Charta Sporca n. 3

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NUMERO III - GENNAIO/FEBBRAIO 2012

E ora... pubblicità! di Stefano Tieri Ne siamo sommersi, bombardati: tremila proiettili al giorno tra televisione, giornali, internet, radio, cartelloni e volantini assortiti. Col “libero” (dove libertà è sapersi vendere) mercato, di cui è colonna portante, forma un legame indissolubile; è il vincolo che oggi porta al successo, per quanto effimero e labile. Il prezzo però è alto, non solo in termini economici: ogni contratto (io ti pago, tu mi pubblicizzi; io ti pubblicizzo, tu fai lo stesso) è un vincolo, certo un accordo, ma di natura restrittiva, specie per un giornale (che sia di informazione o di cultura, qui poco importa). Ogni giornale che ospita una pubblicità diviene tacitamente sottomesso all’inserzionista, e ciò impedisce ai giornalisti che vi lavorano di trattare in senso genuinamente critico quell’azienda, quel prodotto, e – più in grande – quel sistema. Perché, se la pubblicità è «l’eucarestia di quella grande messa pagana che è il consumismo» (“Miseria umana della pubblicità”, Gruppo MARCUSE), già solo l’accettarla è sufficiente per compromettersi, svalutarsi, essere risucchiati dal meccanismo clientelare di cui è artefice e da cui è ardua impresa svincolarsi. È per questo motivo che sulle nostre pagine non troverete pubblicità di alcun genere, né vi capiterà di incorrere in réclame di Charta Sporca su altri giornali. Detto questo, ora un po’ di pubblicità su ciò che

intendiamo quest’anno:

organizzare abbiamo

“Con la cultura non si mangia”, ce l'hanno ripetuto fino alla noia. E così oggi possiamo solo incassare l'ennesima sferzata all'Università Pubblica, che vedrà decrescere ulteriormente l'offerta didattica e, ciò che ci preoccupa maggiormente, le opportunità di studio (guardare all’ interateneo per le lauree magistrali in Lettere e Filosofia, la possibile soppressione dell'Erdisu e la scomparsa di prospettive lavorative nel campo della ricerca e dell'insegnamento). L'Università sarà affare per pochi eletti, altro che democrazia! E la domanda sorge spontanea: quale futuro per l'Università se, da luogo libero ed aperto di cultura, diverrà agenzia di formazione dell'elité tecnocratica? A voi lasciamo il grave compito di dare una risposta. Con una preoccupazione: oggi usciamo con il primo numero del 2012, ma non c'è niente che ci ricordi che dal medioevo sono passati mille anni. ottenuto i fondi richiesti all’Università degli studi di Trieste, pertanto usciremo – mensilmente – durante tutto il 2012. Stiamo organizzando, inoltre, delle conferenze d’ambito culturale, sulle quali vi renderemo partecipi appena avremo fissato le prime date. Come anticipazione possiamo però dirvi che, a fianco di nomi affermati nel panorama culturale triestino (e non), faranno capolino anche figure molto più giovani e meno note, a cui vogliamo dare spazio per far conoscere il proprio lavoro, impegno e coraggio. Perché di coraggio, quando – nel 2012 – si decide di impegnare il proprio prezioso e produttivo tempo a scrivere un Canzoniere che, si sa,

non dà le stesse opportunità lavorative di uno stage con la Impregilo, ce ne vuole davvero tanto. «Il tempo è denaro», scriveva Benjamin Franklin tre secoli fa: recepita questa massima l’uomo non è stato più libero del proprio tempo, ed è il tempo – il denaro – che ha finito per possedere l’uomo. Sostituire questo dogma con «il tempo sei tu» forse porterà a qualche ritardo agli appuntamenti, a dovute scuse nei confronti di importanti manager svizzeri (mi si permetta un’ulteriore ironia: che sia davvero un caso che i proverbialmente puntuali siano anche i proverbialmente banchieri?), ma gioverà alla vostra salute. Assicurato.

I

Lilligrafia


Eccezioni, emergenze, necessità: nascita di una regola. Appunti di Davide Pittioni In questa fase del tardo capitalismo stiamo assistendo ad un acutizzarsi della crisi, nata come sappiamo negli Stati Uniti qualche anno fa, quando il vortice della speculazione finanziaria aveva travolto i debiti privati - mutui, prestiti e risparmi familiari - provocando una reazione a catena nel sistema bancario statunitense e poi europeo. Crisi di liquidità si è detto, e si continua a dire. Ora la tempesta si è riversata sui debiti sovrani, in particolar modo europei, costringendo gli Stati ad adottare misure d’austerity per circoscrivere il debito pubblico e raggiungere la parità di bilancio. In questo senso paesi quali Italia e Grecia si sono visti espropriare il proprio diritto di autodecisione e determinazione. 1a. Il capitale non ha solamente scoperto i nodi irrisolti di un’economia piegata dalle logiche finanziarie, ma ha portato a galla contraddizioni ben più profonde nella complicità e alleanza tra democrazia rappresentativa e forze del mercato. Nell’inesorabile corsa all’accumulazione del capitale abbiamo “semplicemente” perso per strada la democrazia, con annessi e connessi: diritti, servizi pubblici, assistenza sociale. La beffa finale del sistema capitalistico, supportata e accompagnata dalla formidabile fede neo-liberista nell’autoregolazione del mercato - la mano invisibile! - è il rivolgimento stesso dei poteri economici contro la struttura statale che aveva assecondato lo sviluppo industriale e finanziario per il tutto il corso del novecento. Perfino le manovre keynesiane e di Welfare State, introdotte per favorire i consumi, si sono rilevate, a posteriori, il propulsore primo verso il passaggio alla società dei consumi post-fordista; con buona pace del marxismo novecentesco che si è dovuto arrendere a cambiamenti tanto epocali quanto globali, tali da sconvolgere l’assetto capitalista tradizionale e la conseguente critica al modello di produzione fordista. Non più cittadini, ma consumatori. 1b. Capitalismo che ora mostra, in tutta la loro nudità, le spregiudicate forzature che costantemente ha coltivato in questi anni accompagnati dall’eco rumorosa della globalizzazione. Globalizzazione esclusiva, a misura di merce, che ha favorito la migrazione delle persone fintantoché esse erano pura forza lavoro, merce di scambio tra le altre, inseribili nel tessuto produttivo a basso prezzo in un momento di benessere e crescita, fulgido di investimenti e spese gonfia-debito ( a quel tempo il debito non faceva paura!). Nel momento in cui però si satura il mercato del lavoro occidentale iniziano ad innalzarsi nuovi muri, nuovi campi di concentramento, nuovi centri di permanenza temporanea e l’immigrato diventa criminale… La legge del mercato impone che la merce umana arresti i suoi spostamenti. La crisi ha completato poi lo scenario, fomentando nuovi spettri razziali e riproponendo la chiusura del recinto ai polli di casa. 1c. Ora insomma si dimostra che quel capitalismo di stato, caratterizzato da governance au-

toritarie, che abbiamo da sempre interpretato come eccezioni del panorama terzomondista, è in realtà il modello che assicura maggiore stabilità all’economia di mercato risultando, nella straordinarietà della crisi italiana e greca, la regola del futuro. Il capitalismo ultimo non può più permettersi il lusso di concedere sovranità ai popoli, diritti e assistenza, anche se solo di facciata ( sappiamo bene che lo stato non può molto contro le corporation, le multinazionali e le super banche) ed è costretto a prendere in mano le sorti dei paesi, guidarli verso politiche a forte impronta neoliberista per imporre il suo dominio incontrastato. La dittatura dei mercati leva le maschere, si mostra “competente” e conferma l’ineluttabilità del dogma capitalista: la soluzione finale, mai definitiva, del ciclo del capitale.

1d. Le conseguenze sono di fronte a noi quotidianamente. Le misure anticrisi appaiono univoche, a-ideologiche, necessarie, tecniche. La politica abdica al suo compito (a ben vedere lo aveva già fatto con Berlusconi) quando da regno della libertà diventa assoluta necessità. Il cammino intrapreso dalle politiche neoliberiste - ribadisco politiche anche se risultano essere meramente manovre amministrative - deve essere solo accompagnato, favorito; ma nell’immaginario ideologico, o se si preferisce veritativo, risulta incontrovertibile. Così privatizzazione dei servizi pubblici, precarizzazione del lavoro, svendita del patrimonio pubblico e dei beni comuni, definanziamento dei luoghi di sapere e cultura, superamento dei diritti e delle libertà individuali (a sola eccezione della salvifica libertà economica), si coniugano all’interno di un quadro di esigenze dettate dall’urgenza dei tempi che stiamo vivendo. La democrazia nel frattempo può aspettare. Tempi migliori o il suo definitivo seppellimento. 1e. Ci è stato raccontato, per anni, che la globalizzazione rappresentava la grande conquista dell’ultimo novecento, finalmente libero da nazionalismi, vincoli, restrizioni. Poi sono arrivati i “tempi difficili”, ma in nome del benessere

II

futuro ci è stato richiesto ancora qualche sacrificio. La fase che stiamo attraversando è solo il preludio - difficile e caotico - dei tempi di prosperità! Ora ci propongono il discorso della storicizzazione. Sprechi e statalizzazioni (anni ’60 e ’70), reazione neoliberale (periodo Thatcher e Reagan): di conseguenza oggi ci vediamo costretti a (ri)trovare l’equilibrio tra i due estremi. Ma che tipo di equilibrio si sta cercando? Insomma, sottilmente, si insinua l’idea che la crisi è solo una fase di assestamento per riportare la nave sulla rotta ordinaria. Monti è il maestro di questo tipo di retorica, apparendo così il miglior candidato a traghettare l’Italia verso tempi migliori. Eccezione della crisi e ordinarietà del processo di accumulazione e distribuzione del capitale: ma non son due facce della stessa medaglia? Qualcuno (ora innominabile) diceva che le crisi sono cicliche e quello stato di eccezione che è la crisi è intrinseco al modo di accumulazione capitalistico. Pur sapendo questo fatto, agiamo e pensiamo come se la crisi fosse uno stato, una congiuntura dicono, stra-ordinario. 1f. Alzando le bandiere della condivisione, dell’ascolto, della pacificazione, la forma del nuovo modello di governance autoritaria si riconosce in pratiche molto sofisticate. Regge infatti la sua legittimità su un sottile ricatto: “o così, oppure il disastro”. Molto simile, a conferma della continuità di questa emergenza con una fase inaugurata grossomodo con la caduta del muro di Berlino, alla pratica adottata da Marchionne nell’imporre una trattazione dei diritti a livello aziendale, in una escalation della flessibilità del lavoro senza alternative. Il tema su cui poggia le sue ragioni, le sue conferme, la sua ragionevolezza è la globalizzazione. In una cornice mondiale o si opera in questo modo, oppure de localizziamo. In una cornice mondiale o si opera in questo modo, oppure falliamo. Da una parte l’azienda, dall’altra lo Stato, accumunate ormai negli intenti e nelle giustificazioni in un processo di aziendalizzazione costante di tutti gli aspetti della vita.

Il modello impone le sue ragioni senza utilizzare una violenza aperta, ma insinuando sottilmente l’inesorabilità di questo tipo di operazioni. Il mondo dei diritti e della democrazia è così violentato, rovesciato, destrutturato in maniera astuta e al tempo stesso non-invadente. Una violenza a distanza di sicurezza, una violenza orizzontale, una violenza senza violenza. Inutile dire, poi, gli effetti drammatici sui corpi violentati alla mercè di interessi e logiche di dominio ormai fuori controllo. La società del controllo (per citare Deleuze) diventa società fuori controllo, destinata a trovare il punto di equilibrio nel disordine della finanza. A trovare la regola nell’eccezione. A raggiungere nello stato di crisi il suo funzionamento ordinario.


