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Numero 19 - Settembre/Ottobre 2014

Trent’anni dopo di Stefano Tieri “Il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa”. Il ministero della Verità (rigorosamente con la V maiuscola) penserà anche per te cosa è vero e cosa non lo è: non dovrai più fare alcuna fatica. Il Partito sostiene che l’Eurasia non è mai stata in guerra con l’Oceania? Tu, caro Smith, puoi anche ricordare il passato diversamente, ma ciò non ha alcuna importanza: “se tutti i documenti raccontano la stessa favola, ecco che la menzogna diventa un fatto storico, quindi vera”. E poi, mio caro Smith, chi mai credi di essere tu? “Tu sei fuori dalla storia, tu non esisti”. La guerra viene utilizzata dai governanti delle tre superpotenze mondiali (Eurasia, Oceania, Estasia) come strumento per indebolire e distrarre le proprie popolazioni: “è un modo per mandare in frantumi, scaraventare nell’atmosfera, affrondare negli abissi marini, materiali che altrimenti potrebbero essere usati per rendere le masse troppo agiate e, a lungo andare, troppo intelligenti”. Al fine di esercitare il controllo necessario a evitare ogni forma di rivolta sociale, è stato sufficiente avvalersi dei teleschermi e della psicopolizia. Quanto ai primi, è bastato metterne uno in ogni casa e lasciarlo perennemente acceso per coglierne gli effetti benefici. Ci abbiamo installato anche una telecamera all’interno, in modo tale da catturare il più piccolo spostamento (le telecamere ti accompagnano anche lungo le strade della città, come sai bene) e poter, infine, prevedere ogni tua mossa. E non credere di essere al sicuro quando, in silenzio, provi a far funzionare quel rottame arrugginito che ti

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ritrovi in testa: la psicopolizia conosce anche i tuoi pensieri più reconditi. Caro Smith, perché ti guardi attorno con tanta apprensione? Tutto questo è soltanto un romanzo, tu sei solo un personaggio (come ti dicevo prima: “non esisti”), pura finzione: noi non siamo in guerra ma, semmai, in “missione di pace”; noi non vogliamo che i cittadini pensino con la testa di qualcun altro ma, appena possibile, tagliamo su cultura e istruzione; noi le telecamere le mettiamo ovunque ma – ricordalo – soltanto per la tua sicurezza; e se ripetiamo giorno dopo giorno la Verità che costruiamo con tanta fatica, è perchè il conoscerla e condividerla è per tutti il Bene più auspicabile. Perché noi ti conosciamo, Smith, sappiamo tutto di te. Ricordi? Le informazioni ce le hai date tu stesso, con il tuo consenso. A cosa serve la psicopolizia ai tempi dei social network?

In questo numero

Sorveglianza di massa pag. 2

George Orwell La lingua e il potere pag. 3

Il Papa Rosso pagg. 14 - 15


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Sorveglianza di massa

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ogliamo che l’era digitale sia l’alba dell’emancipazione individuale e delle libertà politiche, resa possibile dalle inedite potenzialità di internet, oppure siamo disposti ad accettare un sistema di monitoraggio onnipervasivo che neppure i più sadici tiranni del passato avrebbero osato immaginare?” Questa la domanda provocatoria che il premio Pulitzer 2014 Glenn Greenwald1 si pone nell’introduzione al suo libro No place to hide – sotto controllo Edward Snowden e la sorveglianza di massa (Rizzoli 2014). Questo libro, leggibile d’un fiato come un romanzo di LeCarré, raccoglie principalmente la storia di come il giornalista americano sia entrato in contatto con Edward Snowden, ex dipendente della CIA e dell’NSA e di come grazie a questo lavoro giornalistico siano emerse all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale le metodologie che l’agenzia statunitense di sicurezza, l’NSA, ha adottato per sorvegliare in maniera sistematica e continuativa numerosi obiettivi2 , sospetti, cittadini, aziende, paesi stranieri e cavi di telecomunicazioni sottomarini. Ma questo libro non è soltanto una critica all’amministrazione o alla politica degli ultimi anni, infatti può essere letto anche come una potente critica al sistema americano (e mondiale) dell’informazione, piegato a logiche di potere: Washington Post e New York Times in particolare vengono accusati di essere troppo sensibili al potere politico e di portare avanti un giornalismo “ossequioso e venato di timore”, come, per esempio, aver evitato di usare la parola ‘tortura’ per descrivere certi interrogatori del periodo di Bush. Facendo un balzo in avanti ad oggi Greenwald, dopo aver pubblicato numerosi articoli su questa storia sul quotidiano Guardian, ha costituito il suo giornale on line, in modo da poter continuare liberamente la sua attività giornalistica3 . Il primo capitolo, come un libro di spionaggio, descrive il rocambolesco contatto tra l’informatore e il giornalista attraverso email, programmi di cifratura e molto sospetto tra i due.

di Tommaso Tercovich Il secondo capitolo racconta dei dieci giorni che Greewald passò a Honk Kong per incontrarsi, discutere, scrivere con Snowden, che si era rifugiato lì per paura delle autorità, ma era deciso a svelare all’opinione pubblica tutto ciò che sapeva. Sono descritte e spiegate anche le azioni dell’amministrazione Obama che, come dice lo stesso Snowden, non solo sta proseguendo la linea del predecessore Bush sullo spionaggio, ma “in molti casi aveva anche peggiorato le cose”. Le accuse mosse da Snowden e dal giornalista sono chiare: Obama si era impegnato nella campagna elettorale a proteggere gli informatori e invece li stava perseguitando ai sensi dell’Espionage act per reprimere il dissenso. Uno dei primi scoop frutto della collaborazione tra la “talpa” e il giornalista è una ordinanza segreta della FISA, un tribunale (regolato da una norma approvata da democratici e repubblicani ai tempi di Bush) che autorizzava l’NSA a intercettare tabulati telefonici di milioni di americani clienti Verizon, uno dei principali fornitori americani di servizi telefonici. Il programma che ordinava queste operazioni di spionaggio su vasta scala si chiama PRISM e ha permesso all’agenzia americana di intercettare i dati di clienti Apple, Facebook e Google. Il terzo capitolo descrive nel dettaglio tutti i numerosi progetti di sorveglianza e qui si scopre che non è solo una questione che riguarda gli statunitensi o i “terroristi”: “i documenti non lasciavano dubbi a riguardo: la NSA si occupa anche di spionaggio economico e diplomatico, nonché di attività di sorveglianza rivolte a intere popolazioni, e quindi non dettate da sospetti circostanziati”. Vengono elencati molti dei programmi dell’NSA scoperti attraverso documenti riservati trafugati da Snowden. Il quarto capitolo titolato “il male della sorveglianza” è una analisi dei motivi che hanno spinto il governo americano a violare la privacy di molti cittadini sottoponendoli a controlli su larga scala. Questo capitolo è molto duro specialmente nei confronti di coloro che si dicono favorevoli alla raccolta indiscriminata dei dati. Il giornalista, sostenendo che la privacy è una condizione fondamentale dell’essere persone libere, smonta la tesi di chi

ritiene che la sorveglianza sia mirata solo verso chi abbia qualcosa da nascondere. Ritiene che, viceversa, sia usata dal governo statunitense per controllare e reprimere il dissenso specialmente interno e controllare quello all’esterno del suolo americano. Nel libro viene smentita la tesi secondo cui la tecnica illegale di raccogliere questi dati sia servita a fermare attacchi terroristici: lo dimostra il caso di Boston del 2013. E in Italia che effetto hanno avuto queste rivelazioni? Con il governo Letta4 la questione del cosiddetto “scandalo Datagate”, provocato dalle rivelazioni di Snowden, non ha prodotto risultati se non morbide dichiarazioni in parlamento. Neanche il governo Renzi5 ha cambiato questa linea nonostante lo spionaggio abbia interessato anche il Centro Internazionale di Fisica Teorica (Icpt) di Trieste6 ! In questi mesi, tra crisi internazionali e paure di estremisti vestiti di nero, è passato decisamente in secondo piano questo squarcio sull’attività di spionaggio a danno dei cittadini del mondo perpetrato, con il favore e la complicità di molti governi europei, dal governo statunitense. NOTE 1 Si legga l’interessante intervista a Greenwald pubblicata da L’Espresso il 26 maggio del 2014. 2 Per un approfondimento, specie riguardo ai nomi dei progetti dell’NSA e per una breve introduzione allo scandalo, si legga anche “Edward Snowden, PRISM e Datagate, le cose da sapere” a cura di Luigi Gavazzi sul sito di Panorama. 3 https://firstlook.org/theintercept/ 4 Si legga l’articolo de Internzionale titolato “Cosa ha detto Letta alla camera sul caso Datagate” del 20 novembre 2013. 5 Come spiega il blog del Messaggero di Fabio Chiusi che titola “Renzi, sul Datagate è ora di cambiare verso” il 3 maggio scorso. 6 Stefania Maurizi su L’Espresso del 9 maggio 2014: “Nsa, spiato un centro di ricerca a Trieste. Ma il silenzio del governo continua”


