Charta Sporca numero 1 - novembre 2011

Page 1

NUMERO I - NOVEMBRE 2011

Paradosso? di Stefano Tieri Qualcuno, alla lettura del “manifesto” (numero zero, prima pagina) potrebbe avere storto il naso: come è possibile che sia il «dubbio» ad animare la penna, se – viene detto – ognuno avrà «la forza delle proprie idee»? Dal momento in cui si è consci della soggettività e, soprattutto, della non finitezza del proprio pensiero (continuamente rivisto, sulla base della propria – da qui la dimensione soggettiva – esperienza), come è possibile possedere una forza di tale risma? Essa giunge proprio dalla presa di coscienza dell’impossibilità di una qualsiasi visione oggettiva (ogni prospettiva sul mondo presuppone un determinato punto di vista) e del continuo evolversi di un’idea, per sua natura – allo stesso modo in cui l’uomo nasce, cresce e si perfeziona, lo stesso avviene al suo pensiero – mai compiuta. La forza cercata, con queste premesse, non può che essere una forza mai dogmatica né fideista, sempre pronta ad essere messa – a mettersi essa stessa! – in discussione. Commento a margine: un pensiero potrebbe trarre linfa vitale nel momento in cui si collocasse fuori dal tempo. «Oggi viviamo sotto il giogo di un tempo standardizzato, un tempo industriale che ci viene imposto, qualsiasi cosa si faccia, dovunque ci si trovi. Un tempo unico che, come la moneta unica, ha un unico scopo: metterci tutti in concorrenza, da un capo all’altro del pianeta. Per sopravvivere dentro questo tempo unico, dobbiamo correre più svelti degli altri. Ci siamo fatti rubare il tempo!» (Hervé-René Martin, Claire Cavazza, Nous réconcilier avec la Terre).

Un sentito ringraziamento allo studente di ingegneria il quale, rimasto purtroppo anonimo, ha vinto il concorso indetto per il “miglior utilizzo di Charta Sporca”. Essendo anonimo non potrà ritirare l’ambitissimo premio in palio: l’abbonamento a Charta Sporca in triplice copia rilegata, con annesso recapito a domicilio ad opera di una mistress ardentemente infatuata di Umberto Eco.

Lilligrafia

È possibile questa fuga? E in quale direzione è? In avanti o indietro? «Se ci si svincola dalla concezione lineare del tempo, non ci sono più solo un avanti e un indietro, ma anche tutte le altre direzioni» (Serge Latouche, il tempo della decrescita).

I


Il sonno dei mostri di Giuseppe Nava

Dopo aver frequentato un corso serale - una di quelle cose che dovrebbero servire a “fare curriculum”, per utilizzare un’espressione tanto vuota quanto abusata - mi tornano spesso alla mente le righe di una poesia di Sergio Solmi del 1963 intitolata, appunto, La scuola serale. Solmi, classe 1899, morto nel 1981, è ricordato soprattutto per la sua attività critica e di traduzione; la sua produzione poetica è piccola (il volume Poesie complete, che raccoglie i testi dal 1924 al 1975, conta a malapena 120 pagine, note comprese) e appartata rispetto alle grandi correnti novecentesche. “La scuola serale” è qui la scuola di chi è alla sera della vita: una scuola per anziani, vecchi che si sforzano di rimediare agli errori commessi: «noi / che sbagliammo tutti i sentieri, fino a che ci colse / all’improvviso la sera». L’errore è inevitabile, e giunge inaspettata la vecchiaia, quando è più difficile riparare ai danni fatti. Inutile chiamare in aiuto l’esperienza: le «regole spietate» per correggersi – le pene sofferte, i rimorsi, le cattive coscienze – non eviteranno di sbagliare di nuovo, perché si hanno sempre «occhi sbarrati nel buio serrati alla luce». Una poesia cupa, rinchiusa in un’aula di scuola, a tarda sera, dove il buio limita anche l’immaginazione che potrebbe scaturire dal guardare fuori dalle finestre, e tutto si fa ambiguo e inconoscibile: «Talora sembrano fluttuarvi / a lato forme incerte: cespi di sargasso, avvisaglie / di terre ignote, o equivoche / ombre che la sera suscita? È ben difficile / la soluzione

dei problemi, se ogni volta / ce ne cambiano i dati». Il dilemma inquietante che Solmi pone, sotteso a tutto il componimento, è l’effettiva utilità di ogni insegnamento. Inevitabile pensare a cosa è la scuola oggi, alla qualità dell’istruzione messa continuamente in discussione da più situazioni soggettive e oggettive, prima fra tutte la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso – che, nell’ottica utilitaristica a cui il mondo è piegato, dovrebbe essere il fine ultimo di ogni scuola. Per questo mi suonano e risuonano nella mente certe righe della poesia: «L’esperienza / dello studio fu dunque soltanto un lungo tentativo / di logorarci, di appiattirci, di farci lisci / nella corrente del tempo?». Un ottundimento di coscienza che instrada a una vita altrettanto ottusa e prona. Un’eventualità terrificante. Ma come non pensarci, quando l’istruzione non fa la differenza? Il mondo che viviamo ci invita a un continuo appagamento di ogni pulsione, al godimento massiccio e immediato di ogni esperienza. In questa epoca di accesso totale alle informazioni e alle nozioni, anche il sapere è investito da questa sollecitazione ininterrotta. Tutto è a portata di mano, in un flusso incontenibile e incontrollabile in cui è facile essere risucchiati, come nel maelstrom di Poe. Un tutto sovrabbondante che comunque non colma il vuoto connaturato all’esistere. Anzi spinge a un continuo rinnovare l’esperienza di “consumo” (nel senso di “consùmere”, e cioè distruggere), con varianti sempre nuove e diverse ma in fondo sem-