Quando la scienza dà spettacolo di Giulio Rosani

Da quando è stato inaugurato LHC al Cern di Ginevra ne abbiamo sentite tante su cosa dovevamo aspettarci da questo progetto. La prima previsione, catastrofica, è stata ovviamente quella dell’estinzione dell’umanità e la scomparsa della Terra dovute ad un buco nero creato nell’acceleratore di particelle. Ovviamente si è rivelata falsa, come penso tutti possono (ancora) testimoniare. Infatti gli scienziati che lavorano al Cern non avrebbero mai fatto partire un esperimento potenzialmente così pericoloso. Un fisico progetta tutto nei minimi dettagli prima di far partire una macchina, i tentativi a caso non sono soliti dare frutti. Una seconda voce di corridoio diceva che i vari guasti occorsi subito dopo la messa in funzione di LHC fossero dovuti ad una volontà, divina o meno, che non voleva si trovasse la famosa particella di Dio. Quest’affermazione segue la teoria che il mondo scientifico di quest’epoca, composto da scienziati arroganti e avidi di sapere, voglia sostituirsi al Divino. La volontà divina doveva quindi opporsi a questa tendenza e ostacolare i malvagi scienziati. L’altra corrente di pensiero, quella meno religiosa, affermava che la particella di Dio non volesse farsi trovare e quindi sabotava LHC. Ovviamente entrambe le teorie si sono rivelate infondate e, alla fine di tutto questo, i guasti sono stati risolti ed ora LHC funziona già da tempo a pieno regime, producendo risultati ben oltre ogni aspettativa. La terza e più recente diceria è il famoso tunnel Gelmini, che doveva portare i neutrini da Ginevra al Gran Sasso. Il tunnel è in realtà un’altra voce non fondata e ov-

viamente dovuta all’ignoranza, in questo caso quasi giustificata vista la poca conoscenza che in generale si ha della particella, del ministro, o chi per lei, sulla natura dei neutrini. I neutrini sono particelle difficili da rilevare anche con strumenti molto sofisticati, perché sono oggetti che interagiscono poco con la materia. Per farla breve, non si accorgono neanche che ci sono strati di roccia tra il loro punto di partenza e il punto in cui vengono eventualmente rilevati. Non c’è bisogno quindi di un tunnel perché questi passino per i laboratori del Gran Sasso. Quello che è invece importante ed il motivo principale per cui Opera è situato al Gran Sasso è che gli strati di roccia poco penetrabile che sovrastano i laboratori, roccia ben diversa da quella che separa il Cern dal Gran Sasso, sono sufficienti a schermare gli apparati da radiazioni cosmiche. Siccome i neutrini arrivano anche da fonti esterne alla Terra è importante che ci sia un modo per ridurre l’interferenza di questi con l’esperimento, le montagne hanno infatti questa funzione. Dopo questa introduzione arriviamo alla notizia vera e propria: in data 13/12/2011, due gruppi di ricercatori del Cern, che lavorano rispettivamente ai progetti ATLAS e CMS, hanno tenuto una conferenza stampa in cui annunciavano una prima analisi dei dati raccolti finora. Lo scopo di LHC è quello di trovare il bosone di Higgs, la famosa particella di Dio, che è presumibilmente responsabile della massa degli oggetti. Presumibilmente perché non si è sicuri che esista veramente, per il momento è solo parte di un modello teorico. Innanzi tutto un bosone è uno dei

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due tipi di particelle che si possono incontrare in natura, l’altro tipo è chiamato fermione. Alla categoria dei fermioni appartengono gli elettroni, mentre i bosoni comprendono i fotoni ad esempio. Ovviamente ogni tipo di particella ha diverse caratteristiche, tra cui una delle più importanti è il numero di particelle che possono occupare uno stato energetico. Il numero è limitato per i fermioni, illimitato per i bosoni. Vorrei ora porre una domanda al lettore, si è mai chiesto non quanto, ma perché pesiamo, o meglio, abbiamo massa? Con buona probabilità no, come tra l’altro è naturale quando si ha un fatto davanti agli occhi tutti i giorni e si finisce con il considerarlo ovvio e talmente naturale che non ci si chiede più perché questo avvenga. Il peso di un oggetto è facilmente spiegabile tirando in ballo la forza di gravità, ovvero l’attrazione reciproca di due corpi aventi massa. Ma spiegare perché un corpo è massivo e cosa rappresenta la sua massa è tutt’altra cosa. Infatti tutt’ora non sappiamo spiegarne in modo convincente l’esistenza, se non ipotizzando appunto una particella che conferisca al momento del proprio decadimento questa proprietà. Inoltre se l’interazione forte, che tiene insieme i nuclei degli atomi, ha intensità uno e un interazione elettromagnetica a confronto è cento volte più piccola, l’interazione gravitazionale dovuta alla massa è 1039 volte più piccola, un numero che è praticamente zero. Questo è uno dei motivi per cui è difficile studiare la massa. La presenza o no del bosone di Higgs porterebbe a due risultati tra loro molto diversi. Il primo, la sua presenza, confermerebbe lo Standard Model su cui si basa l’attuale fisica delle particelle, la sua mancanza porrebbe in crisi il modello e chiederebbe una rivisitazione della nostra visione del mondo microscopico che ci circonda. Non ci saranno ovviamente grandi cambiamenti a quelle leggi classiche che consideriamo consolidate e che non hanno dato problemi, ma bisognerà trovare aggiustamenti o nuove teorie nei campi in cui l’attuale fisica fallisce. Sembra però che l’ipotesi più plausibile, sull’esistenza o no del bosone, sia la prima. La conferenza non ha però portato ad un verdetto finale, i risultati ottenuti sono promettenti, ma ancora troppo pochi e la regione di energia ancora ammessa troppo larga per poter definitivamente

dire che il bosone c’è oppure che in realtà non esiste. Lo stesso discorso è stato fatto anche con l’esperimento Opera al Gran Sasso. I risultati non erano sufficienti a dire se i neutrini avevano effettivamente viaggiato più veloci della luce, ancora una volta c’era una buona possibilità, ma mancavano ancora delle verifiche. Bisogna quindi aspettare che vengano fatte ulteriori misure e verifiche prima di poter confermare la tesi. Nell’ultimo periodo è evidente la tendenza in tutti gli ambiti a spettacolarizzare ogni cosa, qualsiasi cosa venga fatta vogliamo che sia spettacolare. Anche la fisica non è riuscita a scappare a questo meccanismo e questo ha portato a comunicare, come ormai fatte, scoperte in realtà ancora in corso d’opera. Per concludere i risultati ottenuti al Cern e al Gran Sasso sono ovviamente molto interessanti, ma ancora poco conclusivi. Il Cern ha comunque annunciato che molto probabilmente in qualche mese si potrà porre fine ai lavori e trarre le dovute conclusioni sul bosone di Higgs. Ci toccherà quindi aspettare e sperare che arrivino presto buone notizie.

...parole al vento...

A volte mi chiedo se il senso di frustrazione, d’impotenza che molti, specie fra i giovani, hanno dinanzi al mondo moderno è dovuto al fatto che esso appare loro così complicato, così difficile da capire che la sola reazione possibile è crederlo il mondo di qualcun altro: un mondo in cui non si può mettere le mani, un mondo che non si può cambiare. Ma non è così: il mondo è di tutti. (Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra)


Tra immagine e verità: specismo, una (non) scelta di Matteo Sain “[...]Lo specismo...è un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie.[...]”. Nel primo capitolo di Liberazione animale, Peter Singer giunge a questa definizione cercando di giustificare lo sfruttamento su più fronti che l’essere umano esercita su esseri non umani. Nei capitoli seguenti Singer illustra citando dati e portando documentazioni attestate quali sono i metodi e le conseguenze della sperimentazione scientifica sugli animali, quali sono le condizioni di vita a cui sono sottoposte numerose specie animali destinate alla macellazione. Nel primo capitolo inoltre sono numerose e interessanti le riflessioni di carattere etico-filsofico che egli affronta: per esempio, citando Jeremy Bentham, Singer chiarisce che la rivendicazione dell’uguaglianza tra gli esseri viventi non può dipendere dall’intelligenza o dalla forza fisica, ma è basata puramente su un’idea morale. L’essere umano, pertanto, riconosce alla sua specie il diritto alla prevaricazione in maniera totale di qualsiasi altra specie animale, attestando la sua superiorità in base alla maggiore intelligenza di cui egli è in possesso. Già Bentham rifiutava questo tipo di discriminazione su un altro essere vivente e individuava nella capacità di soffrire la caratteristica vitale che attribuisce a ogni essere vivente il diritto ad un’eguale considerazione. Bentham sottolinea

inoltre come la capacità di provare dolore e piacere sia una condizione necessaria e sufficiente perché un essere vivente abbia degli interessi, tra i quali per primo l’interesse a non soffrire. Tuttavia non voglio dilungarmi sul dibattito teorico-filosofico. Ciò che mi preme è un altro aspetto della faccenda. Questo libro, certo rappresenta un valido strumento informativo per sapere come funziona il mondo dell’industria animale, tuttavia mi sono accorto che le parole non potranno mai attecchire in profondità nell’animo delle persone tanto quanto l’immagine. Il nostro presente è dominato dal potere dell’immagine. Attraverso pubblicità, film, cartoni animati, videogiochi, riviste, internet, facebook l’immagine costituisce la nostra realtà. Un velo enorme cela ogni giorno la verità ai nostri occhi, ormai stanchi e disorientati dinnanzi ai continui bombardamenti immaginifici a cui sono soggetti. Pertanto solo l’immagine potrà restituirci la libertà. Perché soltanto essa può toccare certe corde, può arrivare in profondità e smuovere emotivamente l’individuo, consegnandogli la verità nuda e cruda. Vedere come vive un manzo in una fattoria ad allevamento intensivo o vedere come un vitello sia costretto a vivere legato ad un palo a ciò che non sviluppi muscolatura e la carne resti tenera, vedere come i pulcini nati da galline ovaiole vengano suddivisi sin dalla nascita in maschi e femmine e come i maschi non essendo utili a fini commerciali siano sop-

pressi o asfissiati, ci aiuta a diventare consapevoli. Vedere come venga scuoiato vivo un cane in Cina, quanta cocaina e anfetamina sia stata somministrata alle scimmie nelle sperimentazioni scientifiche, sapere quali sono i metodi con cui vengono soppressi i cani all’interno dei canili è utile ad ognuno di noi per essere sempre più consapevole di cosa mangia e di che cosa, anzi di chi si veste. Conoscere e vedere come vengono trattati gli animali nelle fattorie ad allevamento intensivo e nei macelli è fondamentale per poter compiere una scelta. Solo se conosco e sono consapevole sono libero di scegliere. In caso contrario, mi adeguo all’abitudine della maggioranza, e mi privo della possibilità di scegliere. Consiglio a tutti la visione di Earthlings, un film documentario del 1999, considerato tra i più convincenti che siano mai stati girati. Attraverso le immagini proiettate è praticamente inevitabile stabilire un contatto con la sofferenza patita ogni giorno dagli animali. Spesso la gente rifiuta la verità, perché tenendola lontana da se risulta molto più semplice vivere senza nessun peso sulla coscienza. Pertanto rifiuta di vedere quelle immagini che sono la semplice rappresentazione, la nuda testimonianza di ciò che accade ogni giorno e di cui noi siamo gli inconsapevoli “utilizzatori” finali, quali consumatori.

