IN LOVING MEMORY
IN MEMORIA DELLE VIT TIME DELL’OBSOLESCENZA PROGR AMMATA E PERCEPITA
In Loving Memory In memoria delle vittime dell’obsolescenza programmata e percepita Laboratorio di Sintesi Finale C1 Corso di Laurea in Design della Comunicazione Scuola del Design, Politecnico di Milano Anno accademico 2019 – 2020 Relatore Francesco E. Guida Correlatori Andrea Braccaloni, Pietro Buffa, Giacomo Scandolara Collaboratori Marcello J. Biffi, Alberto Candido, Andrea Pronzati, Claudia Tranti, Ernesto Voltaggio Componenti del gruppo Gabriele Broggini, Chiara Carovelli, Emanuele Ceccherini, Eleonora Dussin, Bianca M. Fratin
IN LOVING MEMORY
IN MEMORIA DELLE VIT TIME DELL’OBSOLESCENZA PROGR AMMATA E PERCEPITA
Fig. 1
INDICE INTRODUZIONE
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OBSOLESCENZA PROGRAMMATA Cos’è l’obsolescenza programmata? L’impatto ambientale Inchieste e prospettive future
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STORYTELLING Gli oggetti parlano Le storie: informazioni in esperienza Lo storytelling attraverso i dati
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MONUMENTALITÀ E IMPATTO VISIVO Impatto emozionale Monumentalità e thauma Caratteristiche strutturali Identità e modulo
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RITUALITÀ E INTERAZIONE Introduzione all’esperienza Ritualità dell’omaggio tecnologico Gestualità del rito Tecnologia implementata
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SITO WEB E ARCHIVIO Passaggio dal fisico al digitale Web experience e memoria Racconta la tua storia
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BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
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INTRODUZIONE La morte: da sempre un grande mistero, un tema ampiamente affrontato che però non trova risposte certe. L’unica vera certezza è che prima o poi toccherà tutti... e tutto. Davanti a una parola così potente viene spontaneo in primo luogo associare i concetti che riguardano l’uomo e la sua fragilità. La morte però è molto più ampia: tocca tutte le cose, se non biologicamente, almeno metaforicamente. Nel linguaggio comune, ad esempio, il verbo morire assume significati trasversali, spesso figurati, specialmente quando parliamo di oggetti. Scientificamente gli oggetti non possono essere definiti viventi: non respirano, non si riproducono, non provano emozioni...eppure, anche per loro esiste una “nascita”; un momento prima non esistevano, poi vengono inventati, progettati, modellati ed assemblati finché non giungono nelle nostre mani. A prescindere dalla loro funzione, gli oggetti sono parte delle nostre vite, silenziosi compagni di tutti i giorni. Molti di loro diventano per noi qualcosa di simile a delle succursali della nostra memoria: basta riprenderli in mano per fare riaffiorare ricordi ed emozioni andate perse. Nel momento in cui smettono di funzionare oppure non sono più desiderati, arriva per loro quella che potremmo considerare la “morte”: la decisione di disfarsene, gettandoli via. Non sempre però i guasti avvengono in maniera naturale. Per quanto metaforica, la morte degli oggetti è diventata in questo contesto storico, un problema reale e concretamente vicino a noi. Spesso vengono messe in atto pratiche di obsolescenza programmata, con le quali i produttori riducono arbitrariamente la durata dei prodotti con lo scopo di incrementare
le vendite. Non solo, spesso siamo noi i primi a gettare via i prodotti quando questi sono ancora funzionanti, per moda o interesse ad acquistare un nuovo modello dello stesso oggetto, come spesso accade per esempio con smartphone, console di videogiochi e televisori. Succede così che si arriva a trattare un elettrodomestico, il cosiddetto bene durevole, come il cibo, stereotipo del bene deperibile anche se, ironicamente, un computer portatile “scade” mediamente in tre anni, due anni prima di una scatoletta di tonno che invece ne dura cinque. Questo meccanismo comporta inoltre delle ricadute ambientali che ancora oggi si è in difficoltà a controllare. Se gli oggetti fossero trattati come persone? La loro morte prematura meriterebbe allora di essere ricordata, si racconterebbe di loro le avventure vissute con chi li ha posseduti e si cercherebbe di risalire alle cause della loro morte. Probabilmente verrebbe dedicato loro un memoriale, in testimonianza e monito per le generazioni future. In Loving Memory vuole essere proprio questo: un luogo dedicato alla memoria di tutti questi oggetti andati perduti, dimenticati, buttati prematuramente. Qui la loro memoria è conservata nei ricordi amorevoli di chi ha fatto loro compagnia, diventando allo stesso tempo un amaro monito per le persone affinché aprano gli occhi sulle cause che da anni alimentano questo fenomeno.
OBSOLESCENZA PROGRAMMATA A CURA DI CHIARA CAROVELLI
Il tema centrale di In Loving Memory è l’obsolescenza programmata, ovvero il fenomeno secondo il quale le aziende riducono arbitrariamente la durata dei prodotti, sia analogici che tecnologici, per incrementare le vendite. Le sue conseguenze sono molteplici e molte di esse confluiscono in una produzione di rifiuti eccessiva, che nel tempo sta diventando difficile da riciclare o smaltire. Nonostante i suoi effetti siano evidenti nella quotidianità, c’è ancora poca chiarezza sulla sua origine e poca consapevolezza sulla sua reale portata a livello ambientale, sociale ed economico. Questo approfondimento mira quindi a ripercorrere la storia di questo fenomeno, che prosegue per quasi un secolo, fino ad arrivare ai recenti movimenti di protesta e alle prime legislazioni a riguardo.
CAPITOLO I
COS’È L’OBSOLESCENZA PROGRAMMATA?
COME MUOIONO GLI OGGETTI?
Quante volte nella vita capita di dire “Mi è morto il telefono?”. Che sia per qualche bug o semplicemente la batteria che si scarica all’improvviso, il dispiacere porta a riferirsi ad esso come se precedentemente fosse stato vivente. Ragionando in questi termini ci si potrebbe chiedere: quand’è che un oggetto muore? La “morte” degli oggetti, esattamente come quella umana, può in effetti avvenire in maniera naturale, per rottura o logoramento, oppure essere indotta da agenti esterni, ad esempio, dalla poca cura nel maneggiarli, ma anche da ciò che chiamiamo obsolescenza programmata.
PURCHÉ SI VENDA
Una delle prime comparse di questo termine risale al 1932, quando Bernard London scrisse Ending the depression through planned obsolescence. In questo opuscolo London suggeriva di stabilire una morte legale per qualsiasi bene di consumo, dal cibo agli edifici, ovvero una data di scadenza oltre la quale l’oggetto in questione avrebbe dovuto essere distrutto e sostituito con uno più nuovo, in modo da incrementare le vendite e risollevare l’America dalla crisi produttiva che in quegli anni stava attraversando (London, 1932). Un ragionamento analogo era già stato fatto nel 1924, quando i principali produttori di lampadine europei ed americani si riunirono a Ginevra per firmare il Cartello Phoebus. Con questo accordo stabilirono uno standard produttivo in termini di forma, luminosità ma soprattutto di durevolezza. Per porre fine all’eccessiva concorrenza ed aumentare le vendite si ridusse la loro durata da un minimo di 2500 ore ad un massimo di 1000. A causa della guerra, l’accordo venne sciolto ma le aziende continuarono ad adottare tecniche simili per favorire la propria economia. Un altro caso noto è quello dell’azienda chimica Du Pont, produttrice di calze in nylon. La fibra da loro prodotta, studiata per essere duratura, ma evidentemente diventata troppo resistente, avrebbe deter-
Figura 1 – Cimitero di tastiere. Figura 2 – Distributore automatico di collants in nylon DuPont. Figura 3 – Esempio di pubblicità che incentiva l’acquisto emotivo.
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OBSOLESCENZA PROGRAMMATA
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Fig. 3
COS’È L’OBSOLESCENZA PROGRAMMATA?
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minato un calo della domanda dovuto alla saturazione del mercato, perciò, i tecnici vennero incaricati di studiare come indebolirla, in modo da incrementare gli acquisti. DESIDERARE TUTTO, NON AFFEZIONARSI A NULLA
Mariana Ciancia è ricercatrice presso il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano e si occupa di convergenza mediatica, nuovi media e cultura partecipativa.
Nel contesto storico attuale, il possesso di un oggetto non è dettato soltanto dalla sua semplice utilità funzionale, ma anche da una serie di messaggi a cui esso viene associato. Ogni brand, specialmente se molto noto, porta con sé un corredo di valori che poi trasmette nei suoi prodotti e nella sua identità, tramite la comunicazione su diversi canali. Il consumatore, di conseguenza, non compra solo un prodotto, ma anche gli ideali che esso comunica: questo è uno dei fattori principali che differenzia un brand. Nell’ambito del lusso in particolare, la sfera psicologica è molto influente al momento dell’acquisto: si spera di comprare una determinata immagine di sé agli occhi degli altri che il possesso di quel prodotto può offrire. Questi meccanismi, insieme al progresso tecnologico e alla moda, cambiano la percezione di chi acquista: ogni nuovo modello oscura il precedente, facendolo apparire ai suoi occhi come obsoleto quando ancora perfettamente funzionante. Il designer Brooks Stevens, in una conferenza per pubblicitari a Minneapolis (1954), descrisse questo processo introducendo il termine “obsolescenza percepita”, definita come l’instillare nell’acquirente il desiderio di comprare qualcosa di appena un po’ più recente, un po’ più bello e un po’ prima di quando sia necessario. Questa affermazione è valida tutt’oggi, ma con una variazione: non si tratta più di instillare desideri, ma di anticiparli, producendo servizi e prodotti studiati su misura per il target individuato, intercettando i suoi bisogni. Intercettazione che, come afferma Mariana Ciancia in Digital Transformation (2019), nel corso degli ultimi decenni ha subito un’evoluzione radicale. Con l’avvento del digitale il brand ha l’opportunità non solo di porsi in un atteggiamento
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di ascolto attivo dei comportamenti del pubblico di riferimento, ma ricavare dei dati, quindi avere accesso ad informazioni misurabili e confrontabili che vengono poi tradotte in bisogni. Questi ultimi possono appartenere alla sfera delle necessità oppure a quella dell’emozione e dell’esperienza, che sempre più sta diventando un elemento chiave da esaltare, passando dalla soddisfazione di un bisogno alla sua generazione. Come puntualizza infatti Marco Ronchi più avanti nello stesso testo (2019): “Quello che pochi anni prima era stato un bisogno di trovare un canale più personale con il consumatore comincia a diventare un modo per guardare sempre più ai bisogni emozionali, cercando il più possibile di generarli, a discapito delle informazioni per cui avrebbe senso promuovere il proprio prodotto.” (p.80). Se è vero quindi che non c’è un effettivo guasto ad innescare questo processo, è altrettanto vero che si è affermata una serie di dinamiche economiche e comunicative che incentivano e legittimano questo tipo di comportamento. Rispetto all’obsolescenza programmata, che è indipendente dal consumatore, quella percepita porta quindi con sé un risvolto ugualmente pericoloso: desiderare tutto ma non affezionarsi a nulla. Nel tentativo di adeguarsi ad un mondo che cambia rapidamente si rischia di perdere di vista il proprio rapporto con le cose, inizialmente amate e poco dopo dimenticate.
COS’È L’OBSOLESCENZA PROGRAMMATA?
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Marco Ronchi si occupa di Digital Strategy e Trasformazione Digitale sia come insegnante al Politecnico di Milano, che come CEO dell’agenzia Twig.
L’IMPATTO AMBIENTALE
PERCHÉ BUTTIAMO COSÌ TANTO?
Una sfumatura interessante dell’obsolescenza programmata è che con il tempo questo fenomeno è diventato sempre più noto alla gran parte dei consumatori, eppure è tacitamente accettato e considerato normale perché uso comune. Nel corso degli anni, almeno tramite la pubblicità, è stato messo in atto a livello di marketing un processo semantico di naturalizzazione di questo fenomeno, l’idea del prodotto come organismo, quindi soggetto ad un “ciclo di vita”, solleva il consumatore dal ruolo di “killer”, facendolo sentire semplicemente parte di una catena, convincendolo che questo sia solo il naturale corso delle cose. Contrariamente all’esperimento mentale citato all’inizio però, gli oggetti non hanno una vita, anzi, con le dovute riparazioni e manutenzioni, molti di loro potrebbero potenzialmente essere ancora utilizzati.
BASTA SOLO RIPARARE?
