Charta Sporca numero 0, ottobre 2011

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NUMERO 0

Il Manifesto CHARTA SPORCA «Tenderà a rimettere in discussione tutto, ché in definitiva mi rifiuto, sia inconsapevolmente che consapevolmente, a ogni forma di pacificazione»: queste le parole di Pier Paolo Pasolini, che introducono la poesia il cui titolo è stato scelto come nome da questo periodico accademico. Sarà un foglio macchiato per le eccessive riscritture, correzioni, cancellature, figlie del dubbio che anima ogni uomo cosciente: - siamo Charta da Cultura: tratteremo ogni aspetto della nostra epoca ma non ci limiteremo ad essa, poiché l’Arte non ha tempo e qualsiasi passato è presente per chi sappia leggervelo. Faremo nostra l’ottica strabica, volutamente anacronistica, del viandante apolide per istinto. - siamo Charta Bastarda: una ventina di studenti, che forma un gruppo eterogeneo nelle idee e nei principî, pronto anche a darsi contro l’un l’altro, sullo stesso foglio, noncurante delle profonde macchie d’inchiostro che porterà questo scontro tra penne.

Lilligrafia

- vogliamo sporcarci le mani, ogni pilatismo è bandito; né il politicamente corretto, ovunque annunciato e di cui si armano i pavidi, sarà di casa. Ognuno avrà il coraggio e la forza delle proprie idee.

I

Buzzati: possedere il racconto

Mishima

E’ stato lo stesso Buzzati a disegnare la copertina de “Il deserto dei Tartari”: un paesaggio brullo e roccioso è attraversato da un cavallo nero e delimitato all’orizzonte da una parete rocciosa, mentre in primo piano divisa e berretto verdi sono indossati da un militare invisibile...

Ci sono personaggi che il passato ci ha donato e che ci appaiono misteriosi, difficili da decifrare. O semplicemente siamo noi a non essere in grado di comprenderne il significato e l’insegnamento che hanno lasciato tra il turbinio del veloce e inesorabile incedere della Storia...

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Segue a pag. VII


Buzzati: possedere il racconto di Piero Rosso

E’ stato lo stesso Buzzati a disegnare la copertina de “Il deserto dei Tartari”: un paesaggio brullo e roccioso è attraversato da un cavallo nero e delimitato all’orizzonte da una parete rocciosa, mentre in primo piano divisa e berretto verdi sono indossati da un militare invisibile. Il significato mi sembra chiaro: la scomparsa dell’individuo rispetto alla sua funzione. Quel cavallo si riferisce all’episodio in cui il Moretto uccide un amico, costretto a sottomettere l’amicizia al regolamento. Egli è uno dei proprietari della divisa in copertina; il suo corpo è un contenitore svuotato della polpa e colmato dagli ordini di servizio. Per tutti invece, uomini e no, la verità è lontana. Fra lei e i soldati c’è distanza fisica: essi sperano nella guerra in grado di dare un senso alla propria esistenza, costretti ogni giorno a ripetere gesti apparentemente inutili per sorvegliare un avamposto che nessuno crede minacciato. Quando l’esercito del Nord sembra finalmente avvicinarsi, quando incombe la battaglia, Drogo viene congedato, cioè fisicamente allontanato dalla verità, l’unica che fino a quel momento ha ritenuto possibile. Ma egli è capace di fare un salto in più, con quello si inspessisce nuovamente; non è più solo una sagoma di cartone agitata alla finestra per spaventare i ladri. Logorato ripetendo e vissuto in funzione dello spazio - poiché il tempo era già perso - ora ci indica la conclusione lieta, allo stesso tempo la più terribile della storia: l’esistenza autentica nasce dall’accettarne la fine. Nonostante sia costretto a sottostare al sistema, non perde mai la sua, seppur scarsa, individualità. Buzzati sa che mantenere umano Giovanni Drogo significa metterlo di fronte alla fuga silenziosa del tempo, alla disperazione che solo un uomo, non un soldato né una macchina, può provare di fronte ad essa quando si rende conto di non aver mai agito. E non è forse la monotonia la peggiore inazione? Il miglior modo per bloccare è costringere a

ripetere. Non ci si ribella, ma nasce in noi la convinzione che per uscirne è fondamentale migliorare l’esecuzione del proprio gesto meccanico. Il tempo di produzione ingaggia anche il tempo di riposo. Chi controlla però sa bene che la promozione non esiste e la sfida in realtà è un ripetere muto. La storia non è dei vinti, ma nemmeno di tutti i vincitori. Molto mi ritorna in mente delle tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin. Nella settima si legge: “I padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento”. E ripenso al soldato Angustina che simula l’allegria di una partita a carte da solo sotto la neve, dopo aver subito una sconfitta dall’esercito del Nord, così da non dare agli avversari il piacere di beffarsi del suo esercito; muore congelato, ostinato a fingere anche quando non ce n’è più bisogno. Angustina fornisce il mezzo tramite cui il comando dell’esercito potrà narrare gloriosamente una sconfitta subita. Ridona inconsapevolmente quel fatto ai potenti, permette loro di non eliminarlo dai libri di storia; così facendo il tempo lo ingloba e “sepolto che fu il tenente Angustina il tempo ricominciò a passare sulla Fortezza, identico a prima”. Ciò conferma che il patrimonio culturale è sempre preda dei vincitori. Esso, sempre in Benjamin, “non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie”. Il comando dell’esercito insegna quanto sia umano il patrimonio culturale di chi difende – e controlla – rispetto al barbaro che si nasconde nel deserto. Così – per nominare doverosamente Coetzee – chi aspetta i barbari si sente il difensore del proprio patrimonio culturale. In questo sentimento è però insita l’idea che un patrimonio culturale debba necessariamente prevaricarne un altro per sopravvivere, per imporre una visione assoluta della storia, il proprio senso di rotazione alla trottola.

Si ritrova inoltre l’ottava tesi: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola” e che “il nostro compito è la creazione del vero stato di emergenza”. Alla Fortezza Bastiani le sentinelle sono sempre vigili, il loro grido squarcia le notti rimbalzando da una parte all’altra lungo il camminamento. “All’erta!” è l’urlo, lo stato di emergenza è sempre mantenuto, nella precisione delle parole d’ordine, della divisa, delle manovre di ispezione. Ma quando i nemici sembrano apparire veramente, ed è il vero stato di emergenza a graffiare, il comando stesso gli lima le unghie, lo scredita invece di accertarsi della minaccia. In tutto questo anche i soldati hanno la loro parte. La loro esistenza monotona li rende esaltati all’idea di una guerra, li obbliga a desiderare che avvenga un fatto che possa dare un senso al loro affannarsi. Non è forse questo un desiderio religioso? Avviene così una trasformazione terribile: la paura della guerra come la fine di tutto diventa il desiderio di una guerra come il fine dell’esistenza; un grande avvenimento a cui sopravvivere. Per quale motivo? Ovviamente per poterlo raccontare imprimendogli il proprio senso. Possedere il racconto è il nocciolo del Deserto, il nocciolo di un frutto raro, ancora mai colto.