Donne, femministe e altre storie di Valentina Gaspardo Femminismo, tema vasto e complesso che un uomo non può affrontare liberamente senza essere tacciato di maschilismo. Allora è bene che ne parli una donna, che al di là dei meriti di coloro che hanno fatto onore al nostro sesso, battendosi per una parità giuridica e politica, è tutt’altro che affascinata da un movimento - autodefinitosi femminista - che talvolta rasenta l’assurdo. Quale miglior modo di entrare a contatto con le grandi femmine dell’oggi se non attraverso i blog? Un elemento sul quale a queste giovani donzelle piace puntare è la presunta insensibilità maschile, che le porta a sentirsi accantonate. Bene, allora si vuol pensare che se un uomo si avvicina loro tendendogli la mano, queste dovrebbero essere al settimo cielo. Nossignori! Si parlava di una manifestazione nella quale si rivendicava una proposta di legge, che voleva significare la garanzia delle madri di poter godere di una maternità serena, senza il peso del “come lo manteniamo?”, con annesse rivendicazioni in merito a stipendio, contributi, ecc. Cosa più che nobile a mio avviso, sicuramente migliore dei piagnistei provenienti dal nulla e direzionati allo stesso. Il problema? Beh, lo striscione di questo progetto lo portavano degli uomini. Quali sessisti ignobili! Sia mai che una donna controbatta: tutte le contrarie sappiano d’esser donne a livello inferiore, mascherate dietro ad un maschilismo sforna - italioti. Se poi si scrive della vergogna della donna - oggetto e per caso nel discorso non si arri-

va a parlare di omosessualità, per carità, quali squallidi reazionari e lesbofobi si può essere! Un altro argomento “in” è l’aborto, il quale dev’essere libero, gratuito e illimitato, manco fosse una promozione dei messaggi della vodafone. Qua chiedo scusa a tutte le donne che hanno onorato la vita con la vita, a tutte le donne che non possono avere figli, e a tutte quelle che sanno che prendere alla leggera certe questioni fa schifo. E la prostituzione? E’ tema dibattuto (case chiuse o meno), ma anche qui le dolci fanciulle non si preoccupano di pro e contro, di informarsi, non prendono in considerazione lo sfruttamento di minorenni, l’importante è che ‘se voio sta pe’ strada ce posso sta’. Allora stacce. Poi si vaneggia sulla psichiatria come strumento repressivo di chi odia profondamente le donne, perché meriti e colpe, tutti ce l’hanno con ‘ste benedette donne. La sfera sessuale, qua tutte sull’attenti: non puoi ricondurre la sessualità alla riproduzione. Ah no? Iddio o chi per lui ha dato noi un passatempo piacevole e fine a se stesso. Godetene tutti. Ma se c’è una cosa bella di cui parlare è la donna al lavoro. Il lavoro deve tenere in conto le donne, e fin qui niente di sbagliato. Ma poi le donne hanno bisogno di chi tenga loro il posto, come i ragazzini sull’autobus. Una donna passa le sue giornate al telefono con l’amica? Fa niente, il posto è un suo diritto. Diritto. Care le mie femmine, sapete che c’è una parola indissolubilmente legata al diritto? Il dovere. Voi avete il diritto di

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lavorare tanto quanto ne ha diritto un uomo, ma avete anche il dovere di lavorare, come anche l’uomo. Cominciamo a fare discorsi alla pari. Femministe che fanno del vittimismo la loro politica, femministe che marciano sulla violenza subita dalle donne per darsi grossolanamente ragione, che vogliono i privilegi, perché da sole non si sanno arrangiare, femministe che si sentono inferiori, femministe estremiste: basta. L’unico femminismo che concepisco è quello che si batte contro il degrado e la perdita di dignità delle femmine, è il non vedere ingiustizie nelle differenze biologiche tra uomo e donna, è l’onorare il gentil sesso, il volere donne ‘di spirito e cervello, non femministe con il manganello’. Perché il gentil sesso non è quello debole, e per favore, non fatelo diventare tale. Alcune perle: “Tutti gli uomini sono stupratori, questo è ciò che sono”. Marilyn French “Definire un uomo come un animale gli fa un complimento: l’uomo è una macchina, un vibratore ambulante”. Valerie Solanas “Il matrimonio è un’istituzione che si è sviluppata dalla pratica dello stupro”. Andrea Dworkin


svefn - g - englar Intorno a me tutto è inverosimilmente radioso: tutto risplende di luce antica. Ghiaccio. Il mio sguardo scorre finestra per finestra alla ricerca del luccichio dei vetri rotti, alla ricerca di qualche sagoma umana, dell’ombra di qualche fantasma. Cerco questi spettri, questi riflessi, cerco coloro che parlano nel sonno; li cerco dentro, fuori, lì intorno, dove giacciono a terra come rugiada. Luce bianca, calore bianco. Mi volto a sinistra e scorgo, tra la nebbia, un enorme edificio; presumibilmente un tempo di trattava di una fabbrica. Fisso i finestroni, il nero e lo sporco sui pochi vetri rimasti. Il rosso del tramonto filtra oltre le macchie scure. Entro. Sono in un’enorme cattedrale, intorno a me solo il rimbombo dei miei passi. Salgo la scala, sempre più in alto, fuori il cielo è pallido, dentro il grigio, il nero, il cancro. Mi lascio cadere.

foto e testo di Giulia Bellemo

V


Cervello di dinosauro di Solivagus Rima Triune Brain. Questo è il nome di un particolare modello della struttura del cervello umano. Ideato da un medico degli Stati Uniti, Mc Lean (che non è l’autore della canzone “American Pie”), si traduce in italiano con “ cervello tripartito”. Questo modello, infatti, divide il nostro encefalo in tre parti distinguibili: il sistema limbico (dell’emotività), la neocortex (degli operatori specifici, logici) e l’ R-complex. Quest’ultima è quella che ci interessa in particolar modo per questa ricerca. Infatti, essa viene chiamata anche “cervello rettiliano” ed è finalizzata ad occuparsi di tutto ciò che riguarda gli istinti innati dell’essere umano e i suoi bisogni primari. Viene chiamata in questo modo per il fatto che è la parte del cervello che ci accomuna di più agli animali, cioè la parte istintuale del cervello umano. Il motivo di questa indagine parte da una domanda che sorge spontanea se si affronta questo tema: l’istinto nell’uomo è un componente positivo o negativo? Non è facile rispondere a questa domanda. Ma proviamoci! 1) Molti ricercatori sostengono che l’R-complex sia la parte dell’encefalo che ci fa assomigliare di più a dei rettili; come dei serpenti, questa parte del cervello ci rende calcolatori, meschini e spietati. Freddi. È probabilmente la parte che ci rende arrabbiati, violenti, irrazionali. A causa di questa parte del cervello umano potrebbero avere origine le guerre, gli episodi di violenza, i furti, gli omicidi esistenti nel mondo. Pensiamoci su: che facciamo quando il nostro temperamento sfida la nostra quiete? Quando sembra che tutto sia contro di noi? Quando siamo sospettosi o arrabbiati? Quando una gragnuola di imprevisti ci assale? È in questi momenti che l’R-complex ci fa perdere il controllo, ci rende crudeli. Ci sentiamo come repressi, come degli animali in gabbia che non vedono più la via d’uscita. Non ci è permesso sfogare la rabbia e siamo trattenuti da mille costrizioni e impedimenti, impostici dalla

società. Questo genera in noi una rabbia repressa, che dobbiamo sfogare in qualche modo. E qui gli episodi di violenza gratuita, i soprusi, la perdizione. Addirittura dal punto di vista sessuale sentiamo questa repressione. Pensate che il bisogno della pornografia sia un caso? L’uomo ha bisogno di vedere di nascosto l’altro sesso con abiti succinti o nudo, perché la società ci impone il contegno, il decoro, il pudore. Ci si sente affamati di sesso e mai soddisfatti; il sesso diventa perversione, diventa un male e ci sentiamo invogliati a renderlo sempre più perverso. Ed ecco che diamo nascita al sadomaso, alla pedofilia, al voyeurismo, al feticismo… al figging, cioè la pratica di infilarsi nell’ano delle spezie piccanti, come lo zenzero, per provare piacere. Che roba! Se tutti girassimo nudi, questo bisogno probabilmente svanirebbe? Ma non parliamo d’utopie, bensì continuiamo… 2) C’è una parte di psicologi americani, tuttavia, che ha elaborato una teoria opposta a quella esposta poco fa, cioè che non sia la parte istintuale del cervello la causa della nostra violenza e della nostra perversione sociale, ma che tutto nasca dal nostro essere troppo “umani”. Gli animali esprimono appieno i propri istinti, non hanno alcun tipo di repressione e quindi sono felici. La felicità non li rende così violenti. Quindi, secondo questa analisi, non sarebbe la parte istintuale del cervello a renderci cattivi, ma la repressione di essa. La soluzione potrebbe essere quella di ascoltare di più i nostri istinti, senza sentirci oppressi. La società, così, forse guarirebbe da questa sua “malattia”. Ma, ora, analizziamo meglio il nome dell’Rcomplex, ossia “cervello rettiliano”. In qualche modo, come detto prima, questa parte del cervello ci accomuna ai rettili e si contrappone alla parte del nostro cervello che invece è razionale. Da ciò si può presupporre una qualche nostra parentela con i rettili. Magari un antenato in comune?

Strano è pensare che gli esseri viventi che dominavano il nostro pianeta prima di noi, quasi al pari nostro, erano proprio dei rettili. Che questa parte del cervello possa condurci alla scoperta della genealogia umana? Che ci possa rendere edotti di un passato ormai sprofondato nell’oblio e che potrebbe darci chiarezza sulla nostra origine? Diamo ora la parola alla letteratura... Ci può aiutare a capire un capitolo delle “Cosmicomiche” di Italo Calvino, intitolato “I dinoauri”. Calvino racconta qui una storia di un dinosauro che si ritrova in un mondo di esseri chiamati “nuovi”, probabilmente uomini, che non sono in grado di capire che lui è un dinosauro, per il semplice fatto che non li hanno mai visti. Tuttavia, aleggia fra questi “nuovi” una paura dei dinosauri, dei quali hanno trovato solo resti fossili ed ossa, che vengono visti come esseri terribili e spaventosi, dei mostri. Tutto ciò viene reso ancora più grande da leggende e storie che circolano su di essi. Il dinosauro che non viene riconosciuto, si trova bene inizialmente con i “nuovi”, che gli sembrano tanto diversi rispetto ai dinosauri, gli sembrano molto più evoluti; l’unico difetto che hanno è di farsi dominare da questa loro paura irrazionale per i grandi rettili del passato. Il dinosauro, però, si accorge pian piano che questi “nuovi” in realtà avevano molte delle caratteristiche dei loro predecessori dinosauri, caratteristiche che li avevano portati all’estinzione. E’ una storia interessante, che sembra quasi profetica… ma è inutile fare assurde congetture, per ora. Teniamo solo presente che Calvino, in questo caso, ci è stato molto utile per la nostra ricerca e che uno studio approfondito dell’Rcomplex potrebbe portare a grandi scoperte, sia nell’ambito della genesi umana sia in quello della psiche. Affettuosi saluti.