pre uguali, che azzera ogni spinta all’approfondimento. Una spinta in senso orizzontale che, dove non si risolve in un confusionario rifiuto (a scopo precauzionale: il cervello agisce al risparmio) porta tutt’al più a uno sterile sapere enciclopedico. Basti pensare alla fruizione selvaggia di narrativa di genere. Senza nulla togliere al valore intrinseco delle singole opere, i lettori consumano avidamente il prodotto-libro; ne cercano sempre di nuovi, ma con un piacere sempre minore – come nella progressiva assuefazione data dalla droga – perché sempre più consapevoli dei meccanismi e degli stilemi su cui appoggia l’esperienza ludica; un po’ come succede con il Can-D in Le tre stimmate di Palmer Eldritch di P.K. Dick. Lo psicologo freudiano francese Jacques Lacan sostiene che il desiderio in senso radicale è un desiderio di morte. Riducendo all’osso il suo ragionamento, il godimento, questa soddisfazione del desiderio tanto facile nei termini sopra descritti, è una forma simbolica e reiterata di morte (ma simbolica fino a che punto?). Qualcosa di simile l’avevano intuito i cantori dell’amor cortese: l’amore è idealizzato, un desiderio inappagato, continuamente ravvivato ma mai pienamente goduto, e comunque fuori dal matrimonio. Il quale era invece “consumato”, era la negazione – la morte – dell’amore (anche se in questo caso “consumo” viene da “consumàre”, cioè perfezionare, inteso in senso giuridico). L’insegnamento dovrebbe porre un discrimine, mettere in discussione

e soprattutto insegnare a farlo, portare a “consumàre” e non a “consùmere”. Si appiattisce invece nella corrente, rendendoci – e qui torniamo a Solmi – «assuefatti a un inesplicato dovere». Il solo fine è quello di arrivare, in fretta e senza intoppi, a ottenere il famigerato “foglio di carta”. E lo stesso modo ottuso di portarsi nel mondo sarà poi nel lavoro, mentre all’inquietudine dell’esistenza si potrà ovviare con un ulteriore consumo, alla continua ricerca del placebo di un’esistenza felice. Lo studio dovrebbe invece indurre a una differenza consapevole, una cesura e una spinta verticale nel flusso costante e orizzontale delle cose. Ravvivare il desiderio di sapere, mantenerlo acceso. Dopotutto Adamo ed Eva sono stati cacciati dal paradiso terrestre per aver violato il divieto sull’albero della conoscenza; e la storia ci conferma che il sapere è “satanico”, che le dittature si costruiscono sull’ignoranza. Ormai è chiaro che solo intraprendendo vie lontane da quelle che abbiamo imparato come “ufficiali”, ci si può impegnare in «un corpo a corpo col virus dell’oblio», per dirla con Raboni. Significa combattere la morte, il non-essere, il vuoto. Lottare contro le negligenze del pensiero, che non possono che portare a danni e tragedie. Infilarsi negli spazi vuoti tra i discorsi, mettere paletti, costruire sulla palude. Ribaltando il famoso assioma di Goya, se la ragione da qualche parte si è risvegliata, dovrà approfittare del sonno dei mostri per usurparne il trono.

Trieste: la mia finestra verso il tempio di Solivagus Rima

Abito in via San Nicolò. Proprio di fronte alla libreria antiquaria “Umberto Saba” … davanti all’edificio in cui abitò il grande Joyce per un periodo della sua vita. Chi io sia non ha importanza. Amo questa città, il suo mare, la sua storia. Passo gran parte del mio tempo, e questa è una caratteristica della mia persona, a cercar di carpirne i più intrinseci e misteriosi segreti, che essa cela all’interno dei suoi mille aspetti. Tuttavia, ci tengo a rendere voi, o lettori, edotti di un lato di Trieste che mi affascina nel modo più assoluto. Si tratta dei collegamenti fra Trieste e la massoneria. La massoneria, se dovessi descriverla per come è definita consuetamente, direi è una “società segreta”. Ma, se mi venisse chiesto di spiegare ciò che empiricamente son

riuscito a trarre dai miei studi su di essa e dalle cose che ho visto, posso dire che non è affatto così, o meglio lo è in parte. Infatti, la massoneria è ben conosciuta e i suoi membri non tentano di nascondere il fatto che all’interno di essa vengano compiuti dei riti. Quindi, la definirei, più che “società segreta”, “società riservata”, in quanto i massoni non si nascondono e ammettono chiaramente di appartenere alla massoneria. Ma amano una certa riservatezza per quanto riguarda i loro riti. Sono dei “cultori della privacy”, diciamo così. Per continuare questa mia relazione, vi posso dire che il mio interesse per la massoneria cominciò proprio da quando venni ad abitare qui in via san Nicolò. Infatti, da quel momento mi dedicai a un bel passatempo: guardare dalla finestra. II

Parecchie sere mi mettevo lì, tra gli infissi, ad osservare la gente che passava e a studiarla nei movimenti. Presto mi accorsi che un discreto numero di persone si incontrava con una certa frequenza davanti al portone di fronte al mio. Si salutavano, ridevano assieme. Per molte volte alla settimana, frequentemente. Spesso giungevano una donna bionda, abbastanza alta, e due uomini dall’aspetto imponente, uno sulla cinquantina e uno molto vecchio. Il più vecchio inforcava una Philiph Morris tra due dita della mano e la fumava. Poi, entravano assieme nell’edificio. Salivano a piedi fino all’ultimo piano. Io lo sapevo perché all’ultimo piano c’era sempre una luce che s’accendeva poco dopo il loro ingresso dal portone. (continua nel prossimo numero)


