga con tutto ciò che lo circonda – Natura compresa, tanto che egli dichiara di non saper piu’ dipingere – ebbe bisogno di un’ulteriore spinta: la Natura caotica unificatrice e separatrice de “Le Affinità Elettive”. Natura e Storia, ce lo ricorda Calvino, assieme all’Individuo, sono i pezzi che compongono l’epica moderna: “Il grande romanzo dell’Ottocento comincia questo discorso e la narrativa del Novecento, nelle sue forme piu’ convulse e spigolose, lo continua”; sono elementi che opportunamente mescolati rendono “la vita ultraindividuale che c’è stata e ci sarà dopo di noi” (Calvino). Il romanzo, insomma, deve essere l’onesta ricerca di un senso della storia, che è un bisogno ineliminabile dell’uomo. Ma il personaggio romanzesco non è lo storiografo. La meta-arte, cioè l’arte che parla di se stessa, non mantiene piu’ questa distinzione fondamentale. Una volta che si è dichiarato ciò che si sapeva già, cioè che l’arte è finzione, cosa si è ottenuto? La distruzione della sospensione d’incredulità, cioè quella condizione per cui la mente si trattiene in una dimensione di sospensione dal presente tramite l’empatia con l’opera d’arte. Quest’ultima, dunque, soffre del rivelamento del trucco del suo funzionamento, diventa impotente: non può più intervenire sulla storia perchè è ormai parte dell’eterno presente che è fondamentale allo storicismo. Lo storicismo è un metodo che presume che il passato sia stato già tutto citato, che su quello si tirino le somme; soffre immensamente ad ogni nuova scoperta storica: deve inserire il nuovo tassello in

un sistema chiuso che non ha spazio per esso. In particolare, se il tassello è discordante con le conclusioni dello storicista, esse vengono cambiate radicalmente, oppure si ignora il nuovo pezzo. Per scrivere storia è necessario accogliere l’idea che il materiale caldo e malleabile stia proprio in quella dose di non detto. Fare la lotta di classe rischia però di diventare una lotta per accedere agli strumenti per fare storia – i vincitori impongono il proprio sistema di misurazione del tempo – e non una lotta per il disvelamento continuo del rimosso. Benjamin scrive: “Solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato [...] citabile in ognuno dei suoi momenti”. Ma la citazione stessa è soggetta ad un continuo gioco interpretativo.

II

All’inizio della raccolta di poesie Foglie d’erba, Walt Whitman scrive: “Che, dopo morte, dovessi invisibil tornare/ O, piu’ tardi, piu’ tardi, in altre sfere,/ A un gruppo di compagni i miei canti riprendere,/ (In accordo con suolo, alberi, venti della terra, tumulto delle onde),/ Possa con soddisfatto sorriso continuare,/ A sempre riconoscere miei questi versi – come, qui ed ora, per la prima volta,/ Firmando con anima e corpo, il nome mio v’appongo”. Nonostante nell’ultima frase sia racchiusa tutta la potenza della autorialità, Whitman oggi si dovrebbe arrendere all’ineffettività di questo ultimo verso, e si spaventerebbe di fronte alla mercificazione delle citazioni, cioè quel processo di significazione che funziona per il principio di selezione del boccone prelibato e scarto di tutto il resto. W. Benjamin aveva descritto quest’uso egemonico della citazione. Direbbe forse che Whitman fa ora parte della sua stessa poesia in cui cantava gli Idoli il cui “visibile null’altro [è] che la matrice della lor nascita”. Non è un caso infatti che Allen Ginsberg concretizzi la visione mercificata di questo cantore americano in A Supermarket in California: “In my hungry fatigue, and

shopping for images, I went into the neon fruit supermarket, dreaming of your enumerations! [...] Where are we going, Walt Whitman? The doors close in an hour. Which way does your beard point tonight? (I touch your book and dream of our odyssey in the supermarket and feel absurd).” Ginsberg capisce bene che quello shopping di immagini è l’idolatria moderna, e non può fare a meno di situare il poeta – diventato anch’esso parte del supermercato, cioè merce – tra le corsie e gli scaffali. Whitman aveva capito, ed espresse riassunto in poche parole, un messaggio fondamentale che sarà un caposaldo benjaminiano: nel verso della poesia Poeti venturi“Sorgete! Spetta a voi giustificarmi”, egli dichiara infatti di non sentire il limite della propria azione, capisce che arriverà il tempo in cui verrà rivalutato e non ha bisogno che di questo: che dal presente dei poeti venturi si faccia giustizia alla – sua – storia. A Berkeley, nel 1955, quando Ginsberg scrisse A Supermaket in California, egli denunciava la mercificazione del grande poeta ormai assorbito nella lunga lista di idoli americani, il quale un tempo si interrogava sull’esistenza umana e che ora è ridotto ad interrogarsi sui prodotti commerciali: “I saw you, Walt Whitman, childless, lonely old grubber, poking among the meats in the refrigerator and eyeing the grocery boys./ I heard you asking questions of each: Who killed the pork chops? What price bananas? Are you my Angel?” e questa è l’ultima domanda prima di scomparire. Rendere giustizia alla storia è compiere questo disvelamento. L’oasi di Weimar non durò, venne saccheggiata durante la guerra franco-prussiana nell’autunno del 1806. L’astoricità classicista dovette arrendersi all’intromissione della storia. Schiller era morto da tempo, Goethe salvò la propria casa solo per poco. Forzato a relazionarsi al presente, nel 1831 terminò il Faust, il cui protagonista aspirava alla conoscenza assoluta. Il demone che gliela offre, Mefistofele, non è altro che un “demone del moderno o del puro consumo” (Baioni), e l’esperienza conoscitiva che egli offre non è altro che un eterno consumismo dell’esperienza vitale, senza possibilità di fermarsi a contemplare l’esperienza vissuta, cioè un eterno presente. Non è un caso.


Terza

Pagina

inserto letterario

Ho ricevuto lo scorso mese una mail da un ragazzo il quale mi chiedeva gentilmente se era possibile inserire nel prossimo numero (questo) alcune poesie scritte da “I poeti della sera”. L’ultima volta che ne sentii parlare fu un anno fa, quando il gruppo era ancora agli inizi. Sono contento inoltre che si faccia finalmente vivo (oltre ad Ally Terante, Andrea Franti e all’anonimo) qualche altro scrittore, esterno al nostro troppo ristretto circolo! Sono lieto dunque di presentare i frutti che sono riusciti a coltivare questi poeti, gustateveli. Giovanni Benedetti

Mossa dal vento

Componimento IV

Mossa dal mare, brezza, vai cantando fino a sfiorare le ali di un gabbiano.