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George Orwell, la lingua e il potere

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onfrontarsi oggi con George Orwell e con i suoi scritti (non solo quelli più famosi come Animal Farm e Nineteen Eighty-Four, i quali spesso si citano in modo confuso e senza averli letti) è un esercizio salutare: sono poche infatti le figure dotate di una carica di inattualità che le rende sempre contemporanee, in grado di porre delle domande profonde anche agli smaliziati lettori del XXI secolo: lo scrittore inglese – all’anagrafe Eric Arthur Blair, scomparso a causa della tubercolosi nel 1950 a quarantasette anni – rientra senz’altro in questo ristretto novero. Inattuale Orwell lo fu già in vita, sia per le sue posizioni politiche che per le sue scelte estetiche (due dimensioni che in lui, peraltro, viaggiavano parallele), e lo rimase anche in seguito: perfino un lettore acuto come Italo Calvino nel 1951 aveva definito l’inglese “un libellista di second’ordine”, salvo riconoscere trent’anni dopo come il fatto che “si sia tardato ad ascoltarlo e comprenderlo non fa che provare quant’era in avanti rispetto alla coscienza dei tempi”. Uno degli spunti che rivestono maggior interesse, per noi contemporanei, nell’opera orwelliana è senza dubbio l’attenzione alla lingua, ai suoi usi e alle sue manipolazioni: si tratta di un filo rosso che si ritrova in tutti i suoi romanzi maggiori e che permea anche la sua produzione saggistica. Basti pensare alla continua riscrittura dei comandamenti che governano la fattoria da parte dei maiali in Animal Farm, oppure all’esempio lampante della ‘neolingua’ ipotizzata in Nineteen Eighty-Four, la cui appendice dedicata ai principî di questo linguaggio si chiude con queste parole: “l’adozione integrale della neolingua era stata fissata solo per il 2050”. In queste pagine Orwell ci dice che chi controlla la lingua controlla anche la storia e può raccontarla, manipolarla e riscriverla a suo piacimento: “soppiantata una volta per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame col passato sarebbe stato reciso”. Non è un caso se per tutti i regimi totalitari del ventesimo secolo – quelli dalla cui co-

noscenza lo scrittore inglese prese spunto per i suoi libri – una preoccupazione centrale fosse il controllo del linguaggio (per un primo approccio a questo tema resta fondamentale il volume di Enzo Golino, Parola di Duce, BUR 2010). E anche oggi, i modi in cui la realtà – sia lontana (guerre, epidemie, fenomeni migratori) che vicina (dibattiti politici, cronaca) – ci viene raccontata influenzano il nostro pensiero e il nostro sguardo. E spesso questi racconti sono farciti di pregiudizi e volutamente poco chiari. Leggendo oltre le righe del racconto distopico, volutamente estremo, narrato da Orwell in Nineteen Eighty-Four, ciò che mantiene un’immutata forza e attualità è la diagnosi – spinta al limite con la descrizione del funzionamento della ‘neolingua’ – di un progressivo impoverimento del lessico che abitualmente adoperiamo. Abbiamo parole che ci consentono di esprimere precisamente tutte (o quasi) le cose o i concetti, ma ne usiamo sempre meno, non curandoci di questa perdita progressiva. Per non parlare del continuo ricorso, nella quotidianità, a parole ed espressioni di stampo anglosassone che vengono utilizzate anche laddove non servono (si pensi all’onnipresente spending review), soltanto per darsi un tono – oppure, se vogliamo essere più maliziosi, per non far capire di che cosa si stia realmente parlando. È questo, forse, l’orizzonte che lo scrittore inglese intravedeva da lì a cent’anni (Nineteen Eighty-Four, lo ricordiamo, fu scritto nel 1948), e che salda assieme le sue preoccupazioni di letterato e di attivista politico. In quest’ottica le osservazioni contenute nel saggio del 1946 La politica e la lingua inglese (nel quale Orwell tra le alte cose afferma che “l’attuale caos politico è collegato alla decadenza della lingua, e [...] forse si può apportare qualche miglioramento cominciando dall’aspetto verbale”) ci appaiono stupefacenti quanto a lucidità e perspicacia. Inoltre, il discorso che viene sviluppato in queste pagine è valido anche in contesti linguistici differenti, e oggi lo è sempre di più. Basta citare uno degli

di Daniele Lettig esempi di “trucchi per mezzo dei quali ci si scansa [...] la fatica di costruire prosa”, riportato dall’autore: “c’è un’enorme quantità di metafore consunte che hanno ormai perso ogni potere evocativo e sono usate semplicemente perché risparmiano il fastidio di inventarsi delle proprie espressioni. Esempi di queste sono: introdurre variazioni su, assumere le difese di, mettersi in linea, calpestare i sentimenti altrui, stare fianco a fianco, fare il gioco di, portare acqua al proprio mulino, tutto fa brodo, pescare nel torbido, all’ordine del giorno, tallone d’Achille, canto del cigno, focolaio”. Sono tutte espressioni, come si vede, che lo scrittore vedeva già prive di forza settant’anni fa, ma che dominano anche oggi il panorama del linguaggio politico e di quello dei media. Partendo da questioni di stile, Orwell giunge ad affrontare il tema ben più serio dell’autonomia intellettuale del singolo, e ci dimostra ancora una volta come il nesso tra chiarezza della comunicazione, onestà intellettuale e verità sia inestricabile, come testimonia alla perfezione un brano di questo tenore: “Dei villaggi indifesi sono bombardati, gli abitanti sono trasferiti nelle campagne, il bestiame è mitragliato, i rifugi bruciati con pallottole incendiarie: questa la chiamano pacificazione. Milioni di contadini sono rapinati delle loro fattorie e buttati per strada con nient’altro di quello che possono portarsi sulle spalle: questo si chiama trasferimento delle popolazioni o rettifica delle frontiere. La gente è imprigionata per anni senza processo o viene uccisa con uno sparo alla nuca o mandata a morire di scorbuto nei campi di lavoro artici: questa è detta eliminazione degli elementi indesiderabili”. Il continuo monito ad osservare una ‘ecologia del linguaggio’, la quale costituisce senz’altro il mezzo principale per un pensare che tenti – nei limiti del possibile – di liberarsi da pregiudizi, è dunque quanto di più attuale ci lascia l’inattuale Orwell: un insegnamento da tenere bene a mente, che ci costringe a una continua, caparbia interrogazione.

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Bhopal

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anno 1984, prima ancora che a Orwell, mi fa pensare a Bhopal. Di sicuro perché subisco una certa fascinazione per gli eventi traumatici che costellano la storia, per un senso di fratellanza e di solidarietà verso quei tanti anonimi che subiscono tali eventi; qualcosa del tipo “Come stai, cosa è successo?”. Bhopal però porta in sé anche notevoli implicazioni politiche, perché quello che viene definito come il più grave incidente industriale di tutti i tempi mi appare come una sorta di archetipo, spaventoso e assurdo, di tutti gli incidenti di questo genere. La Union Carbide, colosso americano della chimica, che negli anni ‘70 decise di costruire una fabbrica per la produzione di pesticidi in India, poteva apparire come un’azienda “illuminata”, animata non solo dal mero tornaconto, ma anche dalla convinzione di poter contribuire davvero a un “progresso umano”. Il pesticida Sevin, prodotto di punta della UC, avrebbe forse potuto davvero aiutare i contadini indiani a salvare le proprie coltivazioni, flagellate da ogni tipo di insetto. E la fabbrica portò di certo molto lavoro, in un paese in cui la povertà è un problema enorme. Ma tra le carte in tavola ce n’è sempre qualcuna che non si può prendere. Oltre che con gli insetti, i contadini indiani avevano a che fare anche con tremende siccità e alluvioni monsonici – cose contro cui la UC non poteva nulla. Per questo le vendite di Sevin non raggiunsero mai i livelli sperati, e nel 1984 l’azienda mise da parte gli ideali