Riparare i prodotti non sempre però è possibile: non è detto che i pezzi di ricambio siano disponibili sul mercato oppure, se lo sono, vi rimangono solo fino all’uscita di un nuovo modello. In altri casi, il costo della riparazione è di poco inferiore al prezzo dello stesso articolo nuovo, se non addirittura superiore. Si prenda ad esempio uno smartphone di fascia media sul mercato da tre anni a cui si è rotto il display: il costo di riparazione si aggirerebbe sui 90€, mentre lo stesso modello nuovo sui 110€. Per 30€ di differenza, è facile che si preferisca acquistarne uno nuovo. Per alcuni elettrodomestici può accadere il costo di riparazione sia superiore al prezzo dello stesso prodotto nuovo, quindi sconveniente per il consumatore. Questo è il caso degli spazzolini elettrici in cui, per preservare la scheda madre e la batteria dall’acqua, queste vengono saldate all’interno della scocca di plastica, impedendo però migliorie o riparazioni. Ipotizzando di voler sostituire la batteria, questa costerebbe circa 5€ in più rispetto al prezzo del prodotto nuovo, disincentivandone così la riparazioene. Nel
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caso di prodotti più “vecchi” di 3-4 anni, invece, può capitare che non siano più disponibili sul mercato i pezzi di ricambio, costringendo il consumatore a disfarsi del suo prodotto, ormani non più riparabile. Buttare e ricomprare appare quindi come la soluzione migliore per chi acquista, se non altro la più veloce e semplice. Soluzione che però ha un costo ambientale più alto di quanto si possa immaginare. Che sia per irreparabilità, per convenienza o per moda, disfarsi di elettrodomestici e dispositivi tecnologici è piuttosto semplice per i consumatori, ma non si può dire altrettanto del loro smaltimento. Con il passare degli anni la mole dei rifiuti elettronici, i cosiddetti e-waste, sta crescendo a dismisura. Secondo il Global E-Waste Monitor (2017), ogni anno a livello globale ne vengono prodotte quasi 50 milioni di tonnellate, dalle quali è possibile recuperare molti tipi di componenti elettronici e materie prime, tra cui oro, argento, rame e altri conduttori. In un report del World Economic Forum (2019) si stima che ci sia 100 volte più oro in una tonnellata di telefoni cellulari che in una tonnellata di minerale d’oro e che si potrebbero ricavare circa 55 miliardi di euro dalle materie prime estratte dagli e-waste. Secondo la Convenzione di Basilea (1989), trattato firmato da 187 paesi, è illegale esportare rifiuti tossici, tra cui proprio gli e-waste, specialmente da paesi sviluppati a paesi in via di sviluppo, per questo, ogni stato deve provvedere allo smaltimento dei propri rifiuti elettronici. Nell’Unione Europea, per facilitare questo processo, al momento dell’acquisto il prezzo di molti prodotti elettronici include il costo del loro smaltimento, detto contributo RAEE in modo da garantire il loro trasporto e riciclaggio in centri appositi. Ciò nonostante, il 75% di questi rifiuti sparisce dai circuiti di riciclo legali per essere depositati in discariche locali
L’IMPATTO AMBIENTALE
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IL PROBLEMA DELL’E-WASTE
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oppure, molto più frequentemente, spediti illegalmente in India, Cina o Africa. Come mostrato nel documentario The E-Waste Tragedy (2014) di Cosima Dannoritzer, in questi luoghi la parte più povera della popolazione, si procura da vivere recuperando le materie prime dai rifiuti per poi rivenderle illegalmente. Infatti, in Cina confluisce una grande quantità di scarti di computer provenienti dagli Stati Uniti, dove molte aziende, anziché occuparsi dello smaltimento dei propri rifiuti, spediscono container di spazzatura al porto di Hong Kong, dove vengono poi distribuiti nelle città vicine. La città di Guiyu in particolare è diventata nel tempo una discarica enorme, con laboratori specializzati nel recupero e nella vendita di computer riciclati, giro di affari illegale che dà impiego a circa 200.000 lavoratori. In Ghana invece, in una frazione di Accra, troviamo Agbogbloshie, una delle più grandi discariche di rifiuti elettronici al mondo. Qui ogni giorno giovani tra i 15 e i 35 anni, perlopiù migranti provenienti dalle regioni del Nord Africa, lavorano in condizioni altamente pericolose, stando a diretto contatto con materiali e vapori tossici senza nessun tipo di protezioni. Gli scarti di queste lavorazioni vengono poi riportati in discarica e utilizzati per la costruzione di baracche oppure gettati in corsi d’acqua vicini, diventando ponti di fortuna e alimentando questo un circolo vizioso ambientale. Questo luogo in particolare è stato portato recentemente all’attenzione mediatica da molti artisti tramite diversi media. Tra questi, il fotografo tedesco Kevin McElvaney, che ha prodotto Agbogbloshie (2014) una mostra fotografica e un video reportage che sono il risultato di 4 giorni trascorsi ad Accra, intervistando e documentando la realtà del luogo. Tre anni dopo il gruppo musicale Placebo, nel videoclip di Life’s What You Make It (2017) denuncia questa situazione, sensibilizzando i fan su dove realmente finiscono i dispositivi elettronici che vengono buttati.
L’IMPATTO AMBIENTALE
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Figura 4 – Giovani al lavoro nella discarica di Agbogbloshie, Ghana. Figura 5 – Pila di E-waste in Cina.
INCHIESTE E PROSPETTIVE FUTURE
IL DIBATTITO FRANCESE
In un contesto di produzione in serie e di uso massiccio di Internet, non è raro che i consumatori inizino a notare una ricorrenza e somiglianza dei guasti e delle difficoltà di riparazione. Così, si rafforza sempre più l’idea che i difetti non siano solo una questione di caso o di “sfortuna, ma piuttosto intenzionali o addirittura sistemici. Il guasto diventa quindi un segno di obsolescenza programmata e un simbolo della società dei rifiuti. Con questi presupposti sono nati nello scorso decennio decine di movimenti e associazioni di protesta contro questo meccanismo, come Halte à l’Obsolescence Programmée (Stop all’obsolescenza programmata), nata nel 2015 in Francia. Oltre ad essere una delle associazioni più conosciute nell’ambito, H.O.P. si occupa di fare ricerca e fare divulgazione per informare i consumatori in modo da creare più consapevolezza sulle loro responsabilità e l’impatto delle loro scelte nell’ambito degli acquisti.
LE INCHIESTE: I CASI PIÙ RICORRENTI
Nel corso degli anni sono state svolte inchieste intervistando consumatori e professionisti del settore per individuare le strategie di obsolescenza programmata più utilizzate e su quali prodotti. Dal 2017 al 2019 lo studio Formafantasma ha condotto un’indagine approfondita a riguardo, in particolare nell’ambito della gestione dell’e-waste. Il frutto di questa ricerca è stata Ore Streams, una mostra esposta alla Triennale di Milano in occasione di Broken Nature in cui, a partire dall’analisi dello stato attuale in materia di e-waste, si indaga e riflette su come il design possa contribuire a risolvere il problema. In uno dei video realizzati per la mostra si sviluppa una spiegazione ben articolata su quali siano gli oggetti più soggetti a queste pratiche. Tra i primi troviamo le stampanti: in molte di esse il firmware è progettato per disattivare la stampante se vengono installati componenti prodotti da aziende concorrenti. Inoltre, secondo un’inchiesta svolta da HOP, in altre stampanti
Figure 6, 7 – Proteste in contro l’obsolescenza programmata e a favore della riparabilità.
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OBSOLESCENZA PROGRAMMATA
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INCHIESTE E PROSPETTIVE FUTURE
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è presente un chip che, oltre a tenere il conto delle stampe effettuate, è programmato per impedire l’uso delle cartucce oltre una determinata soglia, che può essere uno specifico numero di pagine stampate o un lasso di tempo, costringendo il consumatore a sostituire la cartuccia anche questa in realtà potrebbe contenere ancora dell’inchiostro. (HOP, 2018). Nel caso delle cuffie, invece, queste sono progettate con il cavo jack incorporato. Questa piccola parte è molto incline alla rottura e, quando succede, l’intero prodotto è da buttare, dato che non c’è un modo semplice per ripararlo. Tra gli altri problemi, molti sono propri dei prodotti Apple. Uno dei primi esempi riguarda l’iPod Classic, prodotto con una batteria sigillata nella scocca, quindi difficile da aprire e sostituire in autonomia. Una difficoltà di riparazione è stata introdotta con l’uso, a partire dal 2009, di viti pentalobate di sicurezza, resistenti alla manomissione ma al tempo difficili da reprire. I display retina e la scocca, invece, sono prodotti come una sola unità saldata: questo significa quindi che quando una parte smette di funzionare, l’unica possibilità è sostituire l’intero insieme di pezzi, operazione che però risulta essere molto costosa. Il design dello schermo inoltre rende difficile la separazione dei materiali in fase di riciclaggio poiché anche il vetro e l’alluminio sono saldati insieme. Infine, le tastiere “a farfalla” dei MacBook e MacBook Pro, installate nei laptop della Apple dal 2015 con l’intento di rendere i tasti più stabili e reattivi quando premuti, sono note ai consumatori per il fatto che sono facilmente inclini a bloccarsi. Per questo in California nel 2018, si è svolta una class action contro la stessa Apple (Formafantasma, 2018). Sul piano software, molti device digitali necessitano di essere aggiornati frequentemente per far fronte alla performance e la sicurezza, ma il peso delle patch cresce da un upgrade all’altro, mettendo a dura prova la memoria del
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dispositivo. A differenza dei dispositivi militari, che vengono progettati con l’80% di memoria libera, per far fronte agilmente a tutte le funzioni richieste i device comuni sono dotati di una memoria molto limitata. Così facendo, questi dispositivi non sono predisposti a futuri aggiornamenti, o almeno non sono in grado di reggerne molti, rendendoli così obsoleti a breve termine. Nel 2018 l’antitrust italiana ha multato Samsung e Apple per 5 e 10 milioni di euro per aver messo in atto delle strategie di obsolescenza programmata. Incrociando le lamentele dei consumatori riguardo la performance dei loro prodotti è risultato infatti che l’installazione di Android Marshmallow ha rallentato i dispositivi e, allo stesso modo, gli aggiornamenti IOS 10.2.1, 10.3 e 11.2 ha intenzionalmente rallentato gli iPhone più vecchi (Formafantasma, 2018). Partendo da questo caso eclatante, che ha attirato l’attenzione dei media, possiamo fare un excursus su come la legislazione stia cercando di intervenire per porre delle limitazioni a questo fenomeno. Il primo passo verso un’economia più sostenibile è stato mosso dalla Commissione Europea, che nel 2010, con il regolamento Ecodesign, ha incoraggiato la produzione di artefatti riparabili e riciclabili, rendendo obbligatorio mantenere sul mercato i pezzi di ricambio per almeno 7 anni. A maggio 2018 il governo francese ha approvato un piano d’azione sull’economia circolare, mentre nell’ottobre 2019 è nato il progetto PROMPT (Premature Obsolescence Multi-stakeholder Product Testing), un programma di test indipendenti per valutare la longevità dei prodotti elettrici ed elettronici, senza che i risultati siano falsati da un’azienda committente. Infine, dal 1° gennaio 2020 è stato introdotto l’obbligo di classificare tramite un’etichetta elettrodomestici e prodotti elettronici, indicando il loro indice di riparabilità. Si tratta di un numero, su una scala da 1 a 10, che dia con-
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to di una serie di caratteristiche tra cui appunto, la durabilità, la robustezza o la riparabilità del prodotto. Alla luce di queste iniziative, molti degli stati europei si sono mobilitati nello scorso decennio per punire e limitare gli episodi di obsolescenza programmata, ma i risultati più importanti sono stati raggiunti dalla Francia. Nel 2015 l’Assemblea Nazionale Francese ha introdotto nel Codice del Consumatore il reato di obsolescenza programmata, definito come: “tutte le tecniche con cui un marketer mira deliberatamente a ridurre la durata della vita di un prodotto per aumentarne il tasso di sostituzione”(art. L 213-4-1) quindi punibile con due anni di reclusione e una multa fino a 300.000 euro. Infine, nell’ultimo decennio si è pian piano fatta largo nella società la cultura della riparazione, specialmente nell’ambito dei makers. Uno dei movimenti più famosi è iFixit, sito/community in cui si condividono tutorial su come riparare, con quali strumenti e senza pezzi di ricambio, molti dei dispositivi elettronici di cui si è parlato precedentemente. Non si tratta sicuramente di operazioni alla portata di tutti, è necessario sviluppare un po’ di pratica e di manualità, ma il punto di forza di queste iniziative, è la condivisione della conoscenza, invitando a provare, discutere e fare community. Sono nati in seguito molti Repair Café in Europa e nel mondo, luoghi dove le persone si possono incontrare per condividere le loro conoscenze a riguardo ed imparare a riparare. Progetti di questo tipo, proprio perché partono dai cittadini, contribuiscono all’innesco di un circolo virtuoso, alla diffusione dell’idea che ci si possa pensare due volte prima di buttare un oggetto e che l’azione di ciascuno possa fare la differenza affinché una seconda vita degli oggetti sia possibile.
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Nel 2003 Kyle Wiens fonda iFixit, un sito web su cui scambiarsi tutorial su come riparare i prodotti eletroncici in autonomia.
Il primo Repair Café è nato ad Amsterdam nel 2009, da un’idea della giornalista ed ambientalista Martine Postma.
Figura 8 – Fotogramma tratto dal video “Planned Obsolescence” parte della mostra “Ore Streams”. Figura 9 – Un Repair café.
STORYTELLING A CURA DI GABRIELE BROGGINI
Questo capitolo esplora le potenzialità legate allo storytelling di In Loving Memory e mostra come l’esperienza narrativa del progetto si sia trasversalmente sviluppata grazie all’utilizzo di diversi media. L’analisi prende avvio dai 18 oggetti presenti nell’installazione per concentrarsi in generale sulla natura narrativa delle cose, le quali, con le proprie forme e superfici, raccontano storie di individui e società. Sostenuto da ricchi casi studio ricavati dal mondo dell’arte, il testo cerca di avvalorare l’ipotesi secondo cui le memorie comuni possono restituire valore e dignità agli oggetti, rendendo interessanti anche quelli più banali. La narrazione, in questa prospettiva d’indagine, viene utilizzata per introdurre e coinvolgere pienamente gli utenti nel progetto in ogni sua forma, abbassando quel grado di diffidenza che si manifesta all’inizio di ogni nuova esperienza e preparare le persone al livello narrativo finale. Quest’ultimo, analizzato nel terzo paragrafo, si serve degli strumenti di narrazione propri di Internet e dei principi della data visualization per informare e sensibilizzare.
CAPITOLO II
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GLI OGGETTI PARLANO
PERCHÉ QUESTI 18 OGGETTI?
