Charta Sporca numero 4

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NUMERO IV - MARZO 2012

Prendere la parola di Giovanni Benedetti Gentili lettori, per chi ci seguisse costantemente quanto ho da dire potrebbe risultare già noto, altrimenti aguzzate bene gli occhi, perché presto potrete drizzare anche le orecchie. Difatti, come già annunciato, prenderà presto avvio la prima delle conferenze organizzate da Charta Sporca. Trattandosi della prima conferenza, l’ambito sarà, per così dire, domestico: saranno infatti presenti alcuni giovani poeti, i quali parleranno brevemente di sé, della loro idea di poesia, del perché abbiano scelto questa forma di comunicazione, quale panorama offra a riguardo la cultura italiana – o europea – ad essi... senza dimenticare che siamo (includo me stesso nel novero dei giovani poetuncoli) semplicemente giovani studenti: non sarà dunque una lezione ex cathedra, ma cercheremo il più possibile di creare un vivo dibattito assieme a chi del pubblico volesse intervenire anche semplicemente per “dire la sua”. Da questo punto di vista, dunque, fare nomi sarebbe superfluo (siamo tutti sconosciuti), ma li farò comunque, anche solo per dare un nome ad ogni Vostra alzata di spalle: Solivagus Rima, Francesco Assanti, Angelo Baciocchi, l’Anonimo del precedente numero, Ettore Spada... senza contare chi di noi si interessa di poesia ma non vuole salire sul palco: Alessia, Eleonora, il sottoscritto... Saranno presenti inoltre due giovani poeti già “affermati” (hanno già pubblicato qualche raccolta e non sono più studenti universitari): Christian Sinicco e Giuseppe Nava. L’invito è aperto a chiunque desiderasse sapere di più sul nostro conto. Ascoltando alcuni di noi avrete sicuramente colto una domanda pressante: cosa possiamo fare? Manca una linea guida fra i giovani scrittori; quest’esigenza è pregnante nell’articolo del precedente numero firmato Tommaso Tercovich, nei discorsi fra noi... fare un primo passo penso sia proprio quello di incontrarci tutti assieme, e soprattutto unire assieme le idee.

(continua a pagina V)

Trenitalia - già nota per l’eliminazione sistematica dei treni maggiormente a buon mercato a vantaggio di frecce multicolori dall’elevatissima velocità - triplica l’affitto ai volontari che gestiscono il museo ferroviario di Campo Marzio (“uno dei più bei d’Europa”, come l’ha definito Rumiz), il quale rischia per questo motivo la chiusura. Ai volontari che ci lavorano e a tutti coloro che, in questo bistrattato Paese, hanno a cuore la Cultura al punto da servirla senza pretendere compenso alcuno, va la nostra più totale solidarietà e il massimo rispetto. Ci appaiono un po’ come gli esuli, fuggiti dalla “civiltà”, del romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury: custodi di una Cultura altrimenti destinata alla distruzione; additati come folli da un mondo che ha cessato di valorizzare la follia dentro di sé, smarrendo così ogni umanità.

Lilligrafia

I


The Wind that shakes the Barley di Vittorio van Vera

Rodersi, rassegnarsi, rincoglionirsi: se esistono altri motivi per avallare il governo Monti, chiedo scusa, io non ne vedo. Riprendo, non a caso e parafrasandolo, l’incipit di uno storico articolo di Giorgio Bocca su Vigevano, risalente al 14 gennaio 1962; Vigevano all’epoca uno degli emblemi del “boom economico” sulla cui mortifera assimilazione poggia gran parte delle odierne catastrofi, ma verso il quale, ai tempi, soffocati dalle multiorgasmiche grida del popolo, sporadici e irrisi furono i pensieri critici, urticanti e ferocemente contrari di devastanti profeti . Erano quattro cani, come nella canzone di De Gregori: Bocca, Pasolini, Gaber e Luporini. Loro e basta, più o meno e a giudicare da quanto ci hanno lasciato. Dal sigillo di Bocca sul modello economico imperante, genialmente fotografato nell’incipit di cui sopra (“fare soldi, per fare soldi, per fare soldi”); alla proliferazione dei piccolo borghesi che, cantava Gaber in “Quando è moda è moda”, offrivano champagne per fare i generosi; fino a una delle chicche pasoliniane: la mutazione antropologica di un intero paese che, misero e retrogrado, si era improvvisamente ritrovato ricco, sfavillante e fuori di testa come una famiglia contadina di colpo divenuta miliardaria, prima timorata di Dio e ora schiava della Dittatura del Mercato. Ho appreso del pezzo di Bocca – lo dico onde non apparire un mero paninaro - grazie a un altro grandissimo che se n’è andato da un po’ e bisognerà riscoprire, Edmondo Berselli. Bene. Ora, presente anche lui all’appello, veniamo al dunque: cosa avrebbero detto, in questi giorni, i Bocca, i Gaber e i Luporini, i Pasolini e i Berselli? E soprattutto: la mia è una domanda pertinente, o il tarlo di uno che ha tanto tempo e pure il lusso di sprecarlo***? In troppi, sembra ieri, scendevano nelle piazze a inebriarsi come dinnanzi a inattese porte celesti grondanti speme sui cardini della Libertà. Usciva di scena un farabutto, un buffone tetro e inaccettabile, un rifiuto umano d’ineguagliabile successo, capace di rappresentare al meglio il peggio (anzi, la normalità: Montanelli era ottimista) degli italiani: saliva quindi sul proscenio Mario Monti, suggerito al Re Napolitano dall’illustre predecessore (GOAT