per agire come ogni attività economica in difficoltà: per prima cosa bisogna tagliare i costi. Nella fabbrica di Bhopal dirigenti e operai specializzati vennero sostituiti con personale generico, i costi di manutenzione furono drasticamente dimezzati, e la produzione a ciclo continuo fu interrotta. Perché la UC produceva a ciclo continuo? Uno degli “ingredienti” del Sevin era l’isocianato di metile, detto MIC, un composto chimico altamente instabile (va in ebollizione a 40° C, e reagisce alle minime impurità) e terribilmente letale. È talmente pericoloso che la UC stabilì per regolamento che non doveva per nessuna ragione essere immagazzinato, ma subito impiegato nel processo di produzione del Sevin. Invece, all’inizio del dicembre ‘84, in uno dei serbatoi di stoccaggio della UC di Bhopal, c’erano almeno 40 (quaranta!) tonnellate di MIC. Senza contare che l’impianto di refrigerazione del serbatoio era stato spento. Non male per una società il cui motto era Safety first. Durante il turno di notte alla UC tra il 2 e il 3 dicembre, qualcosa durante un ordinario intervento di manutenzione andò storto: grandi quantità di acqua, utilizzata per la pulizia dei tubi dell’impianto, finirono per sbaglio nella vasca del MIC, provocando una spaventosa reazione. Ma gli allarmi dell’impianto erano fuori uso, per cui gli addetti si accorsero troppo tardi della fuga di gas – e comunque non avrebbero potuto fare granché: anche i sistemi di sicurezza erano «in manutenzione» e tutto ciò che poteva bloccare la fuga non

di Giuseppe Nava funzionò. Un’enorme nube fuoriuscì dalla ciminiera della UC e, più pesante dell’aria, fu spinta dal vento verso i quartieri nord di Bhopal – dove, guarda che strano il destino, si concentrano le bidonville e le zone più povere. Quello che accadde poi è difficile da immaginare. Possiamo provarci elencando gli effetti conosciuti del MIC e del fosgene, altro gas che componeva la terribile nube: questi gas agiscono soprattutto sull’apparato respiratorio, e portano chi li inala – anche in minime quantità – a morire soffocato dai propri umori, tra terribili spasmi e conati. Per chi non muore subito, gli effetti a lungo termine comprendono danni permanenti alla cornea, congiuntiviti croniche, bronchiti croniche, fibrosi polmonare, tubercolosi, danni all’apparato neurologico (che si traducono per esempio in problemi di memoria o di coordinamento dei movimenti), danni all’apparato riproduttore femminile, tumori, degenerazioni genetiche. Nessuno ha mai saputo calcolare con certezza le vittime di questo disastro. Le stime parlano di 3000 morti nella sola notte dell’incidente, altri 8000 nelle settimane successive, migliaia di migliaia negli anni seguenti. Altri dettagli aggiungono assurdità ad assurdità: anche di fronte a ospedali pieni di persone agonizzanti, la UC si rifiutò di dichiarare da cosa fosse composta la nube tossica, per cui i medici non poterono utilizzare degli antidoti adeguati. Warren Anderson, CEO della Union Carbide, volò a Bhopal, venne arrestato (!), poi rilasciato su cauzione, quindi riprese l’aereo per New York e non tornò mai più India, dove pende su di lui una condanna per omicidio colposo. Nel 1989 la UC raggiunse un accordo con le autorità indiane per risarcire 470 milioni di dollari – a fronte di una richiesta di almeno 3 miliardi. Una storia già sentita, dalla Thyssen al Vajont, in luoghi diversi e su scale diverse ma con alla base sempre la stessa idiota superficialità, spinta da una necessità economica che si fa legge superiore. Una storia già sentita ma che bisogna ricordare e raccontare ancora, come tutte le altre, di fronte ai moloch dal volto falso con cui ci tocca convivere.


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Punk Islam und Islam Punk

di Lorenzo Natural

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nno di grazia 1984. In Italia esce uno degli EP più rivoluzionari della musica europea: Ortodossia, prima opera dei CCCP – Fedeli alla linea, gruppo punk filosovietico, come si autodefiniva, ma che da subito – alla faccia dei fans delusi dal cosiddetto tradimento del loro simulacro, il leader Giovanni Lindo Ferretti, reo di aver abbracciato il cattolicesimo e di essersi spostato un po’ troppo a destra – faceva presagire un orizzonte molto più vasto di una mera prospettiva politica: quel “Fedeli alla linea, anche quando la linea non c’è” che apre la canzone eponima CCCP. C’è un pezzo in questo mini album che non appena lo si ascolta entra in testa e non ne esce più. Questo pezzo si chiama Punk Islam. Punk Islam, Punk Islam, Punk Islam und Islam Punk Islam Punk, Islam Punk, Islam Punk und Punk Islam. Tanz Tanz. Sonorità orientalizzanti, retroterra teutonico, linguaggio italiano. Nel live del 1988 andato in onda sul programma D.O.C. della Rai (mala tempora currunt!), Ferretti apre con un “omaggio di un gruppo di punk italiani al mondo islamico tutto”: Io non adoro quello che voi adorate, né voi adorate quello che io adoro. Io non venero quello che voi venerare, né voi venerate quello che io venero. Un’apertura a un nuovo orizzonte: dopo l’altra parte del muro, i CCCP vogliono spostarsi ancora più a oriente, alla ricerca di un’Est-etica che proponga nuove sensazioni, nuovi limiti, nuovo pathos in un’Europa sull’orlo del tracollo, tranciata in due dalla nuova cultura del benessere e dalla droga. Wir sind die Türken von morgen. Noi saremo i turchi di domani: forse il verso più profetico del testo. E di verso, nella sua accezione sacra,

bisogna parlare, perché Ferretti e i CCCP non cantano, ma recitano, recitano versi, emozioni, preghiere. Invece di pensare continua a salmodiare. Islam Punk, Islam Punk, Islam Punk und Punk Islam. Rottura di ogni connessione logica e razionale per cedersi al ritmo. Ecco che cosa rappresenta Punk Islam. E ancora citazioni bibliche, la volontà di perdersi prima a Istanbul e poi alla ricerca di sé. A Istanbul ci si sente a casa, con un passato, un futuro e un presente che è Dio, e fa la cameriera. Istanbul Tanz. Boom. Istanbul Tanz. Boom. Istanbul Tanz, Tanz, Tanz. Tanz Istanbul. Boom. Tanz Istanbul. Boom. Istanbul Tanz... Istanbul Taaanz. AAAAAAAnkara. ALLAH È GRANDE E GHEDDAFI È IL SUO PROFETA! A squarciagola. Seconda grande profezia dei CCCP. Ormai il salmodiare si fonde col ritmo martellante della batteria: Tanz. Tanz Punk dappertutto. Non più, non qui. Magari avessimo noi la vera fame dei

Turchi di ieri. Magari il Tanz rimbombasse pure a casa nostra. No, a fare Tanz qui è Pitbull. E il nostro altro qual è? La nostra etica? La nostra epica? La nostra estetica? Il nostro pathos? Non sta qui, non sta a Reggio Emilia, non sta a Berlino, non sta a Istanbul, non sta a Beirut, né a Smirne, tanto meno ad Ankara. Forse non sta da nessuna parte. O forse è dietro di noi, nel nostro passato. O forse ancora, è dentro e soprattutto sopra di noi. Un antico detto dei nativi americani sostiene che oggi le uniche scoperte che possiamo fare sono sotto (il mare), sopra (nel cielo e nello spazio) e dentro noi stessi. Da qui la ricerca spasmodica dei CCCP, e di Ferretti stesso, sotto, sopra e dentro di sé. 1984: Punk Islam. Il fantasma dei CCCP aleggia ancora, come nottola al crepuscolo, che ci ricorda che la fine è a un passo. Come sempre, però, dalla fine si rigenera tutto. Tanz. Tanz.

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Rettangoli

Ilaria Gramigna Policreti


Terza Pagina

inserto letterario

Scherzo (a G.) “Càpitano quando meno te l’aspetti” così dicevi un giorno quando Trieste non si pareva al nostro sguardo schietta e impietosa (come signorine dai tacchi alti che camminano senza far rumore e camuffano dietro un’eleganza lo sprezzo di una risata) e ogni sua via non era ancora un alveare di ricordi ma un sortilegio di illusioni e le nostre rime predilette erano azzurro e malinconia.

P96 - Zuppo, zoppo, zeppo di zeppe Proseguo il mio cammino sugli spigoli con modesti sandali nella vana attesa di essere riconosciuto, sotto questo cielo lacrimoso, come il tuo errore più clamoroso o la tua sfida più grande.