Sorrido alle opere che non mi disgustano, sono poche a piacermi non rido mai. Il freddo mi gela il polmone sinistro, soltanto fumando, così i miei bronchi sono innocue colture di neve.

È una barchetta nel nero d’inchiostro che s’ode battere al ghigno di un’onda mentre lontano s’appisola il giorno. Case intravedo, asciutte di memoria, scomodi alloggi squadrati dal tempo. (Mathias)

Allo specchio mi si è spostato il labbro; sulle punte delle dita sento bollire palpitare sulle guance sparse, i loro riflessi.

Ombrello di pelle Un ombrello di fiori colorati, rose e gigli che ricoprono di colore il telo, sferzato dalla pungente bora invernale.

Bagno di sale... dal cielo scorre lungo le guance per discendere con brividi e lividi dentro ogni ferita. È quasi la morte.

Io su di me ho inciso il primo sorriso. Mi hai amato, icona? Inalando il mio palmo mi assorbo; sono per me un desiderio compatto immutabile vitreo.

(Enrico Folisi Piria)

(Alberto Iakynthos Sonego)

Battuto e pestato, con questo vecchio bastone da comando al riparo da ogni singolo battito d’acqua sporca.

III


Stephan (da “Gocce d’atlantico”) Matteo uscì dal pub per fumarsi una sigaretta. Io rimasi solo, con i gomiti appoggiati al tavolino e gli occhi fissi sulla nera birra che avevo davanti. Fuori, assieme a Matteo, c’era Stephan. A dire il vero non saprei nemmeno se questa sia effettivamente la grafia corretta del nome. Era un uomo di mezz’età, dai capelli neri e grigi e dallo sguardo fortemente burbero. Le mani e il volto avevano la stessa durezza della roccia calcarea del Burren, ma delle piccole e profonde fossette rendevano levigati i suoi lineamenti. Era vestito in modo molto semplice, ma al contempo distinto, anche se non portava il cappello. Da quando avevamo varcato la porta del Teach Ósta, Stephan era rimasto seduto al tavolo alla nostra sinistra senza degnare nessuno né di uno sguardo né tanto meno di una parola, nemmeno alla grassa e rossa barista, che, ciononostante, gli portò immediatamente una pinta di Guinness fresca. Quando vidi Matteo uscire dal locale, non avevo alcun dubbio sul fatto che avrebbe tentato di rivolgergli la parola. E così fu. Era stato fortunato: per tutta la serata l’uomo rimase in silenzio, eccezion fatta per una brevissima chiacchierata scambiata con un altro isolano, anch’egli sulla cinquantina abbondante come Stephan. Sembrava che pure quella breve conversazione fosse una pesante costrizione per lui. Eppure tutti coloro che entravano nel pub, che con il passare delle ore stava andando via via affollandosi in modo del tutto inaspettato per noi, non esitavano a porgergli chi un cenno con la mano, chi un breve saluto in gaelico, chi un abbozzato inchino, quasi in segno di reverenza. Quando Matteo rientrò, seguito a breve distanza dall’uomo, non esitai a chiedergli di che cosa avesse parlato con Stephan. In verità, avevo sbirciato la scena dalla piccola finestra posta dietro al tavolino; ed ero quasi pronto per uscire in difesa del mio amico quando vidi il greve volto dell’uomo borbottante a pochi centimetri da quello indagatore di Matteo, quasi volesse sfidare il mio compagno di viaggio, a causa di chissà che cosa – una domanda espressa male, un fraintendimento linguistico, un’astiosità pregiudiziale di Stephan o un’irriverenza del mio amico. Matteo, sorridendo sinceramente, mi tranquillizzò. E mi raccontò di Stephan. Era nato a Inis Meáin, aveva sempre vissuto a Inis Meáin, sarebbe morto a Inis Meáin. Il suo inglese era zoppicante, a quanto mi disse, e non credo per mera reticenza a parlare la lingua di Sua Maestà. Stephan era un allevatore, saltuariamente un pescatore, molto probabilmente anche carpentiere, falegname e coltivatore, se mai ci fosse stato qualcosa da coltivare al di là delle patate sull’isola. Matteo non mi seppe accennare altro riguardo all’uomo: come finì la sigaretta, così anche la conversazione si spense, nella caducità cosmica di quella serata. Stephan rientrò e io non potei fare a meno di osservare con maniacalità biotica i suoi gesti per tutta la serata. Tutto intorno a noi si consumava una gioiosa e frescamente popolare festa: la birra scorreva a fiumi e le malinconiche note di libertà vibrate nell’aria dai musicisti inondarono anche i nostri cuori di sincere emozioni. In disparte, stremato, col capo chino, Stephan sembrava del tutto estraneo all’atmosfera del pub. Bevve la sua quinta pinta e, senza che nessuno se ne accorse, lasciò il locale. La mattina seguente, mentre ci dirigevamo verso il piccolo porto dell’isola, una vibrazione di pura energia pervase il nostro cammino. L’aria era fredda, le onde increspate, e i pochi e temerari gabbiani che si gettavano a capofitto sulle loro prede tagliando la superficie dell’acqua sembravano presagire l’arrivo di una burrasca. Giunse il battello che ci avrebbe riportato in Irlanda. Salirono tutti, ma io rimasi per ultimo sulla banchina. Respirai per un’ultima volta l’aria di quel posto così lontano, ma così vertiginosamente vicino. Abbassai la testa, ma un chiarore sulla cima dell’isola richiamò la mia attenzione. Alzai lo sguardo, e là, tra le ultime case sparse a ovest, lontano da tutto e da tutti persino in quell’angolo remoto d’Europa, notai la ruvida immagine di un uomo. Non avevo mai parlato con Stephan, eppure nella mia testa entrò la sua voce. E davanti ai miei occhi increduli si stagliò il suo volto sferzato dal gelido vento atlantico e marcato dalla fatica e dal sudore di una vita passata tra gli ingenerosi campi. Chiusi gli occhi. Quando gli riaprii mi sembrò fosse passata un’eternità. Uno dei marinai mi richiamò con tono secco, infastidito dall’attesa. Esitai un attimo, ma poi, con passo malsicuro, attraversai la breve scaletta che collegava il molo all’imbarcazione. Mentre stavamo imboccando l’uscita del porticciolo, lanciai un ultimo, speranzoso sguardo verso Inis Meáin. Tra la sterminata distesa di muretti a secco, mi si presentarono non uno, bensì dieci, venti, cinquanta, cento Stephan, che mi fissavano severamente, ma anche loro, come me, pieni di speranza. Allora, avrei voluto essere anch’io lì, assieme a Stephan. Allora, avrei voluto essere io, Stephan.