Terza

Pagina

inserto letterario

Il Piccolo Calvo

Alla deriva

“Non esiste vento favorevole per un marinaio che non sappia dove andare” (Seneca) Enormi catene, le reti che ci congiungono, unendo il lontano, traducendo il diverso, creando un tutt’uno onnicomprensivo. Reti di fittissime trame, tese in fili metallici a formare un muro di cemento armato, dal quale persino l’aria stenta a passare. Di questi fili, di questa rete, di questo muro, non è possibile vedere nulla; eppure sono lì, a soffocare ogni istinto di ribellione, ogni ricerca d’una boccata d’aria fresca. L’azione si limita al tessere avanti queste reti, non accorgendosi di stare tessendo, con loro, i confini del proprio mondo, sempre più ridotto – eppure sembra così immenso – limitato ad una stanza. Si rimane così immobili, dipendenti (non stipendiati) di un mondo di cui si è padroni. Padroni di una stanza. La tramontana tra gli scuri capelli, pur soltanto di qualche nodo, ti desta dal tuo leggero sonno, negligente d’un giovane marinaio. Pensi che nessuno ti veda, sull’alto del tuo albero? E anche se così fosse? Non attendi null’altro anche tu, che intravedere sull’orizzonte il raggio di luce d’un faro, o in alternativa, le lampade ad olio di qualche famiglia ancora seduta a tavola per la cena? No… nulla può ripagare la quiete di una leggera brezza sul mantello ondulato del mare, nulla le nuvole perforate dal sole, dopo la tempesta. E non era anco la tempesta, con il suo furore struggente, degna d’essere affrontata? La pioggia scrosciante che, lama ghiacciata, segna il volto; istantanee fotografie di disperazione, sempre seguite dal cupo battito della grancassa; foto di suoni. Eppure qual gioia, nello svegliarti accompagnato dal volo dei gabbiani, a richiamarti la solida terra che presto avresti toccato. Ma allora? Forse era solamente il gusto d’aspettare, carico d’attesa, a sugellare quegli scenarî idillici. La malinconia di saperle ultime, quelle ore di viaggio, perciò da assaporare perché lontane dalle sue successive. Cos’era un viaggio, se non l’attimo della decisione di intraprenderlo e gli ultimi istanti prima del suo compiersi? Null’altro che decisioni già prese e itinerarî da percorrere. Nell’infinità degli oceani potete arrivare ovunque, ed in nessun posto. Venendosi a moltiplicare – sul mare – le rotte da percorrere, il tempo a disposizione risultava irrimediabilmente diviso. Le mete, i viaggi, le avventure si accumulavano sulle tue spalle, e col loro peso ti ricordavano di esserti fin troppo allontanato da quella giovinezza che continuavi ostentato ad inseguire, vagando ancora per le sempre nuove vie del mare. La spuma delle onde ora richiama più il colore dei tuoi radi capelli, che la purezza degli ideali di quando sei partito per quest’infinita spedizione; la salsedine ed il sole, già rovinata la pelle, erano ormai particolari insignificanti della tua esistenza, non più piccole gioie quotidiane. La tramontana, dapprima consolazione al caldo torrido del sole estivo, sta ora a poco a poco aumentando, preludio di sventura. Ti senti terribilmente solo: l’orizzonte appare vuoto, ogni pesce rifugiato nelle profondità marine, al riparo. Ecco che ti si prospetta ancora una sfida, come tante affrontate finora; con qualche acciacco in più nel fisico, certo, ma con la forza dell’esperienza dalla tua. Le vele iniziano a soffrire le raffiche d’aria sempre più violente, meglio ammainarle; il mare, mosso, schiaffeggia quelle travi di legno logorate dal tempo, a poppa quanto a prua stai imbarcando grandi quantità d’acqua; fissato quindi il timone, giudichi il miglior consiglio rifugiarti sottocoperta. Quant’è dolce l’ignoranza, delle volte! Una falla sta ingrossandosi col passare dei secondi e dei litri imbarcati – come se quelli sopra la tua testa non bastassero – il tuo destino ti si legge stampato sul volto, lo sguardo disilluso. Sei morto. Torna all’inizio del viaggio. Perdi 564 punti esperienza.

III

Solivagus Rima

Ode del disadattato Mute le campane squillano di sera, di notte, nel campo, tra le viti della primavera. Solo. Una coppia a baciarsi s’appropinqua. Tremore. Sassetti brulicanti nel deserto sotto le scarpe. Bacio. Sangue. Una ventina di stremanti …. arpe … battiti … Un ballo forsennato


Ettore Spada

Notturno con gabbiano e terrazzo Quando la notte cala spunta la luna d’oro, sibila fra l’alloro il vento; muove l’ala

un guardingo gabbiano. Ronza la strada, e tace. Nella notturna pace un brontolio lontano. Il cielo scuro affonda nel mar fitto di luci, e pare quasi bruci nella notte profonda. Ma al largo, dove vaga il mio sguardo irrequieto tutto è oscuro, segreto, e l’occhio non si appaga

ma è questa l’ora in cui la mia mente si libra, cresce di fibra in fibra, rimembra chi, che fui... Gorgheggiano lontani con versi improvvisati gabbiani addormentati in larghi cerchi piani. Un ricciolo di vento sommuove un po’ le foglie, i pensieri raccoglie e corre via, lo sento. Un rombo sulla strada, freme l’ultima volta la nuvola dissolta; il gabbiano gli bada

di questo arcano specchio, delle iraconde stelle, minuscole fiammelle in cui non mi rispecchio.

con l’ultimo saluto... croa croa, poi s’addormenta. Il vento ancora tenta un ramo, e giace muto.

Si copre un poco il cielo di nubi silenziose, oppresso dalle cose si spezza questo stelo.

Croa croa... una notte eterna ed io che veglio invano. Nei sogni mi rintano e spengo la lucerna.

Caute le pigre navi poggiano sovra le acque dove posare piacque al gabbiano le gravi

Croa croa, dolce collega, la notte è fonda; solo mi lasci, ed al mio duolo, ma sai quanto mi frega...

membra, e la nebbia assorta distese le sue dita. La distesa infinita pur viva, è così morta...

Splendida notte atroce. Croa croa, a volte torni, amico, ed i miei giorni segni con la tua voce.

Tu dove sei, che pensi? Sei tu ciò che più manca alla mia anima stanca, ai miei aridi sensi...

Ti starò un poco accanto ancora per un poco, la sigaretta, e fioco si spegnerà il mio canto.