fra gli italici governanti). Al che, nel trovarsi di fronte un barone plurilaureato, occhialuto, senza alopecia e con mono-passera al seguito da quarant’anni, il popolo italiano -arcinoto per arguzia e scaltrezza- non ha potuto far altro che volare in alto, sbrodolando sogni di rock ’n’ roll e Democrazia. “Finalmente uno che ne sa, rispettabile e intoccabile; un orsetto dolce, dotto e canuto!” sempre logico e lungimirante, l’italiano medio. Poi vennero le lacrime perfettamente calibrate della Fornero: “si vede che è una donna, che ha cuore, che ha letto Erica Jong: finalmente un palliativo femminista più efficace delle solite quote rosa!!”. Lacrime utili ad annacquare gli orrori sui quali i nostri tecnici, da quella indimenticabile e riecheggiante conferenza-stampa, stanno alacremente operando. Si parla sempre, da anni, delle leccate di Emilio Fede al fu signor B. (di cui restano fulgida testimonianza i minuti iniziali di Aprile di Nanni Moretti). Ma in fondo quella era robetta facile da decrittare: ci sarebbe arrivato qualsiasi idiota (non italiano), all’agnizione della disfatta incombente su di un paese irredimibile financo da Padre Maronno. Una disfatta che, per quanto manifesta e perpetrata allo scoperto, venne preannunciata dalla solita mezza dozzina di anti-italiani, da Bocca a Montanelli, da Moretti a Luttazzi, e ancora e sempre da Luporini e Gaber, la cui compagna tifava spasmodicamente e incredibilmente per B. (“mia moglie crede che Berlusconi possa risolvere i problemi del paese: io NO”). Una disfatta che, nonostante residui di epiche epoche passate non mancassero di persistere, -si pensi al Caimano di Moretti o alla relativamente recente invocazione di un golpe di Alberto Asor Rosa- , ha permesso alla metastasi berlusconiana di attecchire per 17 tremendi e interminabili anni, prima che non Noi, non il popolo bue, e bensì l’Europa al cui guinzaglio agonizziamo, decidesse di destituire il ducetto e indurlo a dignitosissime dimissioni alla facciaccia nostra. Ora è accaduto di peggio. La iattura inattesa è giunta e in pochissimi se ne avvedono: non solo non è cambiato nulla, ma la vera barbarie di questo nuovo regime totalitario deve ancora

palesarsi e, soprattutto, manca un ingrediente fondamentale per la Resistenza: l’intellettuale, possibilmente geniale, capace di scritti corsari folgoranti e disumani. Di qui un altro problema, ovvero l’assenza di un giornalismo vero che non sia schifosamente connivente: l’armata di Scalfari & Serra si concede senza se e senza ma, appoggiando a prescindere Monti così come il peggior partito d’opposizione di tutti i tempi (e Scalfari, uno che saprebbe ancora essere un maestro, ha addirittura denigrato le lagne plebee per l’indifferenza oligarchica riservata ai referendum); sul Corriere della Sera, specie alla luce dell’acquisizione spagnola e lo spadroneggiare spavaldo dei Battista e i Polito, sorvoliamo amabilmente; La Stampa non esiste; i giornali di B. preparano (male) il terreno al futuro Presidente del Consiglio. Rimane il Fatto Quotidiano, il quale pure ha mollato un po’ la presa negli ultimi tempi: nonostante alla vista di sponsorizzazioni Unicredit venga da pensare, il meglio dell’intelletto in direzione ostinata e contraria viene da lì: Travaglio, Massimo Fini, Malcom Pagani, Flores d’Arcais e, ogni tanto, Andrea Scanzi. Qualcuno quindi c’è, si dirà. E allora cosa manca, per aprire tutti gli occhi sulla gravità di questo sconcertante futuro e indignarci davvero (senza sbobinare peti su facebook)? Risposta ovvia: manchiamo noi; il nostro interesse ad approfondire le cose e a impegnarci, a studiare davvero e non per ingranare CFU irridenti, ad ascoltare senza dover per forza dar aria alla bocca. Manca un’idea di impegno, a cui negli anni siamo stati disabituati a puntino per mezzo di riforme volte a divellere dalle fondamenta la Scuola di un tempo, troppo seria e quindi fascista. Manca, soprattutto, la consapevolezza di non avere niente da perdere: né il presente, né tantomeno un futuro. Ve lo ricordate Gramsci, no? Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Ecco, qui si deve scegliere: o rassegnarci e tacere per sempre, o essere onesti e ammettere che nessun futuro radioso meriterebbe la nostra lugubre sottomissione, figurariamoci questo. Bisogna quindi ribellarsi sul serio, essere disposti ad arrivare fino in fondo come Milton, come Johnny, o come il protago-

nista di “The wind that shakes the barley” di Ken Loach###, il medico-partigiano Damien, granitico e irriducibile nel disprezzare la fittizia libertà concessa all’Irlanda dal Trattato Anglo-Irlandese del 1921 e per questo fucilato da suo fratello, finto buono come ce ne sono tanti, convinto sostenitore del presunto meno-peggio incarnato da una pace inedita e cruentissima nella sua celata, inafferrabile e soverchiante violenza. Il film si chiude così, con la fucilazione dell’eroe e la vittoria dei repubblicani (alla Michele Serra). La tristezza regna sovrana e quell’ultimo sacrificio parrebbe davvero inutile, non fosse ancora viva e vegeta l’utopia sottesa a quel viaggio al termine della notte. Banale, mi si dirà, ameno e inconcludente. Ancora a parlare di utopie condivise, sii icastico. Proponi una soluzione. Io, da minorato mentale, una risposta credo di averla, ed è, anch’essa, tanto ovvia quanto irrealizzabile poiché richiede impegno e dedizione totale: il Boicottaggio. Di ogni singola forma mediatica, politica, socio-economico-istituzionale che da anni ci tiene per i capelli e sta rapidamente insinuandosi in zone ben più dolorose. Significa non comprare più i giornali di cui sopra; significa gettare il televisore dalla finestra come quell’interista entrato negli annali; significa smetterla di vestirsi, mangiare, “vivere” in un certo modo, ingombrando a dismisura il conto in banca di Zuckerberg e svuotando la Strada. Gaber cantava: “c’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza – bisogna ritornare nella strada per conoscere chi siamo”. Capiamole, queste due cose, e avremo la nostra utopia. La stessa utopia, capace di generare i quattro cani di cui sopra, oggi sterile come feconda è la madre degli stolti dall’occhio bovino. Bisogna quindi ridestarne il seme, dare vita a nuovi orizzonti. Che si allontaneranno sempre, e i piedi ci faranno male, ma sarà bellissimo tornare a camminare. ***al primo che coglie la citazione, in regalo una prima edizione di Mr. Gwyn di Baricco autografata (da me). ### Citare Ken Loach fa figo, non c’è che dire. E il titolo italiano è osceno, come ogni titolo tradotto in italiano.


Terza

Pagina

inserto letterario To c.

Incontro

.

Quando io morirò forse all’inferno ci incontreremo e parleremo ancora; sarà come incontrarsi in un inverno quando sui visi imperversa la Bora.