Lorenzo Natural IV


Maraini e Il paese dei frutti di Tommaso Tercovich

F

osco Maraini (1912 - 2004) è stata una persona difficile da inquadrare in un’etichetta. Ha racchiuso in sé e nelle sue opere le definizioni più varie: avventuriero, antropologo, scalatore, giornalista, fotografo e scrittore. Soprattutto è stato un amante di tutto ciò che chiamiamo Oriente, specialmente di quel Giappone di cui è stato ponte culturale verso l’Italia. La sua produzione è assai vasta, ma qui si propone di ripercorrere le sue camminate pubblicate da Corbaccio nel libro Dren Giong, una ristampa del primo scritto del fiorentino. Il testo raccoglie gli appunti di un mese d’esplorazione del Sikkim, tra “l’imalaia” e l’ India, nell’ottobre del 1937. La prefazione del libro è scritta dal Dalai Lama, che nomina un altro testo importante di Maraini, Segreto Tibet, e l’impressione provata nella lettura sul paese a quel tempo difficile da visitare. Dren Giong è corredato da varie appendici (tra cui una guida per la trascrizione dei nomi stranieri), da scritti di vari autori e amici del toscano e da uno scritto della moglie Mieko. Il Sikkim è il luogo protagonista di Dren Giong, parola che indica questo stato a nord dell’India tra il Nepal e il Bhutan e che significa “il paese dei frutti”. All’inizio del libro, Maraini descrive il popolo dei Lepcia, gli abitanti di questo paese, con taglio decisamente antropologico. Questa parte del libro è ambientata in mezzo agli uomini, descritti in tutte le loro caratteristiche: le fattezze fisiche, la religione, una sorta di Buddismo tibetano, la struttura sociale e la vita familiare. Per spiegare ai lettori il carattere degli abitanti, narra anche le vicende storiche del paese, le invasioni da parte dei vicini e la forma di governo (a quel tempo retto da un Maharaja). Oggi il Sikkim è uno stato federa-

nuovo di miraggi» e aspettando i suoi compagni al buio prova paura. Essa è «il respiro della foresta [...] il brulichio degli esseri innumerevoli che sortono col buio, quando il mondo è tutto una gran tana, e strisciano, corrono, volano, s’inerpicano in cerca di preda». Dopo queste esperienze incontra finalmente altri viandanti ed è desideroso di comunicare loro le sue impressioni: «parlo, parlo: è come sgravarsi d’un peso. [...] Tutto ciò che ho vissuto prende ora un senso definito, direi definitivo». Comunicare agli altri l’impressione del viaggio spinge a porsi delle domande sul viaggio stesso, il parlarne modifica il vissuto. Oramai si mostra molto meno distaccato dell’inizio, la scrittura emana un tepore emozionate (che ha reso famoso il libro). Il testo però non parla ai lettori solo di pensieri “alti”, ma offre anche scene divertenti come il terrore provato dai portatori nel vedere per la prima volta un uomo sugli sci, «cang ciai scing» ovvero i legni di colui che vola sulla neve come un uccello. Con gli abitanti del Sikkim non rimane osservatore totalmente distaccato anzi, racconta dell’«Italiayul», il paese Italia, e del suo lungo viaggio per arrivare su quelle montagne. Ma altre esplorazioni, salite, fatiche e visioni lo attendono. La domanda centrale è: «dimenticherò mai queste ore nel cuore dell’Asia? È un distacco totale ed assoluto dal mondo. Resto nudo e puro. Sento l’animo spogliarsi di tutte le contingenze. Anche per me i piroscafi della rivista americana rievocano soltanto favole di regni impossibili, dove esistono le cravatte, i giornali, l’asfalto, il tenere la destra e l’aspettare un turno presso gli sportelli». Prova una solitudine che definisce solenne, cosmica, che porta «vuotezza di contenuto

to all’India. La città capitale, oggi come allora, è Gangtòk “la cittàgiardino”, da cui inizia invece una parte più “naturale” del testo in cui il protagonista e il lettore si immergono nella natura e nella salita verso l’alto Sikkim. «Molte ascensioni iniziano con una discesa» dice lo scrittore fiorentino, in discesa, ma con le sanguisughe! Ed ecco che illustra i metodi per liberarsene durante il cammino. Guardando il fiume Tista Maraini rimane impressionato dalla Natura: «è uno spettacolo che fa paura; sembra d’assistere a processi geologici d’epoche primordiali, allo scatenarsi di forze troppo grandi, troppo cieche; di forze che disfanno e rifanno i mondi». I suoi compagni durante queste esplorazioni sono infaticabili portatori seguiti dal cane Drolma. Gli uomini che lo accompagnano in questa avventura lo portano a chiedersi: «perché viaggia l’uomo bianco spendendo tanti soldi che per loro sarebbero favolosa ricchezza? Non se lo domandano neppure. Essi rispettano i miei desideri come volontà celesti». Il gruppo è circondato da boschi che assumono l’apparenza di templi, «non di cattedrali gotiche [...] ma di chiesa barocca dalle colonne tortili su cui poggiano svolazzanti baldacchini, sotto navate popolose d’angioletti paffuti, mentre per le cappelle, in cui delirano pallidissimi santi, fra croci, tonache, pianete, raggi apocalittici e turgide nubi al tramonto, gli ori ed i gioielli scintillano alla calda luce delle polverose vetrate». Questo passo dice molto anche sul linguaggio dello scrittore toscano che a tratti risulta scarno e descrittivo, mentre in certi momenti raggiunge uno stile lirico e dalle pennellate poetiche. La visione del Cancenzongà per lui è folgorante, pare quasi un «gioco