Una notte passata d’estate parigina nell’ora più bambina ti colsi addormentata nella fotografia. La stringo fra le mani mentre attendo il domani che questa fantasia

Mi sei apparsa come una nota di violino in una stanza spenta come la musica di un usignolo entrato per errore. Ma è guasta la nota nella sinfonia che non inizierà: qualcuno ha acceso le luci, una porta si allenta nei cardini come lo sguardo di chi si allontana per strada. Vi sonano una banda allegra un canto popolare ma dall’altra parte spunta rosso su nero, un figurino e poi un camice bianco e sguardo attraente, l’artigiano, altre figure e figurini tutte come voci spaiate sopra cui un ometto col berretto a terra sona il violino. Tu fermi il passo, guardi, passi avanti. Imbocchi la viuzza che profuma di panni stesi e di orina notturna di un matto o di un ragazzo. Ma tu forse non sei mai uscita, nè la viuzza nè la piazza con le sue figure ti sono appartenute.

Il tuo continua rado, la rima più riuscita, notte bella infinita, bellissima... or vado. Terrò dentro il mio cuore la notte che già sa... il vento, il volo, odore della felicità.

Sei rimasta spaesata come l’usignolo che non dà segno nella stanza, rimaste le luci accese, ma è pieno giorno, rimasto l’odore della notte,

d’incanto scioglierà. Tra nuovi desideri, fra gli antichi pensieri, domani giungerà;

Angelo Baciocchi

IV


La traccia del ricordo: “ricordati di non dimenticare!” di Davide Pittioni

Ritengo la questione del ricordare un punto dolente dell’epoca presente, vista in particolar modo la sua smemoratezza, che disperdendo il passato in atomi di tempo caotico, scardina legami sociali, certezze, parole, significati... Riallacciandomi alle considerazioni dell’articolo sul ricordare di Nicola Tarciso del numero precedente di Charta sporca, vorrei aggiungere qualche ragionamento a quanto già detto. Nel film di Christopher Nolan Memento il protagonista, Leonard, si trova a dover convivere con una rara disfunzione della memoria a lungo termine, provocatagli dallo stupratore della moglie. I suoi ricordi si interrompono nel momento stesso in cui accusa il trauma cranico: da quell’ istante fino al tempo presente in cui vive c’è un vuoto. Questa anomalia costringe il protagonista a vivere il momento, l’attimo presente, utilizzando l’unica facoltà ancora ben salda nella sua coscienza: l’istinto (anche se la natura di questo istinto non è del tutto chiarita, nel senso che sembra più che altro un che di artificiale). Egli possiede solo la memoria a breve termine, che ricopre pochi istanti appena vissuti, mentre il passato remoto è cancellato, non catturato dalla presa della sua memoria. E’ come se continuamente si svegliasse senza sapere come si sia addormentato. Questa circostanza ci permette di considerare la memoria e il ricordo sotto una luce diversa. Nel film infatti l’ impossibilità di ricordare deve essere sublimata-deviata verso uno scopo che dia senso a una vita decisamente peregrina. E per costruirsi una meta sembra essere di fondamentale importanza conoscere o costruirsi una provenienza,

na. Un presupposto errato che condiziona fortemente l’ipermodernità è quello della piena autosufficienza, è l’illusione che possa esistere Robinson Crusoè senza Venerdì, che l’Altro sia un mero accidente, utilizzabile come mezzo, ma non necessario all’algebra delle nostre coordinate: insomma, il rifiuto adolescenziale della dipendenza dagli altri, del debito costitutivo che abbiamo nei confronti di qualcun altro. E’, a mio parere, questo implicito che ci conduce a considerare il ricordo come uno strumento aggiuntivo volto a soddisfare un bisogno secondario e quasi patetico (“poveretto l’uomo che si illude di far parte di una comunità autenticamente”). Persino Nietzsche, nonostante il suo disprezzo per il debole uomo sociale, quando parla degli uomini nobili (quelli almeno che nel passato interpreta come spiriti forti), li considera sotto la luce dell’amicizia. Certo, un’amicizia radicalmente diversa da quella utilitaria dello schiavo, spacciata ipocritamente come amore, ma che si fonda pur sempre sul rispetto.

un luogo che sancisca l’inizio, che colori di senso la direzione verso la meta: questo è il motivo di Memento. Ed è in questa prospettiva che si rivela la natura dell’ appartenenza. Appartenere non è un bisogno che dobbiamo in qualche modo soddisfare una volta assicurati i bisogni primari. Appartenenza è condizione primaria del nostro desiderio, è l’eredità che riceviamo dal passato e che ci assicura un appoggio e una collocazione nel nostro presente. Anche se volessimo considerare l’aspetto naturale dell’appartenere, credo che non ci siano dubbi sul fatto che un’animale è tale perché appartiene ad una specie e in questo modo, seguendo gli istinti propri della specie, è in condizione di soddisfare i suoi bisogni. L’uomo, non perché debole, ma in quanto (troppo) umano è per eccellenza l’animale che eredita, che eredita un mondo sociale: è gettato in una realtà e conosce il desiderio perché lo impara dal padre, dalla famiglia, dalla comunità, cioè proprio perché appartiene.

Un soggetto può certamente citare Nietzsche perché desidera appartenere ad una comunità, ad un gruppo di amici fondata ad esempio sulla cultura e la filosofia, ma ciò non spiega perché desidera appartenere a quel gruppo particolare. Potremmo rispondere per una casualità. Ma non rispondiamo al perché quella casualità venga accettata; quindi la casualità dell’incontro con delle persone è certamente la condizione necessaria dell’appartenenza, ma non sufficiente. La mia idea è che l’appartenenza sia fondata proprio sul ricordo e non il contrario. Noi apparteniamo ad una comunità, persino all’umanità, perché abbiamo una storia, perché abbiamo ereditato e imparato la nostra condizione dai nostri padri, perché in ultima analisi accettiamo la nostro provenienza. Una piramide come quella di Maslow ( che sostiene una serie di bisogni partendo dai primari a quelli di realizzazione) credo sia il miglior esempio di pregiudizio metafisico, proprio perché non si interroga sulla circostanza in cui si trova una persona, ma ritiene queste circostanze ininfluenti sulla realtà metafisica del nostro bisogno. In quest’ottica l’appartenenza è una scelta rivolta alla soddisfazio-

