Numero 13

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NUMERO XIII- MAGGIO/GIUGNO 2013

Le passanti

di Piero Rosso e Davide Pittioni

Che l’università italiana dopo la sorda riforma Gelmini si fosse ritrovata con le ossa rotte lo sapevamo più o meno tutti; che l’atteggiamento degli studenti abbia seguito il pessimismo che al di fuori - in città, in Italia – prevale, ce lo aspettavamo. Forse stiamo ancora tutti aspettando il momento in cui qualcuno dirà “è l’ora del cambiamento”, senza ricordarci che i grandi rivolgimenti si fanno anche con le piccole battaglie, scacco per scacco. L’istituzione, invece, agisce attraverso piccole sottrazioni di terreno alle quali è difficile sbarrare il passo. Lentamente, inesorabilmente, è stato inclinato un piano che ha gettato a mare volti, persone e parole, che dietro la pendenza ha oscurato un disarmante naufragio. Bisogna chiedersi a che cosa serve, allora, trovare il singolo colpevole, fare il gioco delle responsabilità, prodursi in sofisticate inquisizioni del giorno dopo? O meglio, a chi serve? Quando gli studenti occupavano il tempo della notte in quei luoghi sempre più abbandonati per restituire un significato al loro lavoro, per dargli un nome, per riconoscerlo, le voci da fuori – dalla città, dall’Italia – e da dentro – le istituzioni universitarie – si alzavano a difendere la grande Riforma, come necessaria e richiesta dalle circostanze: “È l’Europa che ce lo chiede!”. Agli studenti rimaneva solamente un pugnetto di contestazioni, briciole di dipartimenti che lentamente chiudevano le porte e spezzavano le chiavi, denunce per aver ripitturato, polizia, mozziconi di carote lanciate con rabbia, e compatimenti per quei giochi da ragazzini che sono stati fatti rimanere tali: fuori dal mondo degli adulti, dentro i dipartimenti. Il varietà dell’Università, dove c’è un po’ di tutto, ha imposto alla fine la sua scaletta dei tempi: si compa-

re, si sorride, si accetta la valutazione, magari bestemmiando alle spalle di un giudizio ingiusto, e si va fuori, nel mondo. La meritocrazia di chi se la può permettere, insomma, che ha affidato alle passanti il diritto di non sentirsi parte di ciò che sta dietro alla pendenza dell’università: una miseria. Ecco dove siamo approdati, qui purtroppo finiscono le metafore; e non si tratta solo di inveire contro l’Università, o di scorrere bilanci sempre più poveri, ma di fare i conti con urgenze reali, di atenei reali, come la chiusura dell’edificio di italianistica in via dell’Università 1, troppo costoso da mantenere e ancora invenduto, rudere rimasto a rappresentare la beffarda doppia perdita di un guadagno e di uno spazio: un edificio che era parte del dentro e che ora è diventato un rudere del fuori; e ancora: la sede di psicologia e le numerose aule sprecate; l’impoverimento dell’offerta didattica, un percorso sempre più scarno e didascalico che nel concreto si traduce nella chiusura di corsi di laurea e di studio, rimpiazzati da rattoppi

con nomi lunghi per mascherare la brevità dei percorsi (e ci riferiamo nello specifico all’attivazione in numero crescente di corsi di laurea interateneo, disorganici e mal concepiti); la chiusura dei lettorati, poi ripristinati ma in versione parziale, in una falsa dialettica del taglio – cedo, e riconcedo a metà; e infine gli accorpamenti brutali privi di prospettiva di intere facoltà, con lo scopo di risparmiare denaro e qualità. Questo è lo scenario. Non è abbastanza appellarsi con generiche accuse alla scarsità di risorse, anche se da qui non si può non partire. Il ministero, le istituzioni, i governi portano indubbiamente le loro responsabilità fatte di errori, grossolanerie, arroganze. Ma c’è dell’altro, più invisibile, più diffuso, meno facile da individuare, che non si fa ingabbiare nella psicologia degli intenti. Il precipitarsi tumultuoso di nodi e contraddizioni irrisolte sfugge alla colpa del singolo. Piuttosto, è in gioco un campo di forze, di discorsi, di potenziali che domina le volontà, e le costringe all’impotenza, se non

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all’indifferenza. Scacco per scacco, finché non butteremo all’aria la scacchiera e la colpa sarà nostra: allora questo meccanismo sarà legittimato a intervenire per quietarci. Tuttavia non siamo di fronte a una distopia orwelliana: c’è qualcuno che impone; c’è qualcuno che asseconda l’imposizione: le passanti, che non sono solo studenti, ma anche direttori, amministratori, professori, tecnici, si sono accontentati di quello che era rimasto, si sono sentiti dei sopravvissuti; nient’altro che uno scongiuro collettivo della miseria. “Siamo salvi” è una frase che non conteggia mai i caduti. Allora che peso dovremmo dare alla cancellazione dell’ennesima cattedra? Che sia Estetica (l’ultima in ordine di tempo), Filosofia del Novecento o un lettorato di francese, per l’istituzione si tratta di voci di bilancio da depennare, raffazzonare, rimodulare, un’altra piccola manciata di terreno che viene sottratta, finché ci ritroveremo dentro e fuori, sospesi nel vuoto.


Korine Revolution Pop di Francesco Ruzzier

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al momento che alla Mostra del Cinema di Venezia tutte le proiezioni sono delle anteprime mondiali, è difficile entrare in sala sapendo già molte cose sul film a cui si deve assistere. Essendoci però delle proiezioni riservate alla stampa precedenti a quelle per i comuni mortali, solitamente qualche commento e qualche opinione si sparge tra il pubblico. Nel caso di Spring Breakers dalle recensioni emergeva che “quello che accade sullo schermo ci appare del tutto assurdo, incomprensibile, se non addirittura ripugnante” (Dario Zonta, L’Unità) e che fosse “una boiata pazzesca. Impossibile dire se questa commediola sia più scema, amorale o disgustosa” (Massimo Bertarelli, Il Giornale) e infine che “nemmeno le pretese pseudo sociologiche possono salvare il film più brutto fin qui a Venezia” (Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera): nulla di confortante, insomma. A rendere l’arrivo in sala ancora più inquietante c’ha pensato una folla oceanica di teen assatanate a caccia di autografi delle loro divette del cuore: le protagoniste di Spring Breakers (ad eccezione di Rachel Korine, moglie del regista) provengono dai (tele)film di Disney Channel e spesso sono circondate da un folle fanatismo, caratteristico dell’universo culturale di cui fanno parte e che contribuiscono ad alimentare. Entrati in sala le urla sono continuate incessantemente, ma questa volta rivolte al regista, Harmony Korine, osannato

da un folto gruppetto di seguaci. Harmony Korine è un tipo decisamente bizzarro. Per fare un esempio, nel 1999, in un periodo di completa follia, si è dedicato a Fight Harm, un documentario su di sé mentre scatena risse con chiunque gli capiti sottotiro. Il progetto si è concluso con Korine in ospedale con le ossa rotte e poi in prigione per aggressione aggravata. Visto il soggetto sembrava assurdo che Spring Breakers potesse essere così superficialmente banale come lo avevano dipinto. Il film si presenta con un ipnotico videoclip che può anche apparire come “una noiosa puntata di quei programmi tivù tipo Naked Beach Party: ragazze in bikini che agitano tette e culi e giovani infoiati che si ubriacano di birra” (Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera), ma che in realtà coglie, con l’abituale causticità di Korine, gli aspetti più svilenti e grotteschi della società americana, servendosi della retorica dell’ossimoro e del paradosso fin dalle scelte di casting. L’universo culturale ed iconografico di riferimento è quello dei teen movie americani - dagli American Pie a Project X, passando per High School Musical - da cui Korine ha reclutato le starlette disneyane (Selena Gomez, Vanessa Hudgens e Ashley Benson), mentre il linguaggio, con il quale il film è confezionato, segue la logica del videoclip, ovvero il mezzo d’espressione per eccellenza attraverso il quale que-

sto universo si mostra al pubblico di riferimento tramite il web. Iniziare il film esibendo gli eccessi audiovisivi tipici dei videoclip pop è un modo per evidenziare l’estetica con cui questo tipo di America vende se stessa, rendendo di conseguenza lo spring break - le vacanze primaverili durante le quali gli studenti americani si ritrovano in determinate località per una settimana di festa continua - un prodotto irrinunciabile. Le bad girls protagoniste del film incarnano una generazione che sembra vivere in un mondo in cui la gente crede di poter fare/avere tutto ciò che viene venduto loro, ed è così che, pur di procurarsi i soldi per trascorrere le vacanze primaverili in Florida, rapinano una tavola calda con la stessa disinvoltura con cui si pitturano le unghie di svariati colori. I personaggi sembrano muoversi ed agire senza alcun tipo di punto di riferimento, avendo come obiettivo unico quello di reiterare all’infinito la convinzione di potersi cristallizzare all’interno della perfezione di un’immagine da cartolina. Iniziato sotto i migliori auspici, lo spring break delle quattro ragazze abbandona subito la sua apparentemente immutabile perfezione per lasciar spazio a ciò che in realtà si cela dietro alle belle immagini. Dopo essere state arrestate, le protagoniste vengono scarcerate grazie al gangsta rapper Alien (inter-

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pretato da un James Franco addobbato con dreads e denti d’oro) e imboccano il sentiero che le porterà a stretto contatto con sesso, droghe e violenza. Nonostante il loro aspetto angelico, sembrano muoversi con assoluta naturalezza in questo scenario di eccessi, messo in risalto soprattutto dalla potenza visiva delle immagini che si sofferma con voluta insistenza sull’ammasso di carne sfatta e volgare e sull’esasperata sovrabbondanza di dettagli erotizzati fino al disgusto. Proprio muovendosi secondo la logica dei video di internet che vengono riprodotti in loop, Harmony Korine riutilizza spesso le stesse immagini per suscitare sensazioni contrastanti, con l’intento prima di attrarre e poi di nauseare. La ripetizione visiva e musicale e la sovversione dell’immagine idealizzata delle tre attrici disneyane sono tra i principali espedienti utilizzati dal film per dissacrare le false mitologie della cultura americana, culminanti in una scena di geniale lirismo in cui James Franco canta Everytime di Britney Spears accompagnato dal coro delle sue personali lolite armate di fucile a canne mozze, alternata ad immagini al ralenti che sono un tripudio di violenza estetizzata. In tutta la sua seconda parte, il film si muove nello scenario della disintegrazione di ogni limite morale, dove si ruba e si uccide per gioco poiché sembra essere troppo labile il confine tra realtà e finzione. L’elemento più agghiacciante è l’assoluta consapevolezza con cui agiscono queste ragazze, convinte probabilmente che tutto quello che succede durante lo spring break si dissolva nell’aria. Pur essendo un’opera talmente folle da risultare unica, Spring Breakers può essere accostato al cinema di Terrence Malick, col quale ha in comune la capacità di riuscire ad esprimersi quasi esclusivamente attraverso la poeticità dell’utilizzo delle immagini. Se la rivista di cinema più autorevole del mondo, la francese Chaiers du Cinema, ha dedicato al film un numero intitolato “Korine Revolution Pop”, in Italia si è cercato di distribuire il film (in una versione censurata) come fosse un teen movie qualsiasi, ma come ha twittato Andrea Minuz: “Una vacanza da sballo: così Spring Breakers in Italia. Che è un po’ come intitolare Apocalypse Now: Una scampagnata in Cambogia”.