umano» accompagnata da pienezza di realtà fisica. Questa realtà porta ancora a domandarsi: perché andare in montagna? Cos’è allora l’alpinismo? La prima possibile risposta suggerisce che la montagna è bella, quindi l’alpinismo è ricerca di bellezza. Ma Maraini trova la montagna orrida e monotona per la sua inumanità. La seconda risposta sostiene che la montagna è fonte di perfezionamento dello spirito, ma anche qui lo scrittore non condivide: la montagna rende insensibili, duri, rupestri. L’ultima risposta porta il concetto dell’alpinismo come rinforzo per la salute e il corpo. Qui si trova d’accordo, ma dice che «basta dar calci ad un pallone, nuotare o correre i centodieci con ostacoli per ottenere risultati non dissimili, senza alcun pericolo». Ecco, la soluzione di Maraini è la ricerca della montagna senza alcuna giustificazione se non la gioia di violare luoghi non adatti all’uomo e la conquista di «roccaforti d’ogni continente». L’alpinismo come combattimento senza nemici dove «le vittorie più belle non sono macchiate dal dolore causato ad un vinto». Questo libro rimane una traccia importante del percorso fisico di Maraini, nelle sue esplorazioni, ma anche nel suo percorso intellettuale, potremmo dire spirituale, verso una concezione più matura delle sue esperienze di vita. Nello scorrere delle pagine cresce una visione sempre più impregnata di una certa filosofia orientale nel modo stesso di porsi verso se stesso e i lettori. Cerca di dare risposte alle sue domande quasi con delle massime, ma non rinuncia per questo a esprimere le sue sensazioni con paesaggi e immagini naturali che possono molto di più della parola scritta.

3 metri sopra a 50 sfumature di crepuscolo, where is the Love? di Ruben Salerno

«I cavalier, le armi, gli amori io canto...»

P

er questa volta dirò solo degli amori, o meglio, dell’Amore. Il tema cardine delle arti apollinee vive oggi uno straniamento a dir poco paradossale. Secondo una ricerca Gallup del 2009, la pratica amorosa intesa in tutte le sue forme, dal corteggiamento alla vita di coppia, ha subito una flessione considerevole: oltre il 40% degli intervistati tra i 22 e i 34 anni si dichiara single e senza rapporti sentimentali, neppure fugaci. La causa di ciò risiederebbe nella precarietà economica, la mancanza di valori, internet, bla, bla, bla... Incredulo, ho deciso di andare a fondo nella

questione, così ho posto il problema a molte persone, donne e uomini di età diverse. Il verdetto, salvo pochi casi, è risultato sempre molto simile: si è dimenticato cosa sia l’amore. Lo chiedo a voi cari lettori. Cos’è l’Amore? In cosa consiste quest’entità che oscilla tra letteratura e fisiologia, senza cui non potremmo essere nati, né tanto meno sentirci vivi? Stando a Platone, Eros (Amore) sarebbe figlio di Pòros (Espediente) e Penia (Povertà) e fu concepito fuori dalle porte dell’Olimpo. Le origini mitiche e le citazioni sono tali e tante che si potrebbe riempire i database dei più grandi social network, facendoli collassare. Amore infatti ha guidato e mosso gli animi umani dall’inizio

V

dei tempi. Dai suoi intrighi hanno avuto origine le più grandi disgrazie e contemporaneamente gli apici culturali dell’umanità. Eros è sopravvissuto alle epidemie, all’Inquisizione, alle rivoluzioni, alle guerre mondiali. Ha reso immortali i sogni immorali di Catullo, Shakespeare, Leopardi... Oggi che, almeno in Occidente (passatemi il termine), regna la quiete, che n’è stato dell’amore? Sembra svanito, basti dare un’occhiata a quanto succede negli abituali luoghi di aggregazione dei giovani (passatemi anche questo): pub, discoteche, locali notturni. Con la “musica” a palla e litri di alcol in corpo gli ormoni dovrebbero fare i fuochi d’artificio, invece si assiste a un’ignavia generalizzata.


I pochi prodi che si mettono goffamente in gioco, nel tentativo di avverare il sogno indicibile balenato loro in testa mentre una ragazza passava loro innanzi, falliscono miseramente, tornando poi a specchiarsi nel riflesso del bicchiere. Le giovani donne che vorrebbero vivere nuovi amori vengono invece additate di adoperarsi nel più antico dei mestieri. In quest’attesa asfissiante scorre la serata e, a meno che i bicchieri non siano tanti, tutto si conclude nel nulla di fatto. Qualcuno obietterà che la caccia dei “single” non è amore, che questo debba riferirsi solo al tradizionale rapporto di coppia. Eppure anche quest’ultimo vive nella noia, lo dice il numero crescente di separazioni, da cui i nuovi “single”. «Ma dove te ne andrai? Ma dove sei già andata? Ti dono, se vorrai, questa noia già usata: tienila in mia memoria, ma non è un capitale, ti accorgerai da sola, nemmeno dopo tanto, che la noia di un altro non vale» L'amore è totale in ogni sua forma, che ne sarebbe sennò della letteratura, della musica, delle arti in generale? Non è forse amore il sogno immanente cantato da Guccini in Autogrill, fantasticando su una sconosciuta? Sex on fire

dei Kings of Leon, turbine di angoscia e passione inconfessabile, è Amore! Al contrario, in questi tempi viziati dall’ozio cerebrale, la letteratura propone scialbe rappresentazioni di sentimenti melensi e privi di sostanza. I bestseller sono la storia di un bad-boy de Trastevere che ghermisce una ragazza bene dei Parioli e poi mettono i lucchetti ai ponti, vampiri buoni che vivono di giorno e brillano al sole, romanzi soft-porno che racchiudono le più classiche perversioni ma che serbano tra le loro pagine quell’insostenibile bisogno di natura che per qualche motivo sconosciuto è diventato tale; sembra che persino in ambito accademico si possano trovare manuali di rimorchio per aspiranti Don Giovanni. C’è troppa confusione sul tema, prova ne sia che le scorribande a Villa Certosa del più noto buffone della “seconda repubblica”, sedicente statista, inducevano negli italiani più invidia che indignazione, tant’è che si parlò persino di Partito dell’Amore! Sic transit gloria mundi... Risulta necessario liberare le ali di Cupido, bisogna cercare più a fondo, nel principio che tutto muove e rende possibile. Neanche la dura etichetta borghese impedisce a Zeno di soccombere al sentimento, il Ponte dei sospiri non fermò Casanova, le fiamme non misero a tace-

re Giordano Bruno. La svolta è dare se stessi in toto e non in pars pro toto, non fa differenza se lui/lei siano perfetti sconosciuti o la dolce metà. Certo, si correrà il rischio di non esser capiti o ricambiati, di soffrire. Tuttavia non c’è niente al mondo che possa sostituire quell’attimo di onnipotenza che, in amore, il rischio stesso concede, l’interminabile secondo tra il bacio o lo schiaffo, come un giocatore di poker che tenta un all-in. «Io voglio vivere, ma sulla pelle mia, io voglio amare, farmi male, voglio morire di te» Se l’origine sia metafisica o una mera combinazione di forze e processi fisiologici ad oggi non è ancora chiaro, senza dubbio però l’offuscamento subito dal principe dei sentimenti dev’essere superato. Che il primo passo l’abbiano già fatto i nostri “Sporchi” in “Terza pagina”? Al finir della licenza, io tocco... Nel concludere questa bizzarra apologia, rinnovo il quesito di cui sopra: cos’è l’Amore? Di seguito la più Divina delle definizioni: «Amor ch’a nullo amato amar perdona».