Danijel

Oggi però posso dirti questo: il guaio è che quando càpitano non ne capita una ma cinquanta e ben presto ti accorgi che piovono come grandine e non hai abbastanza ombrelli per ripararti, né le ombre dei palazzi invitano alla tregua ma soltanto, se è il caso, a celare una malizia dagli occhi di lupa che aspetta la notte la candida notte, la notte rapace per sfamarsi, e al mattino sarà appena un ticchettio di sveglia sarà come un fiato di polvere rumorosa che già ti affretti a spazzare giù dal davanzale.

A. da Baciocchi


Etologia sopra una zona di guerra di Giulio Blason e Piero Rosso

La strada, fiume in attesa della piena, ombre armate scivolano dai suoi affluenti. Hanno dita veloci e bocche discrete, ma il visore del cecchino, giovane maschio, non può saperlo: segue solamente qualche flutto furtivo, qualche testa che spuntando brilla come un pesce e poi si rituffa. Sembra di far la guerra alle onde, alle montagne. Dall’alto del suo nascondiglio sembra dire a quelli con le mani alzate: “sappiate che non mi è concesso graziare la vostra ignoranza”. Alcuni suoi colleghi si sono rincretiniti nelle grandi attese, credendosi emissari del Signore, sgozza-pecore; sostenevano che il cecchino è come il papa, conficcavano la parola divina direttamente nel cranio della gente, convinti che il loro dito fosse il nervo teso tra la volontà di dio e la morte. Si avvicinano delle grida, le accompagnano gli scoppi metallici dei tamburi: tonfi bassi e pesanti sostengono le urla affilate come lame del norcino. Eppure, per chi guarda da sopra, sono gli elementi silenziosi, rimossi, che attraggono maggiormente l’attenzione. Da ognuno dei balconi che circondano la città sporge un fucile, puntato come il becco di una gazza ladra, attratto dalle cose belle. Ogni giorno qualcuno di loro canta e ruba: c’è chi ha preso un pezzo di orecchio, chi un intero ginocchio, chi si è portato via persino un capobranco. Una donna dal velo turchese ha attirato l’attenzione del cecchino, la osserva spostare sacchi di sabbia, a testa bassa, per evitare i colpi; se qualcuno dei suoi vuole rubarle un pezzo di braccio, lui urla come se scacciasse i corvi. Finché il turchese si muove significa che niente è stato rubato. Fuori dalla visuale si avverte uno scoppio, per colpa del fumo c’è da riposizionare il visore, prendere del tempo per capire. Se allo stesso tempo la femmina urla per un motivo davvero inaspettato, come il morso viscido di una salamandra, ci vuole altro tempo per riposizionare, mettere a fuoco, farsi un’idea di quello che succede; troppo tardi per intimare agli altri di non sparare! capita di avere il colpo facile a stare così tanto seduti a combattere. Una salamandra si aggira impacciata tra le pozzanghere, si diceva, evita qualche piede, si inzacchera le zampe di sangue e lascia striscioline rosse con la coda, dipingendo centinaia di venuzze per terra. Passa accanto a un corpo, gira gli occhi, guarda le mosche che gli ronzano attorno, deglutisce: che doveva fare, mettersi a piangere?


Balcon del Mar Nel tempo si era affievolita in lui quella frenesia di viaggio, quella dirompente bramosia di mutamento. Adesso stringeva in mano il biglietto della corriera (7.535 colones) e guardava attraverso la fessura degli occhi – il sole lo aveva sorpreso dopo il cielo plumbeo degli ultimi giorni – quel mare calmo e verdastro. I cormorani sostavano sulle paline marcescenti, spiccando raramente e quieti il volo in larghi semicerchi per planare sull’acqua. La maglietta gli si stava incollando alla schiena. Pensava alla sera prima, a quanto già fosse distante dal “sé” di adesso: cinque ragazzi sulle sdraio nel piccolo e oscuro androne, quella moretta sedutagli accanto e la sua lascivia. L’aveva avuta pensando soltanto al dopo, allo stare finalmente solo, a letto, in attesa della sveglia pronta a scattare di lì a qualche ora. La cosa migliore che potesse fare era dimenticare il suo nome. Dimenticare che si stava muovendo, dove stesse andando, da dove venisse. Mentre gli era impossibile. C’erano a inchiodarlo quei due punti fermi: dov’era stato, dove doveva andare. In mezzo, soltanto quel fantoccio sballottato dagli eventi, quel suo corpo marionetta delle necessità. Lasciò il parapetto per fare quattro passi. La maglietta, smossa dalla brezza leggera, cercò di svincolare la chiazza di sudore facendogli attraversare la schiena da un brivido. Marcos lo accolse nel patio dell’ostello, sfogliava una rivista ciondolando sull’amaca. Parlava solo spagnolo, ci volle un po’ prima che lo lasciasse finalmente in pace nella sua camera dopo avergli introdotto quelle misere cose che aveva da dire. Buttò la valigia in un angolo, si spogliò e appese i vestiti ad asciugare. Nascose il portafoglio sotto il materasso, infilò le chiavi nella tasca del costume e uscì sullo sterrato della via. Il piccolo paese si stendeva per un paio di chilometri lungo la costa, perdendosi nella vegetazione che arrivava fino al mare. L’ostello era l’ultimo avamposto umano prima della foresta che, con i suoi rami, riusciva quasi a toccarne il tetto. Attraversò la spiaggia, si infilò nell’unica via che a L attraversava la cittadina, raggiunse una seconda spiaggia magnifica e solitaria e tornò indietro. «Quiero tomar una cerveza» «Imperial o Pilsen?»

«Imperial» Il barista si chiamava H., viveva lì da qualche anno, più o meno da quando un suo amico lo aveva chiamato per dirgli che gli serviva una mano e H., colta la palla al balzo, aveva lasciato la Spagna per trasferirsi lì. Viveva in una catapecchia sul terreno dell’ostello, Marcos gliela affittava per poco e lui non si lamentava. Lavorava, fumava, dormiva. Almeno finché i congos non venivano a saltare e urlare sul suo tetto. «Salud y pura vida!» I congos lo svegliarono alle 5 della mattina seguente. Le loro urla somigliavano a quelle di un essere umano in pericolo. Si affacciò alla finestra scrutando gli alberi senza vedere nulla. Tornò a dormire. Quando finalmente si svegliò il sole era già alto. Scese al primo piano e incontrò O. seduto sulla soglia della camera, la sigaretta in bocca. «Did you hear that scaring sounds this morning? What the hell was that? … like a ripped man!» «Yeeeees – replicò lui con la sua voce stridula – that shitty monkeys! Have you ever seen them? They are pretty cool!» e sghignazzò fissandolo. O., svizzero, in viaggio per qualche mese attraverso l’America latina, pieno di domande sul mondo, gran fumatore. Passarono belle serate assieme: lui, O., H. e chi altro passava per l’ostello. H. aveva l’abitudine di passare il confine ogni tre mesi tornando carico di rum o, come lo chiamavano loro, ron. O. tirava fuori uno spinello e fumavano e bevevano parlando della ragazza al Balcon del Mar, dell’Organico e delle loro vite. L’ultima sera aveva provveduto a prendere nel piccolo market del paese una bottiglia di vino quanto più possibile italiano. Una bottiglia senza pretese, dal costo assurdo, da affiancare ad altre quattro decisamente più popolari. «This is my last night here and I want all of you get drunk!» aveva sentenziato, ricevendo un discreto assenso fra gli astanti. Poi O., spostandosi, aveva urtato leggermente la bottiglia e quella, con altrettanta leggiadria, era rovinata a terra in mille pezzi. Schiamazzi, risate e bestemmie per lo più italiane erano saliti verso il cielo scuro e terso. Le stelle continuavano a bruciare e esplodere nella loro fusione, le onde ciondolavano lente sul mare lustro e impreziosito di rivoli argentini; sicuramente dall’altra parte del mondo qualcuno si svegliava, ora, con una limpida e fresca scintilla di vita negli occhi azzurri. Lì, il rosso del vino scivolava docile fra i piedi e le sedie, like blood, oscuro e primordiale.