Il caso Hamsun di Lorenzo Natural

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a scarsa fortuna di Knut Hamsun in Italia rappresenta un interessante caso letterario di mancata diffusione di un autore spesso dimenticato, ma considerato vitale nel panorama europeo del romanzo tra fine Ottocento e inizio Novecento. Ciò che colpisce non è soltanto l’interesse minimo che Hamsun ha suscitato e suscita tra il pubblico medio, quanto la poca attenzione che gli è stata prestata da parte del mondo accademico e della critica, eccezion fatta per pochi studiosi1. Si potrebbero individuare tre aspetti significativi di questo disinteresse: uno editoriale, uno politico, infine uno tematico; tre piani che devono essere considerati sovrapposti per capire le dinamiche del caso-Hamsun in Italia. Knut Pedersen Hamusn, nato nel 1859 a Vågå, piccolo centro della Norvegia centromeridionale, ebbe una brillante carriera di giornalista, saggista e, soprattutto, romanziere. Salì alla ribalta con le opere Sult (Fame), Mysterier (Misteri), Pan, Sværmere (Sognatori), per poi raggiungere l’apice con Markens Grøde (Il risveglio della terra), grazie al quale venne insignito del Nobel, nel 1920. Successivamente pubblicò molti altri racconti e romanzi, tra i quali si segnalano Landstrykere (Vagabondi) e Ringen sluttet (Il cerchio si chiude). Dopo il 1936, Hamsun non pubblicò altro, fatta eccezione per På giengrodde stier, scritto a novant’anni e considerato il suo testamento spirituale in seguito agli avvenimenti che lo interessarono durante la seconda guerra mondiale e negli anni subito successivi. Entra qui in gioco il primo aspetto d’anlisi, quello politico. Hamsun, durante il secondo conflitto, appoggiò il governo Quisling, collaborazionista della Germania nazista. Alla morte di Hitler, Hamusn gli dedicò pure un necrologio dai toni quasi apologetici2. In seguito, subì un processo per collaborazionismo, la damnatio memoriae da parte dei suoi concittadini e la dichiarazione di infermità mentale, grazie alla quale venne archiviato il suo processo per tradimento3. Potrebbe essere questa la motivazione di una presa di posizione insie-

me culturale e politica da parte della classe intellettuale italiana di rifiuto del pensiero e dell’opera del romanziere norvegese? A vedere il numero di edizioni delle sue opere nel dopoguerra, la risposta sembra essere negativa: tra il 1945 e il 1969, uscirono ventiquattro edizioni tra raccolte, ristampe e pubblicazioni di testi inediti4; esattamente alla media di una all’anno, non poco per un autore da censurare a ogni costo. Grazie a una rapida occhiata alla bibliografia italiana di Hamsun possiamo farci un’idea generale del suo interesse nel nostro Paese. Detto del ventennio postbellico e tralasciando la pur copiosa produzione precedente, negli anni ‘70 vennero pubblicate solamente quattro edizioni; a cavallo tra anni ‘80 e ‘90 vi fu una ripresa di interesse, con venti edizioni. Dal 2000 ad oggi, tuttavia, solamente la Adelphi ha riedito due dei maggiori capolavori di Hamsun – Fame e Pan –, mentre Iperborea ha pubblicato nel 2005 il romanzo breve Un vagabondo suona in sordina. Anche qui la domanda è d’obbligo: è la confusa situazione editoriale italiana delle sue opere ad aver impedito una tradizione consolidata e continua? Di certo ciò non l’ha favorita. Tralasciando i grandi romanzi Fame e Pan, grazie ai quali Hamsun non è finito definitivamente nel dimenticatoio, di molti altri abbiamo a disposizione solamente edizioni datate, superate nella traduzione (alcune passate attraverso testi già tradotti in tedesco), fuori catalogo e di difficile reperibilità e dai titoli spesso contrastanti. Un esempio lampante è rappresentato da Markens Grøde, l’opera con cui Hamsun vinse il Nobel: l’ultima edizione singola, pubblicata con il titolo “I frutti della terra”, risale addirittura al 1966. Nel 1979 è uscito un volume della Utet che inserisce anche Markens Grøde tra i testi scelti di Hamsun, traducendolo “Il risveglio della terra”. Parimenti, På giengrodde stier, si trova edito dalla Ciarrapico come “Io, traditore” (trasposizione altamente capziosa e non aderente al titolo originale), mentre nel 1995 dalla Fazi come “Per i sentieri dove cresce l’erba”. In questa selva, che rende oscura buona parte della creazio-

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ne hamsuniana, è facile perdersi. Tuttavia, se si guarda lo sviluppo diacronico attraverso il numero di edizioni, ci si accorge che solo negli ultimi tredici anni e, ancor di più nell’ultimo decennio, si è assistito a un silenzio editoriale pressoché totale. Lars Frode Larsen, saggista e ricercatore norvegese, nonché curatore di un’opera omnia dei lavori di Hamsun, scrive: «Quello che era rivoluzionario in libri come Fame e Misteri era prima di tutto il loro contributo ad una nuova comprensione della natura umana. Per la prima volta l’Uomo moderno, alienato ed angosciato apparve in letteratura. Penetrando nei meandri della psiche, Hamsun, anticipando Freud e Jung5, mise le basi per un ampliamento della nostra conoscenza. Nel dominio della letteratura giunse l’ambivalente ed il composito, elementi a volte incoerenti nello schema delle reazioni umane. E la prosa descrittiva usata era così piena di talento e sicura nello stile che, anch’essa, divenne un modello da imitare». E prosegue: «Nel 1929, Thomas Mann affermò che il Premio Nobel per la letteratura mai era stato assegnato a qualcuno che lo meritasse di più. E scrittori come Franz Kafka, Berthold Brecht e Henry Miller hanno tutti espresso la loro ammirazione per Hamsun. Nella prefazione ad una edizione americana di Fame, Isaac Bashevis Singer afferma che Hamsun “è il padre della scuola moderna di letteratura in ogni aspetto: nella sua soggettività, nell’impressionismo, nell’uso della retrospettiva, nel liricismo. Tutta la letteratura moderna del ventesimo secolo deriva da Hamsun”»6. Qual è, allora, la motivazione principale – e se c’è – che ha portato il pubblico e l’editoria italiana a dimenticare quasi del tutto un autore di questo respiro e di questa portata? La risposta va cercata nell’ultimo livello di analisi che ci siamo posti all’inizio: quello tematico. Sembra paradossale che un romanziere di tale calibro possa cadere nel dimenticatoio, ma leggendo i racconti di vagabondi, avvicinandosi alla lenta ciclicità quasi idilliaca del Risveglio della terra, scontrandosi con l’irrazionalità dei gesti del tenente Glahn di Pan non resta che constatare la

lontananza siderale che si è venuta a creare, nell’era turboconsumista, tra il mercato del libro “mordi e fuggi” e l’anima nordica di Hamsun «solitaria, chiusa, schiva, anche diffidente, eppure tesa con ardente speranza al contatto con gli altri, nostalgica con struggente trasporto di un mondo più libero e solare, di rapporti più aperti, eppure capace di cedere ad un confidente abbandono, ad un abbraccio, solo con la natura»7. Leggere Hamsun, oggi, significa immergersi in un mondo primitivo dove l’Uomo vive panteisticamente con la Natura ma non la subisce, dove la razionalità è sacrificata alla vitalità, dove i silenzi si impongono sul brusio e dove la narrazione e i rapporti interpersonali spesso non hanno alcun fine. È una narrazione, oggi, che richiede sforzo di immedesimazione e di comprensione. Può servire, quindi, mettere ordine e rendere organica la bibliografia italiana di Hamsun? Certamente. Ma, come sempre, è il lettore a dettare all’editore il percorso da intraprendere. E Hamsun è stato dimenticato dal lettore perché non fa più parte del suo mondo, come romanziere e come uomo. NOTE 1 Si ricordano alcune prefazioni del germanista triestino Claudio Magris (ad esempio all’edizione di Misteri della Rizzoli del 1989). 2 Il necrologio venne originariamente pubblicato sul numero del 7 maggio 1945 dell’ «Aftenposten». 3 Pare che Hamsun abbia voluto scrivere På giengrodde stier anche per dimostrare di non essere affatto pazzo. 4 La bibliografia italiana di Hamsun più completa è consultabile all’indirizzo www.centrostudilaruna.it/knut-hamsun-bibliografia-italiana.html 5 Nella Cura Herman Hesse fa affermare al protagonista di aver «basato su Nietzsche e Hamsun» la sua teoria sui nevropatici (Hesse, H., La cura, Adelphi, Milano, 2012, p.32). 6 www.girodivite.it/antenati/ xx1sec/hamsun/hamsun90_lars_ frode_larsen.htm 7 Marzi, C., Introduzione, in Hamsun, K., Pan e altri racconti, Sansoni, Firenze, 1966, p. III.


Dove sono?! Chi sono?! di Andrea Muni

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uando non ero ancora ventenne mi svegliai una mattina, in una stazione ferroviaria, sulle gambe di una donna, mi svegliai con queste due domande, domande che emersero esattamente nell’ordine che riporto... “dove sono?” … “chi sono?”. Inutile approfondire le ragioni per cui accadde che mi ponessi tali quesiti. È invece interessante, e utile, suggerire con un esempio di questo tipo cosa possa significare che la conoscenza deve servire la vita, che il pensiero è una materia grezza, fatta di parole, con cui bisogna inventare, creare, a mo’ di collage, la verità che vogliamo essere per gli altri. Utile per ricordare che tra pensare e dire, tra pensare e essere/ fare esiste uno iato, una voragine, esistono due soggetti diversi che la nostra cultura colpevolmente ha con-fuso, pensando con ciò di potersi proteggere, senza accorgersi invece dell’inconsapevole mostruosità, e pericolo, a cui si è esposta con questa operazione di sutura della faglia tra senso ed espressione, tra pensare ed essere. Dirò solo che in questa sutura si annida ogni possibile causa delle cosiddette “psicopatologie”, nella indecisione riguardo al luogo della soggettività, nella confusione tra soggetto etico e soggetto della coscienza. È proprio partendo da un certo tipo di domanda, “chi sono/chi sei?”, che la nostra cultura ha originato tutto il variegato ventaglio delle “psicopatologie”. Michel Foucault, trovatosi a dover tenere il suo primo anno di corso nella massima istituzione accademica francese, il Collège de France, pose come primo

problema quello di una storia della verità, decise di cominciare la sua avventura da consacrato ed eminente filosofo ponendosi la questione più banale, ma anche la più scottante, della filosofia: “che cos’è la verità?”. Offrendo una risposta inedita, e che davvero è stata ancora compresa solo da pochi nella sua reale portata. La risposta di Foucault alla domanda “che cos’è la verità” è: “la verità ha una storia”. La verità, nel senso comune in cui la intendiamo quotidianamente, nel senso comune con cui la utilizziamo nelle pratiche fondamentali delle nostre vite (dall’amore all’ambito giuridico, dall’esperienza personale alle rivoluzioni politiche), questa verità main stream è lo strumento con cui pensiamo di poter discernere il vero dal falso, il buono dal cattivo, il bello dal brutto, il vero dall’errore. Questa verità, che è un caposaldo della nostra cultura, ha una storia. Questa verità oggettiva è un prodotto politico-culturale, non ha niente a che fare con l’Essere, e questa sua pretesa, in realtà, non fa che svelare anzitempo la vergogna del suo iperbolico ed ingombrante travestimento. Una storia millenaria, una storia di volontà, di volontà di verità, di volontà che esista un regime oggettivo che regoli la reciproca esclusione di vero e di falso, di bello e di brutto, di buoni e cattivi, di sano e di folle: questa è l’origine della verità. Michel Foucault si chiede e ci chiede, “perché?”. Perché le etiche dei soggetti che ci hanno preceduto, quelle etiche che sommate hanno prodotto la nostra storia, ci hanno lasciato in dote questa idea conoscitiva di verità come assoluto, come limite, come oggettività? Seconda domanda