Un paio di cuffie Airpods 1 della Apple. Una cartuccia per una stampante Epson. Dei collant Pompea. Un orologio Swatch. Una scarpa Vans, modello Old Skool. Un phon Remington per capelli. Un iPhone. Uno spazzolino Oral-B. Una borsetta di Zara. Un paio di cuffie Sony con filo. Un caricatore del MacBook e un MacBook Pro. Un frullatore a immersione. Un telecomando. Un iPod Classic. Un Nintendo DS. Una lampadina a incandescenza. Un cellulare Huawei. Sono questi i 18 oggetti di cui In Loving Memory ha scelto di commemorare la morte indotta prematuramente per obsolescenza, programmata o percepita. Sono artefatti semplici che chiunque ha posseduto nella propria vita, o possiede ancora, e con i quali inevitabilmente si è stretto un rapporto affettivo. Sono oggetti comuni, prodotti in serie, ma non per questo non più banali di altri, perché possiedono un vissuto e una storia: le forme, i colori, i segni di utilizzo sono una testimonianza di una vita passata e di una società che sta cambiando sempre più in fretta. Questi 18 oggetti, inoltre, scelti anche con l’intento di far riferimento a epoche diverse, possono considerarsi pop perché permettono a più generazioni di emozionarsi, portando la memoria a quando anche loro li hanno posseduti, stimolando il ricordo e la riflessione. Inoltre bisogna tener conto del fatto che, pur non possedendoli, gli oggetti ci condizionano a distanza, attraverso i racconti del mondo pubblicitario, filmico, dei media, del sistema editoriale e degli eventi che narrano e celebrano l’oggetto elevandolo ad icona culturale. Sono i racconti attorno ad essi a generare una vita parallela, spesso più densa di significati della loro vita reale. Gli oggetti nei musei, nelle immagini pubblicitarie, nelle vetrine, negli scaffali, nei cataloghi. Gli oggetti nel progetto, nel linguaggio, nei libri, nelle riviste, nelle fotografie. L’oggetto nelle tasche. Le cose oggi esistono perché esistono le loro narrazioni, e vanno incontro
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a continui interventi di attribuzione di nuovi significati. Quali e quante sono le forme di narrazione dell’oggetto? Quante le sue identità? (Penati, 2013) Nella civiltà degli oggetti la parola ha perso il suo primato: i prodotti materiali, i gesti, i riti, i miti parlano, diventano testi e discorsi. Come afferma la scrittrice Eleonora Fiorani ne Il mondo degli oggetti (2001): “l’oggetto ha una natura discorsiva. È un oggetto−discorso. E siccome il linguaggio è il principale strumento di modellazione del mondo, parlare di natura linguistica dell’oggetto significa parlare della sua capacità di cristallizzare senso.” (p. 152). Essi ci raccontano della storia sociale e culturale degli uomini, ed è proprio in questa trama di relazioni che il design manifesta appieno la sua specificità. La necessità di portare a sintesi, nel momento di definizione formale dell’oggetto, sia le questioni di tipo tecnico, strumentale, funzionale sia le questioni di senso estetico, simbolico, culturale sono da sempre connaturate all’attività del design (Penati, 2013). Sul primo versante, gli oggetti, attraverso sistemi figurali, plastici e formali, denotano la funzione che sono chiamati a svolgere, esprimendo così un primo livello di narrazione con lo scopo di facilitare l’utente nella comprensione del prodotto. Ma negli studi semiotici trovano grande interesse le loro proprietà connotative le cui forme di racconto, utilizzando il simbolo come veicolo di senso, rinviano al loro carattere culturale. La lettura semiotica è fortificata dai molti contributi portati dalle discipline antropologiche, sociologiche, psicologiche (Penati, 2013). Queste ultime hanno ormai definitivamente accertato e provato che gli artefatti
GLI OGGETTI PARLANO
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GLI OGGETTI DISCORSO Eleonora Fiorani è epistemologa e saggista, si occupa di nuove scienze della complessità, dell’antropologia e della comunicazione. Ha indagato oggetti, materiali, territorialità, e immaginari delle società postmoderne.
Figura 10 – Gli oggetti di In Loving Memory. Foto degli autori.
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di cui ci circondiamo non sono per noi solo fonte di utilità. Ad essi associamo significati, li impieghiamo per comunicare, sono testimonianza concreta di idee, credenze, sistemi di valori. Rappresentano in sintesi lo spirito del tempo. Ne Il sistema degli oggetti (2009), Jean Baudrillard individua nelle cose un sistema “parlato” entro cui vengono resi concreti e oggettivati discorsi individuali e collettivi. Per lo studioso francese gli oggetti raccontano le strutture familiari e sociali di un’epoca ma anche i processi di ascesa sociale che si rispecchiano nel possesso di specifici oggetti simbolici di status. Raccontano il livello economico e culturale di chi li possiede, la sua personalità, i suoi gusti, le sue abitudini. Le riflessioni di Baudrillard ci invitano inoltre a stringere il campo di analisi sugli oggetti quotidiani, banali e seriali, che pur non avendo nulla di particolare, recano tracce umane diventando il nostro prolungamento, testimonianze di vita. È così nella letteratura dove le cose e gli oggetti banali non sono più relegati ad essere un solo elemento di sfondo, ma divengono un referente che trabocca di significati. Come sostiene Roland Barthes (2002): “La nostra letteratura ha impiegato molto tempo prima di scoprire l’oggetto: è necessario arrivare a Balzac perché il romanzo non sia più semplicemente lo spazio di puri rapporti umani ma anche di cose e usi destinati a recitare la loro parte nello sviluppo delle passioni. Senza i suoi moccoli, le sue zollette di zucchero, il suo crocifisso d’oro avrebbe potuto Grandet essere avaro (letterariamente parlando)?” (p. 87). Ma Grandet non è che un emblema dei mille personaggi che, attraverso oggetti quotidiani e apparentemente insignificanti, hanno raccontato le fantasie e i sogni della società.
GLI OGGETTI PARLANO
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Jean Baudrillard è stato uno dei filosofi e saggisti più importanti dell’era contemporanea. Acclamato ampiamente come il profeta del postmodernismo, ha notoriamente annunciato la scomparsa di soggetto, significato, verità, classe e la nozione della realtà stessa.
Roland Barthes è stato uno dei principali esponenti dello strutturalismo francese del ‘900. La sua ricerca si colloca al confine tra diverse scienze umane, a metà fra il lavoro di ricerca teorica e quello di scrittura letteraria.
Figura 11 – Dettaglio iPod Classic. Foto degli autori. Figura 12 – Dettaglio iPhone 5. Foto degli autori.
DA INSIGNIFICANTI A OGGETTI SIGNIFICATIVI
Siamo circondati da un’innumerevole varietà di oggetti che saturano la nostra esistenza quotidiana. Essi incorporano i ricordi, le aspettative, i sentimenti, le passioni e le sofferenze. Molteplici sono anche i nostri rapporti con le cose che contribuiscono a dare consistenza alla nostra identità. Tuttavia, sembra che i significati e i ricordi s’incorporino oggi sempre meno negli oggetti che ci circondano perché questi sono progettati seguendo le pratiche produttive di obsolescenza affinché non durino troppo e possano essere agevolmente sostituiti. Uno dei pericoli più gravi è che non solo le cose, ma la storia stessa si riduca in gran parte a mera oggettività pietrificata, ad accumulo di dati e oggetti senza storia e senza significato. In che modo le nuove generazioni saranno capaci di comprendere i messaggi lasciati nelle cose dalle generazioni precedenti, sottraendoli al destino dell’oblio e dell’insignificanza e ricollegandoli, con le dovute mediazioni, alle proprie vicende e alla propria sensibilità? In che modo i progettisti sapranno riconvertire in significativi gli oggetti insignificanti (Bodei, 2009)? Nei paragrafi successivi si illustreranno alcune delle soluzioni che le discipline artistiche e letterarie hanno utilizzato per porre rimedio all’impoverimento della nostra società.
LA DECONTESTUALIZZAZIONE NELL’ARTE
La prima corrente artistica che prova a conferire valore agli oggetti del quotidiano è la pittura olandese del ‘600. Prende il nome di “stilleven”, che significa natura immobile o silenziosa, e rappresenta un gruppo di cose scelte e prese a tema da un pittore che le separa da contesti che prima includevano la presenza umana. Questa pittura va oltre la pura riproduzione degli oggetti, ma raffigura, simultaneamente, qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto alla loro natura fisica, portando a un paradossale potenziamento della realtà. Posizionandoli
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nello spazio “nobile” della tela, lo stilleven rappresenta non solo arredi lussuosi, ma soprattutto “piccole cose” comuni, immagini di cose umili, quali frutta, fiori o strumenti musicali, che fanno riscoprire la meraviglia del quotidiano. L’oggetto diventa soggetto, protagonista, e viene contemplato per se stesso (Bodei, 2009). Guidati dallo stesso principio di decontestualizzazione, si sono mossi numerosi artisti (tra tutti basti ricordare Marcel Duchamp e i suoi lavori di ready-made) con obiettivi ed esiti piuttosto vari e interessanti. Al fine di questo paragrafo, però, si va a citare un caso più recente: il Museum of Broken Relationships. Sorto a Zagabria, il museo è uno spazio consacrato all’esperienza condivisa di dolore e disperazione di amori e relazioni interrotte. Basandosi unicamente su un modello di crowdsourcing, il museo accoglie ed espone oggetti che vengono donati dai proprietari per liberarsi dalle relazioni passate attraverso un processo collettivo di catarsi. Gli oggetti presenti sono vari, ma soprattutto ordinari e banali, e sono accompagnati da narrazioni scritte dai proprietari. All’inizio potrebbe sembrare che non ci sia nulla di straordinario in uno spray nasale o in un peluche; tuttavia, non è il valore utilitaristico o estetico degli oggetti a renderli significativi, ma la loro storia e le loro associazioni personali. Questo arricchimento di significato è indotto dallo spazio in cui questi oggetti vivono: tenendo a mente la famosa illuminazione di McLuhan (1967) “il medium è il messaggio”, si può affermare che lo spazio museale ha un forte valore concettuale che modella la nostra percezione del messaggio. Il potere evocativo di questa iniziativa, da cui In Loving Memory prende ispirazione, sta nel posizionare gli oggetti, ordinari e banali, in uno spazio che li svuota e li arricchisce allo stesso tempo. La pratica della decontestualizzazione, così potente da permettere a cibo o oggetti quotidiani di diventare
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vere opere d’arte, è stata utilizzata anche nel progetto. In questo caso la morte degli oggetti è stata metaforicamente trattata come la morte delle persone, e ciò si è tradotto in un’identità visiva fortemente caratterizzata perché ispirata ai cimiteri monumentali. L’intuizione principale è stata quella di esporre i 18 oggetti in altrettanti loculi funerari, assemblati assieme a formare una struttura ottagonale, bianca e modulare. Posizionandoli in uno spazio inusuale, gli oggetti vengono incorniciati come soggetti e si trasformano nei protagonisti dell’installazione (come avviene negli stilleven fiamminghi) e, allo stesso tempo, si caricano di nuovi significati mediati dall’identità del luogo (come succede nel Museum of Broken Relationship). Il caso successivo, inoltre, racconta quanto, così come la decontestualizzazione, anche una storia veritiera possa ridare valore agli oggetti. A sostegno di questa tesi si può opportunamente ricordare l’esperimento antropologico e letterario, denominato Significant Objects. Nel 2009 Rob Walker e Joshua Glenn, due scrittori americani, cercarono di trovare una risposta a questa domanda: può una grande storia trasformare una cianfrusaglia senza alcun valore in un oggetto significativo? L’esperimento iniziò con l’acquisto di un centinaio di oggetti in un mercatino delle pulci a poco più di un dollaro l’uno. C’erano vecchie saliere, statuine, tazze, candele, pupazzetti. Nulla di utile, nulla di prezioso, nulla di valore. Successivamente vennero coinvolti cento scrittori, a ognuno dei quali venne assegnato un oggetto con la richiesta di farne uno spunto per una storia emozionante, curiosa, toccante. Fu così che, per esempio, una spazzola raccogli briciole da un dollaro si trasformò in un insolito accessorio per un lupo mannaro con una forte allergia alla polvere; mentre un piccolo stivale di metallo da 3$ divenne il centro delle vicende
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SIGNIFICANT OBJECTS
Figura 13 – Dettaglio espositivo del Museum of Broken Relationship. Figura 14 – Natura morta con formaggi (1615 ca.).
di quattro soldati italiani che nel 1861 si ritrovano a combattere contro Garibaldi. Gli stessi oggetti, comprati con meno di 130,00 $, vennero poi rivenduti su eBay accompagnati dai rispettivi racconti come didascalia, facendo incassare poco più di tremila e seicento dollari. Grazie al solo valore aggiunto della storia correlata, ogni oggetto vide crescere il suo valore del 2706% passando da un prezzo medio di partenza di 1,29 $ a un prezzo medio di acquisto di 34,90 $. Al di là dell’aspetto economico, è interessante notare quanto questo esperimento, che possiede un indubitabile valore antropologico e letterario, faccia riflettere sul potere dello storytelling. Così come accade per Significant Objects, anche In Loving Memory accompagna ogni oggetto esposto con una narrazione. Questa, in particolare, è scritta in prima persona dal proprietario e si sofferma su uno dei momenti memorabili che lo legavano all’oggetto, quando questo era ancora “in vita”. Inoltre, il carattere personale ma allo stesso tempo ordinario della storia permette, a chi la legge, di identificarsi in modo più semplice e diretto. Di questo, però, si parlerà nel capitolo successivo. GLI OGGETTI NELLA COMUNICAZIONE OFFLINE
Figura 15, 16, 17 – Manifesti della campagna di advertising di In Loving Memory.
Ritornando ad In Loving Memory e agli oggetti commemorati, si è deciso di incanalare e utilizzare il potenziale narrativo della loro immagine per creare una campagna promozionale, basata su poster e flyer, in occasione della mostra allo Spazio O di Via Pastrengo. In un atmosfera eterea e monumentale, che preannuncia con colori e composizione l’immagine coordinata del progetto, compaiono tre oggetti accompagnati da altrettanti claim. Questi, in realtà, non sono che ironiche ma rispettose declinazioni della frase “Finché morte non ci separi”, adattate, per ogni caso, al modo in cui l’oggetto è “morto” e il legame affettivo con il proprietario si è interrotto.
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GLI OGGETTI PARLANO
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Fig. 17
GLI OGGETTI PARLANO
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LE STORIE: INFORMAZIONI IN ESPERIENZA
UNA QUESTIONE EVOLUTIVA
Walter Benjamin è stato un filosofo, critico e sociologo tedesco. Pensatore non sistematico, ha lasciato saggi capitali su Kafka, Goethe, Leskov e Baudelaire.