“La cultura è morta” di Davide Pittioni

L’Italia è afflitta da un cancro che si sta pian piano impossessando dell’intero piano culturale del paese: difficile se non impossibile restarne immuni; difficile elaborare gli anticorpi adatti! Che si tratti di (sotto)cultura televisiva, guardando chi ci governa, non credo si possa negare. E’ però illuminante notare come si sia diffusa anche in ambienti fuori da ogni sospetto e come stia corrodendo il nostro criticismo, eliminando ogni spazio per una possibile resistenza. Non è più un problema di conoscenza o ignoranza, l’alfabetismo fino a certi gradi è assicurato più o meno a tutti (anche se spulciando qualche statistica non è raro vedere quanto poco leggano gli italiani); e non si può negare che la situazione sia resa ancor più grave dal livello dei dibattiti televisivi, dall’immagine politica che ci viene offerta quotidianamente, molto più affine allo spirito da stadio che al decoro delle istituzioni. Forse in questo caso vale ancora il famoso invito di “Quinto potere”: “spegnete i vostri televisori!”.

Le proteste degli studenti e degli operatori culturali dimostrano però, che, in questo clima di cinismo diffuso, qualcuno ancora crede nella cultura, nel suo valore civile e sociale. Ma queste manifestazioni di dissenso contro l’indifferenza culturale del nostro paese sono risultate piuttosto “ambigue”, da un lato tragiche e dall’altro comiche. Mi torna in mente il folle che, nella “Gaia scienza” di Nietzsche, annuncia al mercato la morte di Dio; il messaggio è deriso dagli astanti non più capaci di credere in niente, ma è carico di un pathos tragico che non smette di scandalizzarci. Così quei poveri studenti da una parte ci fanno sorridere, dall’altra però ci invitano ad una riflessione sul momento, un pensiero sulla prossimità della scomparsa della cultura, sull’urgenza di agire, che ci permetta di scrollarci di dosso un immobilismo che ci affligge ormai da troppi anni. Una riflessione che spesso però preferiamo scansare, preoccupati a salvaguardare i nostri interessi , a coltivare il

II

nostro bel giardinetto che, illusi, crediamo ancora intoccabile. Noi al massimo applaudiamo, magari urliamo i nostri cori, i nostri “buh”, o votiamo con il telecomando le alternative, le nomination: chi sarà il prossimo escluso dallo sguardo onnisciente del grande fratello? Ancora televisione quindi. Una televisione che ha creato un nuovo tipo umano, che si aggiunge a quello descritto da Gramsci e Pasolini, omologato e consumista: passivo, cinico, disilluso, incredulo. E’ l’eterno spettatore, che vive la sua vita come in una fiction, che non aspetta nient’altro che la puntata successiva seduto comodamente sulla sua poltrona. Non pensa, prende di volta in volta il pacchetto di pensieri preconfezionati che più gli garba; e dimentica, dimentica molto in fretta. “La cultura sta morendo” urlano gli studenti a squarciagola. Ma noi non li sentiamo, non li vogliamo sentire: siamo troppo occupati a veder crescere la nostra ignoranza!


Terza

Pagina

Privilegio di chi affronta una premessa è che può, con un pizzico di ambizione, ritagliare uno spazio dedicato a sé, all’introduzione della propria persona e del proprio compito; francamente, il mio eccessivo narcisismo letterario mi porterebbe - lo dico senza peli sulla penna - a scrivere solamente premesse. Concedetemelo: è un vizio che si riserva agli autori; anche se, a dire il vero, qui sono solo il curatore. E nemmeno il curatore della pagina (compito che lascio volentieri al grafico), bensì mero selezionatore dei contenuti. Un compito il quale non spetterebbe a me, che meno mi sento in diritto di valutare e giudicare se questo sia degno e quello no... un compito troppo importante per essere affrontato con la dovuta serietà da me. Un compito che d’altro canto assumo volentieri, vuoi per svago, vuoi per passione letteraria, vuoi perché hanno scelto così (con quale criterio se non l’eccessiva fiduciosa simpatia - o la dolorosa pietà - non so). Qui acquista (finalmente) voce l’arte sola, non (più) la critica. Terza pagina come “pagina della cultura”, in questo senso, è dunque un concetto che va rivisitato: pagina d’arte, piuttosto. Com’era un tempo. Come è giusto che sia data l’ambientazione letteraria in cui questo progetto di giornale muove i primi passi. Lungi comunque l’idea di una cricca culturale privata: questa pagina è ben disposta ad accogliere il contributo di chi volesse cimentarsi letterariamente (non presentatemi però testi del genere “Il gatto/ è seduto/ sul tetto”. Sintesi ammirevole e non priva di fascino descrittivo, tuttavia banale e completamente estranea a quello che spero sia concezione comune di Arte). Non troverete comunque qui novelli Dante, Leopardi, Pavese, per quanto grande sia la nostra (e dico nostra sperando di coniugare anche la vanagloria degli altri e non solo la mia) ambizione. Per la gioia dei lettori io non scriverò qui come autore: cedo volentieri la parola ad altri, ritagliandomi altri posti e altri compiti che non siano quelli di fare letteratura. Lascio la parola a persone in cui ripongo maggior fiducia, e spero che col tempo anche voi lettori possiate dare loro almeno la metà della fiducia che io do loro. Ultima cosa che mi sento di dire: ho usato più volte l’espressione “arte” e “letteratura”, eppure sono certo che se incontraste chi qui avrà scritto e gli chiedeste se la sua è arte o letteratura, egli lo negherebbe vivamente. Le mie erano, e rimangono, valutazioni volutamente forti e impulsive. Concedete anche questo, vi prego: è un vizio che si permette al giovane (io, nella fattispecie) che non sa di che cosa sta parlando. Non cambieremo il mondo (per quanto la speranza in fondo in fondo credo ci sia) (O cara speranza,/ quel giorno sapremo anche noi/ che sei la vita e sei il nulla), semplicemente sentiamo il bisogno di esprimere le proprie idee e i propri sentimenti: se stessi insomma. Chi vuole rida pure, ma di me, non d’altri. E voi, amici, non abbiatene male se ho usato un “noi” collettivo senza chiedervi consenso, è l’ultimo torto che vi faccio.