Il bicchiere mezzo vuoto Ho perso la mia fede anche se la indosso. Sono un fantasma di carbone. Uno schizzo di anni che non torneranno. Le cose che ho imparato non interessano più a nessuno. Nemmeno ai venditori di storielle. Posso specchiarmi e non vedermi. Mi sento escluso dai miei pensieri felici. Soggetto non a fuoco tra gli scarti del mio tempo. Io non ti seguo più mondo. Corri pure, non ho intenzione di affannarmi ancora. Questo silenzio mi attanaglia. Dentro la mia testa non sento più alcuna melodia. Sulla mia lingua non percepisco più i sapori del mio domani. La mia pelle non è che un involucro tornato sterile. Vorrei solo poter tornare indietro ad un giorno d’estate senza pensieri. Chiacchiere frivole che si trasformano in dolci poesie con il suono del mare. Costumi bagnati che si appiccicano come miele sulla pelle umida. In mano il mio bicchiere colmo. Nell’altra la mia arrogante giovinezza. Corri pure mondo. Io oggi mi fermo. Non seguirmi. Sara Ruzzier

VI


Terza

Pagina

inserto letterario

I grandi non sono mai stanchi di Giuseppe Nava Ho sempre pensato che esista una legge non scritta del rock per cui i batteristi devono avere un legame con la guida; forse è per via dei pedali. Effettivamente, Nick Mason portava in giro i Pink Floyd nelle prime trasferte, e poi ha partecipato alla ventiquattrore di LeMans. Roger Taylor ha scritto I’m in love with my car. Bonzo Bonham amava le auto sportive. Me ne sono convinto quando abbiamo comprato un piccolo furgone per le trasferte. Non ci sono state discussioni, era già stabilito implicitamente che l’avrei guidato io. Per fortuna non mi pesa, e ho sempre riportato tutti noi a casa, sani e salvi. Noi, cioè gli Havana Affair, punkrock band from Milan – Italy. Ovvero io, Gico, Rob e Manzo. Manzo è un omone, tra le sue mani la chitarra sembra un violino. Mi domando sempre come faccia a fare gli accordi, con quelle dita enormi, eppure se la suona discretamente. Con lui di solito non si litiga mai: se non vuole fare una cosa, non la fa, e quando inizia ad alzare la voce nessuno insiste più. Per nostra fortuna gli va bene tutto, a parte gli assoli. Gico è il cantante; è fissato con i testi socialmente impegnati, tipo ribellione degli sfruttati, antiglobalizzazione e palle varie; ma se c’è uno che è cresciuto nella bambagia, quello è lui. Suo padre è una specie di supermanager di una multinazionale americana, e Gico ha sempre avuto tutto quello che voleva, senza alcuna fatica. Ci ha fatto comodo i primi tempi, e spero che non ci rinfacci mai quanti soldi ha messo di tasca sua per il gruppo. Rob, il bassista, è l’unico vero proletario tra di noi. Operaio figlio di operai, un passato da skin di cui conserva l’abbigliamento e la tendenza alla rissa, musicalmente ignorante. Non gli va giù che Gico faccia il sovversivo, e non perde un’occasione per rinfacciargli la sua ricchezza. “Tu sputi nel piatto in cui mangi”, ripete sempre. Gico, nervoso e permaloso, risponde che non c’è bisogno di spaccarsi il culo in fabbrica per capire che le cose non vanno, che non siamo più negli anni ’70 e robe così. Smettono solo quando Manzo alza la voce. Stasera stiamo cercando un centro sociale sperduto tra un paesino e l’altro della bassa, e ovviamente guido io. - Ma chi cazzo ci ha trovato questo posto, eh? – dice Manzo, quando giungiamo infine al centro sociale. È una piccola casa di tre piani sistemata, chissà perché, in piena zona industriale, tra file e file di capannoni. I piani superiori sembrano del tutto abbandonati, con le finestre rotte e i balconcini ingombri di rifiuti. Solo il pianoterra è illuminato, e sopra la porta d’ingresso c’è scritto a spray nero “Welcome to Scamuzza”. Proprio a lato della porta ci sono materassi, bottiglie, una lavatrice, immondizie varie, e una tazza del cesso. - È rock’n’roll, ragazzi – dico io scendendo dal furgoncino. Mi fa troppo ridere quel water, e faccio finta di pisciarci dentro. - Ehi, vi state già ambientando, eh? – gracchia una voce da dentro il locale. Sul-

VII

Gentili lettori, buon anno nuovo! Lo so, è leggermente tardi per dirlo, pur tuttavia ci si ha da arrangiare con quel che si ha. Benvenuti alla Terza pagina; come sempre i nostri amici poeti e, più genericamente, scrittori hanno dato volentieri alla carta le loro idee, i loro pensieri, le loro emozioni. Eppure non è questo il motivo per cui mi concedo una piccola premessa; il motivo reale consiste nel proporre anche a Voi di dare una mano: Baciocchi, Giuseppe, Solivagus, Ettore... presto (spero di no!) Vi stuferete di sentirli! Lo scorso numero abbiamo avuto l’interessante novità di Dima, per non parlare di Lorenzo e quanti altri sono comparsi. In questo numero due poesie di un giovane che preferisce restare anonimo ma che stimo moltissimo, di Ivan, di Alessio... Ma la cerchia è piccola, pertanto chiunque volesse (senza problemi!) può mandarci qualcosa all’indirizzo mail di Charta Sporca. Non fateVi pregare, ve ne prego. Vi auguro una piacevole lettura. Giovanni Benedetti

Ero arancione quando ti ho visto, cadere e prendere per mano il sogno. E io non ho parole per capire perché vivo con una penna e il mio dolore non e' altro che rabbia liquida, per tutto l'amore che non ho avuto. Un giorno d'autunno.

Alessio Pruneddu


Incontro Hai bussato alla mia porta come la pioggia che indugia settembre perchè è ancora il tempo in cui le trecce della bambina sono fili di gloria sotto il sole cocente. E’ bastata una poco convinta richiesta: una sigaretta piena d’altra nostalgia ma la miccia,il baluginio segreto,che è scattato non lo conosco ancora: lo coprono le tue parole loquaci come passi che si affrettano per non incappare, per non volere già il temporale.

Angelo Baciocchi

la porta compare un tipo alto, magro come un chiodo. Ha i capelli color stoppa, che gli partono praticamente da metà testa e gli scendono unti sulle spalle. Sembra Riff-Raff con addosso la maglietta dei Bad Religion. - Io sono Gèi – dice allungando una mano – benvenuti alla Scamuzza. Mentre ci aiuta a scaricare la roba, ci racconta del centro sociale. - Qui intorno non c’è nient’altro, e quindi ci viene gente di tutti i tipi – dice. - Figa ce n’è? – chiede Rob. Gèi ridacchia. - Stasera, proprio per voi, ho chiamato a supportarvi un gruppo di sole donne. - U-hu, – mormora Rob, sfregandosi le mani. Io mi immagino una band composta dalle Courtney Love della provincia, e penso alla possibilità di un gemellaggio che con la musica a poco ha che fare. In fondo alla sala, che è una specie di corridoio allargato, c’è il palco – o meglio, quei pochi metri quadri dove suoneremo. Non c’è neanche un telo in terra per non far scivolare la batteria, ma io ne ho sempre uno con me. D’altronde Gèi era stato chiaro, “io posso darvi solo l’impianto voce”. Mentre io, Gico e Rob montiamo gli strumenti, Manzo viene fermato da Gèi, che lo porta fuori sul piazzale. Sento che parlottano un po’, quindi rientra il solo Manzo. - Ragazzi, c’è un problema. - Eh? - Il tipo non ci può pagare. - Come non ci può pagare? – salta su Rob, già pronto a menare le mani. Penso che lui sia sempre pronto a menare le mani. - Ci offre da bere e da mangiare, ma non può pagarci. - Beh, a questo punto mica possiamo andare via – dico io. - Abbiamo praticamente montato tutto – aggiunge Gico. - Ha fatto apposta a non dircelo prima – ringhia Rob. - Allora gli dico che va bene? - Ma sì – faccio io – non siamo mica delle cazzo di rockstar. - Fanculo. Gli faccio fuori tutta la cantina – borbotta Rob, chinandosi a sistemare cavi e pedali. Stabilito quindi il compenso, pensiamo bene di farci dare un anticipo, e ci accomodiamo nel piazzale a bere e fumare. Sono appena le sette e mezza e non suoneremo prima delle undici, considerando che ci sono anche le tipe. Già, le ragazze: il loro gruppo, come ci informa Gèi, ha il poco fantasioso nome di Psycho Barbies. - Mio dio – sento mormorare Gico quando le ragazze entrano nel locale. Non possiamo sapere se siano veramente psycho, ma di certo delle barbie hanno ben poco. Fortunatamente sono simpatiche e alla mano, e Rob rimane estasiato dal modo oxfordiano con cui si ingozzano di birra. Ogni tanto mi si avvicina e mi dice all’orecchio cosa farebbe a questa o a quell’altra, tirandomi gomitate nelle costole. Io, per quanto mi sforzi, non riesco a togliere gli occhi dalle tette immense di quella che si presenta come chitarrista, una biondina che forse è la meno peggio del gruppo. Gico resta in disparte e le guarda con sufficienza. A lui piacciono le sancarline magre, senza tette e piene di soldi. Il buon vecchio Manzo sembra aver già trovato un feeling con una spilungona dal naso incredibile che dovrebbe essere la batterista, e mi convinco che alla fine solo lui combinerà qualcosa. “Il meglio del punk settantiano racchiuso in una sola band”, così un entusiasta recensore aveva definito gli Havana Affair dopo aver ascoltato il nostro primo demo. “Echi di Londra nel 1977” aveva scritto un altro, “con la freschezza degli anni 2000”. “Non ce ne frega un cazzo”, aveva dichiarato Rob al ragazzino di una webradio amatoriale che aveva avuto la sfortuna di intervistarlo. In realtà, quando ho raggiunto Manzo e Gico nella band, avevamo in mente solo i Ramones. Il nostro nome viene da una loro canzone. Anche nel look ci siamo ispirati a loro: abbiamo tutti i capelli lunghi, la giacca di pelle, i jeans aderenti e le Allstar. A parte Rob, ovviamente: rasato a zero, veste solo bomber, canotta bianca, pantaloni alla caviglia e docmartens. “Sì, siamo partiti pensando ai Ramones, ma poi non ci siamo mai curati troppo di quello che veniva fuori dagli ampli. Ci piaceva perché era potente, veloce e divertente”: così rispondo a un intervistatore immaginario, quando sono sotto la doccia. Certo è che le cose hanno inziato a girare bene da almeno un anno. Hanno iniziato a pagarci quasi sempre per i concerti. Così il furgone ce lo siamo pagati di tasca nostra, ognuno la sua parte, e non a metà col padre di Gico. Però alla fine veniamo ancora a suonare nei posti che hanno un water fuori dalla porta, dove tra Gico che sbraita nel microfono e il pubblico che poga non c’è nemmeno un metro, dove non ci pagano che con un piatto di pasta e qualche birra. Ha ragione Rob: non ce ne frega un cazzo. Il grande salto non ci sarà, è solo per i paraculi che suonano quello che piace alla gente, e a volte neanche per loro. Non ce ne frega un cazzo. Suoniamo come se non ci fosse un domani, perché sappiamo che domani qualcuno di noi arriverà e dirà “ok raga, io mi fermo”. Non ce ne frega un cazzo. Domani saremo vecchi e arrugginiti e non