Leopardi divino di Eleonora

“E gli uomini preferirono le tenebre alla luce” (Io. 3, 19) Nella celebre epigrafe alla Ginestra, ultimo capolavoro del poeta di Recanati, si è soliti dar per scontato che a parlare sia l’illuminista Leopardi che oppone alle tenebre dell’ideologia del suo tempo la luce della propria filosofia dolorosa, ma vera. Dunque un uso funzionale da parte di un pensatore ateo che estrapola per i suoi fini questo versetto dal quarto vangelo; per lui, dunque, un testo come tanti altri. E se dietro a quest’insolita scelta ci fosse dell’altro? Sembra tanto assurdo supporre, per un uomo così grande come Leopardi, una comprensione più profonda del Vangelo stesso? Una comprensione più profonda di cosa sia il coraggio del vero. Per usare un linguaggio alchemico: Leopardi rimane alla fase della nigredo, impantanato nella disperazione più nera. La morte tanto invocata potrebbe averlo raggiunto prima che il suo percorso di uomo avesse trovato pieno compimento. Ricordo, però, che l’epigrafe ad un altro testo leopardiano riprende la nota massima del commediografo greco Menandro: “Muore giovane chi agli dei è caro”. Una rinascita inespressa sulla carta? Magari inespressa nel pensiero stesso? Una rinascita che passa attraverso alla morte, ma ci porta a vagheggiare su che cosa mai sarebbe successo se “il perfetto

scrittore italiano” fosse vissuto venti o trent’anni di più? Trovo insensato servirci delle nostre logore etichette di ateo o di materialista quando parliamo di Leopardi; lascio parlare, invece, Nietzsche, che – ovviamente, aggiungerei – molto amava il grande poeta: “Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla pelle, adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo della parvenza! Questi Greci erano superficiali - per profondità!”. Questo è il senso tragico e meraviglioso – e non per niente l’unica parola davvero capace di esprimere insieme questi due concetti è il greco deinòs – delle illusioni di cui parla Leopardi. Questo il modo in cui Leopardi avrebbe voluto vivere, questo l’unico modo per essere davvero felici in questo mondo. Materialismo? Nietzsche parla di “Olimpo della parvenza” e non di rado lo stesso Leopardi usa nei suoi componimenti termini come divino e celeste. Celeste è la naturalezza, celesti sono i diletti della poesia, dono del ciel è l’amore, divini sono amore e morte. Se questa non è vivida sacralizzazione dell’immanenza! La parola ateo ci porta all’idea di un rifiuto di che cosa? Dobbiamo accordarci sui termini. Al rifiuto di un dio creatore e buono? Certo. Al rifiuto di qualsiasi istanza ordinatrice? In questo caso si. Al

VI

rifiuto di qualsiasi forza di natura superiore positiva o negativa che sia? No di certo. Non vedo che cosa possa esserci di più intimamente religioso delle poesie di Leopardi, ma anche qui, dobbiamo metterci ben d’accordo sui termini. Certo il melenso, ma onesto (secondo il Saba della prosa “Cosa resta da fare ai poeti”) moralista Manzoni non lo è. Il sentimento del sacro sprizza in quegli autori dove più è celebrata la vita nella sua meravigliosa molteplicità a partire dal primo testo religioso in senso canonico della letteratura italiana, il Cantico di frate sole, fino ad arrivare al commosso affresco cittadino della Cittavecchia di Saba, popolato da quelle sue famose e strazianti creature delle vita e del dolore. Dante e Leopardi come le due vette di questa catena. La voce della natura che dopo tanto tempo Leopardi ode nuovamente, e ne piange; il valore terribile e illuminante che conferisce il poeta all’amore “sola discolpa al fato”: è più religioso questo o la stomachevole Provvidenza manzoniana che tutto aggiusta per i peccatori pentiti? So che prendersela con Manzoni va di moda e che non è molto elegante sparare sulla croce rossa, ma in questo caso non può che esser il mio bersaglio. Lo scrittore religioso per eccellenza che del mysterium tremendum et fascinans del sacro nulla capisce è l’ateo e materialista Leopardi che lo af-

ferra appieno con il suo temperamento tragico e caldo. Forse dovremmo rivedere un po’ i termini (e renderci conto che forse non sono termini, ma parole secondo la distinzione leopardiana) e le nostre rigide categorie . La Ginestra è un capolavoro. Ogni riga vergata da quell’essere divino lo è. Castigato e prescelto da un dio crudele, condannato ed elevato dalla malattia, un animo sfavillante e caldo quant’altri mai rinchiuso in una prigione senza luce, in un “disadorno ammanto”. Lo spiraglio di luce che entra nella misera cella del condannato la “social catena” non è semplicemente un riferimento di natura politica e solidaristica! Si tratta dell’evoluzione del pensiero di Leopardi come poeta d’amore, perché Leopardi – udite, udite – è il più grande poeta d’amore della letteratura italiana. L’amore è un darsi, un unirsi, un offrirsi gratuito, bello, necessario, unica possibilità di respiro, appunto “sola discolpa al fato”. E non si tratta di un eros esclusivo, del rapporto amoroso fra l’uomo e la donna, ma è un concetto più vicino a quello cristiano di agape. E anche qui mi scontro con la pochezza dei nostri rigidi schematismi e invito tutti quelli che sentano in sé quello stesso temperamento tragico che emerge dai versi del divino Giacomo a leggerlo, rileggerlo senza alcuna mediazione manualistica per comprendere appieno uno dei più grandi, uno dei più fraintesi.


