Numero 13

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NUMERO XIII- MAGGIO/GIUGNO 2013

Le passanti

di Piero Rosso e Davide Pittioni

Che l’università italiana dopo la sorda riforma Gelmini si fosse ritrovata con le ossa rotte lo sapevamo più o meno tutti; che l’atteggiamento degli studenti abbia seguito il pessimismo che al di fuori - in città, in Italia – prevale, ce lo aspettavamo. Forse stiamo ancora tutti aspettando il momento in cui qualcuno dirà “è l’ora del cambiamento”, senza ricordarci che i grandi rivolgimenti si fanno anche con le piccole battaglie, scacco per scacco. L’istituzione, invece, agisce attraverso piccole sottrazioni di terreno alle quali è difficile sbarrare il passo. Lentamente, inesorabilmente, è stato inclinato un piano che ha gettato a mare volti, persone e parole, che dietro la pendenza ha oscurato un disarmante naufragio. Bisogna chiedersi a che cosa serve, allora, trovare il singolo colpevole, fare il gioco delle responsabilità, prodursi in sofisticate inquisizioni del giorno dopo? O meglio, a chi serve? Quando gli studenti occupavano il tempo della notte in quei luoghi sempre più abbandonati per restituire un significato al loro lavoro, per dargli un nome, per riconoscerlo, le voci da fuori – dalla città, dall’Italia – e da dentro – le istituzioni universitarie – si alzavano a difendere la grande Riforma, come necessaria e richiesta dalle circostanze: “È l’Europa che ce lo chiede!”. Agli studenti rimaneva solamente un pugnetto di contestazioni, briciole di dipartimenti che lentamente chiudevano le porte e spezzavano le chiavi, denunce per aver ripitturato, polizia, mozziconi di carote lanciate con rabbia, e compatimenti per quei giochi da ragazzini che sono stati fatti rimanere tali: fuori dal mondo degli adulti, dentro i dipartimenti. Il varietà dell’Università, dove c’è un po’ di tutto, ha imposto alla fine la sua scaletta dei tempi: si compa-

re, si sorride, si accetta la valutazione, magari bestemmiando alle spalle di un giudizio ingiusto, e si va fuori, nel mondo. La meritocrazia di chi se la può permettere, insomma, che ha affidato alle passanti il diritto di non sentirsi parte di ciò che sta dietro alla pendenza dell’università: una miseria. Ecco dove siamo approdati, qui purtroppo finiscono le metafore; e non si tratta solo di inveire contro l’Università, o di scorrere bilanci sempre più poveri, ma di fare i conti con urgenze reali, di atenei reali, come la chiusura dell’edificio di italianistica in via dell’Università 1, troppo costoso da mantenere e ancora invenduto, rudere rimasto a rappresentare la beffarda doppia perdita di un guadagno e di uno spazio: un edificio che era parte del dentro e che ora è diventato un rudere del fuori; e ancora: la sede di psicologia e le numerose aule sprecate; l’impoverimento dell’offerta didattica, un percorso sempre più scarno e didascalico che nel concreto si traduce nella chiusura di corsi di laurea e di studio, rimpiazzati da rattoppi

con nomi lunghi per mascherare la brevità dei percorsi (e ci riferiamo nello specifico all’attivazione in numero crescente di corsi di laurea interateneo, disorganici e mal concepiti); la chiusura dei lettorati, poi ripristinati ma in versione parziale, in una falsa dialettica del taglio – cedo, e riconcedo a metà; e infine gli accorpamenti brutali privi di prospettiva di intere facoltà, con lo scopo di risparmiare denaro e qualità. Questo è lo scenario. Non è abbastanza appellarsi con generiche accuse alla scarsità di risorse, anche se da qui non si può non partire. Il ministero, le istituzioni, i governi portano indubbiamente le loro responsabilità fatte di errori, grossolanerie, arroganze. Ma c’è dell’altro, più invisibile, più diffuso, meno facile da individuare, che non si fa ingabbiare nella psicologia degli intenti. Il precipitarsi tumultuoso di nodi e contraddizioni irrisolte sfugge alla colpa del singolo. Piuttosto, è in gioco un campo di forze, di discorsi, di potenziali che domina le volontà, e le costringe all’impotenza, se non

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all’indifferenza. Scacco per scacco, finché non butteremo all’aria la scacchiera e la colpa sarà nostra: allora questo meccanismo sarà legittimato a intervenire per quietarci. Tuttavia non siamo di fronte a una distopia orwelliana: c’è qualcuno che impone; c’è qualcuno che asseconda l’imposizione: le passanti, che non sono solo studenti, ma anche direttori, amministratori, professori, tecnici, si sono accontentati di quello che era rimasto, si sono sentiti dei sopravvissuti; nient’altro che uno scongiuro collettivo della miseria. “Siamo salvi” è una frase che non conteggia mai i caduti. Allora che peso dovremmo dare alla cancellazione dell’ennesima cattedra? Che sia Estetica (l’ultima in ordine di tempo), Filosofia del Novecento o un lettorato di francese, per l’istituzione si tratta di voci di bilancio da depennare, raffazzonare, rimodulare, un’altra piccola manciata di terreno che viene sottratta, finché ci ritroveremo dentro e fuori, sospesi nel vuoto.


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