Tu sei come una Venere moderna, appoggiata docilmente alla ringhiera, per i miei occhi ingenui, un po' fatati...

Ci scenderanno lacrime dagli occhi, discuteremo dei giorni vivaci e camminando, fra il rumor dei tocchi, «Sai, - dirò ridendo - tu mi piaci...».

Ma se alle stelle spengo la lucerna e scende alle finestre la mia sera, tutti i tuoi gesti, ahimè, ho dimenticati... Quindi perdonami, ti prego, l'indecisione, la goffaggine, il timore... e l'unica parola che collego a te, mio sventurato amore.

Ma ciò non avverrà: sappiamo bene che i destini si intrecciano una volta e poi una seconda più non viene... e sempre e ancora tu mi verrai tolta.

Giovanni Benedetti

Ettore Spada

Una giornata stupenda, un po' di foschia, i corvi nel cielo grigio, il silenzio. Ovatta. Ho deciso di starmene nascosta da tutta questa bellezza. La porta in fondo al corridoio l'ho socchiusa e sono rimasta al buio. Intorno a me il nulla, come se avessi gli occhi chiusi. Flash. Una cappella, Gesù Cristo, un drappo color porpora. E poi di nuovo il buio. Qui rinchiudevano i malati di mente.

Giulia Bellemo III


È

un giorno d’estate, quando a bordo di una scialuppa di salvataggio, proveniente da una nave mercantile inglese, il giovane diciottenne Billy Scott attraversa l’oceano in cerca di un aiuto. Il mare è in tempesta. Egli è solo; invoca i suoi genitori e prega quegli dei extraterrestri, dai quali l’essere umano è ormai convinto di essere stato creato. Il buio avvolge la leggera imbarcazione. Un rumore. Un tuono. Poi, Billy non sente più nulla. La storia di Billy inizia proprio così, in un’epoca non ben definita , anche se futura, nella quale nulla è cambiato rispetto al presente, tranne la religione più diffusa nel mondo. Infatti, ora, la religione che vanta il più alto numero di devoti è il “Barbaregenesimo”, che sostituisce il cristianesimo. Questo culto impone di credere che degli extraterrestri, di dubbia provenienza, abbiano dato vita all’uomo, degli abitanti provenienti da qualsiasi pianeta, tranne che dalla Terra. Il protagonista della nostra avventura è un ragazzo magrolino ed esile, che ha passato la fase più tenera della fanciullezza in campagna; il quale, appena compiuti diciotto anni, si è imbarcato su una nave destinata al commercio di pelli di suini, in direzione di New York. A bordo della nave il piccolo Billy non aveva stretto grandi amicizie, in quanto derubava di nascosto tutti gli imbarcati della loro razione di pane e formaggio giornaliera e delle mele, che ognuno riceveva a colazione; era solito rubare o il formaggio o il pane ad un marinaio al giorno, facendo una conta con le dita della mano di ciò che riusciva a prendere. Depredava delle mele, invece, quanta più gente possibile al mattino presto ed era talmente tanto bravo a sgraffignare, da aver tenuto per molto tempo una collezione di acerbe mele verdi sotto la sua logora branda. Accadde, però, che un giorno tentò di derubare un nuovo venuto, credendo di ingannarlo; ma questi, essendo, oltre che ben piazzato fisicamente, ben informato sulla personalità di Billy Scott, che ormai era diventato il “ladro tipo” all’interno della nave, lo prese per il collo e lo lanciò per terra. Non appena il giovanotto allungò la mano verso la sua tasca, contenente un’ esigua parte di formaggio, egli lo prese con forza per l’orlo della sua camicia e lo gettò contro la parete legnosa dell’imbarcazione; poi, credendo di non avergli fatto abbastanza paura, gli diede uno schiaffo e lo fece scappare a gambe levate. Ma, ora, torniamo al momento in cui la sua avventura ebbe inizio, cioè dopo il naufragio della nave sulla quale si era imbarcato. La nave si era ritrovata all’improvviso con una falla sulla chiglia e tutti i passeggeri si erano ritrovati di botto a nuotare con i tonni. Tutti tranne Billy. Il quale, astutamente, o, se mi è concesso fare del moralismo, egoisticamente, aveva preso la sola scialuppa di salvataggio e “tanti saluti a tutti”. Al giovane, però, non importava di essersi messo in salvo, perché aveva perso tutte le sue acerbe mele. Dopo la tempesta, che lo assalì qualche settimana a seguire, si svegliò su una piccola spiaggia presso un porto di mare. Aveva la vista annebbiata dal salso e da sottilissimi granelli di sabbia, ma riusciva comunque a scrutare due pescatori, che si davano da fare per tirar su con la lenza un numero considerevole di pesci. Le canne erano penzolanti sul piccolo muretto accanto alla spiaggia e le esche suonavano di continuo attraverso perpetui tonfi in acqua, che risonava nella mente del ragazzo come una campana. Dopo di che, fece forza sulle braccia e tentò di alzare la sua massa corporea in posizione eretta. Poi, camminò quel tanto che gli fu possibile per un sol passo e ruzzolò a terra. La faccia, ora, era completamente sporca di sabbia e la mente era circondata da un anello inesistente, che gli faceva pulsare la testa; ma, nonostante ciò, ritornò sui suoi passi e restò finalmente in piedi. Un pescatore, che lo vide, lo salutò calorosamente dal porticciolo e Scott lo raggiunse, arrancando. Non appena si rivolsero la parola, i due si scambiarono un piacevole dialogo: Pescatore:“Salve, giovane straniero! Dimmi … ma perché vieni dal mare?” Billy:“Sono naufragato! Ero a bordo di una nave in direzione di New York, quando un buco alla base dell’imbarcazione ci ha portati tutti in mare. Mi dispiace tanto per i compagni che perdetti, ma non potei far nulla per salvarli. Io sono vivo grazie alle mie abilità di marinaio” Pescatore:”Oh, poveri cavalieri del mare! Certo che l’oceano sa essere veramente un nemico crudele, quando vuole. Ma tu, allora, dato che sei un bravo marinaio, sei anche un bravo pescatore ?!?” Billy:”Non proprio! Non potevamo pescare sulla nave …”, mentendo con aria affranta. Pescatore:”Noi, invece, passiamo gran parte della mattina qui a pescare per cercar di racimolare qualche quattrino in più, ma torniamo spesso a casa a bocca asciutta. Evidentemente, il mare bene non ce ne vuole, come non l’ebbe per te e i tuoi compagni durante il tuo viaggio, poiché esso, insidioso, prese posto, che invece era riservato all’aria, all’interno dello scafo” Billy:”Dai! ‘Insisti e ce la farai!’ mi disse un tempo ormai lontano un amico … caro, che ogni dì mi rendeva la vita più facile con la sua filosofia. Sono convinto che prima o poi un pesce abboccherà a quella lenza e non ci sarà modo che si tolga da essa!” Pescatore:”Grazie marinaio! Voi sì che siete uomini vissuti, pur in tenera età!” Billy:”Ma, mi dica, buon uomo … esiste qui nei dintorni una taverna dove io possa rifocillarmi con almeno un tozzo di pane e raccapezzarmi di dove mi trovo?” Pescatore: “Certo che sì! Esiste l’osteria del vecchio Morav! Ma non è tipo da regalare qualcosa, sennò gli avanzi al suo gatto! Ma credo che per te farà un’eccezione. Dì pure che ti mando io ... oh! A proposito, io sono Melvill, il pescatore!” Billy:”Grazie mille Melvill! Sei buono, veramente!” Così, il fanciullino si allontanò allegramente, diretto alla trattoria aperta, che gli si presentò davanti nuda di ogni tipo d’ornamento. C’era solo un uomo baffuto con una tuta color grigio topo, che sorseggiava una buona dose di birra rossa da un boccale privo di manico. Probabilmente, non era l’unica della sua mattinata, dato che sulla sedia vuota accanto alla sue c’erano già nove boccali di quel tipo, vuoti, e lui cantava una canzone moderna, senza intonare una nota. Una canzonetta sicuramente incomprensibile per il lettore del presente.