Negli ultimi anni, la parola “storytelling” è stata utilizzata sempre più frequentemente e si è assistito alla comparsa di una serie di tecniche quasi ingegneristiche che utilizzano l’arte della narrazione in campi come il branding, la politica e il marketing. Questo interesse è legato all’idea che le narrazioni dispongano di un potere straordinario e possano essere utilizzate per influenzare, insegnare e ispirare. Cosa rende lo storytelling così efficace? Nel saggio Di alcuni motivi di Baudelaire (1962), Walter Benjamin sostenne che lo storytelling fosse il mezzo più efficace per veicolare informazioni perché queste non venivano presentate in quanto tali, ma piuttosto, attraverso il punto di vista del narratore, e pertanto si trasformavano in esperienze. In questo modo idee complesse vengono proposte in maniera comprensibile perché fanno riferimento a esperienze comuni nelle quali ognuno può identificarsi. Come sostengono numerosi ricercatori, inoltre, il cervello della specie umana ha sviluppato, durante l’evoluzione, una predisposizione narrativa come strategia di sopravvivenza (McNeil, 1996). Nel corso del tempo la fisiologia del cervello umano ha sviluppato il potenziale cognitivo per gestire sceneggiature narrative sempre più complesse e circa 40 mila anni fa ha avuto luogo una rivoluzione culturale nella nostra specie di homo-sapiens. La comunicazione gestuale, caratteristica degli antichi ominidi, è aumentata con una serie di nuove modalità di espressione narrativa tra cui arte rupestre, danze rituali e narrazioni orali. L’essere umano è predisposto a comprendere le cose se formulate in termini narrativi (Newman, 2005), piuttosto che argomentativi (Weick, 1995). Si può affermare, in sostanza, che lo storytelling crea connessioni tra le persone e tra le persone e le idee. Le storie trasmettono la cultura e i valori di paesi, di comunità, di famiglie e di singoli individui: siamo quindi portati a com-
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prendere intuitivamente le storie che abbiamo in comune perché sono una parte importante dei nostri legami. Il senso di connessione, familiarità e fiducia che emerge dai racconti consente al lettore di immergersi completamente nella narrazione, seguendo un processo chiamato trasporto narrativo durante il quale si raggiunge uno stato di distacco dalla realtà e di identificazione con il protagonista della storia. A partire dagli spunti offerti dagli studi socio-culturali citati più sopra, In Loving Memory ha creato un universo narrativo che sfrutta il potere empatico della narrativa per coinvolgere ed appassionare ogni fruitore del progetto. Gli oggetti esposti nell’installazione fisica e digitale, infatti, sono accompagnati da una testimonianza scritta, una storia che ripercorre uno dei momenti memorabili della relazione tra il proprietario e il suo oggetto, quando questo era ancora “in vita”. Questi racconti hanno un duplice scopo: permettono al lettore di empatizzare con l’autore della storia e probabilmente, considerata la natura pop dei 18 oggetti, riconoscersi nell’esperienza, che diventa così condivisa. Successivamente, dal trasporto narrativo si passa a un secondo livello più profondo, quello dell’apprendimento: le storie svelano gradualmente come gli oggetti siano andati incontro al disuso e all’obsolescenza, preparando il lettore alla parte più informativa che spiega quali sono state le vere cause della loro “morte”. Le storie dell’archivio di In Loving Memory sono quindi il secondo centro narrativo del progetto. A partire da esse e dalle loro declinazioni si sviluppa gran parte della campagna di advertising, progettata per i canali social di Instagram e Vimeo al fine di promuovere il progetto in vista del lancio ufficiale che sarebbe dovuto avvenire il 13 marzo 2020. Sono stati realizzati tre video teaser che raccontano visivamente
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LE STORIE DI IN LOVING MEMORY
Fig. 18
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un momento della vita di tre oggetti (un paio di scarpe Vans Old Skool, un paio di cuffie Airpods 1 e un cellulare Huawei P8 Lite) utilizzando le testimonianze associate a essi come voce fuori campo e filo conduttore tra i video. Parallelamente all’implementazione delle storie in script per i filmati, si è riservata una grande attenzione anche all’estetica che si è voluta conferire al frame, il quale è stato corretto cromaticamente al fine di renderlo coerente con l’intera immagine coordinata di In Loving Memory. Questo aspetto sarà approfondito nel capitolo successivo. Nel suo saggio intitolato Il Narratore: Considerazioni sull’Opera di Nikolaj Leskov (2011), Walter Benjamin analizza le narrazioni mainstream intese come forme di racconto che offrono l’unica interpretazione possibile della realtà, su cui tutti concordano. Riconoscendo che queste narrazioni sono fortemente mistificanti per la lettura dei fatti, Benjamin sottolinea però che la loro presenza permette di riconoscere quei “frammenti” di storie, spesso ignorati, che costituiscono realtà marginali altrettanto presenti. Se guardassimo alle pratiche del design contemporaneo attraverso queste lenti, noteremmo che i designer agiscono in pratica come “narratori” che “collezionano” e raccontano storie inascoltate, le cui potenzialità inespresse potrebbero finalmente emergere. Il designer sarebbe quindi un innovatore sociale che stimola nuove discussioni (Bertolotti, Daam, Piredda, Tassinari, 2016). Ma sorge subito una domanda: come si fa a non ricadere nelle narrazioni mainstream? Per rispondere a questa domanda si può prendere in esame l’intervento fatto da Chimamanda Adichie, una giovane scrittrice nigeriana che nel 2009 fu invitata a parlare all’evento TED Global. Nel suo discorso, intitolato The Danger of the Single Story, spiegò come, trasferitasi negli Stati Uni-
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IL PERICOLO DELLA STORIA SINGOLA
Figura 18 – Raccolta di frame tratti dai video teaser di In Loving Memory. Foto degli autori.
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ti dalla Nigeria, si rese conto del pericolo di conoscere solo una storia, una prospettiva, su luoghi, persone o situazioni. Quando si stabilì nel campus del college, la sua compagna di stanza le chiese dove avesse imparato così bene l’inglese (quando l’inglese è una lingua ufficiale in Nigeria) e le chiese di mostrarle un po’ della sua musica “tribale” (lasciandola sorpresa dal suo mix di Mariah Carey). Era tutt’altro che offesa da queste domande poiché in realtà si rese conto di essere “vittima” dello stereotipo. Il problema dei luoghi comuni sta nella loro incompletezza che rende una storia l’unica storia. Tutto ciò può essere ricondotto allo storytelling nel design. I designer impegnati socialmente e politicamente, lavorando in contesti di comunità, hanno una grande responsabilità. Dando voce ad alcune persone e comunità, quindi escludendone altre, si può facilmente cadere nel vizio della storia unica. Il design, infatti, non è mai neutrale (Salazar, 2016). Forse, quindi, il ruolo del designer non dovrebbe essere quello di un narratore ma piuttosto di un mediatore di storie, il quale consente alle diverse narrazioni di emergere ed entrare in dialogo e discussione tra loro. In linea con questi principi si colloca l’esperienza del Museum of Innocence, uno spazio espositivo fondato dallo scrittore turco Orhan Pamuk e inaugurato in concomitanza con la pubblicazione del suo romanzo omonimo (2008). In questo museo, che è stato ricavato in una vecchia casa del XIX ubicata nel quartiere di Çukurcuma di Istanbul, sono esposti, sotto teche di vetro, migliaia di oggetti estratti dal mondo fantastico del romanzo che, nel loro insieme, raccontano la storia d’amore tra due cugini. Pamuk iniziò a raccogliere gli oggetti per il museo a metà degli anni ‘90 al fine di esporre ciò che i personaggi del romanzo avevano utilizzato, indossato, sentito, visto, raccolto e sognato. Alcuni degli
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MUSEUM OF INNOCENCE
Figura 19 – Particolare della raccolta dei più di 4000 mozziconi esposti nel Museum of Innocence. Anno e autore sconosciuti.
oggetti esposti nel museo furono donati da familiari e amici dello scrittore, mentre altri furono trovati in altri quartieri di Istanbul o raccolti da tutto il mondo. Aggirandosi in questa selva di ricordi il visitatore ha la possibilità di riconoscere lo scopo di questo luogo: offrire uno scorcio di vita della borghesia di Istanbul dal 1970 ai primi anni 2000. Ancora più rivelatrici, però, sono le parole che l’autore ha redatto nel suo A Modest Manifesto For Museums (2012). “Nella mia infanzia c’erano pochi musei a Istanbul. La maggior parte di questi erano monumenti storici o, piuttosto rari al di fuori del mondo occidentale, erano luoghi con un’aria di un ufficio governativo. Più tardi, i piccoli musei nei vicoli delle città europee mi hanno portato a rendermi conto che i musei, proprio come i romanzi, possono parlare anche per gli individui. Non abbiamo bisogno di più musei che provino a costruire le narrazioni storiche di una società, comunità, squadra, nazione, stato, tribù, azienda o specie. Sappiamo tutti che le storie ordinarie e quotidiane di individui sono più ricche, più umane e molto più gioiose. Dimostrare la ricchezza della storia e della cultura cinese, indiana, messicana, iraniana o turca non è un problema: deve essere fatto, ovviamente, ma non è difficile da fare. La vera sfida è quella di utilizzare i musei per raccontare, con lo stesso splendore, profondità e potenza, le storie dei singoli esseri umani che vivono in questi paesi. La misura del successo di un museo non dovrebbe essere la sua capacità di rappresentare uno stato, una nazione o un’azienda o una storia particolare. Dovrebbe essere la sua capacità di rivelare l’umanità degli individui.
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È indispensabile che i musei diventino più piccoli, più individualisti e più economici. Questo è l’unico modo in cui si potranno mai raccontare storie a misura d’uomo.” Il manifesto, composto in tutto da undici punti, riformula il concetto di “storia singola”, estendendo però la discussione a luoghi culturali come i musei, sostenendo che quelli “più piccoli, più individualisti e meno costosi” raccontano storie piuttosto che la storia. Musei che dovrebbero “rivelare l’umanità degli individui”. Le tematiche affrontate dallo scrittore turco Orhan Pamuk sono un importante cardine per il lavoro svolto da In Loving Memory, perché l’intero progetto si basa sulla raccolta di testimonianze personali che le persone scelgono di condividere. L’obiettivo principale è quello di permettere a chiunque di raccontare e condividere le proprie esperienze relative ai casi di obsolescenza programmata o percepita e, allo stesso tempo, grazie ai numerosi contributi, arricchire ed ampliare un archivio di storie che cresce di giorno in giorno. Tante singole verità che meritano di essere scoperte e divulgate. Sulla base di quanto è stato fin qui osservato, è quindi di fondamentale importanza raccogliere le storie nella loro forma originaria, alterandole il meno possibile. Nel capitolo 5 verrà illustrato il funzionamento del form, ossia il questionario da compilare strutturato in cinque semplici campi che supporta e guida le persone nella condivisione di ciò che desiderano, senza però influenzarle o limitarle.
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LO STORYTELLING ATTRAVERSO I DATI
IL COINVOLGIMENTO TRANSMEDIALE Henry Jenkins è un accademico e saggista statunitense che si occupa di media, comunicazione e giornalismo.
Nel suo saggio intitolato Convergence Culture: Where Old and New Media Collide (2016), Henry Jenkins approfondisce il concetto di narrazione transmediale, formulato già alcuni anni prima, definendolo come una forma narrativa che, muovendosi attraverso diversi tipi di media, contribuisce a perfezionare e integrare l’esperienza dell’utente con nuove e distinte informazioni. Nel caso dello storytelling, infatti, ogni medium contribuisce allo sviluppo della storia in ogni sua specifica forma e, in questo modo, l’utente è chiamato a ricostruire il significato complessivo di un’opera integrando i contribuiti vari media. In questi termini, ad esempio, una storia può essere scissa su diversi supporti e raccontata tramite film, cortometraggi, libri a fumetti e videogiochi, rendendo l’esperienza dinamica e coinvolgente. Questo è quello che è avvenuto per Matrix, ma si potrebbero riportare numerosi altri esempi, cresciuti nel tempo grazie alla nascita del Web 3.0.
L’ESPERIENZA NARRATIVA SUL SITO WEB
I concetti ora brevemente riassunti sono utili a comprendere nei suoi aspetti fondamentali la struttura narrativa di In Loving Memory. Riassumendo, nei paragrafi precedenti sono stati analizzati e chiariti due componenti chiave dello storytelling del progetto: gli oggetti commemorati, che comunicano prettamente con la loro fisicità, e le storie ad essi associati. Tra questi due elementi esiste un collegamento indiretto, di natura digitale, ossia il sito web, che rappresenta il terzo e ultimo elemento narrativo del progetto. Della sua organizzazione e struttura si tratterà approfonditamente nei capitoli successivi perché, per il momento, è interessante analizzarne la funzione narrativa alla luce dei principi esposti da Jenkins in Convergence Culture. Il sito web di In Loving Memory, infatti, è da considerare come uno dei media che estende l’esperienza narrativa, ampliandola ed arricchendola con nuove informazioni.