Anonimo


Se io Se io t’amassi, scriverei dei tuoi occhi… non solo per una loro intrinseca bellezza, ma perché vedi il mondo in un modo tutto tuo; se io avessi perso la testa, ti regalerei una rosa… non lo farei per lodarti, ma per parlare alla tua mente bella; se io t’adorassi, ti cospargerei di complimenti… non li direi alta voce, ma li sussurrerei dentro di me dicendoti il contrario; se fossi confuso, ti parlerei d’amore… non vorrei essere uno dei tanti, mai ti direi frasi smielate per compiacerti. Ogni parola ha un potere, mia cara, e forse cascherò nelle tue dolci trappole… se potessi, griderei il tuo nome per la strada... anche se non è più di moda. Se io t’amassi, non sarei calmo… mi sveglierei di notte per scriverti una poesia… verrei a casa tua e ti bacerei. Ma io t’abbraccio e basta… ti cingo le spalle con affetto; se io avessi perso la testa, non te lo direi… per non farti fuggire via, per non farti impazzire; se io t’adorassi, ti cospargerei di attenzioni… non lodando solo le tue cosce belle, ma sapendo che tu tieni molto ai capelli te li accarezzerei; se fossi confuso, mi butterei il sale negli occhi… per non vederti più, ma sarei ugualmente accecato dall’amore. Io non ti amo infinitamente, ti voglio solo bene... un po’ di bene.

Solivagus Rima


1984 + 30

1984

Dialogo fra il Prof. Dott. Henry Walton Jones Junior e Stripe sulla morte di Vladimir Ivanoff H.W.J.J. - Che tu ci creda o no, ormai è morto... a 30 anni da quando tutti l’abbiamo conosciuto! Stripe - Chi? Gizmo cacca? H.W.J.J. - No. È deceduto alcune settimane fa il grande Vladimir Ivanoff, il celebre sassofonista circense russo che ha defezionato per vivere negli Stati Uniti. Stripe - Kiahahahah! H.W.J.J. - Questo non mi diverte affatto... anzi, sono molto dispiaciuto. Era un uomo dalle mille qualità. Quando viveva a Mosca, Vladimir doveva battersi ogni giorno con vari problemi legati al suo paese, come abitare in una casa di una sola stanza insieme a tutta la sua famiglia o dover fare i salti mortali per procurarsi la carta igienica. A New York, invece, era un uomo completamente diverso... era un uomo nuovo. Dopo essere sfuggito al KGB, si mise sotto la protezione della polizia americana e di tre suoi amici: un giovane di colore, una ragazza messicana e un avvocato. Vladimir ottenne la cittadinanza americana, ma ebbe sempre nostalgia della sua amata Russia. Anzi, fu sempre combattuto. Si trovò al centro fra due fuochi, al centro fra due paesi: la Russia e gli Stati Uniti, il vecchio e il nuovo, il noto e l’ignoto. Una sera, venne derubato da un paio di furfanti. Da quel momento, cominciò a porsi quesiti sul concetto di libertà, ad analizzare se stesso e quello che lo circondava. Davvero un uomo straordinario! In vita esordì con aforismi come: “Quando io ero in Russia, non amavo la mia vita. Però amavo la mia infelicità. E sai perché? Perché era la mia infelicità. Io la potevo toccare, la potevo accarezzare: io adoravo quella mia infelicità. In Russia io sapevo chi era il nemico. Qui è troppo confuso”. Egli purtroppo ora è morto. Stripe - Morire! Vladimir cacca! Uccidere se stesso lui... H.W.J.J. - Uccidere se stessi talvolta è inevitabile. Alcuni uomini si uccidono costantemente nel corso della loro vita, senza neppure rendersene conto, con le armi della quotidianità e della passività. Ma tanti uo-

mini possono, pur morendo, rimanere immortali nella storia... se compiono imprese colossali. Tutti, sotto sotto, ci sentiamo indifesi e vulnerabili nella nostra vita, a causa delle condizioni in cui siamo costretti a vivere. Ma spesso alcuni, invece di affrontare la cruda realtà, si creano illusioni. Tutto ciò sta alla base dell’origine del mito e delle religioni. Ricordo un piccolo villaggio in India nel quale capitai da giovane: credevano che fossi caduto dal cielo, come un dio, per salvarli! Il mio aereo era semplicemente precipitato. Recentemente ho letto su internet la frase: “Nessun rispetto per chi si suicida!”. Il suicidio è una libera scelta, è un grido disperato di chi forse ha raggiunto l’esasperazione o forse un sospiro di sollievo per chi non ce la fa più, un gesto per nulla criticabile, per nulla giudicabile. Del resto ci uccidiamo costantemente, “ubriachi di cognac”, come soldati in guerra. Ma per uccidersi ci vogliono le palle, non è per nulla facile! Un vigliacco non può uccidersi, un vigliacco non può farlo! Stripe - Kiahahahah! H.W.J.J. - Tu dovresti saperlo bene, piccola creatura! Che cosa? Tu dovresti conoscere la differenza fra bene e male. Tu e la tua razza che, durante la guerra, non facevate altro che sabotare gli aeroplani della Royal Air Force britannica con piccoli scherzetti ai motori dei velivoli. Sei il male! Ti è mai capitato di sentirti solo, anche se ti sembrava di avere molti vicino? Non credo... non provi nulla tu! Ricordo il mio stato catatonico, quando bevvi il sangue della dea Kalì nel Tempio Maledetto, e la liberazione dalla maledizione. La dea Kalì, quella terribile dea Madre. Stripe - Ahgr, Ahgr... uccidere madre? H.W.J.J. - La figura della Madre è per lo più divoratrice, terribile e malvagia, anche se in qualche modo ambivalente. È assieme creatrice e divoratrice, buona e perfida. Amore e odio di madre! In India mi sono ritrovato a scendere nel più profondo del mio inconscio, confrontandomi con la dea Madre, così diversa da mio padre, con il quale

di Solivagus Rima

srsolivagus@gmail.com

tutti o più o meno tutti sanno che ho un rapporto conflittuale. Con lei era diverso... così sono stato prigioniero del “materno” stritolante e divorante, fu come se ritornassi feto. In qualche modo mi è piaciuto! Ed è così che molti uomini si sentono prigionieri della vita: è quello che è successo a Vladimir... Stripe - Cacca! H.W.J.J. - Trent’anni fa sembrano pochi e invece è molto tempo fa... Come non ricordare quando al giovane Billy venne regalato dal padre per Natale un mogwai di nome Gizmo, un adorabile e piccolo animale. Il padre, un inventore, si recò fino ad un negozio di Chinatown per comprarlo. Solo tre regole per allevarlo: mai esporlo alla luce, mai farlo bagnare, mai nutrirlo dopo mezzanotte. Billy non seppe reggere la situazione, che presto degenerò! Tu, Stripe o “Ciuffo bianco”, il leader dei gremlins, facesti degenerare la situazione. Ricordo che, ad un certo punto, ti tuffasti in una piscina, facendo aumentare il numero di gremlins esponenzialmente. Voi, mostri, seminaste solo terrore e distruzione. Stripe - Kiahahahah! H.W.J.J. - Vladimir era un archeologo, come me! È questo effettivamente il reale compito dell’archeologia: trovare un significato complessivo, al di là del valore del singolo reperto, che non viene visto come un bottino! Parimenti è sbagliato dare un valore materiale alla vita, bisogna darle un significato... e Vladimir, più di ogni altro, ha saputo farlo. Prof. Dott. Henry Walton Jones Junior: archeologo famosissimo noto come Indiana Jones, interpretato da Harrison Ford. Film di riferimento: “Indiana Jones e il tempio maledetto” (1984). Stripe: leader cattivo dei gremlins. Film di riferimento: “Gremlins” (1984). Vladimir Ivanoff: sassofonista circense russo, interpretato da Robin Williams. Film di riferimento: “Mosca a New York” (1984).

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Giochi

I fantasmi della scacchiera Fisher-Spassky 1972

Le frasi celebri, quelle che rimangono impresse a suggestionare anche le più lucide rappresentazioni, di certo non mancano. Soprattutto in un gioco così complesso e conflittuale. Da Kasparov, il campione russo, che sosteneva che “il gioco degli scacchi è il più violento che esista”, al suo rivale Karpov che, nonostante la sua apparenza fredda e burocratica, si lasciava scappare frasi struggenti, ma inesorabilmente spietate: “negli scacchi c’è tutto: amore, odio, desiderio di sopraffazione, la violenza dell’intelligenza che è la più tagliente, l’annientamento dell’avversario senza proibizioni. Poterlo finire quando è già caduto, senza pietà, qualcosa di molto simile a quello che nella morale si chiama omicidio”. Gli scacchi come una minuziosa, calcolata agonia, che si impossessa della mente e che deborda continuamente il perimetro della scacchiera. Come quando si colora di significati politici, ad esempio nella sfida tra Fisher e Spassky durante la guerra fredda; o di significati apocalittici, quando Kasparov sfidò il computer Deep Blue al grido di “difenderò la razza umana”. E le citazioni potrebbero continuare, come se quel lento e noioso sviluppo di pezzi sulla scacchiera divenisse altro nella mente trasportata dal gioco. Quasi la vita. O persino la morte, dietro il continuo riferimento alla sua fine fatale, in una perfetta sinfonia che come ultima nota suona lo “scacco matto”. E anche in questo caso gli aneddoti sembrerebbero infiniti: scacchisti che si fanno consumare da una feroce passione per le 64 caselle, la pazzia, la paranoia, la fatica che sembra materializzarsi nei loro corpi esili e febbrili.