inserto letterario

Solivagus Rima

Spirae Nefertitis

Pupulae parvae, imperviae et caerulae, quis cognovit vos? Egonon! Mea artua de vobis metuebant, quis fortis est? Egonon! Venia! Ego te infinite et maxime amat, ut scopulosus arbor tenuem florem amat; Ego te cito spiravit, sed suffocavit. Mea scapha vacillavit, ut papilioin pelage; quis te amavit? Egonon! Mentior! Ego te arcanam colit, ego solus te inter multas cognosco, meum amorem, volo te perpetuo defendere. Le trecce di Neferti Pupille piccole,impenetrabili e azzurrine, chi vi conobbe? Io no! Le mie membra causa vostra tremavano, chi fu forte? Io no! Perdono! Io ti amo infinitamente, come lo scoglioso albero ama il tenue fiore; io rapidamente ti respirai, ma soffocai. La mia barca vacillò, come un farfalla in mare; chi ti amò? Io no! Sto mentendo! Io te misteriosa amo appassionatamente, io solo ti riconosco tra molte, mio amore, voglio proteggerti in eterno.

Giovanni Benedetti

III


Donatello Del Dardo

Non mi dire no (che questa pasqua non la scorderò)

Mi sveglio alle 8.32. Ancora nessuno in piedi, tranne il piccolo puer già attivo alla console con Top Spin 4. Si possono fare cose indicibili, con Top Spin 4. Tipo fare serve & volley con Federer. E vederlo sudare, anche. Niente Mirka sugli spalti. Robe ufo. “Posso aprire il tuo uovo di pasqua?”. Mi commuove sempre la capacità dei bambini di emozionarsi ancora per cose verso cui un’esperienza quasi decennale dovrebbe indurli a una maggior circospezione. Ormai lo sanno, che anche nel miglior uovo possibile troveranno una riprovevole cagata, eppure mentre divellono la confezione c'hanno quel sorriso sdentato che si allarga a dismisura, gli occhi più grandi si fanno fulgide fessure. Lo guardi, il bimbo, e sei quasi contento per lui, che ha ancora qualche anno di quasi innocenza da godersi prima che il Mondo se lo prenda. Apre l’uovo con un pugno, ripudia il cioccolato (Lindt: ancora hai da imparare, piccolo) e ne tira fuori uno di quei ributtanti orologini di plastica colorata già fuori moda la pasqua scorsa. Penso che al posto suo sarei incazzato personalmente, e invece lui se la ride, tutto felice. Anche se la sorpresa fa schifo. Magari proprio perché fa così schifo. E’ evidente che, più che una scatola di cioccolatini, la vita è un uovo pasquale. Non ti aspettare mai nulla, goditi lo scartamento, se il cioccolato è buono assaporalo e per il dono, beh, cerca di cogliere il lato esilarante della vicenda. I bambini lo sanno (le donne, no), e continueranno a saperlo finché non diverranno dei gran pezzi di merda come noi. Ma sto divagando. Ciò che mi premeva era indurvi a somma invidia per il pranzo che ho avuto il gaudio di consumare. Il posto lo sceglie mio padre, il giorno prima di pasqua. Neanche il Temporeggiatore sarebbe arrivato a tanto. Un suo amico suona, dice. Io penso Dio, un'intera taffiata pasquale a sfondo anni ’60. Nel chiedermi se esista qualcosa di peggio, dico Bene, pater, andiamo, facciamoci del male. Non so se avete presente scampia. Fatto sta che giungiamo sicumerosi in un locus amoenus che vi cascherebbe a pennello. La lugubre lavagnetta all’ingresso indica con dovizia: “Pranzi e cene” (scritta redatta con inclinazione 49 gradi). Io penso Uau, questi spaccano. La giornata è calda, e mentre sto lì a considerare che fretta c’era maledetta primavera, entriamo nel “giardino” interno. Pavimentazione in stile mattatoio di Torre Annunziata, sedie del mesozoico e un panorama che mozza il fiato, tra auto abbandonate e mirabolanti coperture in eternit che fanno sempre breccia. Ai tavoli, le solite famiglie allargate del Sud, volti felici e simpatia tracimante e culi enormi e

voglia matta di risorgere assieme all’amico Gesù. La colonna sonora ad hoc di tale vuoto cosmico è Fausto Leali, cantato degnamente da un mero epigono di Peppino di Capri accompagnato da un mero epigono di Scillipoti, titillante una Stratocaster che meriterebbe mani migliori. Ai bonghi, l’amico di mio padre, un simpatico balordo in camicia hawaiana e occhiali neri da mendicante cieco di Rio de Janeiro. Insieme fanno 180 anni. Mettono una tenerezza straziante. Triste, penso a Giuseppe Baretti alle osterie di Mafra e Cintra e finalmente lo comprendo. Mi siedo. Il piccolo puer osserva con dialettica invidiabile due elementi palesemente empi del pranzo che ci apprestiamo ad affrontare: “Uno: questa musica fa schifo; due: odio mangiare con la musica alta”. Non posso che convenire con lui. Prendiamo due menù di pesce e due di carne. La carne l’ho abbandonata, non saprei dire. Pare tuttavia che la tartara fosse oscena e persino le salsicce fossero crude, gustose come un editoriale di Sallusti. A me giungono, in primis, le cozze alla scotadeo. Un classico. Arduo sbagliare. Ci riescono. Il cameriere, un bengalese imbranato quanto elegante, rovescia con impegno il sughetto sulla tovaglia. Daje, ma son ragazzi. In merito alle cozze, non trovo similitudini atte a renderne adeguatamente la sconcia riprovevolezza. Dopodiché, spaghetti ai frutti di mare, mediocri come un rovescio bimane di Gilles Simon, e grigliata di pesce, che consta di: coda di rospo (PURO GRASSO. Ancora non comprendo come abbiano fatto. F-e-n-om-e-n-i), trancio di pesce – spada (ci ho spremuto sopra un limone intero ma niente) e calamari ai ferri (i meno inaccettabili. Gommosi. Cinque). Nel frattempo, avvengono due fatti sconcertanti. Costretti ad abbassare i decibel a causa delle lamentele di alcuni clienti (c’è speranza), cantante e chitarrista si guardano attorno sgomenti, abbattuti, mutilati degli ultimi scampoli della propria dignità. Ma non solo: è il momento della rivalsa canora del padrone del locale. Come neanche nelle peggiori puntate della Corrida, il tizio, un fallito clamoroso, stonato ed eunuco, redime la plebe devastando Margherita di Cocciante. Momenti indimenticabili. Mi passa pure la voglia del dolce. Mio padre vaneggia che quantomeno abbiamo evitato di abbuffarci. Prevedo che dirà “dovremmo farlo più spesso” battendosi una mano sul pingue ventre, e infatti lo afferma con certa qual solennità. 120 euro in tutto. Soldi ben spesi per una giornata che rientra a buon diritto nella top five delle peggiori della Storia. Ce ne torniamo a casa, in attesa della prossima resurrezione di Cristo la tigre.