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di Michel Foucault: “Sono esistiti altri modi di rapportarsi alla verità nella storia della nostra cultura, che poi si sono estinti a causa del crescente strapotere politico della verità oggettiva?”, e se sì, allora: “Perché questi altri modi si sono estinti?”. Ma la domanda decisiva è una terza: “Possiamo noi, sempre che lo desideriamo, concepire, proporre e vivere altre forme di rapporto alla verità che non corrispondano ad una neutra, oggettiva e verificabile scientificità?”. Possiamo vivere in modo tale che la verità non sia qualcosa che si possiede come una conoscenza, ma come qualcosa che ognuno di noi è per gli altri, nella attività e nella passività simultanee dei nostri corpi in relazione?. La verità oggettiva non deve scomparire, semplicemente la chiameremo oggettività, e la useremo nei campi in cui ci è utile. Il punto è che essa non ci è utile, anzi è deleteria, nel campo della relazione intersoggettiva, dell’etica, e del desiderio. La verità (oggettività) non ha valore di verità in questi altri giochi di verità. “Dove sono”, “Chi sono”... è il titolo di questo piccolo scritto. Voglio conoscere e possedere la verità, o voglio esserla, qui, dove mi senti? Voglio essere stupito da te, penetrato, turbato, o voglio che tu sia un’alter ego assolutamente impenetrabile, così che anch’io possa immaginarmi tale, e proteggermi da te? “Dove sono”, “Chi sono”... voglio conoscere la verità per rasserenarmi, o voglio essere abitato da tutto, male e bene, vero e falso, per poter meglio crearmi per gli altri in ciò che voglio essere? Cosa voglio? Essere qui dove mi leggi. Cosa non voglio? Che tu

capisca il significato delle mie parole, ma non perché voglio preservare un qualche sacro segreto della mia interiorità, di quell’oasi irenica in cui il vero significato delle mie parole giacerebbe in un sudario di perfezione. Non voglio che tu mi capisca perché voglio che il significato delle mie parole sorga, nasca, con te che le leggi, esse sono qui al mio posto, nel mio posto, qui dove sono, non sono i rappresentanti materiali, non sono i segni, né i segnali, della mia soggettività, allo stesso modo in cui Gustave Flaubert – difendendosi dalle accuse di oscenità procurategli dal suo Madame Bovary – poteva rispondere “Madame de Bovary c’est moi”. Il corpo parlante (o scrivente) non è fatto per comunicare qualcosa che conosce, né per suggerire qualcosa da conoscere al di là di esso, questo corpo che parla/scrive vuole nascere, accadere in qualcun altro. La verità può essere il correlato di un godimento, può essere la dinamica di una relazione, può essere un morso, un bacio, una bugia, un silenzio, può essere tante cose che certamente hanno poco a che vedere con l’oggettività. Questi altri modi di manifestazione della verità, a differenza di quella oggettiva, concernono relazioni biunivoche tra soggetti (tra corpi parlanti), e non la relazione univoca soggetto-oggetto con cui la coscienza sedicentemente si trasforma in conoscenza, fondendo in un’unica superbia la paranoia e il delirio di onnipotenza. Le Altre verità ci chiamano ad uscire da noi stessi, per incontrarci ed incontrare gli altri lì dove è il nostro posto nella relazione, sorridendo di

svanire, sorridendo di perdere quel me stesso, quell’io interio-

re che è solo il nome di un tappo preposto ad occludere una più bruciante esperienza dell’alterità (e della soggettività). Alla domanda “chi sono?”, o “chi sei?”, risponderò mostrandoti dove sono, in questa relazione, perché non c’è nessun al di là e nessun al di qua della relazione, nessuno altro luogo da cui potremmo

rapportarci alla relazione. Noi la siamo, insieme. È una questione di dove o di chi, è una scelta.

Una scelta che ci può permettere di giocare assieme a farci del male o del bene; una scelta che comunque, per lo meno, ci chiama a fare qualcosa gli uni degli altri.


Aveva tutto un mondo dentro quegli occhi. Ti arrivava fin nel profondo, senza che nemmeno te ne accorgessi.

Chiudimi dentro le tue insicurezze. Troverò la chiave per aprire anche le mie paure.

Elisa Kiraz V


Il poeta

di Matteo Mascarin

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a figura del poeta è, ahimè, troppo spesso associata a qualcosa di estremamente noiso, antiquato e perché no fuori moda. Ognuno di noi è stato costretto a passare attraverso il fin troppo citato “mezzo del cammin di nostra vita”, l’arioso “Zefiro che il bel tempo rimena”, l’arcinoto “ermo colle” e via discorrendo; tanto da esser giunti ad associare questi versi con le interminabili ore di Lettere, passate a scarabocchiare sui banchi di scuola. Per poter ridare vita alla figura del compositore di versi e, per così dire, vitalità sociale è necessario innanzitutto recare alla mente una fatto: il poeta è, forse più di ogni altra figura, un essere umano, nel senso più autentico del termine. L’idea che, generalmente, ci si dipinge nella propria testa è quella di una persona cristallizzata in un libro, non più quindi una persona reale ma un mito, un idolo (dal greco: “simulacro”). A mio parere, non c’è cosa più errata di un tale inalzamento ideale. Egli è, infatti, un uomo che ha sentito, provato le passioni umane, anche le più infime, e saputo tradurle in parola; è colui che è stato in grado di esprimere (come tutti i gran-

di hanno fatto) il sentimento profondo dell’essere umani, lo smarrimento dinanzi alla vastità e alla varietà della natura e della vita. Soltanto attraverso il recupero di questa dimensione del poeta, è possibile (ed estremamente più facile) comprendere la vera essenza del cantore lirico. In secondo luogo mi preme

scrisse Giosue Carducci. A questo proposito alcuni importanti studi relativamente recenti hanno dimostrato come la continua correzione dei propri scritti da parte di poeti e scrittori abbia portato al risultato finale, che non sarebbe stato così elevato se fossero stati abbandonati alla loro prima stesura. Caratteristica comune a tutti

Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo.

portare all’attenzione qualcosa che certamente ai più non è chiara, poiché se lo fosse, di certo non si arrogherebbero il vanto di essere poeti. Poeta si è, se non con grande studio, fatica e lavorìo. “Il poeta è un grande artiere,/ Che al mestiere/ Fece i muscoli d’acciaio”

coloro che sono stati grandi e fondamentale, che non deve e non può essere assolutamente dimenticata. A fianco a ciò va ovviamente segnalato, come non a caso un giovane Leopardi fece notare (“Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta”)

che poeti si nasce, e sulla base di questa caratteristica innata va affinata l’arte del “cantare”. Il poeta inoltre, il vero poeta, ha la necessità di vivere una vita appartata, lontana dal trambusto della vita quotidiana, dalle parole pronunciate a casaccio. Ludovico Ariosto dopo una vita di servizio alla corte estense si comprò una piccola casa con il proprio denaro all’entrata della quale fece scrivere “parva sed apta mihi” (“piccola ma adatta a me”, di oraziana memoria) proprio con l’intento di sottolineare la necessità da parte del poeta di vivere una vita dimessa. Al di là comunque del luogo in cui egli vive, ogni grande lirico ha il bisogno di ritagliarsi un piccolo spazio del mondo, nel quale rifugiarsi per poter riflettere, assaporare la preziosità del silenzio che tanto ha da dire; e vagare con la mente verso interminati spazi. Godere delle sensazioni che la natura sola sa dare. Valgano come unico e perfetto esempio, e come conclusione i versi 158-166 de “La Ginestra o il fiore del deserto” di Giacomo Leopardi.

Nell’era dei social media l’uomo è sempre meno sociale di Manuel Geniola

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os’è la Parola? La Parola è una delle invenzioni più incredibili al mondo. Essa, anche grazie agli interpreti e traduttori, ha permesso per secoli e tutt’ora permette all’uomo di confrontarsi, scontrarsi e relazionarsi con i suoi simili. La vera comunicazione è qualcosa che arricchisce. Essa, come il sorriso, arricchisce chi lo dà e chi lo riceve; La Parola ci permette di conoscere gli altri e quindi noi stessi. Si conosce se stessi attraverso l’altro e l’altro attraverso se stessi. C’è chi afferma che l’uomo non abbia mai comunicato con gli altri esseri viventi come oggi. C’è anche invece chi sostiene il contrario, ossia che abbiamo serie difficoltà comunicative, serie difficoltà di esprimere in parole le nostre sensazioni, i nostri stati d’animo e i nostri pensieri più intimi. Abbiamo serie difficoltà ad essere sinceri e a dire quello che veramente pensiamo alle persone che ci circondano.

Vi era un tempo un Uomo, Sapiente in quanto sapeva di non sapere, che credeva fermamente nel potere della parola e della maieutica (parto della verità); egli credeva nella PAROLA DELLA COMUNICAZIONE VIVA, quella fatta di infinite sfumature ed intonazioni quali la gesticolazione, lo sguardo, il sorriso, la fronte corrucciata, etc. Mi domando se Socrate, vivendo ai giorni nostri, utilizzerebbe i social network o i cellulari quali mezzi di “scambio”, oppure se preferirebbe camminare scalzo nelle vie delle nostre belle e “pulite” città dialogando a voce con il prossimo. L’uomo comunicando e confrontandosi si trasforma continuamente. Cambiare e trasformarsi è positivo. NON rimanere fermi sui propri passi è sintomo di crescita e, come diceva Martha Meridos, “chi non cambia […] lentamente muore”. Solo grazie alla comunicazione, grazie a questo dialogo, grazie a queste trasformazioni continue, grazie a queste prese di coscienza ci

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avviciniamo alla verità, la quale non solo esiste ma è anche una delle nostre più intime tensioni. Forse è il caso di aprirsi. Aprirsi veramente, non semplicemente facendo un viaggio in Cambogia o in Africa, oppure bevendo una bottiglia di vino e sbronzazrsi in compagnia. Aprirsi riniziando a parlare a chi non conosciamo, non solo per cambiare il mondo e arricchire noi stessi, ma per non morire lentamente, perché “Lentamente muore chi percorre sempre gli stessi percorsi, chi non parla a chi non conosce”. Consiglio: cercare una soluzione! Cercare una soluzione riappropriandoCi del nostro vero io inquinato e distratto dalla diabolicità del presente… Cerchiamo di ridare potere alla parola, potere alLa PAROLA VIVA. Potere al teatro inteso come espressività del viso e del corpo. La comunicazione, la musica & il teatro come trasmissione di emozioni, angoscie e paure: tangibile condivisione di vita.