Morphy-Paulsen 1857

Ma forse si sbaglierebbe nel considerare gli scacchi come un semplice scontro psicologico, fatto di manovre che si nascondono allo sguardo dell’avversario, che lo sorprendono nel suo angolo buio mentre si popola di figure medievali. A guardare quello che un tempo era un

gioco considerato alla stregua dell’azzardo, inadatto a uomini d’onore, gli scacchi sembrano apparire oggi sotto un’insegna più professionale, come uno sport dove lo studio e l’allenamento la fanno da padrone, senza colpi di testa o violenze. Ugualmente animato, però, da istanti di follia: decisioni avventate o studiate che si mostrano ad esempio nel sacrificio di un pezzo, in vista di un vantaggio posizionale o della sequenza forzata che porterà allo scacco matto. Istanti in cui la follia appartiene ad un’altra realtà, al di là di ogni riduzione psicologica, ed è “giocata” dalla disposizione dei pezzi, più che dal giocatore. Qualcosa di diverso dalle storiche analisi di Reuben Fine, giocatore di scacchi di altissimo livello e psicanalista, che dedicò molti saggi all’analisi della psicologia dello scacchista, nel tentativo di spiegare le manie di persecuzione di Paul Morphy o le paranoie di Bobby Fisher. È come se esistesse un carattere folle degli scacchi stessi, un rovescio fantasmagorico che corre parallelo alla razionalità delle aperture, delle variazioni, delle strategie di gioco. Un mondo conflittuale e seducente, dove il tempo – sospeso nelle lunghe riflessioni – diviene un vincolo paradossale, ma distante, e il ticchettio dei secondi solo il sottofondo di una variazione che sembra perdersi nel vuoto delle infinite partite giocabili, uno spazio illimitato che solo in un secondo momento dovrà confrontarsi con la finitezza della durata di gioco.

Kasparov-Karpov 1990

C’è una purezza, o un’ambizione di purezza, che riempie i racconti sugli scacchi. Oltre la materialità dei pezzi, la loro consistenza, la postura dell’avversario, l’orologio che ne limita il tempo. Una leggerezza che non ha nulla a che fare con le biografie, con i premi o il successo, e che invece prende il gioco nei suoi movimenti ideali, solo immaginati sulla scacchiera. Nell’Arcangelo degli scacchi, scritto da Paolo Maurensig, il campione ottocentesco Paul Morphy confida: “Mi piaceva giocare alla cieca perché allora

di Davide Pittioni coglievo la vera essenza degli scacchi, la ‘musica del gioco’. Quelle statuine di legno erano di troppo”. Di troppo perché goffe, incapaci di pesare la leggerezza dei movimenti che dovevano rappresentare. Entità ideali che si fronteggiano, variazioni che tramano nell’ombra: movimenti che sembrano apparizioni di fantasmi, nello spazio che si forma tra la disposizione materiale dei pezzi e i ragionamenti sulla mossa da compiere. In effetti, se il calcolo è il motore instancabile della partita, c’è qualcosa d’altro che ne indirizza lo sviluppo. Non a caso Kasparov sosteneva che “il maestro di scacchi non cerca la mossa migliore: la vede”. Una visione improvvisa che andrà poi calcolata, studiata, sminuzzata. Ma per sempre una visione “alla cieca”, che incontra i fantasmi che si materializzano negli interstizi delle posizioni, in quella tensione conflittuale che racchiude la partita, rendendola unica.

Fisher-Panno 1970

Come scriveva Derrida “lo spettro è tutto fuorché incorporeo o semplice apparenza”. È un invisibile che prende corpo, che si nasconde dietro maschere e veli. Come negli scacchi dietro le figure di un re, di una regina o di un cavallo, con i loro movimenti rigidi, si nascondono posizioni e possibilità praticamente infinite. Fantasmi che covano nella scacchiera finché non trovano dei varchi per fuoriuscirne. Nella Difesa di Luzin di Nabokov è la collisione di due mondi: quello reale, della vita di Luzin, e quello immaginario della scacchiera. Mondi che finiscono per sfumare nella pazzia del protagonista, nella lucida coscienza di una variazione inarrestabile, che non può che portare a “quel genere di eternità che si parava, accogliente e inesorabile, davanti a lui”. E allora quel conflitto da cui tutto prende corpo, quel faccia a faccia che si popola di una moltitudine di figure e che si conclude solo apparentemente con l’ultima mossa, riprende di nuovo il suo corso. Come in una interminabile partita contro il tempo, in un’impossibile ricerca della mossa perfetta.


Psicoanalisi

La (non) evaporazione di Massimo Recalcati C’è da dire, tuttavia, che il passo tra spiegazione chiarificatrice e dirottamento (per non dire utilizzo, nel senso negativo del termine) del pensiero lacaniano, è piuttosto breve. Il povero Jacques è passato, nel giro di una manciata di anni, dalle biblioteche impolverate di qualche esperto del settore, alle luccicanti vetrine degli autogrill. Ora, com’è stato possibile questo passaggio? Cosa c’è nei libri di Recalcati di tanto forte da essere riuscito a levare le ragnatele di dosso a un pensiero contorto e difficilmente avvicinabile come quello di Lacan. In un tedioso pomeriggio di inizio aprile, quando il cielo plumbeo di Milano è ancora una cappa opaca e la primavera un miraggio lontano, decido di recarmi al Teatro Franco Parenti, dove è prevista una lectio magistralis di Massimo Recalcati come presentazione dello spettacolo Gli innamorati di Goldoni. Mi aspetto di trovare tre o quattro lacaniani ingrigiti, che attendono nel loro angolo l’avvento del maestro e invece, con somma sorpresa, assisto a una ressa di gente che sgomita per farsi spazio in una sala strapiena. Frotte di radical chic armate di taccuini che sbavano dinnanzi a un Recalcati che ha ormai sostituito il suo immancabile giubbotto di pelle con una giacchetta d’ordinanza accademica. Un Recalcati che, a conclusione di un intervento dove ha masticato e sputato addosso al suo pubblico adorante amori e perdoni, se ne va con un saluto a mani giunte che sembra un mix tra il congedo papale e la discesa dal palco di Vasco Rossi. Lui, filosofo e psicoanalista, che, approdato sulla scena culturale italiana verso la metà degli anni Novanta – dopo essersi formato a Parigi con niente meno che Jacques-Alain Miller (principale allievo e curatore testamentario di Jacques Lacan) – ha sottratto il pensiero lacaniano dalle alte sfere per portarlo tra i comuni mortali. E non soltanto l’ha reso fruibile da un punto di vista di notorietà e reperibilità, ma anche di semplificazione, di traduzione dell’ermetico flusso di coscienza lacaniano in parole più comunemente accessibili.