E’ proprio in quest’ottica che in Memento il protagonista è costretto continuamente a recuperare l’ultimo ricordo, lo stupro e l’omicidio della moglie, per immedesimarsi nella causa, che dà senso e speranza alla sua vita, della vendetta. I suoi ricordi sono quindi delle foto, degli appunti, una traccia che dia significato al suo presente. Il ricordo è traccia del passato. Non solo: è produzione del passato. Ricordo che non si produce in un rivolgimento autoriflessivo di certe esperienze soggettive, ma sempre in qualche modo dal rapporto, dal confronto spesso traumatico (come in Memento) con una dimensione altra irriducibile alla nostra perso-

V

ne di un bisogno universale. Ciò che non si considera è il fatto che quest’uomo astratto semplicemente non esiste, è una proiezione di desideri specifici che si rivolgono verso oggetti o situazioni che si presentano durante l’arco della vita. Lo scenario reale, e sempre particolare, è invece la persona storicamente determinata, caratterizzata da interessi, passioni, desideri che ha ereditato: la provenienza è quindi il limite della nostra esistenza trattenuta dal ricordo, condizione del nostro appartenere. Il ricordo come traccia del passato, fin qui abbozzato, non significa comunque un uso mnemonico delle nostre conoscenze. Non è una questione riducibile alla memoria. Il ricordo è ben più profondo: costituisce la radice che ci lega alla nostra provenienza, sia che questo legame venga accettato sia che venga rifiutato in nome di un narcisismo senza futuro. Lo smemorato di Memento è impossibilitato nel far uso della memoria, ma non per questo è lasciato alla deriva, disperso nel suo presente. Egli produce un ricordo, un passionale attaccamento a quel passato che, pur non riuscendo a rammemorare, riscrive sulle tracce che si lascia alle spalle, su quegli appunti che costituiscono il fondamento del suo presente. E’ in questo senso che considero il ricordo una traccia del passato.

...parole al vento... «..il mondo è guasto più che mai fusse; li Cardinali, Prencipi, Signori omnia in pecunia ponunt; lettere non amano se non bancharie, et di cambio, queste han care, et chi di esse è possessore: si che nihil eis nobiscum.»

G. Giacobonio ad Aldum Manutium jun. - 15/XII/1584


Elogio dello scetticismo oltranzista di Carlo Umberto Catetere

Per coloro ai quali, come il sottoscritto, sovvenga sovente l’insana ideuzza di anteporre aspirazioni di rinsavimento del mondo ai più morigerati, ludici quotidiani sollazzi, la Rete rappresenta una grande risorsa. Davvero. Un’overdose di disincanto per i più sinceri e indefettibili rivoluzionari contemporanei i quali, auspichiamo, sapranno stracciarsi anzitempo le messianiche vesti, allorquando la Suddetta avrà infine rivelato loro per quale immensa manica di GEEK/NERD*** graveolenti e asessuati stiano essi sprecando le proprie esistenze: uno sterminato plotone di giovanotti dalla costola malandata, coloratissimi e abbronzati, pervicacemente inclini a ringalluzzirsi mediante giochini dalla grondante eversività, quali: “Clicca MI PIACE su Berlusconi Puzza” ; mezzi uomini per i quali è sufficiente apporre una firmetta sull’inutile petizione contro l’innalzamento dell’ennesimo iper – mega centro commerciale, per sentirsi sani, rilassati, ma soprattutto fieri d’aver contribuito al rimpinguamento della Cassa di Risparmio dell’Indignazione Popolare. E poi, tutti a irrorare il proprio rimarchevole senso civico di succulenti McFlurry d’annata. In un cambio di rotta rigoroso da parte della comunità responsabile e intellettualoide, a essere onesti, non ho mai riposto speme alcuna. Ma ora, visto il cementificarsi di taluni aberranti scenari, non posso esimermi dal serbare una stima viepiù maggiore ai figli d’introcchia nostrani, quelli del Boh Signoreggiante, delle sempiterne spallucce, del Me ne frego di default: loro, almeno, ogni tanto copulano. Voi, portabandiera della Democrazia (ah – ah), dell’attivismo del Web, della Politica dal basso (ah –ah ³²), coi vostri spasimi chikkosamente radicali da incalliti grillisti, con le vostre pose variegate e provocanti, le vostre passioni (?) sciorinate a mo’ di elenco della spesa sulle vostre dirimenti piattaforme sociali, siete altresì scarsamente avveduti, poi-

ché le siete troppo avanti, della vostra comica arretratezza. Si prenda, quale mero esempio della stessa, Facebook (alias Esso), santuario del disimpegno relazionale nonché della socializzazione individualistica: Esso si palesò inizialmente preposto, oltre che alla devastazione del concetto di Amicizia, all’annullamento del complesso di inferiorità, comune alla maggior parte degli individui, nella costituzione di tanto nuovi quanto fecondi rapporti interpersonali, specie quelli – giungiamo al nodal punto - volti al soddisfacimento di una sessualità inedita nella sua stereotipata, meccanica, barbosa trasgressività. Orbene, laddove la tecnica degli innati Dongiovanni ha inventato in tale mezzo un’espansione infinitesimale della propria efficacia, l’inettitudine che vi appartiene (a voi timbernersiani praticanti, s’intende) ha posto radici su di un terreno desolatamente arido. Ed ecco che, mentre per il playboy più consumato Esso permane ciò che fu in principio, ovvero – lo ribadiamo – utile strumento di cazzeggio volto all’agile rimedio di graziosi boccagli, nei polpastrelli del sobrio ragazzetto maldestro ma sensibile di questi Anni Zero Esso medesimo degenera, esondante, in canale di scolo delle collettive frustrazioni personali; catalizzando proteste, rimostranze, sollevazioni, appelli, i quali, imperscrutabilmente, non presentano ulteriori sbocchi se non quell’usuale, posticcia lassità orgogliosa che ogni atto saturo di pietas