Terza

Pagina

inserto letterario

I know I shouldn’t, I shouldn’t but I do Deceive myself and see Myself being with you. I shouldn’t love someone Who’s wrong to be loved, Someone who’s never Loving me back as I do. I should shut my dreams And face reality. And it feels like drowning In a calm ocean, As loving you in dreams Hurts less than Admitting you’ll never.

Giulio Gasparin

…che mi guardano uomini dal conforto tenue dall’occhio specchio profondo che mi guardano e mi vedono uomini dalla vita lunga,forte dal sole all’orizzonte che mi sognano mi donano mi apro!

Delicatamente mandarti oso un bacio silenzio stelle il suono come si esprime fa beatamente sì male che permette la vita … come è essere vivi...

Fiore di Back Energetica manina d’opale, ti dedico questa piovosa giornata. La triste giornata di ieri. I tuoi occhi curativi e la tua bocca, le sincere parole emotive, le frasi che mi facevano star bene ricorda con rammarico il mio cuor in subbuglio. Conquistai terre abbandonate, errai troppo fra alberi malsani.

una meraviglia sì imparlabilmente urlante

De Rosa Fedra

Solivagus Rima

VII


shoot to thrill, play to kill SHOOT TO THRILL, PLAY TO KILL

avvertire l’infiltrato al posto di blocco del loro imminente arrivo: il carico non doveva assolutamente venir controllato. Oltre quello scoglio, nessuno li avrebbe più potuti fermare.

D

imitri immaginava che la sua sarebbe stata una giornata di merda. Inzuppò la crosta di pane nella Coca Cola, indossò la sua lercia giubba di jeans e si asciugò la bocca con il berretto di lana, che poi infilò in testa. Dimitri si diresse verso il camion: lui e i suoi soci avrebbero dovuto recapitare la merce entro il mattino seguente, ed essendo così vicini alla meta, riuscivano a percepire l’odore del premio per la consegna anticipata. <<I miei finiranno tutti in birra e donne>> disse Dimitri montando sul veicolo. <<Il solito cazzone maschilista>> sbottò una voce dal retro. <<Eccheccacchio, lasciami in pace, Aby!>> <<Ma guardati, sei il solito lardoso patetico - intervenne Konrad - Ti sudano i capezzoli per aver fatto venti metri dalla tavola calda fino a qui>>. Konrad, dopo essersi calcato sulla fronte il suo cappello da cowboy, si accese una paglia appoggiando i suoi stivali di coccodrillo sul cruscotto. <<Cazzo Konrad, tira giù quei piedi!>> <<Muovi il culo e metti in moto, sennò la birra te la sogni, panzone schifoso>>. Dimitri infilò la chiave e diede vita a quel gigantesco serpente meccanico, che cominciò il suo viaggio lungo la statale settantasette. Due ore dopo, Konrad sonnecchiava ancora con la paglia tra le labbra. Aby, sul retro, teneva a bada guaiti e fastidiosi versi che irritavano Dimitri alla guida. La statale settantasette, monotona e polverosa, si snodava all’incirca per duecento chilometri, fino al confine, sorpassato il quale i tre sarebbero giunti a destinazione. Prima di addormentarsi, Konrad aveva provveduto ad

Mancavano pochi chilometri al confine e, nel bel mezzo della carreggiata deserta, Dimitri vide un’ombra. <<Ehi... Ehi Konrad!>> sussurrò titubante, svegliando il compare a suon di gomitate. <<‘Cazzo vuoi?!>> rispose Konrad senza nemmeno alzare lo sguardo da sotto il cappello da cowboy. <<C’è... C’è qualcuno in mezzo alla strada!>> <<Tiralo sotto. E non rompermi le palle>>. <<Ma non poss-- dici sul serio?>> Konrad balzò sul sedile. <<No, lardoso. Ovvio che no. Suona quel clacson>>. Il rumore sordo e profondo della tromba sembrava non raggiungere le orecchie dell’uomo. L’Ombra estrasse qualcosa dal lungo impermeabile nero. Konrad e Dimitri aguzzavano la vista, cercando di distinguere l’aggeggio ad un centinaio di metri di distanza, mentre Aby tentava con grida perfide di sedare i lamenti dal retro del veicolo. Dimitri capì che l’ombra aveva estratto un cannemozze solo quanto il parabrezza del camion era già in frantumi, ed una scheggia di vetro gli si era conficcata nella spalla destra. Con un’azione dolorosa e dettata dal terrore, Dimitri girò bruscamente il volante del mezzo che, a causa di una roccia a bordo strada, finì col capovolgersi. Konrad sgusciò fuori dal portellone come un paguro in fuga dalla propria casa. L’Ombra, intanto, si stava avvicinando al veicolo, passo dopo passo. L’uomo dagli stivali di coccodrillo caricò il revolver con i pochi colpi che aveva a disposizione. Poi, posizionatosi cautamente dietro alla stessa roccia che aveva cappottato il loro mezzo, diede un colpo di avvertimento. Ancora uno. E un altro. Anche se le pallottole erano poche. Konrad alzò lo sguardo, e non vide più nessuno in mezzo alla strada. Udì, però, il carrello di una pistola scattare dietro alla sua nuca. Quindi si girò, e vide il volto coperto di barba e rughe del possente uomo che gli stava puntando una canna alla gola. Konrad si stava trascinando all’indietro sul terreno polveroso, scalciando, ma reggendo orgoglioso la sua paglia tra i denti. Poi urlò: <<Chi cazzo sei tu?!>>. Ma non fece in tempo a sentire la risposta, poiché un


colpo esploso gli aveva fatto saltare l’orecchio e parte della guancia. Le grida tapparono la gola del cowboy, mentre - a passo lento - l’Ombra si stava dirigendo verso Dimitri, ancora intrappolato tra le lamiere. L’Uomo dalla tetra barba strappò quel che rimaneva del parabrezza e, dopo averlo afferrato per i capelli unti, trascinò fuori Dimitri, che cercava di svignarsela come un verme su di un terriccio fangoso. <<No! NOO!! Io- io sono solo l’autista!>> supplicò il lombrico dal bulbo sudaticcio. <<L’autista>> ripeté l’Ombra. <<S-si, esatto!>> L’Ombra si fermò. <<V-vedi? Io... io guidavo e basta!>> L’Ombra ripose la pistola dietro la schiena. <<Ecco. Si, bene, bravo!>> L’Ombra estrasse un coltello a serramanico e lo piantò sulla mano di Dimitri, ancorandola a terra. Poi si diresse verso il retro. Con un’asta d’acciaio rubata al telaio del camion, aprì i portelloni blindati. Un proiettile sparato dall’interno sfiorò la gamba dell’uomo: Aby se ne stava rannicchiata in un angolo, impugnando la semiautomatica e mimetizzandosi dietro una botte di gasolio. <<Spara, stronzo! Spara un colpo, così finiamo entrambi all’inferno!>> L’Ombra indietreggiò, raccolse la spessa catena che teneva assieme le due ante blindate e, approfittando dell’istante in cui Aby si stava asciugando il terrore che le colava lungo le guance, la sorprese alle spalle, passando per la grata che separava il rimorchio dall’autocarro. Il respiro di Aby, da rapido e graffiato, si era fatto lento e pesante. La donna provava a divincolarsi, non riuscendo però a disfarsi della massa imponente del suo aggressore, e non riuscendo a raggiungergli il volto con le unghie, nella speranza almeno di cavargli un occhio. Appena sentì il collo spezzarsi, l’Uomo lasciò andare Aby. Poi tornò di nuovo alla roccia dove Konrad stava agonizzando. Lo prese per la gola e trascinò lui e i suoi stivali insozzati di sangue fino alla base del rimorchio. Si avvicinò al carico trasportato dai tre criminali ed aprì una gabbietta, dalla quale uscì un cagnolino grande e batuffoloso quanto una pantofola taglia trentanove. Appena notò Konrad al suolo, l’animale scese dal veicolo capovolto e cominciò a leccarlo sul viso. <<Levati! Levati, brutta merda!>> <<Cosa vi hanno fatto di male?>> domandò l’Ombra liberando uno alla volta i restanti cinquecento-e-passa cuccioli. <<Non rompermi il cazzo e levamelo di dosso!>> con-

tinuava a ripetere Konrad, mentre altri cagnolini sporchi e malnutriti si avvicinavano a lui per leccarlo. L’Ombra raggiunse il cadavere di Aby, sollevò la botte di gasolio, levò il tappo e, dopo essersi appropriato del cappello da cowboy di Konrad, riversò nella gola dell’uomo gran parte del combustibile. Poi raccolse da terra la paglia del villano, ancora accesa, e gliel’infilò cordialmente tra le labbra, infiammando la miscela e bruciando vivo lo spaccone dagli stivali di coccodrillo. L’Ombra trafugò dalla tasca di Aby un cellulare, con il quale avvisò la polizia locale riguardo “un camion destinato al traffico illegale di cani (finito male), pieno di cuccioli denutriti ed ammalati, alcuni addirittura morti, a causa dell’egoismo umano”. <<Ah, si. Dimenticavo>>. Dimitri si dimenava a terra, lercio, non riuscendo ad estrarre il pugnale dalla mano a causa del viscido sudore e del sangue che gli impedivano un’impugnatura salda. Vide i passi neri del suo aggressore raggiungerlo, inseguito al trotto da tutti i cagnolini che avrebbe voluto vendere al miglior offerente. <<AH! Ah-ah! Abbiamo perso questo carico, ma abbiamo sempre brindato sulle carcasse di questi animali pulciosi. Ne porteremo altri, questa giostra continuerà a girare, e tu non puoi farci nulla>> ridacchiò Dimitri sbavando sulla sua canotta. L’Aggressore levò il coltello dalla mano dell’autista. Un urlo di dolore pareva supplicare l’Ombra di smetterla, o di finire la sua preda. <<Chi sei?! CHI CAZZO SEI TU?!>> <<Io? Sono un bastardo. Il Bastardo>>. <<Uhn - ghignò l’uomo - esattamente come queste bestie pulciose che ti dai tanto da fare per proteggere...>> Il Bastardo pulì i grumi di sangue sul giubbotto di jeans dell’autista. <<Cosa te ne frega?>> domandò Dimitri, oramai rassegnato. Ma il Bastardo non rispose. <<Non dirmi che anche tu sei uno di quegli animalisti del cazzo, o quei vegetariani, convinti che un pezzo di carne al sangue possa provare sentimenti>>. Il Bastardo fissava Dimitri con sopracciglia nervose. Tutti i cinquecento cagnolini si erano radunati attorno a lui, quasi riconoscendolo come capo branco. <<Cosa te ne frega?! - ripeté l’autista - Sono solo bestie destinate a morire per qualche spicciolo, ammalate e malnutrite! SONO SOLO CANI!!>> Il Bastardo alzò il pugnale al cielo, pronto a colpire. <<Si. E tu sei la loro cena>>.