Può l’amore superare la vita e la morte? Chiedetelo a Bellocchio di Vesna Pahor

A

ggredito, criticato e ostacolato ancora prima di essere proiettato nelle sale cinematografiche. Temuto a tal punto che durante le riprese la regione Friuli Venezia Giulia voleva cancellare i finanziamenti previsti per le pellicole girate sul suo territorio. Parlare della tragica vicenda di Eluana Englaro e con essa sfiorare i delicati temi dell’eutanasia, della fede cattolica e della doppia morale dilagante dà fastidio a molti. Sono considerati temi scomodi, dei quali non si deve parlare o, se proprio non si può farne a meno, bisogna relegarli alla mera sfera del privato. Tutto ciò però, come spesso accade in casi simili, non ha fatto altro che alimentare l’attesa attorno a Bella addormentata, l’ultimo film di Marco Bellocchio. Eluana però non compare mai nel lungometraggio. È il ritmo incessante dei telegiornali, delle interviste e dell’accanimento mediatico a parlarci indirettamente della sua vicenda. Lo spettatore viene nuovamente trasportato nei giorni che vanno dal 3 al 9 febbraio 2009 e che segnano l’epilogo della lunga battaglia condotta dal coraggioso Beppino Englaro, padre di Eluana. I giudici hanno finalmente permesso alla famiglia, dopo 17 lunghi anni di stato vegetativo della “bella addormentata”, di poter trasferire la figlia nella Casa di Cura la Quiete a Udine e così interrompere la nutrizione artificiale che la manteneva in vita. È da qui che nascono e si sviluppano le altre storie che danno vita al film. Storie dolorose. Storie di lotta tra la vita e la morte. Storie di uomini e donne, sbattuti con forza e disperazione contro le barriere imposte dalla vita quotidiana e dalle dure prove alle quali talvolta siamo sottoposti. Ma soprattutto storie dove domina l’amore,

che si palesa in tutte le sue molteplici forme. Scorci di vite umane che si snodano nel clima alienante, convulso e complesso di quei giorni. C’è lei, la “senza nome”, la Divina madre come la chiamano, interpretata da Isabelle Huppert, famosa attrice, traumatizzata dal coma della adorata figlia, che si isola nella torre di avorio di una vita fatta di preghiere ed estrema devozione. Attorniata da suore e preti, completamente rinchiusa nella propria sofferenza, sacrifica se stessa e diventa completamente sorda e cieca nei confronti del marito (Gian Marco Tognazzi) e del figlio (Brenno Placido), sistematicamente esclusi dalle sue tanto desiderate attenzioni. La Rossa, personaggio impersonato da Maya Sansa, tossicodipendente che tenta più volte il suicidio, si trova in una specie di limbo, di estrema noncuranza verso l’esistenza e il dolore altrui. A prendersi cura di lei è il dottor Pallido (Pier Giorgio Bellocchio), il quale si lancia nell’impresa possibile-impossibile di far risvegliare in lei l’amore per la vita. Il rapporto uomodonna è centrale anche nell’incontro tra Maria, attivista del movimento per la vita, interpretata dalla convincente Alba Rohrwacher, e Roberto (Michele Riondino) che si incontrano a Udine. Entrambi infatti prendono parte alle manifestazioni davanti alla clinica dov’è ospitata Eluana. Il giovane, del quale Maria si innamora, si trova però dalla parte opposta della barricata, schierato a favore della libertà di scelta. Alla base delle ferme e dolorose convinzioni della giovane c’è una sofferta storia famigliare che ha influito pesantemente anche sul rapporto con suo padre, il senatore Uliano Beffardi, interpretato dall’intenso

Toni Servillo. Beffardi, senatore, ex socialista eletto nelle liste del Popolo delle Libertà, fortemente segnato dalla sofferenza, è preda di una profonda crisi di coscienza. In quei giorni infatti il suo partito, che poi si rivelerà non essere poi tanto suo, sta cercando in tutti i modi di far passare in parlamento un disegno di legge per impedire la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione dei pazienti in stato vegetativo. Da uomo laico però non può essere d’accordo. Soprattutto non può condividere il contenuto di una legge del genere, perché si è trovato in una situazione molto simile a quella degli Englaro che ha segnato il rapporto con sua figlia: anni fa ha ceduto alle suppliche della moglie malata, relegata in un letto d’ospedale, aiutandola a porre fine alle sue sofferenze, a morire. Cosa fare? Votare contro il partito o accettare il richiamo all’ordine dei suoi colleghi e mettersi in riga? Il percorso, che lo porterà alla scelta finale e avrà il suo culmine nel superbo monologo del senatore, è intercalato da dichiarazioni e accadimenti frenetici in seno al parlamento, che rimane sullo sfondo. L’effetto di risentire la dichiarazione di Silvio Berlusconi il quale, rivolto alle telecamere, afferma che Eluana Englaro nella sua condizione potrebbe anche avere le mestruazioni e concepire un figlio, è raccapricciante a tal punto da farci sentire quasi sollevati di trovarci nel periodo Monti. L’attacco di Bellocchio all’ipocrisia e al cinismo della politica attuale raggiunge il suo culmine con la rappresentazione dei parlamentari seminudi nella presunta sauna del Senato. A muoversi tra queste vuote figure che si trovano a riempire il parlamento è il personaggio dello psichiatra del sena-

to, impersonato da Roberto Herlitzka. Questo geniale antieroe demolisce, ridicolizzandoli, le falsità e il vuoto interiore dei parlamentari, mettendo nel contempo sotto accusa lo stesso ruolo della psichiatria, riducendola a una mera somministrazione di ansiolitici e farmaci vari. In senato la sauna con tutta probabilità non esiste, ma il cinismo e il doppiogiochismo della gran parte della politica italiana è la nuda verità. La ricerca di umanità nelle parole pronunciate dall’allora vice capogruppo del Pdl al Senato Gaetano Quagliariello secondo cui Eluana non è morta ma è stata ammazzata, o in quelle del leghista Mario Borghezio che definisce l’accaduto come omicidio di stato, è vana. Questo atteggiamento di grande presunzione di avere la verità in tasca è doloroso e crudele soprattutto nei confronti di chi si ritrova a vivere in prima persona tragedie simili. Nessuno può avere la pretesa di sapere con sicurezza come si comporterebbe se lui o uno dei suoi cari vivesse una così tragica esperienza, che non prevede guarigione, ma soltanto una lenta agonia. Sono momenti talmente unici nell’assoluta tragicità, che possono portare anche alla rinuncia o al totale sovvertimento dei propri ideali e valori morali. A detta di molti, forse, Bella addormentata non è il miglior film del famoso regista italiano, senz’altro però apre tutta una serie di interrogativi e provoca un’ondata di dubbi e riflessioni su se stessi e sulla propria esistenza. Il suo merito è di non voler fornire nessun tipo di preconfezionata verità assoluta, anche se attraverso la scelta delle sequenze proposte la posizione del regista non fa fatica a trasparire.