Solivagus Rima

Continua...

IV


Sguardo al libro: Dolori Precoci, Danilo Kiš di Nicola Narciso

P

are superfluo mettere alla luce il fatto che l’Uomo tenti – e ha sempre tentato e sempre tenterà – di esprimere “le proprie cose”, il cosmo dei sentimenti, lo strascico del vissuto e delle esperienze ed i troppo inevitabili disagi. Appare altrettanto superfluo ribadire che questo stesso Uomo, scontrandosi con una perenne difficoltà di comunicazione e conoscendo ogni giorno il sapore della incomunicabilità, sperimenta strumenti sempre nuovi mediante i quali poter esprimere sé e il proprio cosmo; l’Arte, nel significato più vasto, trova qui collocazione. Essa è un insieme di tecniche espressive messe a punto dall’Uomo per ottenere sempre lo stesso fine, quel fine umano, troppo umano: comunicare. Va da sé che, maggiore sia l’entità di un vissuto per l’Uomo, maggiore al contempo sarà il desiderio, o la necessità, di esprimerlo. La guerra, terribile costante nella storia dell’Umanità, è senza dubbio un segno indelebile all’interno dell’intimo di coloro che ne rimangono coinvolti. Per questo la guerra, in ogni sfaccettatura, dall’obbiettività degli avvenimenti alle sofferte partigianerie, dai contrasti intellettuali e storici alle singole testimonianze di chi sta al fronte, dal ricordo di un caro caduto alla memoria di una generazione o di una nazione protagoniste, diviene, sotto la grazia dell’Arte, la Guernica, i Soldati d’autunno, un mucchio di cetre Alle fronde dei salici, l’occhio di un fanciullo nei nidi di ragno. Sulla scia di quanto detto, focalizzando l’attenzione sulla Parigi degli anni ‘80, è possibile osservare l’attività intellettuale ed artistica di un autore serbo di Subotica, di cui è stato detto: “Di tutti gli scrittori della sua generazione, francesi e stranieri, che negli anni ‘80 vivevano a Parigi, era forse il più grande. Di certo il più invisibile”. Così Milan Kundera ricorda Danilo Kiš, il quale ha dedicato la propria produzione letteraria al ricordo della guerra, senza mai separare il tempo dell’infanzia e del vissuto dal tempo storico degli anni del conflitto. “Non ha mai sacrificato i suoi romanzi alla politica. Ha potuto così cogliere quel che vi era di più straziante: i destini dimenticati sin dalla nascita”, aggiunge Kundera. Nato nel 1935, Kiš visse la fanciullezza durante la Seconda Guerra Mondiale, conobbe in quella manciata di anni il lutto per la perdita del padre e di molte figure care, crebbe e scoprì il mondo

a stretto contatto con una silenziosa eppure permanente sofferenza, percorrendo la strada degli ippocastani e giocando nel rifugio anti-guerra “a zig zag” vicino alla scuola elementare. Basterebbe spiccia psicanalisi per mettere in luce gli stretti nessi tra Uomo maturo e propria infanzia: la figura del padre di Kiš, che scomparve prematuramente morendo in campo di concentramento appare, ad esempio, in maniera evanescente in molti racconti dei Dolori Precoci, portando con sé una impalpabile ma intensa aura di affetto, di vissuto marchiato sulla pelle (la schiena curva, il bastone dalla punta di ferro, gli occhiali e la miopia). La presenza del padre è netta e segue la diacronia di cui è composto il romanzo: egli è presente, infatti, tanto nelle immagini della primissima infanzia, quando Andreas gioca da solo con un cuscino simulando la vendita di piume d’oca – e, come un ciclo infinito, Eduard stesso rivede la figura paterna nel figlio – quanto nel ricordo degli attimi in cui Andreas apprende dalla zia l’inevitabile ed effettiva morte del padre. Ogni aspetto della vita viene influenzato dalla assurdità del conflitto mondiale ed anche i più piccoli dettagli del quotidiano, allontanandosi nel tempo, risentono della stessa sofferenza di cui risentono gli Uomini, svanendo – dunque morendo o storpiandosi alla stregua della debole carne (gli ippocastani introvabili, la casa dell’infanzia scomparsa, il desolante cerchio sul terreno a seguito della presenza del tendone del circo, i ciechi ed abbandonati cuccioli di gatto destinati alla morte). Dolori Precoci è un romanzo costituito da diciannove racconti, la cui struttura narrativa è di tipo diacronico, come detto. Le diciannove sezioni, infatti, non seguono una linearità storica: non inquadrano, dunque – come guiderebbe un taglio cronologico ordinato – dapprima le origini e poi il futuro o la conclusione degli eventi, invece si articolano e si intrecciano dando forma ad una matassa apparentemente insensata e caotica di situazioni, all’interno delle quali i protagonisti appaiono e svaniscono, producendo nel lettore un indiscutibile senso di smarrimento. Solamente con il processo della narrazione ha inizio la chiarificazione: l’uomo, che in apertura pare folle, teneramente alla ricerca degli ippocastani perduti, si scoprirà essere il piccolo Andreas Sam, il protagonista, nel primo racconto subito adulto; proiettato questi in apertura – senza alcuna dichiarazione di intenti da parte dell’autore – nel piccolo mondo nel quale ha trascorso gli anni della giovinezza. Andreas sarà in seguito, per tutto il romanzo, un bambino. Vi è poi la singolare figura dell’uomo curvo, con gli occhiali dalla montatura in acciaio e dal bastone con la punta, che diverrà, a romanzo inoltrato, la sofferta figura paterna, anch’essa dapprima vivente nel terzo racconto mentre osserva il figlio dal buco della serratura, e poi chiaroscura come fosse un semplice ricordo. Vi è Dingo, cane antropomorfo del protagonista, uno dei caratteri più umani e sensibili del romanzo, sofferente alla stregua degli Uomini, a significare che il grande male – la guerra – si insinua in ogni fibra ed in ogni nervo, che siano d’Uomo, d’animale o di vegetale (di vegetale,