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Utilizzando alcuni degli strumenti di narrazione di Internet, in particolare infografiche interattive, il sito web guida i lettori attraverso la lettura di nuove informazioni in un modo accessibile, esaustivo e visivamente accattivante. La sfida più impegnativa sicuramente è stata quella di dare una forma ai numerosi dati disponibili al fine di trasformarli in informazioni e significati, senza però appesantire la lettura e l’esperienza dell’utente. Per fare ciò, l’home page del sito web è stata strutturata in tre sezioni, e la più informativa tra queste, che prende il nome di Conosci, è presentata in versione ridotta al fine di dare poche ma importanti informazioni anche a chi voglia visitare velocemente il sito. Alla fine di questa sezione, inoltre, è disponibile un pulsante che permette, ai più interessati, di accedere a tutte le informazioni del Conosci: la pagina, infatti, contiene una ricca ed esaustiva documentazione sulla storia dell’obsolescenza programmata e percepita, i numeri dei danni economici e ambientali causati da tali pratiche e un elenco, continuamente aggiornato, sui numerosi decreti e leggi emanate per contrastare questi fenomeni. In particolare per questa parte, la ricchezza delle informazioni ha richiesto l’applicazione dei concetti di data visualization durante la fase di progettazione. Ad esempio, nella sezione che descrive quanto durano gli oggetti tecnologici, la “vita” di quest’ultimi è stata confrontata con il tempo di conservazione di alcuni alimenti per mostrare il paradosso per il quale gli oggetti tecnologici, definiti beni durevoli, “vivono” tanto quanto alcuni alimenti, deperibili per definizione. In questi casi, fornire un metro di paragone noto e familiare aiuta nel racconto e nella comprensione. Un altro aspetto di particolare importanza è stato quello di rendere consapevoli ed informare i lettori su quanta e-waste venga prodotta ogni giorno nel mondo. I numeri nudi e crudi a volte non bastano e perciò, al fine di comunicare i dati nel modo più suggestivo
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e memorabile possibile, si è scelto di creare un collegamento diretto con le azioni degli utenti. Per fare ciò sono stati progettati diversi contatori che si avviano quando la pagina viene aperta e l’utente inizia la lettura. Aggiornandosi a velocità reali basate su ricerche condotte da Green Peace, questi contatori mostrano la mole di telefoni prodotti e allo stesso tempo buttati dal momento in cui la pagina è stata aperta. Questo espediente è sicuramente di impatto perché fa percepire meglio agli utenti le dimensioni del fenomeno. Utilizzare queste tecniche di visualizzazione dei dati si è rivelato fondamentale per la divulgazione di fatti e informazioni complesse. Non è un caso, infatti, che questa tecnica di storytelling, detta Data visualization, sia utilizzata sempre più di frequente nel mondo digitale. Come afferma William Cleveland in The Elements of Graphing Data (1994), il cervello umano è in grado di identificare e comprendere relazioni e modelli se i dati sono codificati in forme visive. Su questo si basa la data visualization, ossia la rappresentazione visiva grafica di dati, quantitativi o qualitativi, intesa a chiarire e integrare informazioni difficili in modo rapido e chiaro. Oggi stiamo assistendo a un maggiore utilizzo della visualizzazione dei dati in una vasta gamma di domini e generi. Nel giornalismo, nell’istruzione e nelle informazioni pubbliche, nonché nei luoghi di lavoro, vengono utilizzate diverse forme di grafici, diagrammi e mappe per spiegare, persuadere e raccontare storie. Nella società contemporanea, diversi fattori contribuiscono a dare alla visualizzazione dei dati una rilevanza su una scala che non abbiamo mai visto prima. Uno di questi fattori, come sostengono alcuni studiosi, è che i dati stanno diventando sempre più apprezzati in stretta relazione al ruolo sempre più importante che essi stanno assumendo nei
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DATA VISUALIZATION William Cleveland è un professore di statistica e di informatica alla Purdue University degli Stati Uniti, noto per il suo lavoro sulla visualizzazione dei dati.
Figura 20 – Infografiche del sito web Inlovingmemoryproject.org.
processi decisionali e di conoscenza del mondo (Engebretsen & Kennedy, 2020). In altre parole, vengono generati, raccolti, archiviati e resi accessibili più dati che mai. L’accumulo dei dati avviene in molti settori, spesso per legge, commercio, istruzione, salute, trasporti, vita culturale e sociale. Un altro fattore importante nella diffusione delle visualizzazioni dei dati è lo sviluppo della tecnologia correlata. Nuovi strumenti e tecniche per raccogliere, filtrare, analizzare e visualizzare i dati rendono questi processi più facili ed economici. Come risultato di questi vari processi, le rappresentazioni dei dati hanno forme semiotiche innovative e danno origine a nuovi tipi di comunicazione e interattività. Ciò implica che anche il loro potenziale per la creazione di significato, per evocare emozioni, partecipazione democratica e altre forme di impegno è in uno stato di trasformazione. Quindi, mentre le visualizzazioni dei dati hanno un’importanza crescente nella società, le loro nuove forme e usi inducono a pensare che anche la nostra comprensione di come funzionino come fenomeni semiotici ed estetici e di come supportino o ostacolino le relazioni personali e sociali è in evoluzione (Engebretsen & Kennedy, 2020). CREARE SIGNIFICATI E SENTIMENTI DAI DATI
Le visualizzazioni dei dati creano quindi significati e generano sentimenti, i quali sono inseparabili dalle nostre interazioni con i testi poiché si influenzano a vicenda e insieme formano le nostre risposte. Un recente studio del 2017 di Helen Kennedy e Rosemary Lucy Hill ha rivelato che le visualizzazioni dei dati risvegliano una vasta gamma di sentimenti nelle persone che interagiscono con loro, attivate dal contenuto testuale delle visualizzazioni, fattori contestuali come le esperienze precedenti degli utenti o dalla situazione fisica e psico-sociale. Nell’analisi dei risultati raggiunti, i due ricercatori sostengono che l’emozione può essere intesa come
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una “risorsa epistemica”, un modo di sapere che è prezioso per costruire una critica del mondo e che senza emozioni la capacità di prendere decisioni razionali è ostacolata. Rispetto alle teorie di Helen Kennedy e Rosemary Lucy Hill, si vuole ora riportare un concreto esempio di data storytelling recuperato dal settore del giornalismo online. NSA Files: Decoded (2013) è un webdoc interattivo creato dal The Guardian per raccontare lo scandalo Datagate. L’articolo prende avvio dai fatti del 2013, anno in cui il consulente informatico Edward Snowden fece scoppiare lo scandalo rendendo pubblica l’esistenza di programmi di sorveglianza di massa ad opera della National Security Agency statunitense. La narrazione è stata costruita per aiutare i lettori a comprendere alcune domande chiave: cosa significano le rivelazioni per le persone? Qual è il confine tra sicurezza nazionale e libertà individuale? Quanto dobbiamo preoccuparci per i programmi e le azioni di sorveglianza? Utilizzando tutti gli strumenti di narrazione di Internet, inclusi video, interazioni, mappe, grafici e GIF, senza però mettere in secondo piano i testi scritti, l’articolo guida i lettori attraverso le rivelazioni in un modo accessibile e visivamente accattivante. Mentre ci si muove attraverso la narrazione, i video vengono riprodotti automaticamente, le animazioni sono interattive e le GIF si aggiornano in tempo reale. È particolarmente interessante notare come vengano utilizzate metafore visive per catalogare e spiegare dati e argomenti più complessi in modo chiaro e comprensibile. Ad esempio, per illustrare la legge dei tre gradi di separazioni, ossia quante persone (con le relative informazioni) possa raggiungere la NSA a partire da una, è stato utilizzato un grafico interattivo che mette a confronto il numero con un metro di paragone familiare. Prendendo come esempio un utente
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NSA FILES: DECODED
Dopo le sue rivelazioni che hanno dato il via al Datagate, Snowden è stato accusato di furto di proprietà del governo e ha dovuto abbandonare gli Stati Uniti e adesso si trova in Russia.
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Facebook tipico, che statisticamente possiede 190 amici, i tre gradi di separazioni lo collegano a una rete più grande della popolazione del Colorado, composta da circa 5 milioni di persone. Inoltre, per dare un’idea della mole di dati sensibili che la NSA raccoglie ogni giorno, si è utilizzato un cronometro che si attiva e inizia il conteggio da quando si apre la pagina e si inizia la lettura, all’insaputa del lettore. Trovandosi circa a metà dell’articolo, il lettore si sorprenderà trovando un numero complessivamente molto alto nonostante i pochi minuti passati sulla pagina. Questo numero, che corrisponde ai terabytes di dati raccolti dalla NSA in quel lasso di tempo, viene convertito in un’unità di misura più comprensibile per gli utenti, ossia la dimensione che occuperebbero dei film in HD della durata di due ore circa. In questo modo si può subito percepire la mole dei dati raccolti. Nel complesso il webdoc interattivo funziona bene perché la struttura è chiara, i testi svolgono un ruolo dominante nella narrazione, mentre altre risorse mediatiche supportano il lettore nella comprensione dell’importanza e dell’entità del problema, mentre l’interfaccia utente è semplice e permette di condividere sui canali social qualsiasi informazione in qualsiasi momento.
Figura 21 – Infografiche del webdoc NSA: Files Decoded.
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MONUMENTALITÀ E IMPATTO VISIVO A CURA DI ELEONORA DUSSIN
L’approfondimento si concentra sui concetti e sugli obiettivi emozionali da cui siamo partiti per produrre una struttura con impatto monumentale e visivo, cercando di suscitare in particolar modo il ricordo e la riflessione personale ed autoconsapevole. Si va poi a spiegare la struttura generale dell’installazione, quella del singolo loculo, le scelte stilistiche, i colori dominanti per poi infine andare a trattare la comunicazione visiva del progetto, gli accorgimenti tecnici per rendere coerente l’identità di foto e video, logo e logotipo di In Loving Memory.
CAPITOLO III
IMPATTO EMOZIONALE
IL PUNTO DI PARTENZA
Tutto è partito dalla visita al Cimitero Monumentale di Milano. Andando sul campo per raccogliere forme, figure, font quel giorno ci si è resi conto dell’impatto visivo ed emozionale che quel tipo di luogo può creare. Distese senza fine di croci e tombe, muri tappezzati di nomi, fiori, ceri e principalmente molto silenzio. Solo dopo essersi immersi in questa atmosfera arriva la consapevolezza: sotto l’estetica affascinante e imponente come può essere quella di un cimitero o di un monumento ai caduti, in realtà non c’è altro che un gran numero di defunti. Il risultato? Ci si emoziona.
EMOZIONE E RICORDO
Ma che cos’è di fatto l’emozione? “È una reazione soggettiva ad un evento saliente, caratterizzata da cambiamenti fisiologici, esperienziali e comportamentali.” (Sroufe, 1996). “È una complessa catena di eventi che incomincia con la percezione di uno stimolo e finisce con un’interazione tra l’organismo e lo stimolo che ha dato avvio alla catena di eventi” (Plutchick, 1983). Tra le sue componenti possiamo evidenziare come lo stimolo scatenante funzioni da “trigger”. Esso può essere interno, come ad esempio un pensiero che provoca tristezza, o esterno, come qualcosa che ci spaventa. Più in generale, le emozioni si suddividono in due categorie: primarie e secondarie. Le prime, dette anche semplici, hanno origine innata e non richiedono un’elaborazione cognitiva complessa, mentre le seconde, dette anche complesse, sono emozioni autoriflessive, cioè hanno origine nella conoscenza di sè, dal confronto tra un io ideale e i propri comportamenti. Quest’ultime, che toccano più l’autoconsapevolezza, sono le emozioni che si è cercato di far scature nell’osservatore. Lo stimolo visivo di partenza per ricreare l’impatto, e quindi l’emozione, è stata la monumentalità della struttura, ma per suscitarla non bastava solo un’estetica da cimitero, era necessario cercare di riportare in superficie anche i ricor-
Figura 22 – Ingresso Cimitero Monumentale di Milano.
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di della persona relativi al contenuto. Difatti “i luoghi, con o senza tracce, consentono un rapporto diretto con la memoria che scaturisce delle emozioni che si generano nell’attraversamento.”(Bassanelli, 2014, p. 113).
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MONUMENTALITÀ E THAUMA
“La monumentalità nasce dal bisogno degli uomini di creare simboli per le loro gesta e le loro convinzioni religiose e sociali. Questa esigenza non può essere repressa; in tutte le circostanze essa cerca sempre di manifestarsi.” (Giedion, 2008).
MONUMENTALITÀ ENIGMA
È un qualcosa che “fa ricordare”, qualcosa che vuole trasmettere dei concetti e significati alle generazioni successive. L’uomo, attraverso le strutture che crea, pone gli oggetti della conoscenza in rapporto con la struttura emotiva, consapevolmente o inconsapevolmente. “Noi abbiamo oggi bisogno di segni e immagini sensibili che si imprimano immediatamente nei sensi.” (Sartre, n.d.). Ma soprattutto abbiamo bisogno di riconoscere le esigenze latenti nei contemporanei molto prima che questi ne siano consapevoli, per riuscire a trasmettere concetti nuovi o di cui si parla ancora poco. Nella società odierna non si dà lo stesso valore alla monumentalità come nelle epoche passate, probabilmente in quanto tuttora meno utilizzata nell’architettura, ma non vuol dire che essa abbia perso la sua forza comunicativa. Michela Bassanelli in Forme della meoria: oltre il memoriale (2014) evidenzia come dalla metà degli anni Novanta si stiano affermando nuove forme di memorializzazione oltre il museo tradizionale, forme che si focalizzano oltre che sul valore e l’importanza del ricordo, anche nella sua trasmissione, nel ruolo delle testimonianze e in particolare sulla partecipazione delle comunità locali. Nascono i cosiddetti musei diffusi, i parchi della memoria e le case della memoria: forme che cercano di recuperare gli spazi originari e protetti dello sviluppo della vita nel tentatio di “dare voce” alle tracce storiche e di far parlare qualcosa che è spesso sotto gli occhi si tutti, ma sfugge alla vista o alla comprensione.
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MONUMENTALITÀ E IMPATTO VISIVO
“In architettura, la monumentalità si può definire come una qualità; una qualità spirituale che manifesta quanto vi è di eterno in una struttura. […] La monumentalità è un enigma.” (Kahn, 1944).
Louis Isadore Kahn nasce nell’attuale Estonia nel 1901, col nome di Itze-Leib Schmuilowsky.