VIII


ci troveremo in nessun cavolo di bar perché saremo troppo stanchi per il lavoro, se mai ne avremo uno, e guarderemo qualche vecchia foto pensando con rimorso a quel grande salto che non c’è stato. Quindi adesso è giusto suonare così, sballarsi così, tirare fino al limite senza nessun risparmio. Perché del domani non ce ne frega un cazzo. Noi siamo qui e adesso. Noi siamo qui e adesso, al centro sociale La Scamuzza, dove fa un caldo insopportabile. Non ho mai visto così tanta gente accalcata in così poco spazio, ed è per questo che penso di avere le allucinazioni quando vedo un bambino – avrà quattro anni – nel piccolo triangolo tra Rob, la batteria e una delle colonne con le casse della voce. Il bambino si agita e balla (a modo suo, ovviamente), e rischia di essere calpestato da Rob. Il quale non si è accorto di niente. Nessuno sembra accorgersi di niente. Da dove cavolo è sbucato? Quando finisce la canzone, vorrei alzarmi e chiedere che qualcuno si porti via il bambino, ma Gico subito urla “One two three four” e attacchiamo al volo con l’unica cover nella nostra scaletta, ovvero “Rockaway Beach”, dei santissimi fratelli Ramone. Il pubblico esplode. Gli basta qualcuno che gli tiri su l’adrenalina. Rob salta e scalcia e per poco non colpisce in piena testa il bambino. Continuando a pestare come un dannato, gli grido di andare via, ma non sento la mia voce, figurati se la sente lui. Il bambino si allontana da Rob e si avvicina alla colonna che sostiene una delle casse per la voce. Spero che se ne resti lì buono fino alla fine della canzone. E invece, prima dell’ultimo ritornello, il bambino tira uno dei cavi penzolanti che da terra salgono alla cassa, sistemata in un equilibrio a dir poco precario. Vedo la cassa sbilanciarsi verso terra. Mollo tutto e mi lancio verso il bambino, ribaltando mezza batteria. Non chiedetemi come cavolo ho fatto: prendo il bambino per un braccio e lo tiro a me, un attimo prima che la cassa si schianti a terra. Poi è il caos: la cassa schiantandosi fa una vampata, e il pubblico indietreggia impaurito. La gente inizia a spintonarsi per raggiungere l’uscita, vedo qualcuno che cade, sento urli, bestemmie. Poi alcuni si accorgono che non c’è nessun incendio, che non c’è bisogno di spingere e scappare, e il fuggi fuggi si trasforma in una rissa gigantesca. Vedo Rob gettare il basso e letteralmente tuffarsi nella mischia. Manzo, che si è affrettato a staccare la spina generale, sta cristonando qualcosa sul salvavita che non c’è. Quando mi vede per terra col bambino tra le braccia, sgrana gli occhi e scoppia a ridere, dicendo qualcosa che nel casino non capisco. Il bambino intanto ha iniziato a piangere, e io non so minimamente cosa fare. Ve lo immaginate un capellone a torso nudo e pieno di tatuaggi che cerca di consolare un bambino? Tutto avviene nel giro di poco tempo, come se fosse programmato, come se non fosse successo nulla di serio. La rissa si calma da sola, molti di quelli che poco fa se le davano di brutto sono adesso al bancone a bere qualcosa insieme. Una ragazza, strafattissima, mi corre incontro piangendo: è la madre del bambino, ripete Scusa, grazie, scusa tra le lacrime e io non so cosa risponderle. La guardo allontanarsi e provo un po’ di pena per quel bambino di cui mai saprò il nome. Nemmeno saprò mai come ha fatto ad arrivare fino al palco, con la ressa che c’era. Intanto tra la gente si sparge la voce che ho salvato il piccolo, e quando rientro nel locale in molti mi acclamano, mi vogliono offrire da bere, qualcuno dice Eroe. - Ma va’, dai, no, davvero – dico, però un po’ mi monto la testa e penso che magari la chitarrista delle Psycho Barbies potrebbe venire qui tutta ammirata e concedermi una palpata… Niente da fare. Si beve ancora un bicchiere offerto da Gèi per lo scampato pericolo, ci si scambia i contatti con le ragazze. “Per suonare ancora insieme qualche volta”, dicono prima di andarsene. Anche Manzo va in bianco stanotte, ma non sembra importargliene molto. - Dai, smontiamo, così ci leviamo dalle palle pure noi – dice. Sembra una fine serata come tante altre: noi che smontiamo tra gli ultimi ubriachi barcollanti, l’aria che diventa più fresca, Rob che riappare pieno di lividi e Gico che lo prende in giro. Eppure poteva finire in tutt’altra maniera. Il bambino avrebbe potuto morire sotto quella cassa. Qualcuno di noi poteva restarci secco, abbrustolito dalla scossa dopo la fiammata. Qualcuno del pubblico poteva rimanere schiacciato dalla calca, o prendersi una bottigliata troppo vicino al collo. Era da storia del rock. Invece tra poco riprenderemo le strade deserte della zona industriale per tornare alla statale, quindi alla tangenziale, quindi alle nostre case e ai nostri letti. Ci racconteremo tra di noi di quella volta che ho salvato un bambino da morte certa. Magari anche alla Scamuzza si ricorderanno di quella volta che un batterista… Ma adesso sembra tutto normale, solito, consueto. L’adrenalina ha lasciato il posto alla stanchezza. Ecco la differenza: i grandi non sono mai stanchi. Mi fermo sulla soglia della Scamuzza fumando una sigaretta. L’aria è freddina, sento la maglietta che si appiccica alla pelle sudata. Un brivido, forse mi ammalerò. Non importa, penso, ma mi metto la giacca. - Dai andiamo, ho sonno! – grida Manzo chiudendo il portellone del furgoncino. Gico e Rob sono già svaccati sul sedile posteriore, Manzo a passi rapidi gira intorno al mezzo e sale a lato passeggero. Getto la sigaretta e ridacchio tra me. Ovviamente guido io.

IX

Lavanda Blu È il nulla che regna prima d’ogni principio; continua ad avvolgerci tra le sue enormi ali. Vediamo quel che vogliamo, tra ciò che ci è concesso scorgere dal nostro podere, educati, placidi girasoli. Alzo il capo quando mi chiama, sorrido al suo lento cammino, danzo al battito d’ali. Così il nulla diventa vita ed il freddo la scura notte perché il sole è la mia gioia.

(anonimo)


Dai, Die. Sono perché esisto, niente di più. Sono terra, cielo, mare, sono tutto, sono nessuno, perché tutto mi trapassa, tutto lascio passare. Dunque? Vedo tante bocche, d'ogni tipo, d'ogni forma, mentre mi colpiscono, mentre mi attraversano, ma non si soffermano mentre cerco la mia. Così scelgo tante bocche e tante bocche mi scelgono ma nessuna si sofferma, lasciandomi muto. Così noto una penna, tra tante penne, una famiglia di lettere, tra tanti suoni, uno schermo, tra tanti fogli, un puntino nero che affoga disperato nella pozza d'inchiostro. La luce mi rende cieco, scioglie la colla mentre attraversa una sagoma muta, ché non vibra. Eppure rimango cosciente durante la vivisezione, e senza droga osservo la lama incidere un'ombra, ipotizzando la mossa successiva; perché?

Scatto qualche foto, registro qualche perplessità, allego tutto alla cartella (il chirurgo darà un'occhiata?) mentre sogno ad occhi aperti, m'innamoro dell'infermiera (il medico darà un'occhiata?), eppure penso alla fine, alla fretta di finire. Poco a poco vado avanti, mentre il tempo torna indietro e la mano scivola giù (tra le gambe di una donna?) dal mio bianco lettino, e lo specchio mi sorregge sempre più pallido; la condensa e le gocce di sudore che espelle piano scivolano via sulla pelle, sulla mano e non cadono subìto ma navigano come lacrime, dall'occhio allo specchio, l'unico che ho ricevuto, uno specchio per due occhi: un occhio in più oppure uno specchio in meno; me l'hanno tolto: ne avrei due o più; va bene così: ne basta uno; mi hanno aiutato: non ne avrei. Grazie.

(anonimo)

X


Mente sgombera di Meexiko Era freddo, l'umidità che impregnava i cartoni su cui camminava non migliorava certo la situazione. Dormire poche ore lascia sempre uno strano sconforto addosso, come una nebbia nel cervello, i suoni divagano, si cerca di essere concentrati su quello che si sta facendo, ma si è lenti. Lui aveva fretta, fretta di esserci, di riuscire ad evitare l'inevitabile. I calzini ancora bagnati dal giorno precedente s'infilavano ostili sui piedi, l'aria di caffè invogliava a berne uno. Secco, l'ordine del funzionario di polizia, risuonava nell'eco della stanza e indicava che erano già entrati. Erano venuti a mandarlo via, via da tutto, se avessero potuto anche dall'eternità. Non gli rimaneva che ridere. Ridere di loro, servi della loro esistenza ancor prima che di un'istituzione. Riuscire a non ridere in faccia a certa gente è pressoché impossibile, l'alternativa è rintanarsi nella paura che domina l'istante. E' proprio nel tempo presente, come un risveglio improvviso, che si manifesta l'evidenza. Per lui l'evidenza era quella della menzogna, l'ennesima dimostrazione di un sistema d'ordine basato sull'inganno, nella sua anima più profonda, atavica, che ha origine nella storia dell'uomo stessa. Il caffè bollente scendeva nella gola, una sigaretta accesa fumava solitaria su di un posacenere, era la sua? Non riusciva a connettere una così semplice operazione logica, non gli importava, non in quel momento almeno. L'ennesimo ordine risuonò nella stanza, l'Ordine aveva fretta. Anche lui aveva fretta, ma al solo pensiero di irritare il funzionario di polizia, il caro vecchio motto “lavorare con lentezza” prendeva forma nell'ultimo sorso di caffè. Lentamente riunì le sue cose, quelle di altri e di altre, e sempre lentamente, se ne andò da quel luogo. Una volta fuori si accese una sigaretta, contemplando l'ironia del momento: persone che lavoravano per impedire che lui ed altri vi potessero lavorare. L'assurdità si era manifestata fino al suo apice.

La sera prima, andando a dormire, aveva pensato alla possibilità di uno sgombero, com'era precaria la situazione in cui si trovava. Quanto odiava il termine “precariato”, lui non si sentiva così, gli dava fastidio far parte di una classe, o semplicemente di un'etichetta commerciale, sì commerciale, i precari sono merce, gli uomini no. Nella sua testa questa piccola rivendicazione gli dava forza. Ore dopo continuava a divagare, camminare per strada, ancora umido, freddo. La musica, lui, ce l'aveva in testa, niente cuffie, niente riproduttori di file in qualità scadente, la musica, lui ce l'ha sempre in testa. In quel momento avrebbe tanto voluto uno di quei riproduttori, giusto per togliersi dalla mente la ripetizione di un motivetto pop udito chissà dove chissà quando. E pensare che c'è gente che ascolta quella roba, così, oltre all'ascolto radiofonico, poi il suono permane nel cervello, il pop è qualcosa di infinito a volte. E' difficile essere empatici con persone del genere, un po' come gli sbirri, fascismo diffuso direbbero altri. Unico pensiero, unica azione, una vita serena insomma. La confusione aumentava, le luci dei negozi ai bordi delle strade vivevano fluorescenti, nitide tra le goccioline invisibili d'acqua raminghe nell'aria. Alberi usati come soprammobili delle carreggiate, vialoni di asfalto e cemento, automobili, veloci, orgasmo del futurista incluso: vieni a vivere sulla Terra, così s'immaginava avrebbe recitato uno spot per alieni nel futuro. Era la realtà che lo circondava, il motivetto pop ancora in testa. Si sforzava per mandarlo via, per sgomberarlo dalla sua mente, e se quel assurdo pulsare sonoro avesse anche lui la sua dignità? Decise di accettarlo, e ben presto non ne sentì più nemmeno l'eco. Aveva fame, pian piano vagava senza meta, i soldi per un kebab per fortuna li aveva. Il locale aveva la classica forma che hanno quei locali, un bancone con le provviste fast-food, il frigo con le bibite, se eri fortunato anche i tavolini dove sedersi a gustare un panino frutto di un ac-

coppiamento tra oriente e occidente. Il paninaro gli fece la solita domanda, una formula prestampata, divenuta dogma della categoria: “Panino con tuto? Cipola e picante?”. Lui, il kebab lo mangiava con tutto, se avesse avuto più insistenza avrebbe chiesto un arrotolato con carne, felafel, solo cipolla e salse, una di quelle cose che lo mandava in orbita. Nel frattempo un brano scritto nel deserto del Mojave riecheggiava nella sua testa, una sorta di ancora di salvezza, simbolo per lui della passione per la musica, Rickshaw, Desert Sessions. Appena avesse trovato un computer l'avrebbe sicuramente cercato su Youtube. Finito di mangiare, i sogni ad occhi aperti continuavano a manifestarsi, ammettere che fosse sveglio lo percepiva come un'insulto in quel momento, stava vagando, non aveva bisogno di sentirsi sveglio. Aveva tanto bisogno di farsi una doccia, ancora meglio un bagno caldo, ma la sua mente volò su di un'immagine bucolica, una sorta di lui primitivo che si tuffa in un fiume, dove l'acqua fresca lo rigenera, un urlo vitale mentre esce dall'acqua, boschi, un mondo selvaggio. Spesso fantasticava su di una vita in mezzo al nulla, con poche cose, energia elettrica solo per ciò che è necessario, come la musica, internet e queste cose qua, non un isolamento totale, non è l'eremita che lo attirava, ma l'indipendenza, l'autonomia di una propria vita, sregolata dall'Ordine. E fu in quel momento che si svegliò. *** Trieste, giovedì 15 Dicembre 2011, ore 06.40 – 08.30: una quarantina tra Carabinieri, Polizia di Stato e Digos assediano e sgomberano lo stabile occupato da “#OccupyTrieste” situato in fondo alle Rive, di fronte la piscina Acquamarina e di fianco il Museo Ferroviario su ordine del sindaco Roberto Cosolini, per motivi di sicurezza.