V

si pensi ai funghi raccolti per il pasto, scoperti poi velenosi). La scelta del ciclo di racconti per Kiš non è certo casuale. Il tutto è più della somma delle parti: tanti racconti, legati da un unico motivo portante, sapranno affrontare ciascuno un piccolo attributo del grande tema, in modo compiuto, alla stregua di una sinfonia, dove ciascun strumento suona in sé e per sé ma in cui la grande sintesi comporta varietà ed unità straordinarie. Allo stesso modo, il grande mosaico dei Dolori Precoci, in ogni tassello, regala una straordinaria immagine di un pezzo di vita. Questo dunque può risultare l’insegnamento che Kiš consegna ai lettori ed al mondo intero, perché egli, con un singolo e livido vissuto, partecipa all’Umanità. “Nessun uomo è un’Isola, / intero in se stesso. / Ogni uomo è un pezzo del Continente, / una parte della Terra. […] Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo all’Umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: / essa suona per te” (Devotions Upon Emergent Occasions, 1624).

(continua dalla prima pagina) Prendere la parola

Da come si svolgerà questa conferenza potremo poi pensare a come organizzarne altre: euforicamente saltano fuori nomi dal cilindro dei nostri sogni come quelli di Claudio Magris o Paolo Rumiz, di professori come Giuseppe Pavanello o Pier Aldo Rovatti. Ma di questo dobbiamo ancora parlare con gli interessati: potrebbero darci disponibilità come no. Quello che serve è anche un pubblico interessato. Noi forse non siamo altrettanto interessanti, ma penso che qualcosa di interessante potremmo partorirlo. Fra noi, con voi. Vi aspettiamo quindi martedì 20 marzo alle ore 20.30 nell’aula al pianoterra del dipartimento di Italianistica, in via dell’Università 1 (qualunque variazione sarà comunque segnalata anticipatamente sul sito o sulla pagina facebook, distribuiremo anche dei volantini...). Parleremo di noi, leggeremo qualche poesia, intavoleremo un discorso con gli astanti, sperando quasi di capovolgere la situazione: una vostra conferenza a cui assistere e partecipare. Sperando di aver convinto qualcuno, buona lettura.


Sulla moralità delle cose di Tommaso Tercovich

S

ullo scorso numero di Charta Sporca ho letto i due articoli molto interessanti alle pagine XIII e XIV, dei nostri Tieri e Natural. Due articoli certo diversi, ma giustamente da leggere uno dopo l’altro, legati a doppio filo. I due protagonisti, Bruce Chatwin e Chris McCandless, la cui morte è avvenuta a pochi anni di distanza, esprimono esempi di vita che a prima vista sembrano simili: il vagabondare alla ricerca di orizzonti liberi da presenza umana e il viaggio interiore dentro di sé. Basta leggere i titoli delle loro opere più famose, “In Patagonia” e “Nelle terre estreme”, per accomunarli in un unico bacino culturale. Saranno i loro quasi 30 anni di differenza, o forse la loro diversa istruzione, ma raggiungono invece sensibilità diverse in molte tematiche alla base delle loro esperienze. Qui vorrei scrivere un po’ riguardo al concetto di oggetto e cosa presenti nei due personaggi. Come giustamente scritto da S.Tieri, in Into the wild il viaggio è ribellione, un “no” alla globalizzazione e al progresso alienante, per una fuga verso luoghi inabitati e giungere ad una nuova nascita e ad una natura dimenticata. Nel breve dattiloscritto “The Morality of Things”, tratto da un discorso pronunciato da Bruce Chatwin nel 1973 ad un’asta della Croce Rossa (pubblicato poi da Robert Risk nel 1993), scopriamo inizialmente, sebbene approfondita, una tesi simile: l’oggetto è prodotto e simbolo della civiltà corrotta, e quindi entrambi devono essere rifiutati per andare incontro ad una nuova nascita. Gli antichi patriarchi di Israele erano convinti che il culto delle immagini separasse l’uomo dal Dio. Partendo da questa considerazione, Chatwin sostiene che tutte le civiltà sono, per loro stessa natura, orientate verso le cose. Infatti solo l’equilibrio tra l’ammassarle e lo sbarazzarsene garantisce stabilità alla società umana. Mentre lo scimpanzé nella sua vita quotidiana usa le cose come strumenti (pietre e bastoni), l’uomo della polis è affezionato a cose inutili. Parabola discendente che si raggiunge con la figura del collezionista, simbolo di una civiltà decadente. Il collezionismo è “disperato stratagemma contro il fallimento [...] e rito personale per curare la solitudine”. Il collezionismo è religione malata. Attraverso i suoi riti (esempio dell’asta d’arte come “dramma liturgico”) l’uomo è portato al feticismo, massima perversione, opposto dell’arte. Questa visione senza speranza, che sembra stare alla base anche della fuga dalle città di McCandless, viene però interpretata in modo opposto nella seconda parte dello scritto. Chatwin per prima cosa sostiene che il collezionista si crea, attraverso i suoi oggetti, un sistema di valori da cui esclude gli esseri umani. Le cose sono pervase da quella che chiama Moralità, che unisce lo sciamano siberiano all’artista moderno. “Idealmente un uomo non dovrebbe possedere altri beni se non quelli che è in grado di portare convenientemente con