La monumentalità è un enigma, racconta Kahn. Non esistono regole da seguire per raggiungerla, si ha l’idea di monumentalità guardando i monumenti antichi, forse per i materiali pietrosi o per le strutture sempre più grandi, che al tempo avevano un proprio significato e motivo di essere tali. La monumentalità allo stesso tempo affascina e intimorisce, fa percepire che quello che va a rappresentare è più grande di te. Concetto che lo stesso Aristotele ha condensato nella parola Thauma (dal greco thaûma). La parola italiana “meraviglia” – utilizzata spesso per tradurre questa sensazione – non riesce a rendere la complessità del significato originario: il thaumazein, infatti, è un turbamento che sconvolge, uno stupore che si unisce allo sgomento di fronte a qualcosa che ci affascina e, insieme, ci spaventa. I cimiteri affascinano e angosciano allo stesso tempo. I monumentali di guerra affascinano e angosciano allo stesso tempo. La morte affascina e spaventa allo stesso tempo. Il thauma sottende un profondo e velato senso d’angoscia, sensazione che dalla parola “meraviglia” non traspare. Ma dall’altro lato della medaglia la concezione di meraviglia è vista come un aspetto fondamentale della natura umana, essendo in particolare collegata alla curiosità ed alla spinta intellettuale ad approfondire e a chiedere “perchè”? Di chi è la colpa, se c’è una colpa. Un aspetto che si voleva approfondire all’interno del progetto in relazione alla percezione del senso di responsabilità delle persone e delle aziende rispetto al fenomeno dell’obsolescenza.
MONUMENTALITÀ E THAUMA
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THAUMAZEIN
CARATTERISTICHE STRUTTURALI
UN’ARCHITETTURA SENZA TEMPO
Figura 23 – Salk Institute for Biological Studies, San Diego, CA. Figura 24 – National Parliament House, Bangladesh.
La domanda che ci si è posti è stata come ricreare la monumentalità in un metro quadrato di spazio, nella consapevolezza che la maggior parte dei monumenti ha come principale caratteristica la grandezza fisica che ne enfatizza l’imponenza. Colore, materiale, forma e dimensione sono stati i valori presi in considerazione. Essendoci però una limitazione su quest’ultima, non restava che sfruttare al meglio le rimanenti. Quindi, è stato deciso di lasciare da parte l’analisi dei monumenti più moderni e riprendere l’estetica di quelli classici, che risultano essere i più riconoscibili, imponenti ed esteticamente puliti. Louis Kahn, un architetto statunitense di origini ebraiche, aveva trovato nell’architettura delle rovine greche e romane la sua fonte d’ispirazione, fondamento per il suo fare architettura. Lo affascinavano la simmetria, l’ordine, l’imponenza e la forza che i tempi greci e l’immensa eredità dell’antica Roma comunicavano. Egli si convinse che l’essenza dell’architettura si radicasse nella sua temporalità, nel suo essere monumento eterno. Proprio per questo in quasi tutte le opere di Kahn si nota l’uso di forme geometriche primarie e di materiali semplici, come il calcestruzzo. Con questo materiale è stato realizzato negli anni ’60 il Salk Institute for Biological Studies, all’interno del campus universitario di San Diego, in California. L’edificio, che resta del colore del cemento, è visibilmente modulare e, seppur uno spazio adibito in realtà a laboratori, a prima vista rende un’idea di una funzione completamente diversa da quella laboratoriale. Il vasto cortile interno senza alberi o natura, completamente nei toni del grigio e del bianco, con una verticalità che contrasta il vuoto centrale, evoca la maestosità di una cattedrale, un sentimento di spazio assoluto, senza tempo. Come questo, anche molte sue opere architettoniche sono riconoscibili per il senso di monumentalità che egli cerca
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MONUMENTALITÀ E IMPATTO VISIVO
Fig. 23
Fig. 24
CARATTERISTICHE STRUTTURALI
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di ricreare. Basti vedere ad esempio la National Parliament House (Jatiya Sangsad Bhaban in lingua originale), ovvero la casa del Parlamento del Bangladesh, a Sher-e-Bangla Nagar, uno dei complessi legislativi più grandi al mondo. I lavori, eseguiti totalmente a mano, durarono per ben 25 anni, terminando nove anni dopo la morte dello stesso architetto. La presenza monumentale delle grandi masse di calcestruzzo, che ritrova la propria espressione nelle forme perfettamente geometriche, ha fatto sì che durante la guerra di liberazione del Bangladesh, nel 1971, l’edificio fosse stato scambiato per una antica rovina venendo così risparmiato dai bombardamenti. Kahn non aveva mai condiviso i canoni dell’International Style dei suoi tempi e forse anche per questo non gli fu riconosciuto lo stesso valore dei suoi contemporanei; ma la purezza delle forme e del materiale che ritroviamo in ogni sua composizione rendono sicuramente la sua architettura solenne e le sue opere dei capolavori senza tempo. RIPETIZIONE A SOSTEGNO DEL CONCETTO
Gli elementi fisici scelti e riproposti attraverso la struttura di In Loving Memory sono molteplici. In primo luogo troviamo la ripetizione: elemento presente sia nei cimiteri che nei memoriali con un importante significato. La figura retorica della ripetizione consiste nel presentare più parole che hanno il medesimo significato, ma che mostrano diverse sfumature a livello sintattico e di forma. Serve quindi per ribadire uno stesso concetto, per sostenere un’idea o una convinzione su un determinato argomento. Secondo lo stesso principio, all’interno dell’installazione, la ripetizione modulare di blocchi quadrati apparentemente tutti uguali vuole sia riprendere quella che è l’estetica dei cimiteri o dei monumenti, sia riproporre la riflessione sull’obsolescenza, attraverso l’esposizione dei differenti oggetti che si trovano all’interno
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di ogni blocco. La ripetizione di oggettistica è spesso usata nelle installazioni che vogliono toccare e coinvolgere maggiormente l’osservatore. Un esempio è Fallen Leaves’ Installation (Shalecht in lingua originale) di Menashe Kadishman, nel Jewish Museum di Berlino, creato per ricordare le vittime del genocidio nazista. Lo scultore e pittore israeliano ha creato migliaia di teste di metallo tagliate in modo irregolare che raffigurano i volti dall’espressione drammatica e sofferente. Tutti questi “piatti metallici” sono stati poi ammassati sul pavimento di un cortile dalle alte pareti di cemento; i visitatori sono invitati ad attraversare fisicamente l’opera, con in sottofondo il rumore dei ferri quando vengono calpestati. Lo stesso elemento, ma usato per uno scopo diverso, lo si ritrova ad esempio nelle opere di Andreas Gursky e Andy Warhol. I lavori fotografici di Andreas Gursky infatti vengono posizionati in un contesto di critica alla globalizzazione e al capitalismo. I suoi scenari si popolano di moltitudini di persone, di folle, di oggetti; foto caratterizzate dalla serialità, dalla quantità, dalla manipolazione. Opere dal carattere conturbante e allo stesso imponente, grazie in parte anche al grande formato su cui vengono stampate. Basta vedere fotografie come Montparnasse (Parigi, 1993), dallo stile monumentale e ripetitivo, come Board of Trade II (Chicago, 1999) o Nha Trang (2004) per rendersi conto del riferimento al consumismo ed alla globalizzazione. Tanto che 99 Cent (1999), fotografia rappresentante l’interno di un supermercato, viene proprio definita un “tempio consumistico postmoderno.” (Rittau, 2007). Allo stesso modo Andy Warhol con la sua arte seriale prende un oggetto e lo ripete in modo ossessivo, attuando solamente alcune variazioni cromatiche, in particolare con oggetti tendenzialmente senza particolare valore estetico ed economico, come, ad esempio, le lattine
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di zuppa. I protagonisti dei suoi lavori sono spesso oggetti che richiamano gli scaffali di un supermercato e le sue opere vengono solitamente interpretate come riferimenti alla società consumistica che stava sviluppandosi in quegli anni e al meccanismo del bombardamento visivo. “Bombardamento” che tutt’ora rivediamo tipicamente in ambito pubblicitario. Entrambi gli artisti quindi, attraverso i loro quadri e le loro fotografie, vanno a rappresentare la società del consumo e la moltiplicano, mostrando con la metafora della ripetizione quello che sta succedendo al mondo: gli effetti della globalizzazione, la standardizzazione delle merci, il continuo comprare, buttare via e ricomprare: concetto intrinseco in questo progetto. La struttura però, a differenza dell’impostazione classica dei cimiteri, non è organizzata in una parete. Si è scelto di ricreare un monumento osservabile a tutto tondo impostando un perimetro ottagonale. L’ottagono non è una scelta casuale: nella storia della religione e dell’arte cristiana il numero otto ha un significato importante. “...era giusto che l’aula del Sacro Battistero avesse otto lati, perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte” diceva Sant’Ambrogio già nel IV secolo d.c. Infatti, sono sette i giorni della Creazione secondo la Genesi e l’ottavo è l’eternità, la resurrezione di Gesù e quella dell’umanità. In Italia e nel mondo ritroviamo la forma ottagonale in moltissimi edifici, come la Basilica di San Vitale a Ravenna, la Basilica di San Lorenzo a Milano, la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la Cappella Palatina di Aquisgrana e la chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. Spesso sono le fonti battesimali stesse che tendono ad essere della medesima forma, tutti comunque luoghi legati per mezzo della religione al concetto di vita e di morte.
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LA SIMBOLOGIA DELL’OTTAGONO
Figura 25 – Fallen Leaves’ Installation, Jewish Museum. Figura 26 – 99 Cent (2001). Foto di Andrea Gursky.
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Fig. 30
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MONUMENTALITÀ E IMPATTO VISIVO
In modo diverso la religione Buddhista attribuisce un altro significato a questo numero. Nella sua iconografia, il numero otto è associato ad Dharmacakra, un’arma sacra, una ruota costituita da otto raggi, lanciata dal Buddha Sakyamuni per colpire gli ostacoli, gli errori, gli attaccamenti che impediscono all’uomo di raggiungere il Nirvana. Seppur attraverso un’associazione alla lontana e posta su un livello diverso, In Loving Memory ha un obiettivo simile: in questo caso “l’ostacolo da colpire” diventano gli errori che gli uomini o le aziende commettono attraverso il continuo alimentare dell’obsolescenza programmata e percepita. Per quanto riguarda invece il colore, la scelta è stata di creare una palette che andasse gradualmente dal bianco al grigio antracite, senza mai toccare il nero pieno. Una scala di colori appositamente fredda, come poi risulterà essere anche la luce all’interno dell’installazione, proprio per rendere l’idea di un posto non confortevole, visto soprattutto il contenuto. I quattro colori in questione, ripresi sia nella struttura fisica sia nelle grafiche per la comunicazione analogica e nel sito web, sono identificati dai seguenti codici:
COLORE ESSENZIALE E FRUIBILITÀ A TUTTO TONDO
#E1E4E7 - #B3B9BC - #7A7E7F - #5C6062 (per la stampa) #F0F3F5 - #B3B9BC - #7A7E7F - #5C6062 (per il digitale) Si è studiato infine come rendere possibile la completa fruibilità a 360 gradi: l’ottagono regolare rende la struttura quasi cilindrica e percorribile a tutto tondo, un po’ come succede in maniera parallela ma opposta nelle tombe familiari, in cui ogni angolo delle pareti interne è occupato da loculi collegati tra loro da legami parentali più o meno stretti.
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Figura 27 – Battistero di Firenze. Figura 28 – Basilica di San Vitale, Ravenna. Figura 29 – Fonte battesimale del Duomo di Udine. Figura 30 – Battistero di San Giovanni, Firenze.
Fig. 31
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MONUMENTALITÀ E IMPATTO VISIVO
MODULO E IDENTITÀ
L’identità visiva e la costruzione del modulo si avvicinano certamente all’estetica di un cimitero o di un memoriale, in modo che nel visitatore si crei fin da subito un paragone strettamente concettuale. I blocchi, che si ripetono per ventiquattro volte in tutta la struttura, rappresentano la metafora dei loculi cimiteriali. Questi loculi, disposti in otto colonne da tre ciascuna, sono sostenuti da una base che li eleva ad altezza ergonomica per l’osservatore. A sua volta, la base è preceduta da uno scalino, che innanzitutto eleva l’installazione rendendola più imponente e, in secondo luogo, distanzia la persona dal loculo, creando un piccolo spazio di separazione fisico ma allo stesso tempo discreto. Se immaginiamo di sezionare in due l’installazione possiamo vedere come all’interno ci sia uno spazio vuoto dove far confluire tutti i fili elettrici che servono per la parte di interazione. Da una parte questi cavi sono collegati ai led presenti dentro ogni loculo e dall’altra alll’arduino corrispondente che li gestisce. A sua volta, da questa scheda di controllo confluiscono dei cavi di diametro maggiore diretti all’alimentatore che si collega ulteriormente ad una multipresa. Ogni loculo è modulare e assemblato attraverso degli incastri posizionati sopra e sotto di esso. Geometricamente esso ha la forma di un tronco di piramide a base quadrata, per questo la cornice più esterna è quadrata mentre il fondo è rettangolare. Osservato dall’alto il loculo modulare produce la figura di un trapezio, che accostato agli altri, ovvia alla costruzione della figura ottagonale completa. La parte esterna di ogni loculo è a sua volta chiusa attraverso un plexiglass incastrabile, la cui trasparenza permette di osservare l’oggetto “defunto” appeso alla parete sul fondo: diversamente da quanto accade nei loculi veri e propri, si può vedere ma non si può toccare, quasi a ricordare le vetrine di un negozio.
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LOCULO MODULARE
Figura 31 – Visione dall’interno dell’Edicola Antonio Bernocchi, Cimitero Monumentale di Milano. Foto degli autori. Figura 32 – Disegno rappresentativo del loculo singolo. Figura 33 – Esploso di un loculo. Figura 34 – Schema semplificato della struttura monolitica. Figura 35 – Visione sezionata della struttura interna del monolite.
13 Fig. 32
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Fig. 33
OBSOLESCENZA
Fig. 34
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P R O G R A M M AT A
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Fig. 35
FILTRO ETEREO
Tutti gli oggetti sono appesi in modo “invisibile” al fondo del loculo attraverso fili plastici molto sottili e trasparenti o colle apposite, evitando di rendere visibili le forme di appoggio, in modo da rendere l’effetto di sospensione nel vuoto. Questo espediente visivo è richiamato anche nella comunicazione digitale e analogica, in particolare attraverso un filtro dalla resa eterea che si è voluto usare nella post produzione di immagini fotografiche e video. Gli stessi oggetti esposti sono stati fotografati su sfondo bianco, desaturati ed infine postprodotti togliendo loro del contrasto e delle ombre, proprio per renderli più eterei, distanti dalla visione classica dell’oggetto rotto da buttar via. Nei video, questo filtro che si declina, oltre che nella rispettiva color correction, anche negli effetti di transizione al bianco. In riferimento in particolare alla cinematografia, questo tipo di dissolvenza è stata spesso usata in associazione ai ricordi, ai limbi spazio temporali, agli stati di incoscienza o di pace. In particolare in Requiem for a Dream di Darren Aronofsky si usa spesso questa tecnica per comunicare uno stato di perdita, mentre in alcuni film di Terrence Malick, come ad esempio in The Tree of Life, per rivelare uno stato di trascendenza (Paolo Castelli, 2020).