c’insuffla nei polmoni. E poi un soffio di vento da dentro, a spazzare via, per un attimo, la miseria che siamo: uomini d’un marmo intaccabile dal più flebile afflato, assillati dalle quote di borsa e ossessionati dalle quote rosa. Oh, già: la donna. Che dire di queste donne alla moda, cacciatrici, dominanti ed emancipate, che discorrono sboccate di tutto quanto appaia sintomatico dell’agguantata (presunta) parità con il sesso forte (?) ? Niente, se non che ripenso spesso ai passi pesanti, eppure innegabilmente femminili, che facevano trasalire Milton nel giardino di Fulvia, all’ombra del terzo ciliegio; al potere autentico di quegli stessi passi, magari miserrimi, certamente asseverati eppure dignitosi nelle loro scarpe bucate, il cui logorìo, così dissimile dalle abbacinanti pianelle d’argento di questa donna nuova, smaschera alfine la grottesca discrepanza dei suoi passi quotidiani: sempre più giganti, sempre più impalpabili. Diafani. Come la speranza che vi sia, in quel che ho scritto, un sottile rivolo di senso. *** Geek: individuo ambiguo, asociale e dal Q.I. ingannevole, incapace di qualsivoglia azione informatica complessa. Nerd: individuo ambiguo, asociale e dal Q.I. sommamente ingannevole, detiene ampie competenze informatiche atte a renderlo, ai suoi soli occhi, superiore al resto dell’Umanità. Inclusi i Geek.

Uno specchio dal futuro di Luca Zampino

In questi ultimi mesi uno dei temi più delicati e dibattuti dall’opinione pubblica è stato quello riguardante la costruzione di impianti nucleari in Italia. Il referendum, raggiungendo il quorum( 57% i votanti), ha bloccato la proposta del governo, e così l’Italia dovrà fare ufficialmente a meno di tale energia. Ma qual è stata la motivazione che ha spinto la popolazione a schierarsi massicciamente contro questi tipi di impianto? Il sentimento che più si è avvertito nell’aria è stato, soprat-

tutto, quello della paura, scaturito dai fatti recenti, come l’incidente in Giappone di questo inverno, e da fatti passati, il dramma di Chernobyl. Quest’ultimo, come uno sfregio nelle nostre coscienze, ci ha lasciato, quasi come un monumento di quell’orrore, la città di Pripjat. Pripjat è diventata tristemente famosa per essere l’unica città fantasma d’Europa ( Chernobyl stessa ha comunque almeno quattrocento abitanti). A soli 3 km dalla centrale, la città era stata costruita nel 1970 per far dimorare gli operai e i costruttori dell’impianto, i quali ,contando anche le famiglie, raggiunsero la cifra di 47.000 abitanti. Con due ospedali, un centro commerciale, due hotel, una piscina, un cinema e un teatro, era una città tra le più moderna dell’ex Urss, pur nella sua piccolezza. Il giorno del disastro la popolazione fu evacuata in fretta e in furia, costretta a lasciare tutti i propri beni nelle case, a causa del rischio delle radiazioni, e ad essa, fu fatto credere, che prima o poi, sarebbe potuta tornare a riprendere i propri averi. A distanza

VI

di venticinque anni, tutto è ancora così come è stato lasciato: le macchine ferme in strada, la mobilia intonsa negli appartamenti, addirittura in alcune cucine vi sono le pentole sul fuoco della cena mai consumata: il tutto sullo sfondo di un Luna Park arrugginito, con la ruota panoramica che beffardamente si staglia nel cielo. Oggigiorno la zona è off limits, a causa del pericolo radiazioni, che a detta degli esperti spariranno del tutto tra circa mille anni. Gli ex abitanti possono andarvi solo il 9 maggio, anniversario del disastro, accompagnati da una guida, che li porta a visitare i posti in cui sono cresciuti e dove ormai vi sono solo animali selvatici (persino orsi) che scorazzano liberi. Quando si parla dei vantaggi del nucleare, mi riferisco in particolar modo ai politici, forse si dovrebbe fare prima un semplice click su google immagini e digitare Pripjat, per vedere il nostro prossimo futuro nel mondo del “vantaggioso” nucleare.


In morte di Londra (e di una rivoluzione) di Lorenzo Natural

chester, Sheffield, Birmingham, Bristol, nate con la Rivoluzione Industriale e le prime mushrooms town, e sviluppatesi fino al governo Thatcher, stavano riaffiorando una generazione rabbiosa e stanca di essere tenuta a bada da qualche promessa politica.

Quando un uomo è stanco di Londra è stanco della vita, perché a Londra si trova tutto ciò che la vita può offrire. Queste le parole dello scrittore Samuel Johnson, quando l’Inghilterra si trovava nel bel mezzo della Rivoluzione Industriale. Parole che ancora oggi gli amanti dell’ Old Smoke citano per esaltarne il fascino e la bellezza. Che si trovi di tutto, a Londra, in effetti, è vero. A Piccadilly Circus lo spettacolo si era appena concluso: il ballerino giamaicano – o perlomeno giamaicana era l’identità che voleva attribuirsi – aveva già terminato il suo limbo estremo, ammaliando le dozzine di turisti infreddoliti stupiti dalle sue abilità contorsionistiche. Dall’altra parte della strada, uno delle centinaia di Sub-Way stava accogliendo con il suo caratteristico odore di curry e spezie gli ultimi barcollanti clienti in maniche di camicia, sebbene fosse già novembre inoltrato, sbronzi di pinte di birra vendute a 4£ al pub all’angolo. Nella piazza, un gruppo di ragazzini orientali stanziavano a semicerchio sulle scalette in pietra della fontana, sfoggiando piumini sgargianti e calzando scarpe Nike dai colori quantomeno improbabili. L’ultima immagine che mi è rimasta impressa della City è questa: di british, oramai, ne resta ben poco e d’altronde non è che mi aspettassi granché di diverso. Spensieratezza, gioia, multiculturalismo, globalità: un condensato delle mille sfaccettature di una megalopoli sempre più capitale del mondo occidentale, alla pari di New York, dove le identità si intrecciano tra di loro avvinghiandosi, fino quasi a soffocarsi l’un l’altra, e sempre meno “città”. Di mesi, da quel giorno di novembre, ne sono passati. Eppure la domanda che mi ronzava nella testa