La chiave, credo, è il discorso del padre. Come diceva lo stesso Lacan nel Libro IV del suo Seminario, «l’interrogativo che cos’è il padre? viene posto al centro dell’esperienza analitica come eternamente non risolto, almeno per noi analisti». La figura del padre è, nel discorso lacaniano, di primaria importanza, e Recalcati lo sa bene. Il padre è colui che separa il figlio da un rapporto “fusionale” con la madre e, così facendo, crea in lui una spinta desiderativa e, con essa, la possibilità di una soggettivazione. Un padre, ci dice Lacan negli Scritti, «è colui che sa unire e non opporre il desiderio alla Legge», che attraverso la propria presenza (non necessariamente reale, ma sicuramente simbolica), crea le condizioni di possibilità del desiderio. Ora, quello che Recalcati tiene più di ogni altra cosa a sottolineare è “l’evaporazione” di questa figura paterna, l’irrimediabile tramonto edipico che coglie, strangola e avvolge i soggetti contemporanei. Che cosa resta del padre? (2011), Il Complesso di Telemaco (2013), Patria senza padri (2013), sono solo alcuni titoli dei recenti libri di Recalcati che raccolgono e raccontano il vuoto di un’eredità mancata e manchevole. Vuoto intorno al quale lo psicoanalista milanese ha sapientemente costruito la sua “tuttologia”. Si parte dalla politica, evaporata anch’essa in quanto ideale da perseguire, in quanto padre normativo. I partiti si frammentano, i leader non sono più leader e al desiderio si sostituisce il cieco godimento in stile berlusconiano. Le cose non vanno certo

di Francesca Ruina

meglio dentro le odierne mura domestiche: il padre non è più un pater familias detentore della Legge, ma colui che evita il più possibile lo scontro generazionale in virtù del quieto vivere. Smarrendo la propria autorità e il proprio ruolo normativo, il genitore non riesce più a trasmettere il desiderio, dando vita invece che a un figlio-Edipo, a un figlio-Narciso, a un Telemaco in vana attesa del ritorno del padre. Ma attenzione! Recalcati non ci lascia certo in balìa di un vuoto cosmico e assoluto, di una nausea sartriana che rigurgita libertà non volute. Ed è proprio questa la chiave del suo successo. Quale mossa più vincente che mostrare a un popolo esistenzialmente precario la sua precarietà, lasciarlo sguazzare un po’ nel suo vuoto ontologico, assumendo, in tal modo, un ruolo virgiliano nella guida agli inferi? Proprio nel dire il vuoto, Recalcati lo colma. E lo colma con quelle sbrodolate di buonismi di cui la gente pare avere tanto bisogno, forse nella speranza che bere un cocktail di redenzione ed espiazione faccia sparire quella manque-à-être che è invece, come ci insegna Lacan, qualcosa di costitutivo e originario. Vuoti e mancanze non vengono più assunti lacanianamente, come ciò che, solo, è in grado di aprire una dimensione desiderativa del e nel soggetto, ma come buchi da colmare. Si passa così dall’Elogio dell’inconscio (2007) all’Elogio del perdono nella vita amorosa (2014), si passa da una psicoanalisi che è anche e soprattutto uno strumento di indagine critica e politica – in senso lato – a una psicoanalisi che diventa strumento al servizio del potere. Una psicoanalisi che sembra staccare ricette, pillole di saggezza, il tutto accuratamente prescritto dall’unico “padre” che non è evaporato, e che non è evaporato proprio perché, millantando di scardinare autorità e identità, le ha ricreate. Così facendo Recalcati ha reso il pensiero lacaniano un servizio da autogrill, una chiacchiera heideggeriana, svuotandolo della sua forza provocatoria e anti-conservatrice e rendendolo un discorso al servizio del potere.

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Il Papa Teologia

rosso D

i cosa si parla quando si allude ad un papa marxista? Non di molto, evidentemente. Ma è proprio questo il punto. Nonostante in Italia la questione sia passata piuttosto in sordina, al di là dell’Atlantico la pubblicazione dell’ultima esortazione apostolica di Francesco, l’Evangelii gaudium, ha creato più di qualche mal di pancia negli ambienti del turbocapitalismo finanziario e fra gli amici americani del laissez-faire. Tanto da provocare la reazione indignata, tra gli altri, di Rush Limbaugh, celeberrimo e strapagato conduttore radiofonico statunitense, che ha definito il testo “marxismo puro” – oltre ad innumerevoli articoli come quello di Harry Binswanger su Forbes, intitolato “Top Ten Reasons Why Rush Limbaugh Is Right: The Pope’s Statement is Marxist”. Ma vediamo dunque di che cosa si tratta.L’Evangelii gaudium nasce tecnicamente in seguito alla XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, tenutasi nell’ottobre 2012, sul tema La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. La verità è che il tema dell’evangelizzazione appare quasi il pretesto per parlare di qualcos’altro. L’attività di evangelizzazione non può prescindere da un contesto sociale, ed ecco che allora la questione della giustizia sociale, di un’economia dell’inclusione, della dignità del lavoro, seguono, più o meno sottotraccia, tutto il testo. Dal primo capitolo (nn. 20-49), seppur con un accento

di Nicola Bocola prevalentemente missiologico, emerge già un interesse che va oltre la pura e semplice pratica pastorale: “occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri”, gli ultimi, gli oppressi e sfruttati dal sistema. Gli stessi, a cui il buon Marx si rivolge, per intenderci. A questo tema, è dedicato fondamentalmente l’intero capitolo seguente (nn. 52-109). 53. Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no” a un’economia dell’esclusione e della inequità”. […] Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si

vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori1. Ma individuare il problema non basta, la questione è anche - se non soprattutto – metodologica. A tal proposito, viene esplicitamente escluso un modello di sviluppo tanto caro ai neoliberali, come quello fondato sulla Trickle-down economics, in quanto […] le teorie della “ricaduta favorevole”, […] presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesca a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare2. L’aspetto, se vogliamo, metodologico viene ripreso nel quarto capitolo, dove si prospetta un impegno che […] non consiste esclusivamente in azi-


Teologia

oni o in programmi di promozione e assistenza […] ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro «considerandolo come un’unica cosa con se stesso»3. […] Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo4. […] I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della iniquità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’iniquità è la radice dei mali sociali5. L’alternativa è l’oblio, la fine definitiva della pace sociale. Non la rivoluzione, figlia di romantici tempi andati, ma la violenza distruttiva, fine a se stessa, senza senso. Quella dei cortei incappucciati, delle vetrine dei piccoli negozianti rotte, delle utilitarie date alle fiamme, delle bombe carta, dei lacrimogeni e delle cariche. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’iniquità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più po-

vere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno sempre un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Fintanto che la società – locale, nazionale o mondiale – seguiterà ad abbandonare nella periferia una parte di se stessa, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’iniquità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. […] La disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti6. Tornando alla questione iniziale, è fuor di dubbio che l’Evangelii gaudium abbia ben poco da spartire con il marxismo classico. D’altra parte però potrebbe essere vero che, come ha scritto Konrad Farner, «se il Cristianesimo si decidesse in modo inequivocabile in favore dell’azione, di un’azione globale, [...] allora un elemento importante della critica marxista alla religione verrebbe a cadere»7. Le due posizioni rimangono comunque difficilmente compatibili. Anche perché le prese di posizione di natura economica sopra sintetizzate rappresentano

solo una parte, e nemmeno la principale, dell’esortazione apostolica, e sono tradizionalmente parte integrante della dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Niente di nuovo sul fronte occidentale quindi, almeno dai tempi della Rerum Novarum, annata 1891. Possiamo solo concludere con una riflessione dolceamara: siamo giunti ad un tale livello di pensiero unico capitalista, che esprimere una qualsiasi riserva sull’attuale sistema economico-finanziario rappresenta automaticamente una presa di posizione che rende affiliati al più radicale marxismo-leninismo. Credo che tutto questo la dica lunga sulla qualità, la capacità e la “buona fede”, di molte analisi economico-scientifiche neo-liberali. Prendendo in prestito le parole di Pietro Nenni si potrebbe concludere dicendo che, se il “socialismo è portare avanti tutti quelli che sono nati indietro”, allora forse Rush Limbaugh e compagnia potrebbero al massimo tacciare il signor Bergoglio di peronismo, ma certamente non di marxismo. Dovranno accontentarsi. NOTE 1. Francesco (Jorge Mario Bergoglio), Evangelii gaudium. Esortazione apostolica.San Paolo Edizioni, p. 80 2. Ivi, p. 81 3. Ivi, p. 213 4. Ivi, pp. 217-218 5. Ivi, p. 216 6. Ivi, pp. 85-86 7. AA.VV. Cristianesimo e Marxismo. Arnoldo Mondadori Editore, p. 188.

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo Guardiamoci negli occhi, l’estate sta volgendo al termine. Il tepore del sole ormai è solo un ulteriore ostacolo all’affondare il mento nella pila di libri che occupa per intero la nostra scrivania. Esami sudati, stress psicofisico, ritorno di fiamma in aula studio: il binomio settembre-ottobre è malevolo per definizione. Io, per esempio, non so più dove andare a sbattere la testa. Ecco allora una lista di cinque dischi per ottenere un trauma cranico di qualità superiore, per sfogare un po’ di rabbia e azzannare virtualmente chi passa ancora i pomeriggi in riviera.

di nero, punto secondo. Niente metal per carità, punto terzo. Le Selvagge sono un concentrato travolgente di energia e l’emblema di quello che dovrebbe essere il post punk del nuovo millennio, fatto di sapienza musicale, tecnica che rasenta la perfezione (a qualunque livello, compresa la produzione) e capacità incredibile di trasmettere le proprie emozioni nei testi. Ma dimenticate i Joy Division, i Bauhaus e le radici del movimento anni ’80: il tornado Savages ha ambizioni nel presente e il primo capitolo della loro giovane carriera sembra già un lasciapassare per l’olimpo. Zitti tutti. Brani consigliati: Shut Up, I Am Here, Husbands.