L’Italia non ha cultura di Tommaso Tercovich “La sensazione è quella di essere dentro un grande vuoto”. Sono in Erasmus in Germania e non mi aspettavo di sentire questa frase. L’Erasmus è certo un momento unico, che ti permette di fare delle esperienze importanti. Sicuramente una delle possibilità che si hanno è il potere (già proprio così) di vedere le cose dal di fuori, da un punto di vista distaccato. Mi riferisco certo alla politica - partitica, all’economia e insomma alla Politica nel senso più ampio del termine. L’altra sera eravamo in un localino in stile vintage non lontano dal centro di Augsburg, di quelli con le luci soffuse e le poltroncine e si parlava della situazione del

sue canzoni. In Italia la spedizione dei Mille e la Resistenza. Ma pensateci, noi ora siamo in un momento egualmente teso rispetto a quegli anni. Cosa c’è di veramente nuovo, di veramente nostro, ditemi qualcosa che la nostra generazione (i ventenni diciamo) hanno come estrema difesa, come punto fondamentale su cui basare il nostro pensiero. Cosa ci identifica? Dov’è il nostro Montesquieu? Kerouac sapeva di vivere la Beat Generation. Dove sono ora gli scrittori, gli intellettuali, i filosofi? Io non vorrei che pensaste che non esistono scrittori, intellettuali e filosofi oggi, anzi ne esistono. Punti di riferimento, pensando ad esempio

nostro paese. Parole come “crisi”, “lavoro” e “lasciare l’Italia” erano ripetute da tutti. Il mio pensiero è schizzato in alto. “La sensazione è quella di essere in mezzo ad un vuoto totale”. Il punto di vista è quello della cultura. Di questi tempi, specialmente noi giovani, non riusciamo più a creare, a pensare nulla di nuovo. Tutti riescono solamente a rimescolare vecchi pensieri rivoluzionari, vecchie ideologie e vecchi libri per cercare di capire il mondo che ci circonda. Nel corso della storia molte sono state le rivoluzioni importanti: la rivoluzione francese, la rivoluzione comunista e anche le lotte del 1968, ognuno aveva i suoi “profeti” e i suoi scrittori, i suoi libri e le

XI

a Trieste: Claudio Magris e Paolo Rumiz. Sono degnissime persone che però appartengono per natura, per vita, al secolo scorso. Anche loro potrebbero essere visti come ultime luci di un momento triestino di grande potenza artistica. Il fatto è che ci deve essere un salto generazionale tra i nonni che governano e fanno cultura ora e noi. Siamo troppo concentrati a giocare con i grandi pensatori, che non possono più vivere nella realtà. Certo, gli studenti che protestano giustamente si fanno scudo coi libri, ma perché rimanere appunto in difesa dietro pagine lodevoli ma non nostre? Mi è stato detto, l’altra sera nel localino vintage, che siamo in un “postmodernismo decaden-


te”. Ma ci rendiamo conto che rimaniamo aggrappati ad un passato culturale e non stiamo più guardando avanti. Bisognerebbe ripartire dalle radici profonde, non dal tronco marcio. E’ troppo comodo attaccare la politica per i suoi demeriti e non toccare minimamente la nostra idea culturale di vita. Visto che siamo dentro una crisi generale spaventosa perché non pensare (non ri-pensare, sarebbe un pensare su cose vecchie) ad un nuovo sistema di valori di riferimento e non cominciare a creare arte, cultura che non sia semplicemente uno specchio del passato? “Ognuno può fare grandi cose nel suo piccolo” altra frase interessante. Certo è vera, ma perché non alzare lo sguardo verso le cose grandi? Non bisogna aspettare che sia un’intera comunità a muoversi, deve nascere una élite culturale (si proprio un’ élite) che sappia orientare e tro-

vare una nuova strada per gli altri, una sorta di “illuminati” del nostro tempo. Cos’altro sono gli intellettuali se non un’élite. Qual è il libro che rappresenta il nostro presente (e quindi il nostro futuro?), qual è il film? Cosa ci contraddistingue qui e ora? Sono molte domande. Internet mi è stato anche risposto. Ma Internet è un mezzo, uno strumento, un veicolo, non può essere un punto di riferimento. Chi dovrebbe trovare le soluzioni? Non si può più guardare al di fuori di noi stessi, ognuno deve fare un viaggio dentro di sé alla scoperta della sua vera essenza. Non tutti potranno avere risposta, ma già capendo che siamo in mezzo al nulla, stiamo intraprendendo una strada per la nostra identificazione. Per questo forse a noi giovani europei serve una apocalisse come quella economica, un aiuto per smorzare le travi che ci impediscono di cercare una

nostra fiamma pulsante di cultura. Non sto sperando che accada, ma forse solo il pensiero di essere di fronte al pericolo concreto può far nascere qualcosa. Ci sono dei modesti tentativi fare ciò, molte persone infatti scrivono, dipingono, esprimono la propria arte e la propria individualità. Ma non c’è una strada comune. La comparazione che si può fare è quella con la generazione triestina d’inizio ‘900: Saba, Stuparich e Slataper su tutti. In quel momento si usciva da un secolo come il 1800, sentito come pedante e vecchio. C’erano segnali che qualcosa stava cambiando, ad esempio nella nascita del Futurismo. Slataper spinto da questa nuova visione scrisse le “Lettere Triestine” in cui criticò la società della nostra città e sancì un punto di svolta proprio nella sua cultura. Slataper scrisse che Trieste “non ha tradizione di

cultura”, anche se si può sostenere che ciò non fosse vero. C’era stato Domenico Rossetti e c’era la Società di Minerva. Aveva forse mentito allora? No, semplicemente le istituzioni culturali non rispondevano più ai bisogni nuovi che pulsavano e quindi era come se non esistessero. Così oggi tutto sembra logoro e marcio. Quando si vede un ragazzo che dipinge, qualcuno che scrive una storia o compone una canzone, questa deve essere una nuova illuminazione. Se non costruiamo la nostra cultura di appartenenza non potremo trovare le risposte e nemmeno le energie e le idee per cambiare la politica (anche quella europea), anche nelle cose più concrete. Anche questo articolo non è nulla di nuovo e non è il primo passo di niente se non il pensiero di voler pronunciare ancora la parola “Rinascimento”.

Fitness-demenza di Ruben Salerno “Che cosa desideriamo noi vedendo la bellezza? Desideriamo di essere belli; crediamo che a ciò vada congiunta molta felicità. Ma questo è un errore.’’ [F. Nietzsche]

Secondo uno studio dell’Università di Padova del 2004, in Italia gli iscritti a palestre e centri fitness erano 5milioni e mezzo. Negli anni seguenti questo numero è cresciuto, per stabilizzarsi ,nel 2010, attorno a 10milioni di utenti; nonostante la crisi, però, il dato sembra salire ancora. Il perché di questo fenomeno è risaputo. Immagini e concetti minuziosamente elaborati, atti alla vendita di prodotti per la cura del fisico, sono trasmessi quotidianamente dai media. La “prova costume’’ è diventata un pericolo temuto da donne e uomini di tutte le età, non più un capriccio per ragazzine. Modelle anoressiche e ragazzi scolpiti popolano tutte le pubblicità, dalla cosmetica al mercato immobiliare; temi quali bellezza o piacere hanno perso la propria libertà e sono sempre più veicolati verso una forma ideale. Così si possono osservare orde di aspiranti macisti riempire le sale pesi e di speranzose Belén affollare i corsi di spinning, step e aerobica. Il problema però non è la moda in sé, ma l’igno-

ranza che l’accompagna. In molti, infatti, si ritrovano a fare esercizi in maniera scorretta, nuocendo a se stessi, per la gioia dei dottori specializzati in ernia del disco. Altri, arrivando da un lungo periodo di inattività, vedono già dopo poco tempo i primi risultati, come muscoli gonfi o pelle più soda, illudendosi. Altri ancora si appassionano e cominciano a dispensare consigli, contribuendo alla diffusione di falsità. In questa Babele di ‘’homunculi’’ in cerca di forma, ovviamente, sguazzano gli avidi venditori di fumo. La varietà strabocca: Zumba, Pilates, Cardio-fitness, Krav Maga, Capoeira ecc. insegnate da poco probabili maestri imbellettati. Il tutto a costi esorbitanti! Eppure dall’alto borghese all’ultimo dei precari, nessuno si nega il sogno effimero della bellezza. Qualcuno, tuttavia, per risparmiare, si affida ad ancor più improbabili macchine tuttofare, che risolverebbero tutti i problemi con 10minuti di attività al giorno; peccato siano inutili e si rompano subito. Così, nel folle tentativo di mettersi in pace con il proprio corpo, migliaia di fitness-scarpe calpestano i fitness-terreni, a ondate regolari. E questo è il secondo punto: le stagioni del fisico. Il marasma sopra descritto non è spalmato cronologicamente sull’intero anno solare, ma solo in alcuni periodi. Il primo boom di iscrizioni è in gennaio, quando sale la vergogna per i chili presi durante le vacanze di Natale. A seguire, l’ondata di fine primavera, con la sopracitata “prova costume’’ alle porte. Terzo periodo: le settimane post-Ferragosto, in cui c’è da recuperare il calo di forma seguito agli ozi vacanzieri. Infine “la stagione delle piogge’’, quando non si può più fare jogging nel parco a causa del meteo imprevedibile. A ben vedere sembra che l’impegno sia pressoché costante e abbracci tutto l’anno, ma sta qui la vera ipocrisia!

XII

La palestra è solo uno specchietto per le allodole, la maggior parte della gente infatti “molla’’ dopo poche settimane, chi per pigrizia, chi per poco tempo, chi per la convinzione di essere in forma. È sufficiente l’idea di essere iscritto a una qualche attività per soddisfare momentaneamente il bisogno di piacersi. Ma la bilancia, che è sempre giudice super partes, non fa sconti di pena, sentenziando il regolare fallimento. La voglia di fare svanisce, lasciando il posto alla rassegnazione. C’è chi s’illude di esser così per costituzione, “grosso’’ non “grasso’’. Che sarà mai, questa costituzione? Il DNA? L’insindacabile legge naturale? L’infausto destino che condanna l’italiano medio alla pancia e al mal di schiena? L’ossessione di piacersi si sta diffondendo endemicamente per il Bel Paese e a farne le spese è lo Sport (non quello del doping né quello di correre dietro a una palla che rotola). Costanza, impegno, sviluppo delle abilità, superamento dei limiti, è su questa base che si dovrebbe costruire un’attività sportiva, sia essa indoor o all’aperto. Basterebbe un’ora al giorno di sano, banale, sport! Non ci sarebbe bisogno di spendere fortune in idiozie né di porsi il problema dell’essere o meno in forma. Forse sarebbe finalmente sconfitta la vergogna che spinge le donne a vestirsi di nero (perché snellisce) e gli uomini a passeggiare in spiaggia con i muscoli contratti e in apnea (per non mostrare la pancia). Non sarebbe più necessario lanciare strali sull’immoralità delle mode e la salute dilagherebbe, sia quella fisica che quella mentale. Il tutto senza considerare temi quali l’alimentazione, il consumo di alcolici o il fumo, altre ipocrisie di una civiltà in degrado. “La bellezza è come una ricca gemma, per la quale la montatura migliore è la più semplice’’ [F.Bacon]


“I now walk into the wild” di Stefano Tieri

Un racconto di un viaggio, di una ribellione, di un incontrastabile bisogno di dire “no”. Di un viaggio: un pellegrinaggio che porterà - come vedremo, analizzandone il perché - alla meta estrema dell’Alaska. Di una ribellione: contro l’uomo e la sua morte spirituale. Del bisogno di dire “no”: alla globalizzazione, alla società dei consumi, alla massa imbelle che si trascina avanti sopravvivendo, più che vivendo. Ed è la vita che cerca un giovane ragazzo di vent’anni, non la stabilità del così detto “progresso”, portatore delle più diverse alienazioni: in un mondo in cui ci si riduce a parlare attraverso uno schermo, senza alcun contatto umano, in un’eterna simbiosi uomo-macchina, l’uomo perde lo stesso significato della sua vita, la sua dimensione sociale («happiness only real when shared», annota infatti Chris). Non avendo più a che fare con uomini, ma con automi consumistici, Chris decide di abbandonare tutto e tutti, alla ricerca di un mondo incorrotto.