è la medesima che mi pongo oggi: quanto durerà tutto ciò? La risposta non ha dovuto attendere molto. Già allora lo sfavillio dei maxi-schermi pubblicitari di Piccadilly contrastava con le fiamme scaturite dalle molotov artigianali lanciate dagli studenti inglesi, indignados dal triplice rincaro delle rette universitarie. Niente di tanto diverso da ciò che accadeva qui in Italia poco fa: una generazione intera allo sbaraglio più totale, in bilico sul proprio presente e spinta dal passato in un futuro melmoso. Ma – mi si permetta l’incipit con una congiunzione avversativa – se a Londra in piazza a scendere era chi tremila sterline le sborsava comunque, prima che diventassero novemila, era dalle periferie che le eco dei “tamburi di guerra” si sentivano più forte: Tottenham, East London, Isle of the Dog non sono proprio la Notthing Hill di Hugh Grant e Julia Roberts; lì la gente è scontrosa, ruvida, ti squadra, ti osserva, ma è tua alleata se dimostri rispetto e lealtà. Lungi da me fare il panegirico moraleggiante della “bella povertà”, ma spesso queste periferie hanno delle leggi proprie, per alcuni violente e becere, per altri rudi, ma oneste, e non nego di propendere più per questa opinione. Devo confessarvi che non appena sentii il fragore delle bombe che esplodevano a Nord di Londra, mi si stampò sulla faccia un ghingo sadico, compiaciuto dal rumore degli scricchiolii del sistema che crollava su se stesso e dal puro godimento che avrei provato nel rinfacciare ad amici e parenti un bel “Ve l’avevo detto, io..”. Credevo, infatti, che questa non fosse la solita rivoluzione verdegialloviolabianconerablù nata su FaceBook e rinvigortita dalle mailing lists; l’alienazione e la disillusione sfociata nel nichilismo suburbano delle grandi città inglesi come Man-

VII

Tutto falso. A scendere in strada non erano l’operaio in cerca di giustizia sociale, lo studente medio che rivendicava una nuova scuola, l’impiegato stanco di una vita passata nella City tra i meandri di un sistema classista e a compartimenti stagni. Nulla di tutto questo: nata per vendicare la morte di uno spacciatore freddato dalla polizia in uno scontro a fuoco, questa rivolta degenerò subito in un vortice di violenza e rabbia, sicuramente innescato da un malessere esistenziale, specialmente di quei giovani immigrati di seconda e terza generazione in cerca di un non ben precisato “riscatto”. La tristezza nel vedere ragazzi dediti al saccheggio dei grandi marchi multinazionali, Nike, Apple, Sony, per citarne alcuni, allo sciacallaggio di bar e pub, per non parlare degli scippi ai danni di giovani feriti a terra, è l’emblema del miserevole stato in cui è caduto l’Occidente materialista e neoliberista, nonché la triste constatazione di come questo pensiero abbia attecchito radicalmente nelle menti dei giovani europei. La spirale di violenza e rincorsa al furto del bene di consumo è riuscita nell’intento di unire bianchi e neri, poveri e meno poveri, occupati e disoccupati, fieri di sentirsi per qualche giorno un po’ più membri della middle class d’oltremanica, classe determinata inevitabilmente dal possesso di questi oggetti, elevati al rango di status symbol e sintomi di benessere economico e sociale. Se si volessero indicare i motivi e le contingenze storico-sociali che hanno portato a questo appiattimento umano non basterebbero decine di manuali e ricerche dei migliori studiosi. La sintesi che si può trarne è che l’illusione di poter ambire a elevarsi di rango, in una società fortemente classista come quella inglese, dove ognuno occupa un ruolo ben definito, è inevitabilmente figlia di una mentalità materialista, che pone il bene economico sopra a ogni esigenza comunitaria, che ha trovato forte spazio di manovra in tutta Europa,

esaltandosi nelle grandi metropoli. Basta passeggiare tra Carnaby Street e Regen Street per rendersi conto della miriade di grandi catene multinazionali, dai fast food ai negozi di elettronica, dai negozi di vestiti alle gioiellerie: paradigmi di una globalizzazione delle merci e di un appiattimento culturale che hanno distrutto le identità locali e culturali nel nome di un’unica grande identità, dove il ballerino giamaicano, il ragazzino giapponese, l’indiano che lavora nel fast food e l’impiegato di Chelsea sono parte di un medesimo grande villaggio, che più che un melting pot assomiglia a quei piatti che si preparano la domenica sera quando non si ha voglia di cucinare, fregandosene se i fagioli, i gamberetti e il formaggio si prestino o meno a assere consumati in un unico boccone. Colpevolizzare il sistema, significa anche colpevolizzare noi stessi, parte integrante di questo meccanismo che non accetta più le diversità, in nome di un’uguaglianza ecunemica che abbraccia Gesù Cristo, Marx e von Hayek allo stesso tempo, dove Londra non rappresenta che la punta di un iceberg alla deriva, diretto verso un mondo che, volendo citare Massimo Fini – sebbene in un contesto diverso – ha guadagnato in estensione, ma ha perso molto (se non tutto, aggiungerei) in profondità. E non me ne voglia Samuel Johnson se a ventidue anni, per nulla stufo della vita, mi sento terribilmente stanco di Londra, delle Londre…

...parole al vento... «La differenza tra Democrazia e Dittatura è che in Democrazia prima si vota e poi si prendono gli ordini, in Dittatura non dobbiamo neppure sprecare tempo andando a votare.» Charles Bukowski