EAGULLS – EAGULLS

Gli Eagulls spuntano fuori dal sempre florido sottobosco musicale inglese, in particolare da Bristol, città in cui fino a pochi mesi fa vivevano nel completo anonimato. Il successo che hanno avuto è stato esplosivo e meritato, complice l’uscita del primo omonimo disco, probabilmente il miglior lavoro punk–rock-e-affini di quest’anno. Da non perdere il video del primo estratto, Nerve Endings, che come protagonista vede il cervello di un maiale mentre marcisce: si poteva fare di peggio? Forse sì, visto che per filmare il secondo estratto sono stati arrestati durante le riprese. Animaleschi sul palco dove, nonostante i perenni parka verdi a protezione del torace, qualche costa devono essersela rotta. Brani consigliati: Nerve Endings, Possessed, Amber Veins.

METZ – METZ

Trio di Toronto sotto contratto con la Sub Pop Records (una garanzia nella scena alternativa da anni). La traccia di apertura del disco, Headache, dice tutto sull’album. Brodo primordiale assordante ma di grande qualità. Brani consigliati: Headache, Rats, Wet Blanket.

ICEAGE – YOU’RE NOTHING

Toglietevi immediatamente dalla testa la tenerissima immagine della tigre, del mammut e del bradipo dell’omonimo film d’animazione. Gli Iceage vengono da Copenaghen, dove può fare veramente freddo, ma, più che per l’affinità climatica, il nome del gruppo sembra essere stato scelto per indicare un salto indietro di qualche era (musicale), quando c’era quella cosa chiamata punk. Dopo l’eccellente

SAVAGES – SILENCE YOURSELF

Sono tutte donne, punto primo. Vestite

NUMERO VI

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2012

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CHAR TA SPO «Tende RCA discussi rà a rimette definitiv one tutto re a mi , ché in inco nsap in consape evolme rifiuto, nte sia volm form ente, a che queste di a ogn pac le Pasolin parole ificazion i e»: la poe i, che di Pier Pao scelto sia il cui introdu lo cono titol com periodic e nom o è e da stato o Sarà un acca questo per dem le eccefoglio ico. correzio ssive macchia ni, riscrittu to figlie re, ogni del dub cancell ature, bio che uom o anim a cosc iente: - siam tratteremo Charta da Cul o della ogn tura limiterenostra epo i aspe : l’Arte mo ad ca ma non tto pass non ha tem essa, poic ci grigio ato po tailleur hé è sapp da une qua ia leggpres lsiatutto in trappola uno ente si erve, ed èpergià tra capolino , la donna «presanos chi i politici fare loro cravatta volu l’ottica lo. Fareono dal nodo della y appaia: eccolovian tamnon ente si sottragg mo dante anacron strabica – l’uomo bloccato che Noam Chomsk fervore (gara a cui , apolide istic nelle sue giacche poltroncine blu, in attesa con maggior a, del nalità” – di per comode “istituzio Il pubblico strepita gara a chi acclama è seduto su riverenza – di istin to. e allora? - di i le mani, una siam fumo». Ognuno posto, l’alone d’Israele, certo... si, uno spellars in cui è stato Charta e delloo Stato cauna scrosciare d’applau che dice: la teca tina . Bas Uniti d’Ameri form venuguale» ). di tarda: resta a importante quello ia le violenze degli Stati locali presenti nelle un grup studenti fondo non è saputala, tutto po eter , che parla, ma in parole. Denunc saperla ma che, il titolo della pron idee e Infine Noam forza alle sue ogeyoutube su to non è tanto di toglie to, nei neo Italia cercando in a contro farlo anche principî potete cui è stato circonda importa: «il problem non za alle sue parole, stesso l’un l’alt a dars , ed importan La verità, tanto, foglio, i ro, delle per dare peso sull riascoltarlo d’inchio profond noncura o legacy”. perso, o se volete e its roots, our nte volgarizzando questo stro mac a tutto ciò, Se ve lo siete le g World Order: alla chegnare chie riempendo scon “The Emergin porteràcontenut i, tro conferenza: ze rivolte anche stutà, amtrai nostri di conferen pen pagine di pubblici che agli a nza, oltre ambiti del sapere. - vog spazio alle nostrene. nicamente sono cittadina liam dei più diversi dato miccando schizofre Sono sicuro Abbiamo ogn nostro sistema salvo i pila o spo rcarci La critiche al messa denti. lasciate né e a manca? ai margini; sulla tism gnate dalla il poli man o è le destra rete con noi era la stessa state accompa che ab- realtà ci, poi, ovuche ban chei, concorde nqu ticamen degli aspetti o la nostra relegadi Stefano Tieri te corr dito; spa- accorger ad essere annunc si arm estata in evidenza ero risposta, premiand a (di certo meritass etto ano iato sistema , casada questo biamo ritenuto modo il parlare Cultura e di scelta un po’ romantic e la vici. Ogn i pavidi, margine cui uno era stata e la posto bre del zio, allo stesso o dal ta al sarà d’antan) con l’affetto avrà forza suo nell’otto affiancat Al sempre fa, di stato il anavete è malato. delle (hacora Un anno che finora ci ggio prop scritto, stampato di cultura riferisco, qui, affermata una “cultura” rie idee nanza 2011, veniva primo numero di fare cultura (mi a definirla continuare il . dimostra to.

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sudcora senso nato alla Terza Pagina). e distribuito e televisiva, Il gruppo tale?) volgare dell’auCharta Sporca. eo nelle idee ma zione del pemercato, serva allora, eterogen principio fonda- Oltre alla pubblica all’interno dita del facile e deun svenduta al di riodico – distribuito concorde in orga- dience, di turno. al di fuori il dell’Università – abbiamo di Ita- magogico slogan dovuti rassementale (seguire, ento namento esterno, saremmo forse ogni condizio critico), è presto nizzato, nel Dipartim un ciclo Ci I oramai chiuso, proprio spirito ndo studenti lianistica cresciuto, raccoglie

a voi e auguri: Un caro saluto nno è di tutti. questo complea

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ima Buzzati de “Il gnare la Ci un pae deserto dei copertin a il sono persona cioso saggio brul Tartari” pass cavalloè attravers lo e roc- : che ci ato ci ha ggi che ato da nero si, diffi appaion donato all’o un e rizz o e semplic cili da dec misterio te rocc onte da delimita to ifrare. eme a mo pianiosa, men una pare O - comnon esse nte siam o divi tre in verd pripren re in grado noi sa i dern cato militaresono indo e berretto o di e il e l’in invisibi ssati da signifihan segn no un amento le... nio del lasciato tra il che le ince veloce e ines turbidere orab della Storia... i-

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Tutti i numeri arretrati di Charta Sporca sono consultabili online dal sito www.chartasporca.it

album d’esordio ‘Brigade’ (pubblicato alla veneranda età di 17 anni), i danesi danno vita a fine 2012 ad un disco incredibilmente oscuro, rabbioso e violento, così violento da eliminare qualsiasi venatura che non sia il rumore assordante. Una gioventù ribelle e spavalda che sceglie di evolversi in un muro di suoni che non lascia le meningi integre. Brani consigliati: Ecstasy, You’re Nothing, Morals. JAPANDROIDS – CELEBRATION ROCK Riprendere in mano questo pluripremiato disco del 2012 non dovrebbe essere difficile, visto che una copia dovremmo avercela tutti quanti sul nostro scaffale di casa preferito. Il duo canadese, diventato celebre dopo l’uscita del precedente disco Post Nothing, non merita una descrizione a parole, ma solo un meritato ascolto: la loro incredibile varietà di temi e suoni deriva dall’aver macerato e polverizzato ogni tipo di influenza musicale del passato. Distruggere il rock per celebrarlo in un disco che è la ‘summa’ del genere. Brani consigliati: Younger Us, The House That Heaven Built, Continuous Thunder. Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

redazione@chartasporca.it Web:

www.chartasporca.it

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In copertina un’illustrazione di Lesley Barnes


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