IV

Angelo Baciocchi

Ciuffi d’erba penduli

Fu felice. Appoggiato al finestrino fugace vetrina alla strada assordante di strida automobilistiche di accelerazioni, com’è il mondo com’è anche il Duemilaeundici scoccato così fecero i suoi fratelli e così ha fatto lui: ciuffi d’erba dal ciglio di un anfratto. L’anziano pensa poco il verde dei suoi anni sminuzzati ma ha a cuore -incerta fessura il suo sorriso- quei due giovanotti alle sue spalle, la voce di uno che sgraziato parla di vicende di voglie e ritrosie lontane credute così verdi e cariche del sapore di rugiada prima di apparire una pecora bianchissima e inaddomesticabile che bruchi quattro punte d’erba. L’anziano fu felice di avere poche di quelle vicende da dire e che la notte l’attimo o l’ora o la percezione più inscandibile quando sentì il fiato della bestia, con occhi rugiadosi, non disperò come alcuni che avvistatala (altri fingono di non vederla) la scaraventino dall’anfratto ignari che altre arrivino in fretta perché il tempo è come un gregge e sono in molti, lì, ad aver fame. La fermata. Scesero i due giovanotti di sfuggita l’anziano vide -il chiasso stradale per poco cessato, poteva estraniarsi menocon occhi rugiadosi i loro occhi penduli nell’angoscia degli anni.


L’Avventurosa storia della metamorfosi asinina - aspetti tipici dell’asinità di Federico Cammarota (Solivagus Rima)

La simbologia legata alla figura dell’asino ha molte interpretazioni, spesso fra loro contrastanti. Infatti, l’asino e il suo parente selvaggio, l’onagro, godono sia nell’antichità sia nel Medioevo di una situazione simbolica, che è evidenziata ambiguità e ambivalenza. Questa loro potenzialità polisemica è data dal fatto che sono animali provenienti dall’Asia centrale. Quindi, sono avvertiti come nemici ed estranei dalle popolazioni del bacino mediterraneo. Del resto, entrambi servivano da cavalcatura, prima che questa funzione fosse loro sottratta dal cavallo. Nell’Antico Egitto è importante l’opposizione tra il Seth asino, simbolo delle tenebre e del crepuscolo, e Horus falco( figlio di Osiride e Iside), simbolo della luce e dell’aurora; essi rappresenterebbero l’eterna lotta tra luce e oscurità. Tra gli Ittiti e gli Hyksos l’asino rappresenterebbe la regalità e la saggezza; sappiamo che le orecchie erano per i popoli dell’Anatolia, oltre che un simbolo sacro, anche un simbolo sapienziale e regale. Per gli ebrei gli asini erano sacri; rappresentavano per questi popoli nomadi delle tipiche cavalcature. Sono importanti il racconto biblico di Giuseppe e il carattere nomade dei re pastori, oltre al fatto che l’asino fosse la ti pica cavalcatura dei profeti. In Grecia, Dioniso era raffigurato proprio in groppa ad un asino, e i Romani vi videro un’allusione al dio della fecondità, Priapo, inserendolo anche al seguito della dea Cerere. I Greci, inoltre, collegavano l’asino a Saturno, in relazione con la materia, la terra, l’isolamento, la fine delle cose. Godeva di venerazione, perché era considerato coraggioso e lo attribuivano anche al dio Marte, oltre che a Dioniso. “L’asino o Lucio” di Luciano da Samostata. Di quest’opera sappiamo ben poco. Sappiamo che probabilmente è il testo a cui Apuleio si è ispirato per scrivere le “Metamorfosi”. Sappiamo che, secondo Fozio, la storia dell’asino Lucio potrebbe derivare da un romanzo di Lucio di Patre. “Metamorfosi o asino d’oro” di Lucio Apuleio. L’opera è composta da undici libri. I primi tre sono occupati dalle avventure del protagonista, Lucio, prima e dopo il suo arrivo a Hypata in

Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Coinvolto già durante il viaggio nell’atmosfera carica di mistero che circonda il luogo, il giovane si mostra subito molto curioso( la curiosità è un tratto caratteristico del suo carattere - la curiosità si lega all’asino; egli, infatti, si tramuterà in asino). In questo libro Apuleio ci propone una figura negativa dell’ asino. La trasformazione di Lucio in asino sta a simboleggiare la punizione per la sua eccessiva curiosità. Inoltre, da asino, animale di umili origini, Lucio vede tutti gli aspetti più degradanti della condizione umana e si trova ad aver a che fare con ladri, assassini, con donne che s’accoppiano con animali, ecc. La metamorfosi simboleggia la trasformazione dell’individuo in qualcos’altro, ma non consiste solo in un cambiamento fisico, ma anche morale. Solo con la metamorfosi egli potrà capire molte cose sia del mondo che lo circonda( gli intrighi, i tradimenti, i furti, gli assassinii) sia di se stesso. Lucio incarna efficacemente la catarsi che l’essere umano deve compiere per risollevarsi dalla condizione più deteriore, nella quale è caduto; da “asino”, deve ridiventare essere umano, ossia “rinascere” secondo la concezione della spiritualità orientale. La metamorfosi consiste in uno stato di passaggio, che permetterà al protagonista di darsi una forma e raggiungere la riconquista di se stesso, diventando un essere felice. E’ proprio attraverso la metamorfosi che si può cambiare la propria natura. Un riferimento a questa dura impresa l’abbiamo con il dipinto di Filippo Balbi di Certosa dei Trisulti, in cui compare un vecchio barbuto, dai tratti asinini, con una scritta: “Ma cambiar di natura è impresa troppo dura”. Hanns Kurth nel suo “Dizionario dei Sogni” definisce l’asino come simbolo della pazienza. Se si vede un asino sarà discordia. Se si sogna di montarlo si giungerà lentamente alla meta. Se gli si dà da mangiare, si aiuta qualcuno che non lo merita. Vederlo correre corrisponde ai dispiaceri, picchiarlo all’inflessibilità verso qualche persona vicina. Sentirlo ragliare alle pene e ai lavori inutili. Viaggiare su un carretto tirato da un asino alla troppa influenza di persone irriflessive. Anche Pinocchio, il burattino ideato da Carlo Collodi, è vittima di una metamorfosi asinina. La trasformazione in asino avviene cinque mesi, dopo il suo arrivo nel Paese dei Balocchi, quando gli spuntano le orecchie, proprio la parte del corpo che il falegname Geppetto si era dimenticato di scolpire sul ceppo di legno. Se la mancanza d’orecchie denota un’incapacità di filtrare i suoni esterni e di distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, ora le grandi orecchie d’asino alludono alla stupidità e all’errore d’aver dato ascolto solo ad impulsi animali.