Fuggire... Separarsi da quell’identità che tanto gli pesa, affinché possa trovare l’identità che gli è propria, ancora da definire. Il primo passo non può che essere quello di dare fuoco alla sua vecchia immagine, bloccata in un sorriso forzato, affiancata da dati e cifre che definiscono univocamente la sua persona. Bruciare la carta d’identità, il Bankomat, il denaro in contanti restante. Addio vecchio mondo, per il quale ora non è più nessuno, benvenuta libertà. «Libertà estrema; un estremista, un viaggiatore esteta che ha per casa la strada». Nuova nascita, nuova vita: quella del vagabondo, uomo senza tempo, capace di rimanere ore ed ore ad osservare il lento frangersi delle onde sul mare, il volo dei gabbiani sul bagnasciuga, di sentire la voce del vento, tessendo un dialogo con lui... Questo perché non un impegno impellente scandisce la sua vita: solo il vagabondo - o lo spirito che si sente tale - ha la forza di fermarsi a contemplare, uscendo dalla logica corrotta che vede equivalenti il tempo e il denaro. Dove non c’è il tempo, il denaro non ha ragione d’essere. La velocità non è più un valore, e agli occhi del vagabondo l’affannarsi delle grandi

metropoli appare folle. Non a caso ad aspettarlo in Alaska troverà un autobus privo di ruote, e perciò immobile - ma non per questo inutile - in opposizione alla frenesia del mondo “civilizzato” che viaggia a velocità sempre maggiori, perdendo il legame con la terra sulla quale vive. Quel legame che Chris cercherà di ristabilire proprio in Alaska...

quali alla propria è possibile rafforzarla e delinearla meglio. In un mondo come il nostro però, governato dalle leggi della globalizzazione - la quale unifica culture e tradizioni - nessun posto può darci quella sensazione di estraniamento dinanzi al nuovo da cui scaturisce il confronto fra diverse culture. Questo perché non esistono più diverse culture, o meglio esistono ma in luoghi sempre più remoti (e non è un caso che col passare degli anni le mete dei viaggi “di piacere” si spostino sempre più lontano da casa). Dove c’è l’uomo arriva anche la globalizzazione (presto o tardi che sia); ecco allora la risposta: scegliere un luogo in cui l’uomo non c’è. «L’apogeo della battaglia per uccidere il falso essere interiore sugella vittoriosamente la rivoluzione spirituale»: tutto è tratto da una storia vera, una storia di una ventina d’anni fa. Eppure tutto rimane molto attuale, guardandosi attorno.

...parole al vento...

Perché l’Alaska? Qui non c’è traccia di uomo; visto cosa l’uomo è diventato, solo qui Chris - o meglio Alexander, il nome scelto per la nuova identità - potrà scoprire cosa l’uomo è in realtà: la sua natura più profonda e indomita, la riscoperta del silenzio e della seguente meditazione, la forza del vento e delle tempeste. Solitudine come preludio di libertà, se la libertà è l’imposizione di un proprio pensiero, capace di sovrastare la miriade di non-pensieri di cui è permeata la società: è in solitudine che la mente apre le porte all’infinito, ed è il silenzio il principale alleato in questa guerra di imposizione del proprio io. Non è soltanto questo però il motivo della scelta dell’Alaska: si viaggia per entrare in contatto con identità sconosciute ed estranee, confrontando le

XIII

“L’indiano restato ancora fedele alle tradizioni della sua stirpe non vuole conquistare la vita in quella lotta titanica in cui noi siamo ingaggiati: il vero per lui non è nella scienza ma nell’esperienza, egli non ama protendersi verso l’esterno, ma piuttosto scendere nelle profondità del proprio spirito per trovarvi la beatitudine e sentirsi uno col tutto. La natura, che è per noi una realtà da dominare, a lui appare un vano miraggio” (Giuseppe Tucci, Tibet ignoto)


Chatwin e Le vie dei canti - Tutte le nostre parole per paese sono le stesse che usiamo per via. di Lorenzo Natural Il viaggio è stato da sempre uno dei temi principali della letteratura mondiale: tuttavia, con la nascita delle cosiddette letterature postcoloniali e con l’affermarsi di scrittrici e scrittori portatori di quel retroterra culturale intrinsecamente legato al mondo postcoloniale, questo tema ha trovato un nuovo terreno fertile su cui innestarsi. Naturalmente, correlato ad esso, sono riscontrabili temi altrettanto interessanti da analizzare, non solo dal punto di vista letterario, ma anche da quello storico-geografico, politico e culturale: temi come la mediazione, la migrazione, il concetto d’identità e di radici. Proprio questo tentativo di raccontare dei temi di così forte significato, ha portato alla ribalta numerosi scrittori e numerose scrittrici che hanno incarnato appieno l’essere parte integrante del mondo cosiddetto postcoloniale: tra questi si ricordano nomi di rilievo come Naipaul, Rushdie, Anita Desai e moltissimi altri. Inoltre, ci sono stati – e ovviamente ci sono ancor’oggi – anche scrittori appartenenti al mondo occidentale che, per le più disparate ragioni, hanno trattato questi temi: Bruce Chatwin è uno di essi. Scrittore, viaggiatore, ‘esteta nomade’, Chatwin ha sempre ricercato nei suoi racconti e romanzi l’essenza del significato del viaggio, del movimento, del concetto di radici e di identità: linee di ricerca che vengono ancor di più amplificate nel suo capolavoro del 1987, Le Vie dei Canti. Arrivato in Australia, Chatwin si mette alla ricerca delle cosiddette “Vie dei Canti”, ossia dei sentieri sacri alle popolazioni aborigene attraverso i quali, mediante il canto degli antichi Sogni cari ai loro Antenati, erano (e sono) in grado di identificare la terra sulla quale stavano camminando. Per gli aborigeni, il canto risulta essere la conditio sine qua non la terra non può esistere: nella loro percezione, prima di esserci fisicamente, la terra deve essere dapprima percepita e successivamente ‘cantata’, in modo da essere definita tale. L’identificazione della propria terra, e quindi delle proprie radici, è anni luce lontana dal concetto occidentale di essa: l’Australia (o meglio, l’Australia non contaminata dal mondo occidentale) non ha dei limiti, dei confini che separano i diversi mondi al suo interno, come afferma Flynn “[…] non ci sono frontiere, solo strade e tappe”. Le tappe di cui parla Padre Flynn (un personaggio del racconto), non sono altro che dei momenti chiave del percorso dipinto dagli aborigeni attraverso il canto, ossia nella “creazione” della terra: il canto diventa, quindi, lo strumento con cui stabilire la propria ‘via’, il proprio sentiero, la propria terra nelle vaste distese desertiche dell’Australia centrale e occidentale. Allo stesso modo degli uccelli, che “[…]stabiliscono i confini del loro territorio per mezzo del canto”, gli aborigeni identificano la propria patria e le proprie radici attraverso il riemergere delle note sacre: “[…] un canto […] faceva contemporaneamente da mappa e da antenna. A patto di conoscerlo, sapevi sempre trovare la strada”. Una seconda peculiarità che caratterizza l’identificazione della propria terra da parte degli aborigeni australiani è data dallo spostamento: non esiste una terra, un paese natale, se non c’è movimento. L’individuo, senza movimento, è di

per sé morto, non può compiersi nella sua terra perché essa stessa è data dal cammino, dalla costante migrazione, dal movimento. In questo senso, è inevitabile rifarsi alle teorie ideate dall’antropologo James Clifford nel suo Routes, dove appunto introduce il concetto di “abitare il viaggio”, rompendo con i dettami classici di ‘radici’ e di ‘identità’, e ponendo il nomade come vero simbolo della condizione umana. Questa visione comune di Chatwin e Clifford va a intaccare l’idea di identità che è stata teorizzata dal mondo occidentale, ridando il giusto riconoscimento ai popoli nomadi – come appunto sono gli aborigeni australiani: l’atto del camminare attraverso le impervie vie dell’Australia conferisce ad essi la possibilità di acquisire la propria identità. Sebbene, di primo acchito, questa teoria ci appare di difficile comprensione, è innegabile che un popolo come quello raccontato ne Le Vie dei Canti non può che fondare le basi – e quindi anche le radici – della propria essenza nell’essere in continuo movimento: “abitare il viaggio”, appunto. Da sottolineare come Chatwin evidenzia il fatto che il nomadismo degli aborigeni non sia solamente dovuto alla mera esigenza di nuove zone fertili e ricche di cibo, come non sia solo ricerca di luoghi che consentano la sopravvivenza alle diverse popolazioni aborigene, ma anche dovuto dalla necessità di ritrovare le vie battute dai loro antenati, ricostruendo la propria Terra attraverso il canto. In contrasto con le floride città della costa orientale, il Territorio del Nord si presenta come un territorio difficile dal punto di visto geografico, occupato in buona parte da zone desertiche e dal cosiddetto bush. Ma se per gli occidentali viverci può risultare un’impresa ardua, per i nativi australiani rappresenta la propria terra, il luogo su cui compiere il proprio walkabout .Oltre a conoscere alla perfezione i doni e le insidie di questo territorio, gli aborigeni vedono il deserto come luogo in cui si deve compiere il ricongiungimento con se stessi e con il proprio Sogno risvegliato mediante il canto. Lo stesso Chatwin, in una conversazione con Padre Terence, ci ricorda che “[…] l’uomo è nato nel deserto. Ritornando nel deserto, riscopre se stesso”. Ancora una volta quindi è il lungo cammino rituale a condurre l’uomo alla sua terra, alle sue radici, alla sua identità: e le distese desertiche del Top End sono – per i nativi australiani – il luogo di consacrazione di questa individuazione delle proprie radici, non riscontrabili in un preciso luogo, ma lungo tutto le strade e le tappe (citate anche da Flynn) che caratterizzano le Vie dei Canti. Voler sentirsi a casa in un posto voleva dire avere la possibilità, poi, di lasciarlo, per raggiungerne uno nuovo. Come abbiamo già constatato, il mondo dei nativi australiani di cui ci racconta Chatwin è basato sul movimento. Tuttavia, il walkabout è un viaggio sacro, appartenente ad una tradizione millenaria, e per questo è un viaggio riflessivo, che non ha come scopo principale quello di raggiungere una mèta entro un lasso di tempo determinato, ma semplicemente di compiere un cammino (con tutte le implicazioni che esso