J. P. Lovecrappen IX


La morte di Mino Quando il dottore se ne andò chiudendo la porta dietro di sé con la stessa severa compostezza con cui l’aveva aperta, Mino sbuffò. Stava seduto sul divano a fissare la credenza che occupava la parete di fronte. Elsa, sua moglie, si alzò con gran fatica dalla sedia e, con passo malsicuro, si diresse verso la cucina per preparare il caffè, senza proferir parola alcuna. Mino non accettava la prescrizione del medico. Aveva ottantun anni certo, non era più forte come anni fa, ma quella sentenza, quel verdetto insindacabile non lo poteva proprio digerire. Avrebbe dovuto starsene chiuso in casa, senza fare sforzi, a riposare: così aveva detto il dottore. Avrebbe dovuto trascurare l’orto, il ciliegio, le uscite per andare a funghi in settembre e ad asparagi a inizio primavera. Per tutta la sua vita non aveva mai riposato, e ora, quando non aveva più tempo, qualcuno glielo voleva imporre. Era un’ingiuria, un’ingiuria bella e buona... eccome se era un’ingiuria!

visione: c’era un western. Elsa s’appisolò dopo pochi minuti. Il vecchio marito la scansò con una leggera spallata, stizzito, come aveva fatto prima con la tazzina del caffè. La moglie si svegliò, s’alzò arrancando e salutò il marito con una timida carezza, come fosse una ragazzina dinanzi al suo primo fidanzato e andò a dormire. Mino rimase solo. Fuori faceva ormai buio e i grilli imponevano sulla calda notte il loro fastidioso e prolungato frinito. I suoi pensiero, allo stesso modo, sovrastavano qualsiasi volontà di reazione. Se ne stette lì per ore, per giorni, per settimane. In una fresca sera di fine settembre, stroncato dall’abitudine e intorpidito dalla noia, Mino prese una decisione. Dopo cena, Elsa sparecchiò la tavola e raggiunse il marito sul divano. Mino accese con abitudinaria indifferenza la televisione: c’era un western. Elsa s’appisolò dopo pochi minuti. Ma questa volta Mino non la scansò: si alzò con affanno e baciò sulla fronte la moglie. Percorse con passo leggero il piccolo corridoio, prese la giacca, si mise il berretto e uscì di casa. In cantina recuperò un vecchio bastone e si diresse verso il sentiero che tagliava il bosco a sud-est. Aveva dimenticato gli occhiali, ma non ne aveva bisogno: aveva percorso centinaia di volte quella stretta via da ricordarla a memoria, ormai. Attraverso i rovi e le sterpaglie giunse all’incrocio con un secondo sentiero che puntava verso il crinale a strapiombo che sovrastava la Napoleonica. Il paesaggio cambiò: alla fitta e selvaggia vegetazione si sostituirono pietre, piccole piante e rocce acuminate e spigolose. Mino proseguì fino al termine del sentiero. La luna piena illuminava l’intero golfo, la brezza settembrina si portava via l’umidità della notte e con lei i vagiti di una spensieratezza agognata, ma mai vissuta. Mino si appoggiò al parapetto in legno segnato dal tempo. Chiuse gli occhi per un istante e con incertezza e grande fatica scavalcò l’ostacolo. Riaprì gli occhi e lanciò lo sguardo verso il mare... Scorse Muggia, Punta Sottile, poi, più sfocata, Pirano e poi ancora oltre, in lontananza immaginò la sagoma della sua casa. Richiuse gli occhi e si abbandonò al ricordo. Per la prima volta dopo anni pianse. Fece un passo avanti, poi un secondo. Sentiva sotto i suoi piedi il rumore della rossa terra istriana, la bocca gli parve assetata come dopo una dura giornata nei campi, l’odore del mare gli risalì nel naso. Fece un terzo passo, ma la terra che immaginava sotto i suoi piedi non c’era più. Cadde nel vuoto, in silenzio.

Elsa riapparve nel piccolo soggiorno con un vassoio in mano. Il caffè era pronto. Mino lo bevve tutto d’un sorso e scansò la tazzina sul tavolo in modo brusco. Elsa non fece una piega; non disse nulla per tutto il pomeriggio. In cuor suo sapeva molto bene che il dottore aveva emesso una condanna a morte su suo marito. Mino avrebbe preferito salire a passi pesanti sul patibolo e...zac!, con un colpo netto farsi tagliare la testa piuttosto che restare chiuso in casa per altri due, cinque, chissà, forse dieci anni... Oh, Elsa era certa che Mino la pensasse proprio così. Il vecchio uomo passò tutto il pomeriggio sul divano a osservare il vuoto. Non c’era collera, né rassegnazione, né tanto meno tristezza nel suo viso: solo l’acquisita consapevolezza di essere giunto al termine del cammino. Non avrebbe tratto conforto dai figli, dagli amici, dalla fede, dalla televisione, dalla moglie... nessuno poteva distoglierlo da quella sua sicurezza. Questo Elsa lo sapeva bene: dopo cinquantasette anni al suo fianco sapeva che la miglior medicina per Mino, e per entrambi, era il silenzio. La cena si svolse in un clima surreale, ma tremendamente spontaneo per la coppia. Fu allora che il telefono trillò e destò i due da quel torpore. Rispose Elsa: era Alberto, il loro primogenito. Voleva essere informato sulle condizioni del padre. Elsa gli disse del dottore. Sì, sì, era venuto. Sì, papà stava bene, sì. Ma non doveva stancarsi. No, niente più uscite al di fuori del necessario. No, nessuna medicina al di là delle solite. Sì, l’avevano già pagato il dottore. Centomila lire, un furto, già... Papà non poteva rispondere, era in bagno. Certo, glielo avrebbe salutato. A presto. Mino non era affatto in bagno; era rimasto impassibile a tavola a finire diligentemente il brodo. Elsa non gli aveva nemmeno chiesto se avesse voluto parlare con il figlio: non ne avrebbe avuta voglia. Mino la guardò con la stessa burbera espressione di prima, ma tra la fronte aggrottata e gli occhi stanchi, seppe dedicarle una tenere smorfia di compiacimento. Elsa sparecchiò e raggiunse il marito sul divano. Mino accese con abitudinaria indifferenza la tele-

Avrei voluto che se ne fosse andato così, Mino. In verità, morì tre anni dopo in un freddo letto d’ospedale, solo, segnato da un’agonia quasi infinita. Era il giorno del suo ottantaquattresimo compleanno.

Lorenzo Natural

X


Le Benevole di Davide Pittioni

U

n’opera monumentale. O almeno l’intenzione di scrivere un romanzo definitivo su un tema – il nazismo – che non ha mai smesso di ossessionare le nostre coscienze. È da qui che bisogna partire per recensire il romanzo “Le Benevole” di Jonathan Littell. Pagine dense, capoversi che saltano, parole pesanti che infittiscono una trama faticosa, impegnativa, affastellata di date, ricorrenze, verbali, numeri. Non solo uno sfizio stilistico, o una coloritura postmoderna per un’opera che, per dirla con Eco, è costretta a “riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”. Qui, invece, è la storia stessa a superare lo scacco postmoderno. Non può esserci presa di distanza, e a maggior ragione ironia. Il peso degli orrori, che è anche la leggerezza - la Harendt direbbe la banalità - della tragedia, schiaccia il lettore sulla superficie delle parole, lo costringe a vede-

re, al rischio insostenibile di sospendere il giudizio. Nessuna condanna morale viene garantita e al tempo stesso nessuna innocenza è concessa: il trauma dell’Olocausto è un abisso che risucchia le certezze morali che ci assolvono dall’orrore. La grandezza e la “pericolosità” del romanzo stanno nella scelta ardita dell’autore: raccontare l’inenarrabile, ciò che sfugge alla rappresentazione, il nazismo, i campi di concentramento, la soluzione finale, evitando la comoda prospettiva della denuncia, del resoconto storico, dello scontro tra i mostri e gli umani. Non siamo noi lettori, confortati di essere il bene, a fronteggiare il male, pronto ad essere individuato e marchiato. È il carnefice a raccontare e raccontarsi in prima persone, è la parabola di un SS nazista che si è costretti ad assumere, la sua storia. Lo sforzo di lettura si doppia: è sforzo di accettare le regole del gioco, di identificazione con la storia e con il protagonista; ma è anche sforzo di mantenersi lucidi e non

perdere il filo nel labirinto spaesante dell’universo nazista. Lo shock che monta nella lettura è proprio il risultato del conflitto tra questi due sentimenti: l’empatia con il protagonista e l’indignazione per i crimini che si raccontano. “Non ho alcun rimpianto” dice Maximilian Aue, ufficiale della SS , nel prologo del romanzo. E continua con una sorta di avvertimento al lettore: “forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui incomincia il vero pericolo”. Ecco lo scandalo. Il timore che si insinua. Ma è in fondo lo svolgersi del romanzo, la solidarietà e la compassione che si provano verso il protagonista, a confermare l’amara sentenza: non c’è meglio o peggio, “perché il disumano non esiste, esiste solo l’umano e poi ancora l’umano”. Persone comuni inserite all’interno di una macchina di sterminio, ecco tutto. Di chi è allora la colpa? Dell’esecutore finale che ha premuto un pulsante, del medico che ha deciso che non era in grado di lavorare, dell’infermiera che lo ha spogliato, dell’ufficiale che ha eseguito la procedura, del capotreno che lo ha portato in un campo di sterminio, di chi lo ha catturato, del popolo intero che ha assecondato, o dell’uomo al comando supremo?

XI

Si potrebbero distribuire le colpe, in percentuali, ma forse non avrebbe senso. Il giudizio morale si perderebbe comunque nella complessità della Macchina nazionalsocialista, “una filosofia integrale, totale, una Weltanschauung dove ognuno doveva poter trovare posto”. In fondo è lo stesso protagonista, l’opposto dello stereotipo dell’SS, uomo di lettere che cita Hegel e Platone, omosessuale, attraversato da conflitti interiori, dubbi etici, convinzioni ideologiche, a dimostrare che il nazista ad una dimensione è una rappresentazione semplicistica. Nell’attraversare con lui le mille vicende che costellano il romanzo, i luoghi in cui si consuma la tragedia, il fronte orientale, gli uffici berlinesi, i campi di concentramento, è come se quei solidi confini morali su cui si reggono le nostre convinzioni iniziassero a franare. E la caduta psichica del protagonista diventasse anche la nostra. È a partire dal breve periodo che passa nell’inferno di Stalingrado che comincia la resa psicologica del protagonista. Il racconto si fa progressivamente più sconnesso, le fondamenta scricchiolano. Il passato frammentario di Aue riemerge prepotente: i deliri, le allucinazioni, le febbri si mischiano ai ricordi, le certezze tedesche iniziano

a traballare, la disfatta si fa strada negli ultimi drammatici mesi di guerra. Il delirio sembra la cifra di un’intera nazione. Le esecuzioni, lo sterminio, l’industria proseguono indifferenti il loro lavoro alienato per la nazione, nella cieca convinzione che il Reich sia invincibile, follemente presi dalla minuziosa concezione della Grande Germania. Restano i detriti, le macerie, il fango, la diarrea, il sangue, depositati dalla storia su una memoria sempre più fragile, precaria, inconsistente. La guerra e la morte prendono corpo nello spettacolo desolante di quel che rimane. I sopravvissuti, che sono persone e testimoni, ma anche soprattutto i fantasmi, tornano dalla guerra. Non dal fronte, ma da quello stato di eccitazione, angoscia e desolazione in cui erano piombati. Allora un interrogativo sopravvive al racconto: come custodire nella memoria il ricordo e il dolore? Come condannare ciò che non può essere assolto, al di là del bene e del male? “ Sentivo all’improvviso tutto il peso del passato, del dolore della vita e della memoria inalterabile, […] solo con il tempo e la tristezza e la sofferenza del ricordo, la crudeltà della mia esistenza e della mia morte ancora da venire. Le Benevole avevano ritrovato le mie tracce”.