V

“ Se mai vi è una creatura che rappresenti egregiamente il senso del dubbio, questa sia proprio l’asino. L’asino anzi, a mio modo di vedere, simboleggia l’essenza stessa del dubbio: l’umiltà del dubbio, non la vanità del dubbio. In realtà, l’anima che si risveglia per un dubbio è certamente migliore dell’anima che dorme sicura di sé. Ecco perché ora anche noi vogliamo ragliare … Non continuiamo forse a fare errori di grammatica persino quando pensiamo? Non siamo proprio noi a nascere senza saper parlare e, a volte, a morire senza aver saputo dire? Nell’alveo della sua struggente solitudine, l’asino mi appare come una sorta di camminatore imperterrito fra gli sterpi del pensiero, al punto che si ode il rumore insistente di un passo dietro l’altro, tanto che sembra sollevare zolle e camminare fra le nuvole” (Pessoa).

Parole al vento «Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato e ufficio o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse. Egli avrà dalla sua parte lo spirito di ricerca della verità: egli esige ragioni, gli altri fede» "Umano troppo umano, volume primo" Friedrich Nietzsche


Il tifone chiamato Hack di Giulio Rosani

Ovunque vada e con chiunque entri in contatto questo “fenomeno della natura” scombussola completamente chi l’ascolta; il prossimo ciclone che si abbatterà sugli Usa potrebbero tranquillamente chiamarlo con il suo nome. Mi sto riferendo ovviamente a Margherita Hack, professore emerito di astronomia all’Università di Trieste, che ha presentato il suo libro “Libera scienza in libero stato” a “Che tempo che fa” su Rai Tre. Questo articolo vuole ripresentare in sintesi i temi trattati nel programma e riproporre alcune idee tratte dal libro della professoressa Hack riguardo a scuola ed università, tema “caldo” in questo periodo. Il primo punto tratta subito ad un’affermazione interessante: le stelle emettono rumori e noi possiamo ascoltarli con l’attrezzatura adeguata. Il motivo di ciò sta nel fatto che le stelle emettono luce, ovvero onde elettromagnetiche, ovvero in parte onde radio, che noi possiamo captare tramite un’anten-

na e riproporre come suoni. Si può così distinguere una stella come il sole, che quando è calmo (quando la sua attività è minima) emette un brusio simile al suono del vento, da una pulsar il cui suono è un continuo “bippare” con intervalli di tempo fra un bip e l’altro dell’ordine di una frazione di secondo. Piccola parentesi, le pulsar sono stelle di neutroni molto dense che hanno un campo magnetico molto esteso e perpendicolare all’asse di rotazione. Ogni volta che il loro asse magnetico è diretto verso di noi inviano un segnale verso la Terra. La loro rotazione è così elevata da compiere più giri al secondo. Nonostante questi rumori, l’universo rimane silenzioso all’orecchio umano, perché senza gli strumenti adatti questi segnali non possono essere captati. Inoltre essendo l’universo “vuoto”, il suono vero e proprio non è in grado di propagarsi. Come secondo argomento viene chiesto se in Italia siamo in condizione di studiare e di fare ricerca. Molto banalmente, come penso ormai sapranno tutti, la risposta è no, in Italia non si può fare ricerca a meno di non considerare la morte di fame o il mantenimento a vita da parte dei genitori. Infatti molti dei nostri cervelli migliori vanno all’estero a lavorare e con risultati ottimi. Quello che però interessa di quello che la professoressa Hack

dice, è che ci sarebbe un modo per far “funzionare la baracca” e che in teoria la legge sarebbe già in vigore, ma che per “problemi burocratici” non viene applicata. L’idea consiste nel fare concorsi ogni tot anni in modo da promuovere chi sta sotto nella struttura universitaria e fare spazio ai nuovi arrivati. Se dopo un certo periodo non si riesce a salire di grado, bisogna far posto ad altri. La cosa ovviamente non avviene. A parte questo Margherita Hack sottolinea che le nostre università non sono da buttare, anzi quelle con una storia dietro sono veramente molto buone. Terzo punto è la libertà o non-libertà della scienza rispetto allo stato e alla Chiesa. La scienza a-biologica non è più in pericolo da molto, ma la scienza biologica ancora ha dei problemi con la morale o la religione. Infatti molte ricerche importanti, quale quella sulle cellule staminali, sono ostacolate da preconcetti moraleggianti, nonostante il loro scopo sia fare del bene, come curare il cancro. Il testamento biologico risulta più difficile del dovuto per colpa di questa morale che bisogna mantenere come facciata. Quindi la professoressa Hack sostiene la causa di una scienza più libera per un sapere più ampio e così una vita migliore, si spera. Viene sottolineato inoltre che, cito direttamente, “gli scienziati sanno benissimo che la scienza non è in grado di spiegare tutto. Per esempio noi sappiamo ricostruire molto bene tutta la storia passata dell’universo, fino all’inizio, però se mi si domanda: perché c’è stato l’inizio?

Storici oltre le frontiere di Fabio Pasqualin

Continuano le collaborazioni tra l’Università degli studi di Trieste e l’Università del litorale di Capodistria. Recentemente gli studenti di storia di entrambi le sedi hanno fondato la prima sezione transfrontaliera dell’ ISHA ( International Students of History Associacion), associazione che riunisce studenti di storia di diversi paesi, organizzando seminari internazionali e conferenze annuali. Obiettivo di questa sezione è favorire i contatti tra studenti dei due atenei che operano nello stesso ambito, promuovendo scambi di informazioni, collaborazione nella ricerca e organizzazione di conferenze. L’iniziativa ha trovato subito appoggio da parte dei docenti di entrambe le facoltà, che hanno collaborato attivamente alla realizzazione del progetto. Il 22/03/2011 si è tenuta a Capodistria l’assemblea costitutiva, che ha ufficializzato la nascita della sezione, durante la quale è stato

steso lo statuto, che prevede assemblee periodiche, tenute alternativamente nelle due sedi, in entrambe le lingue, il cui organo direttivo è composto equamente da membri di entrambe le università, per favorire un’uguale partecipazione all’organizzazione. Gli studenti della sezione sono già al lavoro per partecipare agli appuntamenti promossi dall’associazione; dal 25 aprile al 1 maggio si è tenuta a Pola la conferenza annuale dell’ISHA (con tema “est e ovest, colmare le differenze”), mentre continua la mobilitazione per partecipare all’iniziativa “books4vijecnica”, il cui obiettivo consiste nel raccogliere libri per ricostruire la biblioteca universitaria di Sarajevo, distrutta durante l’assedio delle truppe serbe. Per chi fosse interessato a partecipare alle iniziative proposte dall’ISHA segnaliamo il gruppo facebook (ISHA Trieste-Koper) e il blog (ishatriestekoper.wordpress.com).