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comporta), senza preoccuparsi troppo di quanto tempo si potrebbe impiegare. In contrasto con questa idea di movimento, appare, invece, diversa la visione occidentale trapiantata in Australia: muoversi significa affari, guadagno, velocità; necessità che obbligano a compiere spostamenti rapidi, frettolosi. Simbolo di questo contrasto che si viene a creare fra due mondi e due culture diametralmente diverse l’una dall’altra è la ferrovia. L’ultimo tratto di ferrovia che mancava in Australia per collegare le città più importanti del Paese – come ci spiega Chatwin – era quello che doveva collegare Darwin ad Alice Springs, in pieno Territorio del Nord: 450 chilometri di rotaie che avrebbero dovuto attraversare questa zona del Paese. Il problema che pongono lo stesso Chatwin e il suo amico Arkady, riguarda il fatto che la futura ferrovia avrebbe dovuto attraversato numerosi luoghi sacri ai “proprietari tradizionali della terra”. Si sarebbero quindi incontrati – o meglio, scontrati – il mondo aborigeno, legato alle Vie dei Canti, costellate da elementi naturali, opere degli “eroi del Tempo del Sogno”, e la modernità dei ‘nuovi Australiani’, simboleggiata dall’avvento della ferrovia. Lo stesso Arkady, spiega come la preoccupazione degli aborigeni non è dovuta alla costruzione della ferrovia in quanto tale, ma che essa possa invadere e distruggere le varie tappe sacre che costituiscono le loro Vie: c’è quindi un senso di ostilità verso una cultura che pretende di imporsi sulle loro vite e sui loro rituali, noncurante della loro sensibilità. Questa difficoltà di coesistenza tra le Vie aborigene e la ferrovia – spiega poi Arkady in tono scherzoso – è anche dovuta al fatto che dando “[…] retta a loro (nda, gli aborigeni), l’Australia è tutto un luogo sacro”. Se il cammino e il canto attraverso le tappe del loro percorso è sinonimo di ricerca e di riconoscimento della propria terra, i popoli nomadi aborigeni australiani non potranno capire quei “quattrocentocinquanta chilometri di acciaio che taglieranno in due chissà quanti canti […]”, bandiere di un mondo che ha dimenticato il vero senso del movimento e del cammino, lasciando spazio a un nuovo modello di viaggio, che ai loro occhi appare vuoto, materialista e frenetico. La velocità del viaggio viene cadenzata dai passi e dal canto dell’uomo nel suo walkabout. Emblematico è l’episodio che racconta Chatwin nell’ultimo capitolo della sua opera, dove Limpy – un aborigeno Tjilpa, che stava percorrendo la strada attraversata dal suo Sogno a bordo di una macchina, assieme a Chatwin, Arkady e altri compagni di viaggio non aborigeni – non riusciva a cantare le note del suo Sogno poiché l’automobile stava procedendo a velocità troppo elevata per permettergli ciò: accortosi di ciò, Arkady procedette a passo d’uomo, permettendo a Limpy di dar vita alla graziosa melodia. Un esempio che ci mostra come solo il cammino a piedi attraverso il bush e il deserto, lento e costante, e non veloce e frettoloso come quello di un treno o di un automobile, può risvegliare la magia dei Sogni celati nei percorsi delle Vie dei Canti e far riaffiorare l’identità dei popoli australiani.


Scontr

Penne

tra

Nicola Narciso: nel 1922, all'interno del "Tractatus LogicoPhilosophicus", viene detto che il mondo è tutto ciò che accade, cioè è l'insieme dei fatti. Viene poi aggiunto che il linguaggio dipinge la struttura dei fatti e che su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere. Pare dunque che il linguaggio - inteso qui come insieme delle proposizioni - sia sì esauriente, sufficiente per esprimere quanto ci sia al mondo e quanto riguardi l'Uomo, ma che rimanga lo stesso un quid, un margine di incomunicabilità "di cui non si è in grado di parlare". Sta forse qui il senso dell’Arte? Stefano Tieri: ogni linguaggio è una struttura (si parla, ad esempio, di «sistema linguistico»), forma razionale del pensiero che, contemporaneamente, dirige il pensiero stesso («in ogni lingua si pensa diversamente», osserva Arthur Schopenhauer in “della lingua e delle parole”). Ma, mentre il linguaggio parlato è “imposto” dalla nascita, quello artistico (e non parlo solo della arti figurative, della musica, etc ma anche della poesia e di una certa prosa) si svolge in un campo più genuinamente soggettivo, libero da vincoli, capace di esprimere al meglio un determinato pensiero. Quanto di ciò che si vorrebbe esprime viene perso a causa del “comune” mezzo espressivo? Per evitarlo l'uomo ricorre – potrebbe essere altrimenti? – ad altri linguaggi, nella consapevolezza che la loro comprensione sarà più ardua (ciò è dovuto proprio al carattere soggettivo), se non impossibile. Che sia l'Arte più alta, quindi, l'incomunicabilità stessa? Nicola: Nel risponderti devo, ahinoi, sospendere moltissimi guizzi di pensiero, parecchie intuizioni, diverse considerazioni, per garantire un buon itinerario al nostro

cruento Scontro. E tale opera di sospensione avviene nel quotidiano tanto frequentemente da creare smarrimento - in me, per lo meno. Quando mai riesco ad esprimermi appieno? Ma, non sono già da sole queste mie due righe un ottimo esempio della faccenda di cui dibattiamo? In un avanzamento lineare e cronologico - come è la scrittura si fa al contempo del bene e del male: del bene, perché chi si ha di fronte comprenderà senza difficoltà un discorso lineare e cronologico, poiché lineare e cronologico è il ragionare; del male, perché non si rende affatto giustizia ai guizzi di pensiero, alle intuizioni ed alle considerazioni che ci esplodono dentro. Certa Arte (Pittura, Musica, Poesia, ad esempio) cura quel "far male" di poco fa, tentando di abbattere i paletti del lineare e della cronologia, a sfavore di questi, ma a favore del moto del pensiero, di quei guizzi e di quelle intuizioni. È da fare una scelta, quindi, legata proprio alla vita di ogni giorno, dalla spesa in bottega all'esame universitario: accettiamo una sempreverde incomunicabilità (impostando e mantenendo come "mezzo comune" il discorso orale e scritto), oppure iniziamo ad esprimerci mediante dipinti, canzoni e poesie, dal comprare del prosciutto crudo al conversare con un Docente? "Entrambe le cose" rispondo con grande scherzo. Stefano: Non possiamo adattarci supinamente alla violenza coercitiva del linguaggio parlato, allo stesso modo in cui non è possibile ricorrere unicamente al linguaggio soggettivo dell'arte. L'inganno della comunicabilità, però, si nasconde dietro ad ogni linguaggio («non c'è linguaggio senza inganno», osserva Italo Calvino tramite gli occhi di Marco Polo), l'unica differenza è che

l'arte (penso soprattutto a quella contemporanea) rende l'incomunicabilità palese, manifesta, mentre la comunicazione quotidiana la dissimula. Siamo illusi, tramite pluri-connessioni a banda larga, di essere perennemente e completamente in comunicazione con l'altro; ma non ci accorgiamo che non c'è più nulla da comunicare e che, qualora ci fosse, sarebbe impossibile farlo tramite questi mezzi. Affidare ad una macchina computazionale o ad un telefono, prodotti in serie in una catena di montaggio, quello che prima era affidato esclusivamente al contatto umano, è stato creare ulteriori muri tra le persone, non favorirne la comunicazione. Nicola: Questa faccenda dei mass-media mi fa pensare ad un annoso dilemma: è il linguaggio a modificare il pensiero dei comunicanti oppure è il pensiero dei comunicanti a modificare il linguaggio? Non entro nel merito della questione, perché ci servirebbero biblioteche di spazio, tuttavia ti dico abbastanza decisamente che queste nuove possibilità comunicative (Internet nel palmo, cellulare globale, comunità virtuali) stanno abituando, ed hanno abituato, l'Individuo a dare certi tagli, e non altri, ai rapporti, al pensiero ed alla vita. Ritengo, per fare un esempio, che la istantaneità di trasmissione di una comunicazione – basta una semplice pressione sul comando giusto – porti a ridurre drasticamente, o forse a far cadere, un equilibrio tra il pensiero e la sua espressione. Che fine fanno, in un bel messaggino del cellulare, le virgole, il labor limae (termine che intimorisce ma che indica una semplicissima e troppo umana tensione alla compiutezza), che fine fanno le sfumature di un concetto? Concludo interrogando: oggi più che mai - ma in ogni epoca si dice

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sempre: "Oggi più che mai" - servirebbe una nuova comunicazione ed una rinnovata Arte? Stefano: viene introdotto, quindi, un nuovo linguaggio (quello proprio degli sms e del web, con smiles assortiti e limite numerico di caratteri), che però sembra esprimersi più tramite l'oggettività del quotidiano che attraverso la soggettività di una qualsiasi arte. Non sembrerebbe nemmeno ora essersi sciolto quel paradosso secondo il quale l'esigenza di comunicare genuinamente si può soddisfare solamente attraverso il linguaggio dell'incomunicabile. La scelta del silenzio, allora, non appare così forzata: un silenzio che è allo stesso tempo presa di coscienza di questo paradosso e gesto di ribellione verso l'enorme quantità di vacue chiacchiere che rischia di sommergerci nel mare dell'oggettività. Come ben dici, linguaggio e pensiero sono strettamente legati: il rischio è che, eliminando il linguaggio dell'arte, non si escluda solamente la possibilità di una più profonda comunicazione, ma si elimini anche la propria stessa soggettività. La propria immagine finirebbe, guardandosi sartrianamente allo specchio, per perdersi irrimediabilmente: «gli occhi, il naso e la bocca spariscono: non resta più nulla di umano» (“La nausea”). Meglio stare fuori dal gioco, meglio il silenzio?


Lilligrafia

Ecco la risposta della vincitrice del concorso, Emilia ("un cancro come tutti"). Nel frattempo, purtroppo, i nostri azionisti ci hanno trascurato per partecipare alla grande opera di ricapitalizzazione dell'Unicredit; di conseguenza le nostre azioni, svalutate, sono tornate alla loro essenza: Charta Straccia. Numeri, lettere, nomi, più, meno, punto, virgola, punto. Disordine, scie di fantasmi, un tempo forse uomini, di corsa, veloci, sempre. Non ha importanza il volto, le fattezze, sono tutti uguali; sono tutti morti nel sogno americano. Siamo tutti sempre più connessi e siamo tutti sempre più isolati. Colori, flash, soldi, corruzione. Mi sento una vittima; sono una vittima di tutto questo, di questa fottuta realtà malata, di questo cancro. Esco, mi vesto così o nell'altro modo? Mi vesto da puttana così mi offrono da bere, oppure mi fingo una sbrisa? Voglio farmi notare, far vedere che compro cose che costano poco perché sono alternativa, sono diversa dagli altri. Voglio far merce di me stessa. Quanto valgo? Quanti soldi? Denaro. L'unico valore. Siamo tutti in questo cerchio della morte. Il sistema è un mostro che non s'addormenta mai. Il sistema è un mostro immortale. Viviamo giorno per giorno, assolutamente privi d'alcun senso, spendendo. Spendendo per tutto, per i piaceri, per i dolori, per la morte. Mi comprate quel lotto al cimitero? Io voglio un mausoleo, io sono una regina, una regina di sterco e dollari, euro, sterline. Voglio la pelle d'oro e la borsa di pelle umana. Voglio gli orecchini, voglio fare la rivoluzione, sì, io occupo tutto, mi faccio sgomberare e poi ritorno nella mia villa a tre piani con piscina e schiavi sudamericani. Voglio vomitare Burger King e cereali Kellog's per tutta la mia fottutamente gloriosa esistenza.

Direttore Responsabile: Stefano Tieri Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo Sito Web: www.chartasporca.tk Per contattarci: chartasporca@gmail.com


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