Il Sesso e gli Angeli: ricerca ragionata e libera sul futuro della moderna juventutis. di Ruben Salerno Ipotesi 1: Trovi un lavoro, non roba da fotocopiatrici, un lavoro vero. Ti fai il mazzo, i risultati sono evidenti. I colleghi ti stimano, i capi ti lodano, sei professionale. Insomma sei bravo, potresti fare carriera. Doppio mazzo, sali di grado, ora coordini quelli che fanno il tuo lavoro. Sei bravo, sei giovane, puoi fare carriera. I colleghi ti stimano, i capi ti lodano ma non tutti. Alcuni, lungimiranti, ti temono. Triplo mazzo, su di grado, cominci a vedere i primi soldi seri, non più spiccioli e promesse. Comandi quelli che coordinavano quelli che fanno il tuo lavoro. Responsabilità moltiplicate, potere in aumento. Sei un treno in corsa, chi ti fermerà? Lavori bene, i colleghi ti stimano, i capi anche ma adesso ti temono tutti. Puoi crescere ancora, te lo senti, lo sai. Sei giovane, sei bravo, sei determinato e professionale. Poker di mazzi. Controlli quelli che comandano quelli che coordinano quelli che fanno il tuo lavoro... alla fiera dell’est... parecchio potere, abbastanza soldi. A questo punto devi certificare il tuo successo, hai esperienza e due scelte: continuare la scalata o insegnare agli altri come ci si arrampica, detto in soldoni, metti su famiglia o fai l’insegnante, o peggio, entrambe. Guardi al resto del mondo con educato distacco, i problemi altrui non ti toccano più. La gente ti stima, ti ammira, sa di poter contare su di te, e ti piace. C’è qualcosa che però non quadra, in una vita fatta di successi, dubbi e incertezze non sono ammessi. La tua natura animale invece è fallibile e irrazionale, cominci a chiederti se tutto ciò per cui hai corso abbia senso. In fondo non sei più giovane e ti mancano le energie, ma sai di valere. Devi provare a te stesso di essere ancora in grado di correre, così ricominci a darti da fare, ti metti

in proprio e ti fai cinque mazzi. I risultati sono minimi ma tanto basta a soddisfarti. Almeno e ciò che pensi. Poi interviene la solitudine e quel senso di vuoto che per anni hai allontanato riempiendo ogni tuo istante con la carriera. Scopri il silenzio. Capisci che la tua vita è stata solo rumore, ne cerchi il senso. Ipotesi 2: Infame società, bisogna che l’umanità capisca di essersi cacciata in una spirale verso il basso, fatta di illusioni borghesi e lascive. L’esosa ricchezza dei pochi costringe i molti a rinunciare al proprio diritto alla pace sociale, sicché risulta necessario risvegliare la coscienza di questi affinché tutti possano godere di una giusta e spensierata esistenza. Dobbiamo risvegliare le menti che da troppo tempo ormai sono sopite, sopraffatte dal capitalismo fine a sé stesso. Dobbiamo fare la rivoluzione, ridare libertà a coloro i quali sono state tarpate le ali, conquistare la rossa primavera dove brilla il sol dell’avvenir! Liberi tutti, avanti le proposte, ognuno è unico nel suo genere e parte del tutto. Fate il vostro gioco signori, apriamo i confini, spazio alle opinioni, il pensiero di ciascuno di voi è importante e conta moltissimo, ne terremo conto senza dubbio. Il lavoro è un diritto di tutti, nessuno escluso, così come il reddito di cittadinanza. Chiunque ha diritto al gruzzolo di soldi necessari alla propria felicità materiale, che si raggiunge comprando e possedendo quel tanto che basta a tenere in vita la macchina capitalista che noi combattiamo! L’Italia è un paese fondato sul lavoro. Poi di lavoro ne trovi uno, vedi l’Ipotesi 1. Tesi: Quando Dio disse andate e moltiplicatevi, non si era guardato bene intorno (Groucho)

Dimostrazione/confutazione: Ma quale rivoluzione signori miei? Chi la fa? Chi presterà il suo braccio molle alla causa? Forchette, altro che forconi! Che volete insegnare? A chi? Ai disgraziati ignoranti che hanno il vostro stesso diritto di porre la crocetta sul nome del candidato? Sarà mica un caso che le alte sfere son fatte di furbi arrapati? No, signori, largo alle nuove generazioni, loro porteranno una ventata di freschezza nel panorama politico/economico. E qua casca l’asino, cioè noi: tutti i movimenti di protesta partono dal presupposto che la gente che li segue sia dotata di ‘’granu salis’’ e saldi principi morali. Grillo e la sua gang non si sono ancora capacitati di esser stati votati dalla stessa mandria di spaesati che in passato avrebbe fatto la fortuna di Radicali, Forza Italia e Lega Nord. Ma ci rendiamo conto di chi stiamo parlando? Altro che nuove leve, fresche e pronte a fare politica “sana’’. Qui si assiste a masse informi di giovanotti che si lasciano vivere abbandonando ogni

XII

spiraglio di autodeterminazione. Gente incapace di imparare un mestiere, incapace di studiare, incapace di scegliere persino al bar! Quando arrivi al bancone avrai pensato a cosa vuoi bere, tra birra e mojito c’è differenza, è lotta di classe! Invece no. Sono troppo impegnati a messaggiare, tweettare, postare su facebook e a sentirsi il diritto di avere una vita per la quale non vogliono lavorare. (Hank Moody) Signori, è arrivata l’ora di camminare da soli. Niente aiuti, nessuna istituzione. L’ultima è morta il 20 aprile a Roma. L’economia va a rotoli e l’Occidente sta tramontando, tutto vero, ma ciò che succede in questo paese supera ogni limite di decenza e ridicolo. Stanno crescendo generazioni senza né arte né parte, inadatte alla sopravvivenza in un mondo sempre più competitivo. Tutti intenti a piagnucolare perché hanno rubato loro il futuro e nessuno (o comunque troppo pochi per rappresentare un dato significativo) che provi a crescere. Se Zarathustra vedesse

oggi la fine che hanno fatto i suoi figli, tornerebbe a rivolgersi al grande astro chiedendogli di spegnersi. L’avvenire si annuncia grigio signori, l’unica via d’uscita possibile è darsi alla macchia, di colore. Conclusione: “Capolinea!” Il ragazzo che dormiva, testa abbandonata e guancia spiaccicata sul finestrino, si destò con affanno. “Siamo arrivati, com’è possibile?’’ chiese, intontito da quel viaggio che sembrava lungo una vita. “Era l’ultima corsa giovane, mo’ devi continuare a piedi, se ti ricordi come si fa, one way ticket to hell, fratello. Dai muoviti, che da domani ho la tratta Mosca-Shangai.” Ancora sbigottito, rispose seccato al conducente: Caron non ti crucciare, adesso vado! Scese a fatica e s’incamminò lungo la strada buia. Le tenebre lo inghiottirono e di lui non si seppe più nulla. “Un tram chiamato Consumismo’’. Nei cinema.


Considerazioni sul piano ristorazione di un centro commerciale di Piero Rosso

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oco tempo fa sono andato al Città Fiera di Udine e ho scattato a caso alcune foto del piano ristorazione; da queste voglio partire. Il piano è un agglomerato di ristoranti con tratti caratteristici di diverse parti del mondo; ogni ristorante è inserito all’interno di un vasto locale che li racchiude tutti. Questo luogo comune è strutturato in modo da lasciare poco spazio alla luce per entrare, se non tramite una piramide di vetro e metallo appoggiata su uno spazio aperto nel soffitto, che permette alla luce di filtrare sul piano e lenire la sensazione di oppressione che si avrebbe a passeggiare tra i ristoranti nel chiaroscuro. Nonostante ciò, questa disposizione produce una zona d’ombra all’interno del piano, dove la luce che entra dalla piramide non arriva, che viene illuminata scarsamente dalle luci elettriche dei locali, faretti necessari solamente ad illuminare una piccola porzione circostante. Non c’è una luce abbastanza grande sul soffitto, o sulle travi in metallo che rivelano la struttura sottostante, che sia abbastanza grande da illuminare l’intero luogo. In questo gioco di luce ed ombra ogni ristorante mantiene la sua unicità e la sua compattezza, separato dagli altri non tanto dal diverso stile architettonico, ma dall’isolamento luminoso, rinforzato dalla differenza di colore associato a ciascuno stile culinario. Il ristorante messicano, ad esempio, spicca per le sue pareti gialle e sembra che la maggior parte dell’illuminazione venga conservata per l’interno del locale. Al suo fianco la pizzeria italiana, coi muri in pietra, il finto sottotetto senza balcone ma con evidenti finestre e architravi in legno, la grondaia per la pioggia inutile poiché siamo all’interno, e dei lampioncini pendenti tutt’attorno al finto primo piano del locale. Evidenti porzioni del soffitto della struttura originale del centro commerciale vengono lasciate scoperte, non è stato necessario creare uno spazio finto verosimile; il cliente si accontenterà di scegliere un suo ristoro artificiale, mangiare qualcosa di tipico (un tipico-artificiale) e ributtarsi all’interno del tempio dell’acquisto, nel luogo dove si osanna il consumismo. Oltre alla molteplicità, colpisce il punto di osservazione offerto da questo stanzone: lo sguardo di chi osserva dal balcone, sopraelevato sulla folla, lo sguardo del cittadino metropolitano per eccellenza. I dipinti degli Impressionisti avevano colto questo nuovo punto di vista sopraelevato, come Monet in Boulevard de Capucines del 1873, dove sulla destra del quadro si notano altri uomini affacciarsi dal terrazzino attiguo a quello del pittore, oppure il vertiginoso Rue Montor-

gueil in Paris del 1878: entrambi

propongono uno sguardo sui colori cangianti della moltitudine. L’Ottocento è il secolo che consacra questo punto di vista; esso diventa accessibile ai molti; la stessa Tour Eiffel celebra la modernità del ferro offrendo un nuovo punto di visione: un monumento che sovrasta tutti i singoli e che allo stesso tempo permette al singolo di sovrastare l’affollamento delle strade, di allontanarsene e di goderne come si gode dell’acqua che scorre. Nel piano ristorazione, però, qualcosa cambia. Lo sguardo della meraviglia sembra di non aver bisogno della folla: esso è uno sguardo che affoga nel labirinto delle sedie, delle scale diversamente tinte; questo luogo sembra dichiarare che i nuovi materiali, quelli della contemporaneità, un periodo che si relaziona forzatamente con il multiculturalismo, non sono più il ferro e il vetro, ma l’aggregazione di tutti i materiali e colori, l’accostamento violento e spaventoso che crea la voragine nello sguardo, al quale sicuramente lo shock visivo della moltitudine tanto caro alla fine dell’Ottocento ha ancora qualcosa da dire. Il punto di vista continua a essere sopraelevato, il vedere tutto, il farsi risucchiare come nel vano di un ascensore, dove lo sguardo è costretto a salire, salire, salire fino al soffitto, o a scendere al piano terra, come nel nostro piano ristorazione. Moltissimi centri commerciali, come moltissime abitazioni private, vogliono avvalorarsi dell’open space. Basti pensare alle decine di balconi interni dei magazzini Lafayette, che offrono la vista di altri balconi, in un gioco concentrico che corre attorno al nu-