partito sfugge alla struttura burocratica di dirigenti inamovibili e svincolati dai militanti di base. La sentenza è chiara: «chi dice organizzazione, dice oligarchia». Tornando ai grillini, quello che a questo punto diventa evidente, è che non solo Favia si è limitato a constatare l’ovvio -ovvero che esiste la dirigenza di cui sopra- ma che in realtà la democrazia intrapartitica è una chimera. Sebbene, nella fattispecie, essendo ancora discretamente giovane e per certe sue caratteristiche programmatiche, il Movimento a 5 Stelle si dimostri una realtà dinamica e decisamente più egualitaria della norma, l’incancrenimento progressivo è inesorabile: tanto più questo crescerà, tanto più si cementificherà la struttura oligarchica. D’altra parte, poco ha da dire il restante del panorama partitico, il cui maggior sforzo di democratizzazio-

ne si è risolto in un timido e confuso tentativo di primarie, peraltro solo a sinistra. La cui utilità è inoltre messa in dubbio -oltre che dal riproporsi di sempre gli stessi volti- da Michels stesso, per il quale il voto rende la democrazia ideale e magari legale ma di certo non reale, considerato che la base, pur illudendosi d’essere diventata compartecipe al potere, continuerà a non decidere nulla. L’élite inghiottirà il nuovo eletto e il partito continuerà ad essere «una potente oligarchia su piede democratico». Senza eccezione alcuna, -da Rifondazione a Forza Nuova- la -non a caso- ferrea legge dell’oligarchia trova conferma. E se da tutto questo si può trarre qualcosa, è che se dal percorso delineato dall’analisi di Michels non si è salvato il Partito Socialdemocratico della Germania imperiale, non sarà certo il Movimento a 5 stelle a fare eccezione.

Oligarchia e partiti: Michels a 5 stelle di Nicola Bocola

S

criveva Mario Adinolfi, giornalista e deputato PD pro tempore, su Facebook che le dichiarazioni fuori onda di Favia sarebbero state fatte a tavolino. Uno sfogo poco spontaneo; un complotto ben ordito, con tanto di rumori da bar appositamente applicati. Favia, consigliere comunale a Ferrara, avrebbe quindi inscenato tutto, denunciando la mancanza di democrazia all’interno del movimento, consapevole d’essere registrato. Ad Adinolfi, sincero sostenitore di questa teoria, qualcuno ha però commentato che il punto della situazione non era lì: il problema democratico rimane, poco importa se la denuncia sia avvenuta a microfoni scientemente aperti o meno. A qualcun altro invece, l’interrogativo cruciale è parso un altro: ma da quando i partiti sono organizzazioni democratiche? La letteratura politologica ci viene in aiuto. In tempi non sospetti, nel 1911,

quando ancora -per intenderci- i tormentoni dell’estate li scrivevano Debussy e Stravinskij, Robert Michels pubblicava la sua opera più celebre, Sociologia del partito politico, destinata a diventare un classico della Scienza Politica. Nel libro -ahimè, diventato quasi introvabile, complici forse le sue 500 e più pagine che non lo rendono proprio una lettura estiva e il fatto che non richiami a cinquanta sfumature nel titolo- il politologo enuncia la sua Legge ferrea dell’oligarchia, dove descrive come «la formazione di regimi oligarchici nel seno dei sistemi democratici moderni sia organica». Ogni partito segue fisiologicamente l’evoluzione da struttura aperta alla base in organizzazione elitaria. Michels, nel suo studio, da socialdemocratico vicino all’anarcosindacalismo, arriva ad affermare che neanche nell’SPD, la gestione del

VII


ScontrPenne tra

Giulio Rosani: Leggendo il tuo articolo pubblicato sullo scorso numero (ottobre 2012), ho trovato alcuni passaggi che mi hanno lasciato un po’ perplesso. Colgo quindi l’occasione per iniziare questo scontro tra fisici anche per chiederti alcuni approfondimenti in proposito. Il passaggio che più mi ha colpito è quando parli di “regresso scientifico”, non mi è però chiaro in che senso. Ho capito che nella ricerca della Verità (mettiamoci una maiuscola per dire che è quella finale) la fisica non aiuta, d’accordo, infatti il modo di trattare un sistema cambia da caso a caso e da quale grado di accuratezza vogliamo ottenere, ma dire che per questo la fisica moderna è un cavatappi che cerca di sturare un cesso è un po’ pesante. Seconda questione: il discorso su Darwin puzza un po’ di creazionismo (scusate il termine, creazionisti, non ce l’ho con voi), ma penso di intuire che non intendevi farne un’apologia bensì sottolineare i punti deboli presenti nella teoria e da cui parte ogni attacco a Darwin, è così? Infine mi è piaciuto che tu abbia nominato il Big Bang tra le teorie incerte, infatti nessuno sa se e come è avvenuto, ma presupponendo che sia successo i conti tornano. Siccome però a volte anche se i conti tornano la teoria può essere sbagliata e per pura fortuna dare risultati compatibili in quel singolo caso, non possiamo affermare che sia Veramente accaduto, lo ipotizziamo e basta. Solivagus Rima: Innanzitutto ti ringrazio di avermi fatto queste osservazioni. Poi, premettendo che il personaggio principale del dialogo, Simplicio, rappresenta qui non solo parte di me stesso, ma anche parte di altre persone con le quali ho avuto il piacere di parlare e autori che ho avuto il piacere di leggere, ti dico che quando Simplicio parla di “regresso” intende mettere sotto accusa, partendo dal termine “scienza” come termine generico, tutto ciò che nella vita comune degli uomini contemporanei ha in qualche modo qualcosa a che fare con la scienza: tecnologia, elettronica, ingegneria, mercati finanziari. Questi elementi, ormai presenti pienamente nel nostro sistema sociale, per Simplicio portano ad un regresso del genere umano. Cioè, invece di portare gli animi verso un benessere e una rilassatezza che meriterebbero per vivere felici, li portano verso un no-