FONT CIMITERIALE
I nomi di tutti questi oggetti sono stati posizionati sul plexiglass insieme alla loro personale data di “nascita” e di “morte” grazie alla tecnica di stampa dei caratteri prespaziati, che aderiscono direttamente al materiale. Sia per la comunicazione analogica che quella digitale, la font utilizzata è l’Optima Nova, una font semi graziata, riprogettazione della famiglia di font originale disegnatada Hermann Zapf, che prende ispirazione dai capitelli romani classici e dalla scultura del Rinascimento. Questa fonte già stata usata nell’ambito cimiteriale e commemorativo in America, in partico-
Figura 36 – Passaggio dalle forme del loculo al logo attraverso una rotazione prospettica. Figura 37 – Logo e logotipo di In Loving Memory.
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MONUMENTALITÀ E IMPATTO VISIVO
lare nel Vietnam Veterans Memorial, memoriale nazionale di Washington DC in cui si onorano i membri di servizio delle forze armate statunitensi che hanno combattuto nella guerra del Vietnam. Un’altra applicazione è presente anche per i nomi di coloro che hanno perso la vita negli attentati dell’11 settembre, scavata nella parapetti di bronzo, presso il National September 11 Memorial & Museum a New York. Lo stesso carattere è stato usato per il logotipo In Loving Memory. Il significato di uso comune di questa espressione, che tradotta in italiano diventerebbe letteralmente “in amorevole memoria di”, è quello di ricordare una persona che non c’è più, per onorare un defunto. Nel nostro caso l’obiettivo è creare un parallelismo di significato: preservare la memoria ed il ricordo degli oggetti defunti, morti come “vittime” di obsolescenza programmata e percepita. In maniera parallela il logo è la ripresa di una visione laterale di uno dei loculi presenti nell’installazione, di cui si ricalca il contorno e se ne riprende il colore: bianco con profilo grigio antracite. Si è cercato di traslare l’estetica del cimitero, del memoriale, del monumento e di tutti i concetti che ne fanno parte, in ogni aspetto del progetto. Esso pone al centro gli oggetti piuttosto che le persone reali, per cercare di far immedesimare l’osservatore in una posizione più emotivamente coinvolta, invitando ad analizzare la questione dell’obsolescenza programmata e percepita da un punto di vista più personale, incentrato nel ricordo che un oggetto riesce a creare, nelle tracce che lascia nella memoria. “La memoria va intesa, quindi, come un processo evolutivo e continuo che unisce passato, presente e futuro e il museo, da ‘cripta nazionale e cimitero commemorativo’, diventa una rete migrante di tracce e memorie”. (Chambers, 2012, p.7).
MODULO E IDENTITÀ
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LOGO E LOGOTIPO
Fig. 36
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Fig. 37
RITUALITÀ E INTERAZIONE A CURA DI EMANUELE CECCHERINI
In questa sezione verrà analizzata, sia dal punto di vista teorico che tecnico, l’interazione con il memoriale fisico. Si parlerà della progettazione dell’esperienza e di come essa si articola con l’installazione. Infine verrà spiegato come sono stati realizzati i circuiti, collocati all’interno della struttura, che hanno permesso il funzionamento del sistema. L’obiettivo è dare al lettore una completa visione dell’esperienza progettata motivando le scelte effettuate.
CAPITOLO IV
INTRODUZIONE ALL’ESPERIENZA
LINGUAGGIO E TERMINOLOGIA
È necessario definire alcuni termini che verranno utilizzati in maniera puntuale nei capitoli successivi. Con il termine “esperienza” si indica la fruizione completa dell’installazione di In Loving Memory. Per “rito” si intende la parte dell’esperienza ripetibile in cui l’utente crea una connessione con l’oggetto. Mentre “gestualità” comprende sia i movimenti che le azioni predefiniti presenti all’interno del rito.
STRUTTURA ESPERIENZIALE
Al fine di una migliore comprensione di questa sezione è necessario introdurre la struttura dell’esperienza globale sperimentabile durante l’esposizione. Essa si struttura nei seguenti passaggi chiave: 1. All’inizio, il visitatore acquisisce una visione d’insieme del memoriale. L’obiettivo è stupire l’osservatore tramite la monumentalità e la pulizia visiva della struttura. In questo modo esso viene introdotto al tono di voce sacrale e così predisposto ad un atteggiamento rispettoso nei confronti dell’installazione. 2. La fase successiva è caratterizzata dalla possibilità di scelta. Dopo aver esplorato in maniera superficiale tutti i loculi, l’utente si trova nella condizione di poter decidere quale oggetto approfondire. Questa libertà gli permette di interessarsi all’oggetto che sente più vicino a sé, creando un legame emotivo più forte, caratteristica essenziale per un’esperienza più coinvolgente. 3. A questo punto il visitatore entra nel cuore dell’esperienza: scelto il loculo da esplorare, avvicina la mano o il telefono per interagire con l’oggetto. In questo modo attiva le luci che aumentando di luminosità segnalano l’effettiva connessione tra le parti. 4. Attraverso l’interazione, e quindi la lettura digitale del QR-code, è possibile accedere alla pagina del sito con la storia del prodotto scelto. Così si può venire a conoscenza di
Figura 38 – Diagramma di progetto che illustra ed esplicita il legame tra le diverse componenti del progetto.
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RITUALITÀ E INTERAZIONE
quali sono state le cause che hanno portato alla morte dell’oggetto e successivamente informarsi sul tema dell’obsolescenza percepita e programmata, centro di tutto il progetto. 5. Infine, l’utente può scegliere se ricominciare l’interazione con i loculi, scrivere la storia di un suo oggetto defunto ad In Loving Memory oppure lasciare il memoriale terminando così l’esperienza. In questo capitolo verrà approfondito solo il terzo passaggio dell’esperienza: il rituale. Le tre sezioni successive nascono dalla volontà di accompagnare il lettore nel percorso di progettazione e realizzazione dell’interazione con i loculi. Nella prima parte si tratterà del rapporto tra ritualità e design, attraverso una visione teorica e più ampia del tema. Nella sezione successiva si andrà più in profondità, descrivendo e motivando come è stata progettata la gestualità all’interno del rito. Infine, verrà spiegato come e attraverso quali tecnologie è stata creata l’interazione.
INTRODUZIONE ALL’ESPERIENZA
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INTRODUZIONE AL TESTO
Fig. 38
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Fig. 39
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RITUALITÀ DELL’OMAGGIO TECNOLOGICO
Come primo passaggio è stata effettuata una ricerca, sul campo e non, in merito agli esempi già esistenti di cimiteri e memoriali. Per quanto riguarda l’interazione è stata osservata la presenza di piccoli gesti ripetibili e codificati dal forte significato simbolico. Per esempio, onorare i defunti portando dei fiori presso la tomba oppure lasciare la propria firma sul libro delle visite (per quanto riguarda i memoriali). Quindi si è deciso di riprendere e riproporre le gestualità e i piccoli “rituali” presenti nei luoghi analizzati in modo da rafforzare l’identità di In Loving Memory e permettere al fruitore di immergersi ancora meglio nel contesto sacrale della narrazione.
RICERCA PROGETTUALE
A questo punto nasce una domanda: perché parlare di ritualità invece di esperienza? Un rito è un insieme di gesti semplici, codificati e ripetibili che assumono un grande valore simbolico. Quest’ultimo aspetto è proprio ciò che distingue il rito da abitudini, routine ed esperienze. Come K. Ozenc racconta in Introducing Ritual Design: meaning, purpose, and behavior change (2014) i rituali sono un ponte tra visibile e invisibile, aiutano le organizzazioni a manifestare i loro valori e a rinforzare la loro identità e cultura. I rituali hanno anche un carattere fortemente rigido, regole precise e ben delineate, al punto che se non rispettate invalidano il rito. Allo stesso tempo, però, presentano uno spazio personale ed unico. Per esempio, molti riti religiosi hanno una rigida struttura liturgica, nella quale però viene lasciato spazio di movimento e soprattutto di interpretazione, rendendo così l’esperienza unica e personale per ciascun individuo. Infatti, nello studio di Hobson N. The psychology of rituals (2018) vengono definiti come i due aspetti principali del rito il carattere rigido della gestualità (visibile) e il forte significato simbolico personale (invisibile).
TRA RITUALITÀ ED ESPERIENZA
RITUALITÀ DELL’OMAGGIO TECNOLOGICO
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Kursat Ozenc è un progettista e docente alla Standford d. school. È considerato uno dei primi ricercatori che hanno esplorato il rapporto tra ritualità e design.
Figura 39 – Rappresentazione del rapporto tra esperienza, rito e gestualità.
K. Oznec nel testo How do you design a ritual? (2016) divide i rituali in quattro categorie. Proviamo a posizionare In Loving Memory sulla matrice creata da Oznec. Prendiamo in considerazione un piano cartesiano su cui si pone sull’asse delle ascisse il valore individuale o collettivo mentre sull’asse delle ordinate il valore laico-razionale o religioso-mistico. Attraverso questo strumento si possono valutare tutti i riti, dal più semplice e personale caffè mattutino al più religioso e collettivo come il Ramadan per i musulmani o il Shabbat per gli ebrei. In questo grafico il rito di In Loving Memory si posiziona tra collettivo e individuale con una tendenza verso quest’ultimo e tra razionale e mistico quindi con caratteri più sacrali. Rispondendo ora alla domanda iniziale, il rito presenta un tono di voce più sacrale e mistico rispetto all’esperienza, creando un collegamento più deciso tra mondo visibile e invisibile, che fa percepire la ricchezza dell’interazione con gli oggetti, senza perdere il valore personale dell’esperienza. In questo senso il rito risulta unico, semplice, ripetibile e ricco di significato. Ha l’obiettivo di rafforzare l’identità del memoriale e definire il tono di voce sacrale con cui bisogna approcciarsi al monumento.
Figura 40 – Esempi di rituali categorizzati per tipologie.
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RITUALITÀ E INTERAZIONE
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Fig. 40
GESTUALITÀ DEL RITO
METAFORA CIMITERIALE
Dato che l’installazione progettata tratta di oggetti “defunti” e non di esseri umani, si è preferito reinterpretare e riadattare il classico rituale di omaggio cimiteriale. Infatti, il rischio principale era che l’utente percepisse persone e oggetti sullo stesso piano, leggendo una non voluta profanazione e dissacrazione della morte umana. Pertanto, si è preferito mantenere solamente il gesto di avvicinamento della mano al loculo per creare un senso di contatto tra l’oggetto e l’utente ed eliminare ogni altro riferimento diretto all’ambito cimiteriale. Per cominciare è stato creato un riscontro da parte dell’oggetto che comunicasse l’avvenuta connessione, fisica ed emotiva, con l’utente. Attraverso un effetto luminoso per cui, una volta avvicinata la mano al loculo, le luci aumentano di intensità.
METODOLOGIA COMUNICATIVA
Per il passaggio di informazioni dall’installazione all’utente è stata utilizzata la tecnologia QR-code. Attraverso la scansione del codice, posto sotto ad ogni loculo, gli utenti accedono alla pagina del sito che riporta il racconto di vita e di morte del prodotto scelto. Perché ciò avvenga, i visitatori hanno la necessità di avvicinarsi al monumento sufficientemente per attivare l’effetto luminoso di feedback. Quasi inaspettatamente, il fruitore riceve un riscontro dell’avvenuta connessione con l’oggetto e, in aggiunta, apprende autonomamente la gestualità del rito che successivamente potrà ripetere liberamente e consapevolmente.
CONFRONTO CARATTERIALE
Scomponendo gli elementi del rito di In Loving Memory, troviamo similitudini con pratiche propiziatorie di rituali religiosi di epoca antica e con atteggiamenti cimiteriali. Ovviamente, il sistema di feedback, inserito nell’esperienza di In Loving Memory, non è visibile nell’esperienza cimiteriale dove avviene come legame spirituale. È stato necessario esplicitare questo passaggio in modo più chiaro per migliorare la fruizio-
Figura 41 – Gestualità dell’esperinza (2020). Foto degli autori.
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GESTUALITÀ DEL RITO
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David C. Evans si occupa di psicologia e neuroscienze. È stato anche consulente per Amazon e per lo Stato di Washington e dell’Oregon.