cleo fondamentale del centro: un gigantesco spazio vuoto. Uno sguardo, dunque, su altri balconi che sono a loro volta luoghi del guardare, e che fanno intravedere altri ambienti zeppi di merce, senza permettere allo sguardo di fuoriuscire dalla vertigine del consumismo... Sul piano ristorazione a Udine la folla è scomparsa, essa non è più una componente fondamentale. La luce che entra dalla piramide sul soffitto illumina quasi solamente un Mc Donald e una porzione di un Biergarten stile bavarese di un locale che

inizia al piano di sotto. Non può mancare il ristorante cinese, quello giapponese, quello indiano, tutti rigorosamente chiusi a turno in uno spazio che per la maggior parte è sempre vuoto; di centinaia di tavoli e di migliaia di sgabelli, solo alcuni sono occupati di volta in volta. Questa situazione, forse, questa varietà che illude di avere libertà di scelta, funziona proprio grazie al vuoto: se il cliente cammina a casaccio tra tutti i tavolini squadrati, e si perde nella scelta del luogo in cui preferisce mangiare, prima o poi si incaglia in uno di essi, e si siede a consumare qualcosa. In un centro commerciale dove le panchine sono scarsissime, un piano sterminato di sole sedie dovrebbe invitare al relax; eppure questa distesa di tavoli è vuota. In un luogo dove l’ora del giorno non è importante, dove ci si attarda a comprare invece di andare a pranzo, è strano che non ci siano persone sedute a tutte le ore. Slavoj Zizek nel suo libro “Dalla tragedia alla farsa” cita una città al di fuori di Shangai, una delle tante isole per ricchi cinesi che vogliono isolarsi in una dimensione di privato assoluto, che riproduce esattamente una cittadina inglese, con tanto di supermercato Sainsbury’s, pub e chiesetta anglicana. Cercando un po’ ho poi scoperto che in verità il progetto è ben più ampio: si chiama One City, Nine Towns ed è stato un gigantesco fallimento. Ho visto le foto di questi quartieri: se non fosse per una lanterna cinese pendere da un lampione, direi che la foto è stata scattata in Inghilterra. Ma poi ci penso, e mi ricordo che anche in Inghilterra si trovano delle lanterne cinesi, più o meno diffusamente, dato l’alto numero di immigrati che importano la propria cultura e i propri segni. Allora dov’è la falsificazione di quel villaggio? Quel villaggio non è un falso, ma un vero, un vero e proprio pezzo di paesaggio inglese. In quella cittadina, dice Zizek, non esiste più una gerarchia tra i gruppi sociali che vivono nella stessa nazione perché è

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una cittadina solo per ricchi – fenomeno causato dai costi proibitivi delle case. Le classi più povere vengono escluse dalla finzione (ma l’estromissione è verissima, concretissima!). Costruite per far fronte all’espansione massiccia della popolazione di Shangai, queste cittadine non si sono rivelate appetibili per i compratori. Un interessante articolo, “One City, Nine Ghost Towns”, di Samo Pedersen sul sito Pop Up City le elenca: “Gaoqiao (riproduce una cittadina dell’Olanda), Fengcheng (Spagna), Pujiang (Italia), Anting (Germania), Songjiang (Inghilterra), Luodian (cittadina stile nordeuropeo), Fengjing (stile nordamericano), and Zhoujiajiao (stile tradizionale cinese di città sull’acqua). Un ultima parte, Zhoupu (America occidentale), non è stata realizzata”. Pedersen spiega che il grande problema delle città è che esse sono una copia più o meno attinente dei loro modelli, ma che allo stesso tempo mantengono caratteristiche tipiche dell’urbanistica cinese. I compratori si sono diretti verso quelle cittadine che hanno mantenuto le caratteristiche a cui erano abituati (una su tutte le case orientate verso sud), mentre le altre sono state comprate da speculatori in attesa che aumentino di valore, per poi poterle rivendere; così sono rimaste vuote, utilizzate come set televisivi, o fondali esotici per il matrimonio perfetto, a dimostrare che nemmeno la finzione perfetta è sufficiente, e che la folla è oltremodo inutile per creare economia. La foto del Città Fiera mi ricorda che queste stesse dinamiche si ripropongono in una malfatta oasi del sincretismo, cioè il piano ristorazione di un centro commerciale, dove il vedere tutto è un vedere tutto ciò che si può acquistare, e la compenetrazione del mondo esterno, del fuori da Udine, fuori dall’Italia, si cristallizza in un solo e unico centro (commerciale), un paradiso vertiginoso della finzione, lasciato vuoto, abbandonato dalla folla che ne aveva permesso l’espansione.


ISLANDA in poche battute

di Solivagus Rima (srsolivagus@gmail.com)

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onsiglio: Mettetevi comodi e, se pensate che possiate trovar piacevole dedicarvi alla lettura di questo breve articolo sull’Islanda, cercate su Youtube la canzone “Gústi Guðsmaður” e usatela come sottofondo mentre leggete. Vi farà sicuramente entrare al meglio nel cuore di questo bellissimo paese, l’Islanda. Partiamo con una cosa per la quale uno potrebbe dire “Che vuoi che sia …” : la particolarità dei supermercati islandesi. La catena più importante è quella del Bònus, rappresentata da un simpatico ed eccentrico logo, un suino rosa a forma di salvadanaio, che sorride mentre una monetina gli scivola nella fessura lungo la schiena. Dentro questi supermercati è veramente un paradiso di colori… dal giallo delle scansie, alle celle frigorifere piene di salmoni rosati, alle buste bianche e blu di pesce secco; la moda del pane in cassetta. Gli odori dei supermercati, poi, sono qualcosa di sublime. Il più caratteristico è quello dell’hákarl, lo squalo marcio islandese, che profuma d’ammoniaca e sa di gorgonzola. Il primo giorno raggiungiamo una piccolo villaggio di pescatori, Siglufjörður. Visitiamo il “Museo della sardina”, che ci riempie i cuori e ci fa capire che Siglufjörður era uno dei luoghi

più abitati dell’Islanda, uno dei villaggi più fiorenti dal punto di vista economico . Era la base di un commercio di sardine mondiale. Purtroppo, ben presto, la pesca eccessiva con le reti fece sì che le sardine non avessero più tempo di riprodursi e che i piccoli di sardina non avessero più spazi in cui crescere. Per cui negli anni ’60 tutte le sardine sopravvissute se la filarono di buon grado e non se ne videro mai più in quel porto. Di lì a poco tempo Siglufjörður divenne una città quasi disabitata. L’antica fabbrica di scatole di sardine divenne il succitato “Museo della sardina” e i pochi abitanti si dedicarono ben presto ad altre occupazioni. La birra, legalizzata appena nel 1989, mi sembra rappresenti quasi un respiro per la società islandese, un ambrato simbolo di libertà. Ecco perché un ubriaco produttore di birra islandese ce la offre volentieri all’interno del suo garage, che stupisce subito i nostri occhi a causa delle grosse taniche di birra che attorniano una Range Rover colossale. La sua “Black Death Beer”, ispirata alla famosa Guinness irlandese, è anch’essa scura. Dopo esserci abbeverati, lo salutiamo. Lui ricambia beatamente, esclamando : “Saluti in Italia for Berlusconi!”.

Nei giorni seguenti , dopo miriadi di cascate, deserti di cenere e di lava, ecco che arriva l’esperienza più emozionante del viaggio: la vista delle balene, l’Iceland Whale Watching. Questi maestosi giganti gentili spuntano dalle acque fredde del Mare Glaciale Artico, non appena andiamo un po’ a largo con la nostra imbarcazione. C’è il sole e neanche una nuvola sporca il cielo. Il vento tuttavia è forte e freddo, colpisce la piccola bandiera islandese a poppa. La bandiera è blu come il cielo, bianca come la neve e rossa come il fuoco; questi colori esprimono pienamente le maggiori caratteristiche di questo paese, un po’ come i nostri verde, bianco e rosso. Le megattere sono lunghe all’incirca quindici metri. La loro grandezza emoziona e stupisce, quasi quanto il loro alito marcio che esce dagli sfiatatoi. Sono creature dolci, carezzevoli. Animali in grado di regalare sorrisi e speranze. Dopo averle viste vive, vi passerà sicuramente ogni voglia di assaggiare uno dei piatti tipici islandesi, “la balena affumicata”. Più avanti, durante il nostro viaggio, si arriva nell’Islanda meridionale, dove si possono ammirare le splendide sorgenti d’acqua calda, che tutti cono-

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scono come geyser. Questi prendono il nome dalla sorgente che emetteva il getto d’acqua più alto, Geysir. Purtroppo ora Geysir è inattivo, a causa dei turisti che, nel tentativo di fargli emettere getti sempre più alti, vi gettavano all’interno ingenti quantità di pietre, che con il passare del tempo l’hanno ostruito. Ora il primato spetta ad un’altra sorgente, che si trova proprio lì accanto, Strokkur. Nell’Islanda occidentale raggiungiamo Helgafell, ai piedi del sacra montagna e della via che porta alla tomba di Guðrún Ósvífrsdóttir, una delle più importanti eroine delle saghe locali. La leggenda racconta che, una volta raggiunta la cima della montagna dove si trovano le rovine di un’antica chiesa, sia possibile esprimere tre desideri. Tuttavia, affinché i desideri si avverino, è necessario rispettare due regole: lungo la strada che porta alla cima non bisogna pronunciare alcuna parola e non bisogna mai voltarsi a guardare indietro. Rispettiamo tutti il religioso silenzio, senza voltarci indietro. Così in poco tempo raggiungiamo le rovine ed esprimiamo sommessamente i desideri. I cuori ci sobbalzano, gli occhi di qualcuno si illuminano. Ben presto però il silenzio viene interrotto dalla lontana voce di un sessantenne di Varese, che urla: “Orco can, mi son voltato indietro …”. L’ultimo giorno arriviamo all’isola di Heimaey, un’isoletta estremamente poetica. Dal vulcano spento che si cela al centro di essa si può mirare l’isola nella sua interezza. Il bar che serve caffè Illy sull’isola mi fa sorridere e risveglia in qualche modo la mia triestinità. Nei locali si serve solo una bella e buona pizza unta e grassa, all’americana. Islanda in poche pillole: Cappellini e souvenir dei pulcinella di mare; acqua calda che odora di zolfo; falesie e scogliere; deserti di cenere; bambini skater; fast food; porti; chiese protestanti; visi di porcellana; cavalli e pecore. Iceland Whale Watching - “Le balene in Islanda” : h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m / watch?v=NjbMLvJhY9k.