tevole crollo emotivo, stress, “acqua alla gola”, “sete di tempo”, in alcuni casi estremi depressione. Simplicio, in modo forse troppo provocatorio (mi riferisco al “cavatappi” - del resto, è un uomo che se n’è stato immobile in una tomba per molti secoli), cerca di rivalutare una sorta di “spiritualità”, che potrebbe portare noi umani a rivalutare il nostro sistema sociale nel complesso e a renderci probabilmente più felici. Si parla di religione, ma intesa come “spiritualità”, che tutti possono trovare a loro modo. Per quanto riguarda Darwin, molti con cui ho parlato mi hanno riferito che questo Simplicio sembra un creazionista in cerca di dimostrare alcune sue teorie, pur non avendo uno straccio di prova o dimostrazione. Simplicio è un uomo semplice, un uomo di tutti i giorni, che non vuole scontrarsi con scienziati che studiano anni e che si dedicano, alcuni anche assai umilmente, alla ricerca, ma vuole ribellarsi ad un sistema che non gli piace, sfogando la sua rabbia verso molti scienziati presuntuosi che ha incontrato nella sua vita (ovviamente non tutti gli scienziati, ma i Nuovi Salviati). Simplicio sputa informazioni riguardanti cose che pensa o che ha letto qua e là, ma istintivamente e come sfogo, senza pretese di proporre nuove teorie (non è quello il suo obiettivo – infatti dice di essere consapevole della sua ignoranza). Il suo intento è, appunto, quello di recuperare la “spiritualità”, e lo fa combattendo una cerchia di scienziati “montati”, categoria che a suo avviso si sta espandendo. Giulio: Quindi, in poche parole: “Troppa comodità fiacca lo spirito”? Su questo mi trovi d’accordissimo, molte cose che una volta sembravano naturali, e che anche oggi dovrebbero esserlo, sono invece andate perse. Tante volte non si riesce a fare qualcosa solo perché si ha la sensazione di non avere tempo (e qui penso al mio dover pulire casa o buttare la spazzatura). Altre volte non abbiamo voglia di fare quello che dobbiamo perché è troppo scomodo. Ma questa “colpa” possiamo darla solo alla scienza o è invece la nostra cultura come insieme che è in declino? Personalmente condivido un po’ la voglia di Simplicio di ribellarsi ai Salviati, tra questi probabilmente c’è anche una categoria di persone che proprio non riesco a capire: studenti la cui attenzione è sempre

rivolta ad un soggetto che non è parte della lezione, e che interrompono la lezione continuamente per far notare un errore inesistente o insignificante; insomma studenti che devono essere al centro dell’attenzione, consapevoli di questo desiderio o no. Potrebbero forse essere questi la fase evolutiva precedente, per dirla come Darwin, ai Nuovi Salviati? Solivagus: Certamente alcuni studenti, quelli che hai descritto poco fa, potrebbero essere dei buoni “candidati” per svolgere il ruolo di Nuovi Salviati nella società contemporanea. Ma, per quanto la presunzione e la pignoleria siano istintivamente condannabili da tutti, non credo sia solo loro la colpa di quest’aggiamento (e qui mi rifaccio alla prima domanda di quest’ultimo tuo intervento). Credo che la colpa di questo modo di comportarsi da parte di alcuni studenti sia dovuta per lo più al fatto che fin da quando cominciamo a interagire con il “mondo sociale”, fin dall’asilo, siamo in qualche modo costretti da subito ad essere in competizione con il prossimo. E poi la cosa peggiora man mano che si sale di grado: elementari, medie, superiori, università, mondo del lavoro. Come se l’essere intelligenti o colti fosse quantificabile con “voti” o numeri, come se una persona fosse “migliore” di un’altra solo perché riesce ad ottener un buon voto o a far carriera più velocemente. Tutto questo fa riflettere. Credo che questo “quantificare”, questa è l’opinione anche di Simplicio, porti in qualche modo al declino l’animo umano, il suo cuore, la sua capacità di provare emozioni. Simplicio nel dialogo cerca in tutti i modi di far sì che si possa celebrare un matrimonio molto difficile, quello fra scienza e spiritualità (non parlo di fede). Simplicio ritiene che solo così, se il connubio fra queste due “entità” opposte potesse avvenire, si potrebbe finalmente raggiungere un equilibrio che ci spingerebbe sicuramente ad essere più sereni. Proporrei che i “libri sacri”, di tutte le religioni, venissero letti e analizzati dalla scienza e dal genere umano, al di là del significato letterale delle parole scritte in essi, andando a cercarne l’essenza, magari le “nostre” origini e un modo per vivere meglio. Se non sono libri scitti per ispirazione di qualche Divinità (su questo non metto bocca!), per lo meno sono libri che contengono

VIII

una saggezza intrinseca, per lo meno sono stati scritti da uomini più vicini all’origine del mondo rispetto a noi, e quindi forse più saggi di noi. Giulio: Non saprei cosa altro aggiungere, solo forse quest’ultima domanda: non credi che la scienza abbia già analizzato i testi sacri, almeno alcuni, e abbia ottenuto come risultato il solo allontanarsene? Come fare quindi a rianalizzare il tutto senza arrivare allo stesso risultato? Solivagus: Penso che dipenda tutto dal modo di vedere le cose. Secondo me, nella storia, il modo di leggere i testi sacri è cambiato molto, sia da parte dei fedeli che dei non; infatti, con il passare dei secoli, a mio avviso, ci siamo sempre di più abituati ad interpretarli “letteralmente”. Mi spiego con un esempio che riguarda un po’ tutte le religioni: si può parlare delle varie “genesi del mondo” o “creazioni”, dei “comandamenti” o delle “leggi divine”, dei “miracoli” e i “fenomeni paranormali”. Se si leggono i passaggi dei testi sacri nei quali si fa riferimento a queste “parole”, interpretandoli più con il cuore che con la testa, si riesce, secondo me, a coglierne il senso profondo. Si può capire come, in chiave allegorica e simbolica, essi racchiudano una filosofia utile per la nostra vita, delle lezioni sull’amore e sulle emozioni e delle tracce sulla nostra genesi effettiva (tracce che, se venissero interpretate scientificamente, porterebbero per Simplicio a dati molto concreti e interessanti). A questo punto la questione non è più quella di capire se Dio esiste, ma di capire “come” l’uomo esiste. Che qualità d’uomo avevamo nel passato e quale uomo ci sarà in futuro. I testi sacri, sempre secondo Simplicio, dovrebbero essere letti con l’ausilio del “metodo scientifico” e la scienza dovrebbe essere semplificata e affrontata con l’aiuto del “metodo spirituale”, quello religioso-filosofico. Giulio: Concordo. Penso che dopo questo piccolo scontro non solo io, ma anche altri che hanno letto il tuo articolo avranno voglia di rileggerlo con questa nuova chiave di lettura, se non altro per dare il giusto peso alle opinioni dei personaggi che vi compaiono.


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