VI

Perché c’è l’universo? Questo non lo so, è un dato di fatto che c’è, e noi lo studiamo.” Lo scienziato non può dare risposte al perché del mondo, egli si limita a descrivere il come. Infine, ultimo punto, il fatto che la matematica oggigiorno sia veramente “snobbata”. Questo può essere dovuto alla tradizione ottocentesca che vedeva nello scienziato l’uomo dalla mente piccola, contrapposto al filosofo che invece pensava in grande. Oggi ci si presentano due casi generali, il primo è quello di persone che proprio non capiscono la matematica, il secondo di persone che non la vogliono capire. Trovarsi nel primo caso significa non vantarsi di questa condizione, non arrivarci, ma in buona fede, per così dire. Il secondo caso, invece, è quello più frequente e caratterizzato da semplice pigrizia, pensare è faticoso quindi non lo faccio. Il motivo del perché ci troviamo a volte in situazioni complicatissime, quando con un po’ di testa avremmo potuto evitarle, risale proprio a questo. A pensare si fa fatica, ma è una cosa indispensabile se si vuole vivere al massimo la propria vita. Concludo solo consigliando la visione dell’intervista a Margherita Hack, il cui contenuto è lungi dall’essere riassunto in questo articolo e la lettura del suo libro “Libera scienza in libero stato”. Con alcune affermazioni si può essere d’accordo o meno, ma in generale bisogna ammettere che la direzione indicata è quella giusta.


“La vita umana è breve ma io vorrei vivere per sempre”

di Lorenzo Natural

Ci sono personaggi che il passato ci ha donato e che ci appaiono misteriosi, difficili da decifrare. O semplicemente siamo noi a non essere in grado di comprenderne il significato e l’insegnamento che hanno lasciato tra il turbinio del veloce e inesorabile incedere della Storia. Yukio Mishima è sicuramente uno di questi: drammaturgo, scrittore di apprezzato valore, l’unico autore giapponese moderno che “fosse degno di mettere in scena le proprie rappresentazioni di teatro Kabuchi e No”; ma anche un uomo che non ha avuto paura di affrontare la morte come pegno per la fedeltà che da sempre ha donato al suo paese, il Giappone. Sarebbe riduttivo parlare di Mishima citando le sue opere o tracciandone una mera vicenda artistico-biografica, tralasciando ciò che veramente risplende nelle coscienze di chi ha la fortuna di capirne la statura e la grandezza. Tuttavia, presumendo che non tutti abbiano presente la figura di Mishima, ritengo che un cenno alla situazione e al contesto in cui egli si inserisce sia obbligatoria. Terminata la Seconda Guerra Mondiale con la vittoria delle democrazia statunitense e di quelle europee, il Giappone - che come ben sappiamo formava il cosiddetto asse Roma-Berlino-Tokyo in contrapposizione alle prime potenze da me citate - si ritrovava in una situazione molto delicata: da una parte gli ultimi brandelli di resistenza (eroica, ma disorganizzata) anti-americana, dall’altra un Paese devastato dai bombardamenti di Nagasaki e Hiroshima. Per evitare di cadere nel baratro dell’isolamento, il governo e l’imperatore decisero di approvare una nuova costituzione pacifista nel 1947, de facto proposta dagli Stati Uniti, paese che occupò l’ex Impero del Sol Levante fino al 1952. Il Giappone si ritrovò, così, a pagare a caro prezzo la sconfitta del conflitto: tuttavia -aiutata dagli stessi

USA- la ripresa economica fu quasi immediata, facendo del Giappone uno dei pilastri dell’economia mondiale del mondo moderno. Se questa vena progressista ha fin dal ‘52 mostrato il suo lato positivo, è inutile nascondere che la totale sottomissione ai vincitori ha leso in modo quasi definitivo le millenarie radici dell’Impero Giapponese, e con esse lo spirito degli uomini che avevano dedicato anima e corpo all’ideale supremo della sacralità imperiale. E in questo humus politico, tra vecchi eroi dimenticati e giovani ragazzi con lo spirito e lo sguardo ancora rivolti alla luce del Sole a sedici raggi della vecchia bandiera dell’arcipelago, si inserisce la giovane vita di Yukio Mishima (pseudonimo di Hiraoka Kimitake). Naturalmente le solite malelingue moraliste non hanno esitato a definire Mishima un “filo-nazifascista” (termine alquanto improprio, ma di cui si è fatto - e si fa - un uso spropositato), non riuscendo ad accettare la figura di un uomo che, nonostante la sconfitta del proprio Paese, è rimasto fedele ad esso fino all’ultimo giorno della sua vita. Mishima non era un estremista, non amava definirsi né di destra né di sinistra: era un tradizionalista, un nazionalista, un conservatore decadente, come lo definì emblematicamente Moravia. Non voleva lasciare che il Giappone si piegasse alle leggi del mercato capitalista statunitense a discapito delle secolari leggi del codice d’onore samurai e del Bushi-do: insomma, verrebbe da dire un sognatore, un romantico che non accettava di sottomettersi ai nuovi padroni, ben sapendo, in cuor suo, che la sua resistenza sarebbe risultata infruttuosa, a lungo termine. Il primo Mishima, tuttavia, era un giovane ragazzo come tanti, impegnato in studi e attività lavorative di ambito giuridico, che ben presto scoprì non essere adatte al suo stesso ego. Yukio lasciò questa strada per intraprendere la via della scrittura; in questa arte poté esprimere al meglio i propri sentimenti, che non riguardavano soltanto tematiche politiche, anzi: nei primi capolavori (Confessioni di una maschera e ancor di più in Colori Proibiti) traspare l’anima estetica dello scrittore. Tra le pagine delle sue opere s’intrecciano - con interessanti spunti autobiografici - storie di novelli Narciso, relazioni omosessuali e analisi psicologiche. Il culto