Scontr

Penne

tra

sfida a colpi d’ inchiostro

Tra uomo e natura Stefano Tieri: L’uomo e la natura: che diritti ha il primo sulla seconda? L’intelletto umano può porsi al di sopra di essa, plasmarla a suo piacimento? Le “grandi opere”, ad oggi, si sprecano: si pensi al TAV Torino-Lione, o al ponte sullo stretto di Messina, per rimanere ad esempi italiani. In che misura questo “progresso” migliora la vita degli uomini? E quanto viene, invece, irrimediabilmente perduto? Citerò, a proposito, le parole di Fedor Dostoevskij: «non tentate di intimorirmi con il vostro benessere, le vostre ricchezze, la rarità delle carestie e la velocità dei mezzi di comunicazione! Le ricchezze sono aumentate, ma le forze sono diminuite. Non c’è più una forza che diriga il pensiero: tutto si è rammollito, tutto e tutti sanno di marcio» (l’Idiota, 1869). Maximiliano Cappellina: L’uomo non ha diritti, la natura non dà concessioni. La natura è una mera convenzione sociale, da sempre come termine è stato usato per definirla come un insieme sottomesso all’uomo, bacino di risorse illimitato. La conferma ci arriva, oltre che dai disastri ecologici dell’industrializzazione, anche dalla nuova ideologia “eco-capitalista” ugualmente legata al profitto e al grande dio Mercato (basti pensare al green marketing di molte aziende come l’Eni, che di green ha solo il colore nei loghi pubblicitari), forse ultimo soffio vitale di un percorso nato molto tempo prima, che ha radici proprio nella dinamica uomo-natura. Questo meccanismo di sottomissione della seconda, prima terminologico poi effettivo, può essere ben riassunto e illustrato da questa frase: «Il dominio dell’uomo sulla natura è originariamente causato dal dominio reale dell’uomo sull’uomo» (M.Bookchin, “Ecologia della Libertà”). È quindi nella liberazione dell’uomo dai rapporti gerarchici una possibile soluzione al disastro ecologico (dal greco oikos=casa, ambiente –

logos=linguaggio, parola) ed economico (sempre dal greco oikos – nomos=leggi, regole), liberazione che porti anche ad un’armonia tra l’uomo e la natura? Stefano: Hai riportato l’etimologia greca delle parole “ecologia” ed “economia”, fai bene: la cultura greca non può che essere un punto di partenza per questo discorso. Platone, padre del pensiero occidentale, disprezzava la tecnologia; sul frontespizio dell’oracolo di Delfi era riportata la celebre massima “nulla di troppo”; il concetto di hybris (“tracotanza”, “eccesso”) e il rispetto dei limiti proprî della natura umana ha permeato tutto il mondo ellenico, fino a riflettersi nelle opere teatrali giunteci. Tutto ciò lo ritroviamo totalmente capovolto più di 2000 anni dopo, nel riduzionismo. Personalmente individuerei proprio in questa corrente di pensiero, conseguenza della rivoluzione scientifica del XVII secolo, l’errata impostazione del rapporto uomo-natura: sia all’interno del proprio stesso corpo (nella medicina positivista), sia rispetto alla realtà esterna (con interventi invasivi verso l’ambiente naturale). A tuo avviso le dinamiche di potere che hanno permesso all’uomo di imporsi sulla natura risiederebbero nella gerarchia tra gli uomini. Farò un passo ulteriore, coinvolgendo la linguistica: è lo stesso concetto di “natura” ad essere gravido di questo potere gerarchico. Nel suo stesso affermarsi identifica infatti anche cos’è “contro natura”, allo stesso modo in cui il normale ghettizza l’anormale. Come si esce da questo paradosso? Maximiliano: Ciò che è “naturale” e ciò che è “contro-natura”, “innaturale”, è puramente prodotto dell’uomo, ovvero è un nostro “derivato”. L’uomo si sente sicuro nel definire, giudicare, un aspetto o una condizione che incontra nella sua vita secondo due parametri

principali, a cui si legano numerosi aggettivi, così, ad esempio: una persona che viene giudicata “folle” per via di certi suoi comportamenti che appaiono strani, diviene l’incipit di una classificazione tra ciò che è secondo o contro natura. Poi spesso capita che una conoscenza più prossima del personaggio che precedentemente si è modellato in tal modo (folle quindi contro-natura), si sveli nella sua profondità, fino alla nascita di un’amicizia, ovvero il linguaggio diviene comune, una koiné, si fonde. E tramite la conoscenza dell’altro, che si potrebbe estendere quindi all’ambiente che ci circonda, potrebbe divenire una base per un rapporto armonico, non-gerarchico con la natura stessa. Stefano: provo a riflettere sulla natura di questo linguaggio “comune”, perché è chiaro che alla base di ogni rapporto gerarchico sta – come hai osservato – il linguaggio stesso, strutturato sulle esperienze (non prive di pregiudizi e giudizi) del genere umano. È evidente che dovrà essere un punto di incontro fra linguaggi diversi, poiché ognuno possiede un proprio linguaggio (sebbene la contemporanea tendenza sia quella dell’appiattimento sulla totale mancanza di profondità comunicativa). Ma allo stesso tempo non credo che il perno di questo incontro sia da collocare nel punto mediano fra i differenti linguaggi: dovrà invece valorizzare la diversità, dovrà saper vedere quanto di più positivo e genuino sia possibile cogliere nel contatto con il “folle”. Quest’incontro dovrà quindi giocarsi sulla continua messa in discussione del proprio linguaggio, per raggiungere quella conoscenza diversificata e “plurale” possibile solo in questo particolare (e non poco problematico) punto di contatto. Maximiliano: Mi trovo d’accordo con te sul fatto che non deve essere un punto medio il punto di contatto, ma appunto ciò che annulla le

VIII

distanze, le diversità che divengono simbiotiche. Non sarà la ricerca di un equilibrio a salvarci, nè l’ennesimo messianico Savonarola o Mussolini di turno, ma l’ascolto dell’altro, come si ascolta il vento, come ci si bagna inevitabilmente sotto la pioggia. Come è necessario il sole, il calore, l’energia, un fondersi con essa di cui siamo fatti e di cui tutto è fatto, solo da questo punto di partenza, egualitario, si potrà discutere di un futuro, ma anche di un presente valido. Invece gli argini di cemento aumentano sempre di più, intorno, il cemento non parla, non ha un linguaggio, non sa ascoltare, è un immenso collante rigido, il dogma del profitto (senza dilungarsi in esempi vari riguardo ai cementifici e alla loro tossicità e nocività) che incolla il dominio dell’Uomo sulla Natura. Ma a che prezzo? La voracità dell’uomo (occidentale in primis) è arrivata a tal punto che un’autoestinzione sembra la strada – il linguaggio – che stiamo percorrendo.

Direttore Responsabile: Stefano Tieri Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo

sito web:

chartasporca.blogspot.com per contattarci: chartasporca@gmail.com


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.