Trieste città della cultura europea 2019 di Luca Zampino

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alle ultime indiscrezioni sembrerebbe ormai ufficiale la candidatura di Trieste per diventare la città capitale della cultura europea per l’anno 2019. Dopo la recente abdicazione di Venezia, la quale ha ritenuto più dispendioso che altro organizzare tale prestigiosa manifestazione nella sua laguna, Trieste è risultata essere la città più papabile per sostituire il capoluogo veneto, nella zona del nordest. Un impegno importante ma che allo stesso tempo potrebbe sembrare anche un onere. Ciò che ha spinto Venezia a rinunciare alla propria candidatura infatti è proprio ciò a cui serve la manifestazione, ovvero aumentare il turismo nella città candidata come sede. Essendo Venezia una delle città più visitate, non solo d’Italia, ma del mondo, il turismo risulta essere già molto fiorente, di conseguenza l’aumento dei visitatori tra i propri canali sarebbe del tutto irrilevante ai fini economici, finendo per essere addirittura, secondo le probabili stime degli specialisti, controproducente. Tuttavia ciò che vale per una città non è detto che valga per tutte. Trieste infatti vive una situazione completamente opposta a Venezia. Considerata un patrimonio culturale, simbolo e crocevia della multietnicità, ricca di monumenti e patria della letteratura italiana della prima metà del XX secolo, la città giuliana ha sempre avuto difficoltà ad emergere dall’ombra dell’anonimato. Ombra causata proprio dalla città di Venezia che con la sua potenza storica e geografica, calamita per milioni di persone, ha sempre relegato la nostra città ad un ruolo che dire secondario è poco. La difficile accessibilità ha fatto il resto. Con un aeroporto come quello di Ronchi dei Legionari, distante parecchi chilometri, l’ingresso a Trieste è vissuto dagli eventuali turisti solamente come un passaggio forzato o al massimo come una visita di breve durata, prima di arrivare alla grande e incantevole laguna veneta. Ad avvalorare e a rendere ancora più grigio tale paesaggio, ci ha pensato uno studio portato avanti di un noto giornale culturale inglese il quale, in base a sondaggi e varie analisi, ha classificato Trieste come la città più bella del mondo tra quelle meno visitate. Un primato che crea ancora più dispia-

cere e disagio, poiché schiaffa in faccia ai cittadini di Trieste la consapevolezza di abitare in una zona invidiabile per bellezza, storia e cultura, ma che di fatto non viene sfruttata a pieno dalle autorità competenti. Ad ogni modo ciò che preme segnalare in questa sede non sono tanto i vantaggi economici che deriverebbero dall’opportunità di emergere finalmente in senso culturale, ma la convinzione che Trieste meriti a tutti gli effetti questa grande occasione che le si presenta. Certamente la concorrenza sarà comunque agguerrita (vedi Modena e L’Aquila), ma la speranza è l’ultima a morire. Tralasciando i luoghi d’interesse maggiori, che si spera la gran parte dei lettori conosca, sono la bellezza di tante opere architettoniche e della natura che circonda il Golfo, di solito messe in secondo piano dagli stessi triestini, che qui si vogliono segnalare. La famosa strada Costiera ad esempio, quella che porta da Sistiana al cuore della città, permette a eventuali turisti di assistere ad un panorama favoloso. Un mare limpido, segnato dai lievi refoli di bora, o da cavalloni che rendono la vista di acque agitate ancora più bella. Le così dette “pedocere” danno il segnale di una mercato e un attività fiorente, simbolo della nostra città. Questa strada, a picco sul mare, permette l’intreccio di due realtà ambientali così diverse, mare e Carso, che difficilmente si può ammirare da altre parti nel mondo. Questa strada, da cui l’Istria e Monfalcone sembrano richiamarsi l’una all’altra, è invidiata da molti paesi. Nel 1928, la sempre e solita rivista inglese, ha decretato questo percorso di circa 10 chilometri come la strada più bella d’Europa. Ancora un segnale di come la bellezza ambientale che circonda Trieste, avvolgendola con il suo verde, il suo azzurro e le sua fauna ricca di tanti animali (forse troppi, vedi questione cinghiali) permetta ad essa di emergere anche nel settore ambientalistico. Una strada resa ancora più incantevole dalla galleria naturale che bisogna percorrere, in cui la tradizione vuole che i guidatori suonino il proprio clacson per scaramanzia. Sulla suddetta galleria si può an-

che intravedere, scolpito nella nuda roccia, il volto di Benito Mussolini che, nel bene o nel male, fece di Trieste un simbolo dell’italianità, costruendo l’edificio dell’Università Centrale e proclamando il 18 settembre 1938 dal balcone di piazza Unità le famose e tristi leggi razziali. Il motivo per cui vennero proclamate proprio nella nostra città è dovuto al fatto che Trieste ospitava, e ospita tuttora, la più grande comunità ebraica d’Italia, la quale si riunisce in preghiera nella splendida sinagoga situata nel centro città. Un edificio imponente all’interno del quale è presente un archivio di enorme valore storico, grazie al quale il capoluogo giuliano può vantare un’importanza storica-religiosa unica nel suo genere. Un’altra grande unicità di Trieste è quel vento che soffia trecentosessantacinque giorni all’anno, cioè la Bora. Portando refrigerio in estate e rendendo gli inverni ancora più rigidi, è un vento che di fatto è amato e odiato allo stesso tempo. La leggenda narra che Bora fosse una ninfa che viveva sul Carso, alla quale gli uomini uccisero il Dio di cui era innamorata. Per vendetta verso gli assassini decise di soffiare la propria rabbia, gelida e micidiale, per l’eternità, rendendo appunto i boschi carsici teatri di gelide notti e la costa sferzata dalle onde. Racconti a parte, sicuramente questo imprevedibile vento potrebbe destare la curiosità di eventuali turisti, affascinati dalla possibilità di rovinose e spettacolari cadute degli sfortunati passanti. Un altro aspetto sottovalutato dalle nostre parti è quello gastronomico. Tanti pasti, comuni sulle tavole triestine, sono sconosciuti ai più nella penisola. Le così dette “patate in tecia” ad esempio, sono il contorno che valorizza il menu dei triestini, spesso affiancato dagli “spinaci alla tedesca”, caratterizzati dalla presenza del latte, che rende dolce e cremoso il gusto della verdura. Il tocco finale di un tipico pasto triestino è ovviamente il buon vecchio cotto caldo tagliato a mano, il quale si può apprezzare nel locale che ormai da più di cento anni è emblema della cucina triestina, ovvero “Pepi S’ciavo”, nei pressi di Piazza della Borsa.

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Trieste dà inoltre una testimonianza fondamentale per la storia d’Italia, racchiudendo tra le sue vie e i suoi portici pezzi di storia unico nella penisola. Vi è il borgo teresiano, esempio unico dell’architettura tipica dell’Austria del 1800, a cui si aggiunge il Viale alberato, in cui una volta passava l’acquedotto, che portava le acque carsiche direttamente in città. Gli itinerari dei luoghi in cui vissero e scrissero le proprie opere i grandi letterati italiani e stranieri come Saba, Svevo e Joyce, impreziosite dalle varie statue dislocate nei centri pubblici cittadini. L’irredentismo triestino, noto ai più, viene celebrato con la piazza Oberdan, in cui venne giustiziato proprio Guglielmo Oberdan, dopo aver sfortunatamente fallito l’attentato a importanti rappresentanti austriaci dell’ambito militare. Trieste dunque ha tanto da mostrare al mondo, molto del quale per altro i suoi stessi cittadini non conoscono e che avrebbero l’opportunità di apprezzare con questa occasione, se si presentasse. Anche il nuovo ponte, costruito di recente e battezzato ironicamente “ponte curto” potrebbe essere una simpatica attrattiva per visitatori con il senso dell’umorismo e che ignorano l’enorme cifra spesa per costruirlo. Tutto ciò appena sopra descritto ovviamente farebbe da contorno all’evento culturale in sé, toccando luoghi d’interesse maggiori e certamente più famosi. I vari castelli, i musei che caratterizzano le varie vie cittadine, la Piazza Unità, Città Vecchia, il parco di Miramare (votato sul sito del Fai come settimo patrimonio culturale italiano da salvare), molo Bersaglieri, il Faro della Vittoria, l’Anfiteatro romano, Canal Grande, la Risiera, le Foibe. Tutto ciò è quello che valorizza la città di Trieste, ma come detto tanti luoghi ed eventi sottovalutati per bellezza e importanza culturale sono forse la cornice ideale, che permette anche a chi vive da sempre o da molto tempo in questa città, di apprezzare anche dopo una vita intera, un luogo che trasuda storia e simboli di un passato che dovrebbe riempire d’orgoglio i suoi abitanti.


Progetto Palestine Poetry Network presentato a Trieste con la collaborazione di Charta Sporca Gentili lettori e gentili lettrici, dopo una serie di inconvenienti e di rimandi, volevamo condividere con voi le nostre sensazioni dopo il primo incontro che siamo riusciti a organizzare da quando siamo diventati Associazione Culturale.

Grazie alla mediazione di un nostro associato, martedì 23/4 siamo stati lieti di aver ospitato tre volontari di MAIA (Make An Impact Association) Onlus Trento, Alessandro Burbank, Duccio Nazari e Luca Patarnello, ideatori del progetto di cooperazione culturale Palestine Poetry Network. Per crearlo, hanno realizzato un documentario nella città di Jenin, centro della Cisgiordania. Girato tra ottobre e novembre 2012, inizialmente dedicato alla poesia orale, grazie alla figura di Duccio Nazari si è esteso anche alla scoperta della scena rap della zona. Il gruppo si è dunque prodigato nell’osservazione di queste due arti assieme, analizzando lo scontro generazionale, le differenze culturali e l’impatto tra modernità e tradizione in un contesto come quello palestinese proprio attraverso rap e poesia.

culturali e sociali rappresentino la ricetta per uscire da un’impasse creativo e d’idee che troppo spesso attanaglia anche il mondo universitario. Sperando di organizzare a breve altri eventi, vi invitiamo già da ora a partecipare anche voi, non solo per rendere numericamente più gustose le nostre iniziative, ma per creare un progetto che vada oltre al nostro (e vostro) periodico, che resta comunque la base di riferimento per ogni sviluppo futuro.

Ps: per ulteriori informazioni su MAIA Onlus e sul loro progetto, visitate il sito www.maiainternational.org oppure la loro pagina Facebook: MAIA - Make An Impact Association Onlus

Consiglio Direttivo dell’Associazione Charta Sporca

A Trieste i tre ragazzi hanno presentato il loro progetto, proiettato il trailer del documentario e eseguito alcune poesie (Alessandro) e alcuni pezzi rap (Duccio), con l’accompagnamento musicale di Luca.

Lilligrafia

Ampio spazio è stato dedicato al dibattito tra loro e il pubblico, molto partecipe e interessato ai temi trattati: sicuramente è stato questo l’aspetto di maggior interesse e di soddisfazione per noi organizzatori. Al di là del notevole – e per alcuni di noi inaspettato – spessore delle doti artistiche dei ragazzi, ciò che ci ha maggiormente gratificato è stato il rapporto che si è instaurato durante il dibattito, che è poi continuato anche durante tutta la serata. Nella convinzione di dover ancora perfezionare, e di molto, la macchina organizzativa per quanto riguarda questi incontri, siamo certi che questo genere di cooperazione con altre realtà che agiscono sul territorio con iniziative

Associazione Charta Sporca Presidente: Lorenzo Natural

Direttore Responsabile: Stefano Tieri Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo

Vicepresidente: Davide Pittioni Segretario: Piero Rosso Tesoriere: Ruben Salerno

Info e Contatti Sito Web: www.chartasporca.tk Per contattarci: chartasporca@gmail.com Charta Sporca è anche su Facebook


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