sé”, ma il fatto che il possesso degli oggetti sia pratica comune a tutti gli esseri umani, non lo fa diventare una perversione. Verso il possesso delle cose come malattia, idea sostenuta da Freud e forse anche da McCandless, Chatwin si pone in modo critico. Non è convinto prima di tutto della tesi secondo cui la sessuazione degli oggetti, la tendenza per il maschio a prediligere forme tondeggianti e per la donna lineari, sia una realtà provata. Come anche non è convinto che la presenza, in società dominate dall’uomo, di forme verticali (minareti o architettura cistercense), sia connesso con la posizione emarginata della donna in quelle stesse società. Anche il contrario è definito “terreno infido”. Condivide invece l’idea che in quella che chiama arte nomade, ci sia un rifiuto delle immagini, caratteristica principale dei movimenti egualitari. All’opposto invece l’arte civile dove le immagini sono simbolo di sottomissione e autorità superiore. L’immagine che per esistere deve essere impressa su un supporto. Esempi ne sono il Dio Pantokrator nelle absidi bizantine e le immagini di Lenin e Marx sulla piazza rossa. Anche il possessore di oggetti (e quindi il collezionista) cerca con le cose di demarcare il luogo in cui vive, e quindi dare all’oggetto un valore transizionale: come i bambini hanno bisogno di giocare con qualcosa per trovare la loro personalità e staccarsi dalla madre, così gli uomini cercano di formarsi col Progresso (disprezzato invece da McCandless). Dall’oggetto quindi è impossibile distaccarsi del tutto – questa la tesi di fondo – in quanto caricato di significati che lo rendono vivo. L’arte infatti è sistema di comunicazione che non sarebbe possibile se gli oggetti non portassero un messaggio. Il concetto di arte viene esteso da Chatwin e non è elitario. Per di più, eliminando la proprietà si eliminerebbe il cemento sociale che permette agli uomini di stare in pace tra loro. L’allon-

Lilligrafia

VI

tanamento e la liberazione dai propri oggetti, sono per McCandless invece essenziali per la partenza. Anche lui però stazionerà in un autobus senza ruote, simbolo opposto al nomadismo (che dovrebbe aspirare alla mancanza di cose), e anzi esempio di piccolo insediamento fisso. Quello di Chatwin è un elogio alla cosa inutile. Non si pensi che con questo difenda un consumismo sfegatato. Anche qui un’assoluta contrarietà. Un oggetto inutile, parola riempita di nuovo significato, non vuol dire da buttare via, ma anzi intrinsecamente bello (almeno tra le persone che lo maneggiano). Non quindi necessario e utile per fare qualcosa, ma oggetto come mappa cognitiva, ovvero condensato della propria identità. Probabilmente la Moralità delle Cose oltrepassa il saper creare un oggetto d’arte. Quindi anche un oggetto che noi non sappiamo minimamente come produrre (penso ad un cellulare) può essere portatore di quella radice che lo rende unico e quindi fondamentale perché contiene tutto il nostro essere, nel bene e nel male. Questa unicità è condensata e sublimata nell’arte. Non si tratta infine di rifiutare gli oggetti come novelli eremiti (e qui la massima distanza dall’americano), ma capirne il profondo significato. Dalla prima parte del testo in cui sembra aspirare ad un’iconoclastia totale, Chatwin passa ad una difesa accorata della materia animata e quindi della civiltà, in opposizione al nomadismo, che pure sarà interesse primario della sua vita. Posizioni quindi sfaccettate da entrambe le parti. Chatwin si rende perfettamente conto infine, che questo lungo discorso affiancato alla pratica è di fatto un’illusione. “Questa moralità delle cose [...] è ciò che in un mondo ideale dovremmo fare con le nostre collezioni d’arte. Comunque è bello pensare che qualcosa di simile al mercato dell’arte esisteva prima dei banchieri”.


Melete thanatou di Eleonora

T

utto ha perso il suo senso da quando gli dei sono partiti, indignati con noi che abbiamo preteso di voler ridurre l’infinita varietà della vita, che trovava il suo specchio in ogni naturale politeismo, nel volgare concetto di morale che il dio unico ci impone. La vita soffocata dalla morale, il molteplice dall’uguale, l’immaginazione dall’ossessione del peccato. Vorrei poter amare il sole di fine febbraio, il silenzio dei monti, gli occhi di chi sorride e di questo solo nutrire la mia anima stanca e viverne. Ma ho imparato a mie spese che non è possibile rinnegare il proprio demone né il proprio grigio orizzonte e non basta volerlo per mutarsi in vento e volare via, liberi dal fango. Innamorarsi di un solo altro essere umano è la via più semplice, troppo semplice e pura per non essere ricercata da chi fa fatica a vivere e ad uscire dalla sua meschinità senza una mano che possa accompagnarla alle vette del mistero. Innamorarsi di un solo essere umano è la via maestra per la dimora del mistero. O forse è l’unica forma di amore accessibile a tutti. Come diceva il poeta della distruzione “l’amore è l’infinito alla portata dei cani”. Gli dei nascosti si rivelano e sorridono nel volto di chi si ama. Ed è anche l’annullamento ad attirarmi, la possibilità di abbandonare il mio fardello, di rinnegarmi in favore dell’essere amato, di gioire della sua gioia e non dover più essere costretta a sorvegliare i limiti del mio corpo. M’innamoro di ogni frammento di bellezza e m’illudo così di poter liberare il prigioniero che mi abita per la sola ragione che mi sento consapevole che è la via giusta: il fatto che io senta che se esiste un rimasuglio di verità in un mondo che alla sua ricerca ha rinunciato essa sta solo nella liberazione mi offre la forza più grande e mi espone alla più grande delle debolezze. Mi rende l’eletto e il condannato. Mi elegge con la sua condanna. Io lo so. Eppure come gli altri e più degli altri perdo tempo in lamentele, nella beata malinconia che con la sua vocazione melodrammatica mi ricorda che non c’è mai un nulla così profondo, mai un male di vivere così forte da non poter essere superato da momenti di sconforto ancora peggiori. E passo il mio tempo in cerca di rivelazioni mentre dovrei rendere la mia vita una rivelazione.