VII

della bellezza estetica divenne uno dei capisaldi di Mishima: un culto del proprio corpo talvolta esasperato, ma che coincide con l’ideale di perfezione riconducibile non solo allo spirito della cultura giapponese, ma addirittura alle Tradizioni dei perfetti fisici degli uomini e dei semi-dèi dell’Antica Grecia, a cui Yukio spesso affermò di ispirarsi. Un’adorazione e cura del proprio corpo che lo portarono a cimentarsi nel culturismo, oltre alla pratica di numerosi arti marziali. La ricerca di un perfetto equilibrio tra estetica e interiorità, pensiero e “armatura”, esteriorità e essenza furono sempre alla base della sua vita. In Mishima, questa condotta di vita ebbe notevole influenza sull’aspetto spirituale, ma soprattutto “politico”. La sua devozione quasi maniacale all’allenamento continuo del proprio corpo, portò Yukio a fondare il Tate no kai, un piccolo gruppo di fedeli guerrieri disposti a reincarnare i valori simbolo dei vecchi samurai: amore e difesa della Sacra Patria e ricerca del proprio equilibrio. Onestà, Coraggio, Sincerità, Onore, Dovere e Lealtà: la via del guerriero che gli antichi maestri avevano tracciato, riviveva di luce splendente in Mishima e nel suo esercito. Il Sole imperiale tornava a splendere sull’Acciaio delle armature dei nuovi guerrieri giapponesi; l’Imperatore - visto come simbolo sacro alla Tradizione, e non come singolo uomo - era ancora circondato da un manipolo di uomini che avrebbero donato la loro stessa vita pur di difenderne l’ombra. Tuttavia, a malincuore, Mishima dovette constatare come oramai il suo Paese era stato irreversibilmente corrotto dai nuovi dèi della modernità, insediatisi tra il feticismo delle merci e la cupidigia del mercato. Solo pochi continuavano a opporsi al Nuovo Giappone, lontanissimo parente di quell’ancestrale misticismo che caratterizzava il Vecchio Paese del Sol Levante. Incapace di poter vivere in un mondo non suo, attanagliato da un sentimento di spaesamento interiore più che fisico, Mishima e gli ultimi samurai a lui fedeli decisero di urlare al Paese intero il loro ultimo grido di libertà. Occupato il palazzo dell’esercito di autodifesa, Mishima esaltò a gran voce, per l’ultima volta, lo spirito del Giappone Imperiale. Rimasto inascoltato, si tolse la vita assieme al fidato amico Morita con la pratica samurai del

seppuku (da non confondere con l’harakiri). Il tutto venne ripreso dagli increduli obiettivi delle telecamere dei giornalisti, rimasti totalmente esterrefatti dalla lucidità che mantenne Mishima fino -e persino durante- il momento del suicidio. E così il 25 novembre 1970 -data, peraltro, designata già alcuni mesi prima dallo stesso Mishima, all’età di 45 anni Yukio Mishima decise di morire assieme al suo Paese, ormai sull’orlo del precipizio di quella modernità che lo scrittore giapponese aveva sempre combattuto. La stoica fermezza, la calma , l’equilibrio raggiunto, permisero a Yukio di intraprendere il cammino verso la consapevolezza e la necessità della morte con una tale lucidità da spaventare qualsiasi uomo di questo tempo di mezzo della storia. Un insegnamento a vivere e a morire che pochi uomini hanno saputo impregnare nelle vicende umane dell’ultimo cinquantennio. Alla luce di ciò, tentare, come siamo soliti fare, di affibbiare a Mishima l’una o l’altra etichetta, non è soltanto riduttivo, ma disonorevole per un uomo, che nel bene e nel male, ha vissuto in funzione di un Ideale. Giudicare se sia stato più o meno sensato il sacrificio finale di Yukio non avrebbe alcun senso; come non lo avrebbero i giudizi moraleggianti su un presunto ripudio della vita da parte di Mishima. Potrò apparire retorico, ma in un Paese depravato dalla sua essenza più viva, dalle sue Tradizioni più splendenti, dal suo fascino più occulto, Mishima ha saputo ridare vigore a tutto ciò. E se questo non è bastato per cambiare qualcosa a livello meramente pratico e politico, il suo ricordo resta indelebile in chi ha la fortuna di apprezzarne il significato, le sue gesta scolpite nella memoria della Storia, le sue opere impresse nei libri delle biblioteche. Un ricordo che forse oggi il popolo giapponese non ha cancellato: la compostezza, la misura e la tenacia con cui la gente del Sol Levante ha reagito a una delle più tremende catastrofi naturali della nostra storia avrebbe sicuramente reso orgoglioso Mishima. Il sacrificio della propria vita rappresenta sì una difficile rinuncia alla volontà di “voler vivere per sempre”, ma soprattutto l’ultimo atto di fedeltà a un ideale supremo, un “valore più alto del rispetto della vita. Un valore che non è la libertà, non è la democrazia, ma è il Giappone”.


Sopra il ricordare di Nicola Narciso

In queste righe andremo alla com-

prensione – o al tentativo di comprendere -- cosa risieda alla base del “ricordare”, considerando, per ora, tale termine in senso molto generale. Orbene, è, o dovrebbe essere, di metodo umano porre ogni volta, e sempre, i giusti Presupposti concettuali per articolare un pensiero: poniamo dunque un Presupposto, l’unico che potrebbe – e che deve - emergere da quanto pochissimo detto sino a qui. Il termine “ricordare” ha derivazione latina, specificamente è composto dal prefisso “re-“ (“di nuovo”, “addietro”) e dal sostantivo “cor-dis” (“cuore”); viene così suggerita una vicinanza al “cuore”, idea o metafora - prima ancora di organo e muscolo involontario - profondamente correlata al sentimento ed a ciò che “ragione” non è. È difatti immediato distinguere e contrapporre i sempreverdi binomi “cuore-sentimento” e “testa-ragione”; il cuore, idea o metafora, è da immemore tempo sede del irrazionale, del dionisiaco, del sentimento. Emerge allora, proprio per queste attinenze all’emotività, come il ricordare sia una attività complicatissima da inquadrare, incalcolabile e senza limiti, di cui, per altro, sterminata letteratura di ogni ambito si è scritta, motivo questo per il quale la nostra considerazione qui si arresterà rimanendo, appunto, solo un Presupposto. Riassumendo: cosa sta alla base del ricordare? Alla base vi è il sentimento, vi è la incertezza di ciò che non è ragione. Ci è ora possibile, Lettori pazienti, procedere. Limitiamo a questo punto, mediante l’uso di un aggettivo (o doppio aggettivo), l’ambito d’azione del nostro “ricordare”: definiamo un “ricordare letterarioumanistico”. La faccenda – si intuisce - assume così di immediato un taglio ben diverso. Cosa si intende col doppio aggettivo? Si intende certo il bagaglio culturale di tipo letterario ed umanistico di un Individuo: “ricordare letterario-umanistico” nel senso di uso di memoria letteraria, uso di idee già formulate, uso di citazioni. Saggi Lettori, che non assuma sfumatura negativa il concetto di “idea già formulata”. Definita l’attività (ricordare letterario-umanistico), sono ora da comprendere le motivazioni per cui essa viene condotta dall’Individuo. Preliminarmente e particolarmen-