“Un giorno sarò ciò che in ogni momento sarò, supererò le barriere delle cose, e nell’identità fra essere e divenire il mio pensiero abdicherà, allora non ci sarà più parola, ma gioia e silenzio d’essere”. Sarà così? Questa è la buona novella, che altro? Non c’è differenza fra questo e quello, fra oggetto e soggetto, non c’è io e tu. Il superamento dei limiti, la fine del sacro dolore delle forme, immergersi nel punto dove la fine coincide con l’inizio. Il grande equivoco e la buona novella: il più profondo dei problemi. Il grande equivoco che riduce la vita di molti di noi in cenere sta nella boriosa incapacità di distinguere la radicale e inconciliabile frattura fra il mondo com’è e il mondo come dovrebbe essere, fra io come sono e io come dovrei o vorrei essere… i sogni, le illusioni e l’illusione, la volontà e l’incapacità di ascoltarsi e di ascoltare. Io posso essere qualcos’altro se non un mammifero di sesso femminile? Io posso rinunciare alle assurdità che dominano questo mondo al crepuscolo? Io posso essere libera? Io posso arrivare alla più perfetta solitudine che coincide, infine, con la totale condivisione? Ne ho la forza? Rischio di passare la vita del dolore per un semplice errore di valutazione. Come posso conciliare il grande equivoco e la buona novella? Sono consapevole che nel superamento del pensiero logico, nella completa identificazione fra me e il mondo, fra me e gli altri esseri, fra l’oggetto del mio pensiero e me sta la felicità, e che a questo si arriva con la sofferenza, con il sacrificio, con l’amore. Come conciliare questo con il rischio di questo tragico errore di valutazione? Sono capace? Sono pronta? Non si tratta semplicemente di un peccato come tanti altri questo sopravvalutare il proprio povero animo? Nel momento stesso in cui l’ho saputo, in cui l’ho capito, in cui per qualche attimo di gioia questa buona novella ho vissuto mi chiedo se sia ancora possibile tornare indietro, accettare di vivere la propria umanità senza odiarsi e senza odiare, senza farsi tutti i giorni una colpa della propria debolezza, senza accettare i propri tristi limiti. Il grande equivoco mi assilla, tutti i giorni. Ma uno sprazzo di sacro irrompe nella mia vita, mi squarcia e allora mi sembra nulla, mi sembra tutto, sempre. Dovremmo ringraziare di essere traditi perché ci da la possibilità

VII

di soffrire e ci pone a contatto con il mistero del perdono. Dovremmo ringraziare qualsiasi cosa che uccide una parte di noi perché chi non conosce la sofferenza non conoscerà mai la rinascita. E chi rimane sempre lo stesso è un riflesso del nulla, non un essere partecipe della vita. Il mistero della sofferenza è il più grande insegnamento che l’esperienza ci può dare.

La vita della maggior parte degli uomini non è che una sequela di schiavitù volontarie. Il nostro timore più grande è la libertà, di azione e di pensiero. Essere padroni di sé è un fardello, non una conquista. Scomparso il divino, non resta che sperare di essere capaci di dipendere dall’umano, per non finire nella più bassa e comune delle schiavitù, quella della materia.

L’unica tragedia originale dei nostri giorni s’intitola “L’uccisione della verità”. L’uomo post-moderno, povero diavolo, piangiucchia e batte i piedi e rifiuta l’idea che possa esserci qualcosa di più grande del suo inutilissimo cervello, di più importante dei suoi ragionamenti logici, qualcosa che trascenda i suoi tristi limiti, rifiuta la possibilità di ogni forma di verità. Rifiuta l’idea di poter avere un maestro, il suo maestro lui lo uccide e la chiama psicanalisi o, peggio, libertà.

Ho la presunzione di non mettere al primo posto i miei bisogni materiali – e, ben inteso, non desidero altro che questa presunzione venga messa alla prova. Sono due, dunque, i sentimenti che tutti i giorni mi spingono ad agire, e anche a scrivere: la vanità e l’amore. Tutto si fa per vanità o per amore. A meno che, in ogni caso, ciò che mi anima non sia sempre la paura di rimanere sola con i miei pensieri più profondi, con i miei demoni.

Il dolore, l’amore in tutte le sue forme – per l’amico, per l’amante, per i figli, per i fratelli, per l’arte per le meraviglie naturali - e la vita a contatto con la natura, con i suoi stenti e le sue privazioni, sono le uniche prove che ci sono rimaste che siamo uomini. Rispetto alle metropoli con i suoi templi infernali, al nostro folle sistema economico, alla nostra società magmatica e idiota, alla televisione, a quella che ci ostiniamo a chiamare politica senza volerla chiamare con il suo vero nome, mi sembra un po’ poco. E c’è gente che crede che tutte queste aberrazioni siano cose vere, reali, e ci vive senza rendersi conto di essere annegato nella menzogna, nel non essere. Uno pseudonimo ha sempre qualcosa di presuntuoso. Ci nascondiamo dietro a un nome fittizio per poter peccare liberamente di vanità senza subire i rimproveri degli altri e soprattutto della nostra coscienza.

Sentirsi al primo posto in qualcosa: stimola la mia vanità come quella di tutti, ma l’ambizione è un demonio da scacciare e, per lo meno, oggi ne sono consapevole e se mi accade di incontrarlo lo rifuggo. Sentirsi al primo posto per qualcuno: è stata una costante della mia vita e ancora oggi non riesco a farne a meno. Ma la bellezza sta nell’amare, non nell’essere amati. Nell’essere gli ultimi, per tutti e in primo luogo per se stessi. Nel riuscire ad ambire a ciò nel momento stesso in cui ogni ambizione finisce. Nel vivere lì dove il completo abbandono coincide con la scoperta di sé, dove vivere per gli altri è l’unica strada per vivere per se stessi. Dove darsi coincide con il massimo individualismo. Dove cessa per noi miseri esseri euclidei il rovello del pensiero, dove regna il paradosso. Solo il dolore può farci da guida, solo la bellezza può ricordarci che questo luogo esiste, solo l’amore può spingerci a iniziare questo misterioso cammino.


Scontr

Penne

tra

Traduzione a quattro mani di un estratto da Locturnes di J.-M.Maulpoix, pubblicato in Lettres nouvelles di Maurice Nadeau nel 1978. “Il fait nuit depuis trois jours, lune noire. Le monde est redevenu cette phrase dilatée qu'aucune genèse ne ponctue. Tous les vivants s'étiolent, ballants et démunis. Les objets prennent de l'embonpoint, ils se minéralisent. Les étoiles fatiguent : bientôt on n'y verra plus. Au marché noir un cheveu blond s'est vendu à prix d'or”. Giacomo Stellini: “È notte da tre giorni. Luna nera. Il mondo è ridiventato quella frase dilatata che nessuna genesi punteggia. Tutti gli esseri viventi s’indeboliscono, molli e deprivati. Gli oggetti ingrassano, si mineralizzano. Le stelle si sforzano: presto, non ne vedremo più. Al mercato nero un capello biondo è venduto a peso d’oro”. Amalia Degrassi: “È notte da tre giorni, luna nera. Il mondo è ridiventato questa frase dilatata che nessuna genesi punteggia. Tutti i vivi infiacchiscono, barcollanti e debilitati. Gli oggetti diventano pingui, si mineralizzano. Le stelle fanno fatica: presto non ne vedremo più. Al mercato nero un capello biondo è stato venduto a prezzo d’oro”. G.S.: In un appunto sulla traduzione poetica, Sergio Solmi definisce il “cattivo traduttore” come colui che «finisce col sopraffare con la sua interpretazione quella specie di vaga fotografia che la traduzione è chiamata a rendere». Solmi si riferisce alla traduzione “in serie”, a cui contrappone il caso in cui il testo in lingua straniera diventa parte del mondo del traduttore, egli lo fa suo e lo ritrasmette come un testo nuovo. Il traduttore si fa un’idea del testo, e questa idea influisce sulle sue scelte lessicali e formali. A.D.: E la tua visione qual è? Dalla traduzione che leggo, in soluzioni come si sforzano, nel cambio della punteggiatura e soprattutto nella scelta della parola molli, intendo che aspiri alla seconda, ma rischi di cadere nella prima

opzione. Traballare e barcollare ciondoloni (possibili traduzioni di baller) suggeriscono un’idea di mollezza, ma la tua è una reinterpretazione che ha dell’arbitrario. Anche l’aggiunta di “esseri” inserisce un lemma laddove l’autore non lo vuole. In francese esiste la locuzione êtres vivants, e ha lo stesso significato italiano. Quindi la tua scelta, che aggiunge del materiale sintattico, toglie o stravolge il materiale semantico della frase. Che sia la paura di un’ipotraduzione (undertranslation)? Secondo Lorenza Rega, un testo letterario ammirato dal traduttore può provocare una sorta di soggezione per cui la parola straniera sembra comunicare qualcosa di ancora più incisivo rispetto alla parola corrispondente nella propria lingua. Quindi con il timore di sottovalutare il testo si rischia di stravolgere l’opera più di quanto si creda. G.S.: Il rischio c’è, eccome, di cadere in una traduzione pretenziosa. D’altra parte ogni interpretazione è, in un certo senso, arbitraria: quello che colgo nel testo originario, e che voglio rendere nella mia lingua, è un sentimento che nasce dalla mia condizione, dalla mia esperienza, da tutto il corollario di situazioni che caratterizzano la ricezione di un’opera artistica. In questo senso ha ragione Solmi quando accosta la traduzione all’imitazione. Nello specifico del testo di Maulpoix, vi ho letto un senso di ineluttabilità, e di eterno presente (il mondo come una frase «q’aucune génese ne ponctue») esteso indifferentemente ad ogni cosa, viva o inerte: «esseri viventi» copre questa estensione meglio del semplice

«vivi», che può essere inteso per i soli umani. Per questo motivo (una situazione senza tempo, immota, mineralizzata come gli oggetti della prosa) ho scelto di usare il presente anche nell’ultima frase. C’è però un altro rischio, che vedo nella tua versione: cercare il termine “corretto” a tutti i costi, perdendo di vista il rapporto della forma rispetto al senso: per esempio, «pingui», un termine non proprio di uso comune, per «prendre l’embonpoint», che è come dire “mettere la pancia”. A.D.: La scelta del presente nell’ultima frase la posso condividere, anche perché il presente accompagna tutto il testo e lo colloca, come giustamente dici, in un ambito temporale “sospeso”. Ribadisco invece che in francese “esseri viventi” esiste, e comprende la sfumatura che intendi. In questo caso quindi il tuo è un appunto sul lavoro del poeta, una nota di biasimo per non aver usato la parola “giusta”, che tu aggiungi. Eppure le traduzione dovrebbe rispettare, ove possibile, il gusto e gli intenti dell’autore: la sua intenzione era un’altra. E anche se effettivamente Maulpoix non si fosse espresso al meglio, e la scelta della parola vivants sviasse dal concetto che si palesa nella frase dopo, questo non dovrebbe riguardare il traduttore: non è suo compito migliorare l’opera, perché significherebbe comunque stravolgerla. Riguardo a prendre l’embonpoint, più che un errore di troppo zelo, il mio può essere stato un errore e basta. Credo che nessuno dei nostri termini sia adeguato: la locuzione non è infatti né rara come “diventare pingui”, né colloquiale come “mettere su pancia”, né

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comune come “ingrassare” (per cui ci sono altri termini francesi corrispondenti). Il significato originario del termine è positivo (in buona salute), mentre ora indica una persona in sovrappeso. Potrebbe essere tradotto con “ben in carne”, “abbondante”, per trasmettere quest’accezione un tempo positiva, ma il verbo relativo sarebbe comunque una forzatura (motivo per cui non ho scelto il raro impinguire). (Il discorso potrebbe proseguire ancora per pagine e pagine, puntualizzando ogni termine o virgola del testo tradotto. Il traduttore cerca di orientarsi al meglio nella benjaminiana «foresta del linguaggio», e questo piccolo assaggio delle molteplici questioni che tale attività comporta vorrebbe trasmettere due cose: da un lato, la “nobiltà” del lavoro traduttivo quando non è solo tecnica ma vera ricerca letteraria e linguistica; dall’altro, l’impossibilità di una traduzione che sappia rendere appieno la ricchezza e l’unicità che sono proprie di ogni lingua).

Direttore Responsabile: Stefano Tieri Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo Sito Web: www.chartasporca.tk Per contattarci: chartasporca@gmail.com


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