te, consideriamo azioni più ampie, come lo studio, la conoscenza, la memoria di sé e del passato, tutte vicine al ricordare. Deragliando positivamente, citiamo Abraham Maslow, psicologo statunitense del Novecento, che elaborò una piramide dei bisogni umani, divenuta poi celebre col nome di “Piramide di Maslow”, nella quale vengono posti, a mo’ di piramide, i bisogni umani, gerarchicamente dal basso verso l’alto (bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, bisogni sociali e di appartenenza ad un gruppo, bisogni di stima, bisogni di auto-realizzazione). Solo col soddisfacimento dei bisogni di rango inferiore, è possibile dar moto ai bisogni di rango più elevato.

Secondo Maslow, l’Individuo, sfamatosi, a posto con la propria fisicità e sicuro della propria salute mentale e fisica – soddisfatti cioè i primi due livelli della piramide -, percepisce bisogni sociali, il cui soddisfacimento inquadra gli estremi de “l’Uomo è un animale sociale”; in altri termini, l’Individuo - Nietzsche direbbe: “l’Individuo debole” - tende per bisogno, per istinto e spontaneamente, al gruppo ed alla socialità, lontano dal percepirsi solo ed emarginato, sia in termini fisici che intellettuali. La vetta della piramide, invece, presenta l’autorealizzazione che, secondo Maslow, prevede bisogni elevati come lo studio, la conoscenza, il perfezionamento intellettuale di sé. Essi sono il sintomo certamente di una condizione di vita rassicurante: un “senza tetto” difficilmente può percepire tali bisogni, poiché assorbito in toto al soddisfacimento dei primi gradi della piramide. Orbene, noi, Lettori appassionati, sentiamo di volerci allontanare da quest’ultima considerazione derivante dalla lettura della Piramide: vorremmo evidenziare come “bisogni sociali e di appartenenza ad un gruppo” (terzo grado) e “bisogni di auto-realizzazione” (vetta) siano strettamente correlati. Consideriamo due esempi: Giulia, adolescente, stringe intensi rapporti umani con i propri coetanei

– essi diventeranno amici -, formando così il cosiddetto “gruppo dei pari”. Tra “simili”, condividendo desideri, necessità, modelli di svago, ideali, melanconie e disagi, Giulia “non si sente sola”, sente “che altri provano le stesse sue cose”. La tendenza umana, troppo umana e spontanea a far parte di un gruppo fa capo esattamente al terzo grado della Piramide, cioè ai “bisogni sociali e di appartenenza ad un gruppo”. Passiamo al secondo esempio: Stefano, studioso di Cose Umanistiche, sceglie di dedicare i propri studi alle tematiche esistenzialiste, decidendo di approfondire in particolare letture nietzschiane e dostoevskijane e basando, per altro, la propria tesi di laurea su di esse. Questo orientamento all’Esistenzialismo, certamente non deciso a tavolino dal nostro studioso, è dovuto a tendenze spontanee, di specificità del suo animo e può essere ricondotto alla vetta della Piramide (auto-realizzazione). Stefano, leggendo un passo de “Le memorie del sottosuolo” o la prima dissertazione della “Genealogia della morale”, percepirà vicinanza a quei pensieri, proverà un senso di soddisfazione per la sensibile empatia col testo, sentirà appartenenza a alle atmosfere intellettuali lì esposte. Quante volte Stefano penserà: “Per Bacco, è così davvero e l’ho pensato spesso, eppure non sono mai riuscito a dirlo così bene…” e quante altre volte proporrà agli Amici quelle sue stesse letture e quante volte citerà Raskol’nikov? Lungimiranti Lettori, inizia, forse, a parere chiaro dove si sta tentando di andare a parare - reinseriamoci nel sentiero dopo l’apparente deragliamento. Il ricordare letterarioumanistico, che, a questo punto del nostro ragionamento possiamo accostare al termine “citare”, altro non è che una colorazione del bisogno di appartenenza ad un gruppo. Comprendere che ad inizio Novecento, o nel Romanticismo o nel XIII secolo o nell’antica Grecia l’Uomo – lui medesimo - si è sempre preoccupato per le stesse questioni umane di cui anche oggi l’Uomo si preoccupa, è rassicurante e fa prendere parte al più ampio gruppo chiamato “umanità”. “Il vivere è sempre quello, ma è storia antica”. E se si volesse ragionare sul significato o sul fine del conoscere – sul perché la mela della conoscenza sia così affascinante o irresistibile

VIII

– basti, di nuovo, volgere il pensiero al bisogno di appartenenza: più si conosce, meno si è perduti. Maggiormente l’Uomo conosce, maggiore sarà il proprio margine di movimento, di azione e di decisione e di auto-determinazione. In senso assoluto, ricerca scientifica, esplorazioni dapprima geografiche ed ora spaziali qui si riallacciano. E la “sete di sapere” è un desiderio irrazionale, di sentimento, che sta nel “cuore”, che vuole condurre a restringere sempre più l’ombra ed il non conosciuto, garantendo all’Uomo una appartenenza un poco più stabile a questo mondo o, per lo meno, alla essenza di “umanità”. Ed infine, quante, quante volte, Lettori Cari, vi siete trovati a far fronte ad accuse di erudizione o ad atteggiamenti beffardi nel momento in cui stavate esprimendo un ricordo letterario-umanistico o mentre stavate citando? Vi veniva detto che a niente serve rievocare idee di altri, già formulate, per inquadrare idee proprie, che vale invece assai più tessere idee proprie ed esprimerle con parole proprie. Davanti a questo, voi avete pensato che ormai l’Uomo ha perduto di mente il significato di “Essere Umano”, che ha perduto gran parte di memoria storica e che è obbiettivo arduo tentare - o sperare - di godere dell’appartenenza al gruppo degli Uomini. Eccoci, Lettori Fidati, il nostro ragionamento è giunto a conclusione. Credo tuttavia che quanto detto non sia esattamente un ragionamento, quanto un Presupposto; non un punto d’arrivo, ma una radice, dalla quale stabilire un giusto fiorire – “giusto” per chi vuole abbracciare la nostra concezione – a questo mondo. Grazie, Lettori.

Direttore Responsabile: Stefano Tieri Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo per contattarci: chartasporca@gmail.com


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