COMUNICAZIONE SPIRITUALE
Figura 42 – Tabella riportante il confronto tra la gestualità di In Loving Memory e quella cimiteriale
ne dell’esperienza. Infatti, è dimostrato che, aggiungendo un secondo “premio” più immediato all’azione compiuta, come in questo caso è la luce (premio istantaneo) che accompagna la storia dell’oggetto (premio principale), il cervello sarà più propenso a compiere più volte l’azione grazie al continuo riscontro positivo (Evans D., 2017). La costruzione del loculo è stata ispirata agli espositori sacri delle reliquie, rivisitati in chiave moderno-tecnologica. Rimane presente infatti l’estetica di teca che separa l’oggetto dal visitatore, così da rafforzare l’aspetto sacro dell’oggetto, che risulta inarrivabile e intoccabile. Le luci sono state poste in alto e in basso nel loculo in modo da generare un’illuminazione diffusa e teatrale, che non infastidisca il visitatore. I led rimangono sempre accesi, a bassa luminosità, per richiamare un ambiente calmo e solenne. Mentre, nel momento in cui avviene l’avvicinamento della mano al loculo le luci aumentano lentamente di luminosità come se l’oggetto si risvegliasse. Durante la fase di test è stato cruciale trovare il giusto equilibrio nella velocità con cui i led variano la propria luminosità, in modo da non intaccare l’aura spirituale ma nemmeno rendere l’effetto poco visibile. L’attivazione a distanza serve per far apparire il monumento ancora più immacolato e irraggiungibile esaltando così il suo aspetto mistico e sacrale. Infatti, l’utente è invitato a non toccare il memoriale, definendo una distanza minima con possa interagire con i loculi (oltrepassata solo da quelli informativi dove è richiesto il contatto). Questo limite non è però una regola imposta ai fruitori ma viene creata a livello percettivo. Difatti, una volta attivato l’effetto luminoso, anche se l’utente provasse ad avvicinarsi ulteriormente, non avviene nessun riscontro aggiuntivo. In questo modo l’azione sarà percepita come inutile e quindi meno ripetuta. Come scrive D. Evans in
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Bottlenecks (2017), se da un lato siamo spinti a ripetere un’azione che genera un riscontro positivo, dall’altro l’assenza di questo “premio” ci porterà ad evitare la reiterazione. Una volta definita la gestualità del rito, è stato necessario scegliere in che modo veicolare il riscontro all’azione. La luce è risultata il mezzo migliore per il suo carattere silenzioso che ha permesso di mantenere una quiete sacrale attorno al monumento. In aggiunta l’azione è diventata visibile anche da altri visitatori. Infatti, una persona, lontana dall’installazione, può notare un secondo utente interagire con il monumento. In questo modo è possibile sia instillare curiosità catturando l’attenzione sia far apprendere le modalità di interazione. Infine, la scelta di utilizzare il led come emettitore luminoso ha permesso di rafforzare l’aspetto tecnologico dell’installazione.
Figura 43 – Rapporto tra utente e installazione (2020). Foto degli autori.
GESTUALITÀ DEL RITO
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TECNOLOGIA IMPLEMENTATA
ARDUINO: PROGETTAZIONE A PORTATA DI TUTTI
Figura 44 – Primo prototipo di Wiring (2003 ca.). Figura 45 – Primo prototipo di Arduino (2006).
Il sistema più semplice per gestire interazioni di questo tipo è Arduino, che permette di utilizzare sensori per ricevere input e creare una relativa risposta attraverso un semplice linguaggio di programmazione. Inoltre, essendo piuttosto compatto, può essere installato in modo pratico ovunque e, una volta alimentato, è completamente autonomo dal computer. Arduino nasce nel 2005 come progetto all’Interaction Design Institute di Ivrea (IDII). La sua storia è però intricata e controversa. L’idea alla base di Arduino è dare a designer e progettisti una scheda con cui si possano creare prototipi di circuiti e interazioni in maniera semplificata e accessibile a tutti. Era quindi necessario contenere il prezzo e creare un linguaggio di programmazione semplice e utilizzabile su tutti i sistemi operativi. L’inizio del progetto viene attribuito a Hernando Barragán che nel 2003 presso l’IDII incentra la sua tesi Wiring: Prototyping Physical Interaction Design (2004), con relatore Massimo Banzi, sulla creazione di una scheda per progettisti che prese poi il nome di Wiring. Negli anni successivi Barragán si trasferisce in Colombia frequentando l’Universitad de Los Andes. Periodo in cui prosegue il progetto di Wiring terminato nel 2005 quando l’IDII produsse le prime schede iniziando ad utilizzarle anche per scopi didattici. Il loro prezzo si aggirava attorno ai cinquanta dollari statunitensi. Ciò rappresentò un notevole calo di prezzo delle schede che erano attualmente disponibili, ma rappresentava comunque un costo rilevante per la maggior parte delle persone. Così nello stesso anno Massimo Banzi avviò il progetto Arduino, utilizzando come punto di partenza Wiring senza però coinvolgere Barragán, progettista di quest’ultimo. Qui nasce la disputa sulla paternità di Arduino e il mancato riconoscimento di Hernando Barragán. Il punto focale, però, che interessa al fine di questo testo, è che Arduino nasce come strumento economico di supporto per i progettisti e designer
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RITUALITÀ E INTERAZIONE
Fig. 44
Fig. 45
TECNOLOGIA IMPLEMENTATA
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senza la necessità di una profonda conoscenza informatica. ANALISI SCELTA DELLA SENSORISTICA
La scelta dei sensori da connettere ad Arduino per l’attivazione a distanza doveva soddisfare tutte le numerose necessità del progetto: Basso costo. Il prezzo era una discriminante rilevante in quanto era necessario impiegare un sensore per ogni loculo pur restando in un budget contenuto. Dimensioni ridotte. Il sensore doveva essere installato nella parte sottostante della struttura di ogni loculo, assieme al QR-Code. Per questo motivo era necessario che fosse di dimensioni contenute o capace di funzionare anche attraverso il legno. Misurazione della distanza. Il sensore doveva percepire l’avvicinamento di un corpo con un errore massimo di pochi centimetri. Facilità di implementazione. I sensori dovevano essere 18, per questo motivo era necessario che consumassero poco e fossero relativamente facili da installare e adoperare almeno 4 per ogni scheda Arduino. Stabilità. I sensori dovevano essere stabili assicurando che la distanza di attivazione rimanesse costante durante tutta la giornata. Successivamente sono stati testati differenti tecnologie di sensore. La scelte finale del sensore ad ultrasuoni ha preso in considerazione pregi e difetti di ognuno. Sensore ad Infrarossi con emettitore. A differenza del sensore ad infrarossi senza emettitore, che permette solamente di percepire quando un corpo caldo entra in una stanza, questo sensore vanta una piccola dimensione di pochi centimetri, facilità nel suo utilizzo e un costo pari a pochi euro. Purtroppo, data la bassa qualità di fattura la calibrazione dei sensori risulta molto difficile. Inoltre, la loro efficacia dipende molto dal materiale di cui è fatto il corpo che si avvicina. Infatti, utilizzando la luce infrarossa per calcolare la distanza, quest’ultima varia in base al colore del corpo. Per esempio,
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gli oggetti neri assorbono parte della luce facendo azionare il sensore su una distanza sensibilmente inferiore dei materiali bianchi. Questo problema, caratteristico dei sensori economici, è stato trattato da Julián Caro nel documento Black or white. The infrared sensor. (2015). Probabilmente versioni di maggiore qualità avrebbero risolto il difetto ma erano tutte fuori budget. Sensore capacitivo. Questo prototipo di sensore è assai economico e facilmente realizzabile attraverso un solo foglio di carta stagnola. Inoltre, il suo funzionamento è possibile anche attraverso il legno perché può captare una qualsiasi resistenza che si avvicina fino a 20 cm. Purtroppo, risultava assolutamente inaffidabile sulle lunghe sessioni, dato che la sua sensibilità si alterava nell’arco di pochi minuti, avrebbe necessitato una continua ricalibrazione. Sensore Radio. Questo sensore riesce a captare un movimento che avviene dietro la superficie legnosa, vanta piccole dimensioni e basso prezzo. Di contro, però, non era funzionale nella corta distanza, attivandosi ad ogni movimento nel raggio di diversi metri e soffrendo interferenza da sensori della stessa tipologia. Sensore ad ultrasuoni. Malgrado la forma difficilmente celabile questo sensore presenta diversi pregi. Per primo, è veramente affidabile ed accessibile attraverso una libreria di Arduino che traduce direttamente i segnali del sensore in una misura espressa in centimetri. Vanta un costo ridotto e inoltre è facilmente installabile. L’unico contro è che non funzionando dietro il legno e quindi è stato necessario praticare due fori nella struttura. Il rischio di questo intervento è che venisse intaccata l’aurea immacolata del memoriale. Questo è stato evitato posizionando QR-code e sensore allineati tra loro e al centro del loculo, così riportando la struttura ad una simmetria ordinata.
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Julián Caro Linares è un esperto di robotica e prototipazione. Ha conseguito la laurea in elettronica industriale e ingegneria dei controlli presso l’Università Carlos III di Madrid. Ora insegna al master in Robotica e automazione presso il Politecnico di Madrid.
Come sistema di illuminazione si è scelto di utilizzare i led perché possono essere facilmente organizzati ed installati in strisce di lunghezza variabile in base alla necessità, occupano poco spazio, sono disponibili ad un prezzo contenuto e sono facilmente gestibili attraverso Arduino, secondo le necessità. SCHEMA TECNICO CIRCUITO ELETTRONICO
Figura 46 – Schema elettrico del singolo circuito realizzato con Arduino.
Il circuito realizzato presenta soluzioni tecniche complesse. Innanzitutto, prendiamo in analisi il funzionamento in ogni singolo loculo. Le componenti utilizzate sono le seguenti, il cui utilizzo è illustrato nello schema successivo. Scheda Arduino, Sensore ad ultrasuoni, Transistori TIP120, 2 strisce led da 25 cm ciascuna, Alimentatore 12V, Alimentatore 9V, Cavi con guaina in gomma sia da 12 che 5 Volt. Il primo alimentatore a 12 Volt è necessario per il funzionamento dei led, mentre il secondo a 9 Volt per Arduino. Il sensore ad ultrasuoni misura la distanza che intercorre tra sé stesso e il corpo più vicino. Quando questa diventa inferiore a 7 centimetri, Arduino alimenta, con intensità sempre maggiore, il pin a cui è connesso il transistor. Quest’ultimo ha il compito di far da interlocutore tra la scheda, che funziona a 9 Volt, e i led, che invece necessitano di essere alimentati con corrente a 12 Volt. Così, maggiore sarà l’intensità di corrente sul pin di controllo del transistor, maggior corrente esso lascerà passare nell’altro circuito. In questo modo i led, venendo alimentati con più energia, aumenteranno di luminosità, ricreando l’effetto desiderato. Quando la distanza rilevata dal sensore torna ad essere superiore a 7 cm viene fatto partire un timer da 20 secondi. Allo scadere di questo tempo, l’intensità luminosa viene riportata allo stato iniziale. Per realizzare questo circuito per tutti i 18 loculi con led sono state adoperate quattro schede Arduino Mega che controllano quattro sistemi led-sensori a testa, più una sche-
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Fig. 46
Fig. 47
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da Arduino Uno per gli ultimi due restanti. Il tutto è stato collegato all’alimentatore da 12 Volt più un alimentatore da 9 Volt per ciascuna scheda Arduino. Nel montaggio è stato necessario considerare che la struttura doveva essere smontabile e ricostruibile in maniera modulare attorno ad una colonna (spazio disponibile nel luogo dell’installazione). Così ogni sensore e striscia led sono staccabili dalla scheda Arduino attraverso delle plug. La parte di circuito tra transistor e Arduino è stata saldata sulla Shield attaccata alla propria scheda. In questo modo era possibile avvitare ogni Arduino sul retro di un loculo e poi connettere i relativi sensori, led e cavi di alimentazione. Infine, posizionando i sei alimentatori all’interno della cavità del monumento, tutti i circuiti risultano nascosti, mantenendo l’esterno bianco e pulito. La soluzione progettata consente di gestire ogni loculo è indipendente dagli altri, garantendo la fruibilità dell’installazione a più persone contemporaneamente e la stabilità del funzionamento per tutta la giornata espositiva.
Figura 47 – Funzionamento teorico del sensore e dell’effetto luminoso.
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SITO WEB E ARCHIVIO A CURA DI BIANCA MARIA FRATIN
Questa sezione è dedicata al sito web di In Loving Memory, ed è strutturata nei tre capitoli per seguire cronologicamente il comportamento dell’utente, ovvero accompagnandolo nei diversi step durante l’interazione. Si passa infatti dall’associazione fisico digitale, ovvero il passaggio in cui, scelto l’oggetto nel memoriale, accede alla pagina ad esso dedicata, alla web experience all’interno del sito stesso, evidenziandone tutte le diverse componenti, fino al momento di partecipazione maggiore, ovvero alla parte in cui, nella sezione “racconta la tua storia”, l’utente diventa autore e contribuisce attivamente alla costruzione dell’archivio. In tutto il percorso vengono esplicitati anche i punti più critici del progetto, andando poi a spiegare le motivazioni per cui si è presa una determinata direzione piuttosto che un’altra.
CAPITOLO V
PASSAGGIO DAL FISICO AL DIGITALE
INTRODUZIONE
In Loving Memory si struttura principalmente su due pilastri, i quali si sostengono a vicenda e sono ugualmente necessari per la piena fruizione dell’esperienza. Uno è l’oggetto fisico del memoriale e l’altro è il sito web. Il primo dà il via al secondo, che dal giorno dopo la mostra continua a esistere e crescere. Attraverso l’installazione l’utente, una volta scelto l’oggetto di proprio interesse e scansionato il QR code, accede alla sua pagina, dove conosce la storia della sua vita, raccontata dal possessore, ma anche quella della sua morte, ovvero quale particolare tipologia di obsolescenza, programmata o percepita, ha causato il suo diventare inutilizzato.
DAL MEMORIALE AL SITO WEB
Alcune delle prime questioni su cui si è discusso riguardano il passaggio dell’utente dal fisico al digitale. La prima era relativa alla coesistenza del memoriale e del sito web. Il desiderio era infatti quello di far diventare il legame fra i due imprescindibile, per dare unità all’esperienza. Per questo motivo si è deciso di usare due versioni del sito, una attiva durante l’installazione e una attiva successivamente al termine di quest’ultima. All’inizio si pensava di rendere le pagine riguardanti gli oggetti isolate, senza link esterni, in questo modo l’utente avrebbe avuto come unica opzione alla fine della lettura quella di uscire dalla pagina, scegliere un altro oggetto e ricominciare da capo oppure terminare l’esperienza. Questa soluzione però faceva emergere due principali criticità: innanzitutto si poteva creare un senso di frustrazione nell’individuo che non sarebbe stato libero di esplorare lo “spazio digitale” e forzato dall’unica scelta. In secondo luogo, all’interno del sito sono presenti altre sezioni importanti, come quella del “conosci”, delle quali l’utente poi non avrebbe potuto usufruire. In base a questa riflessione sono cambiati due aspetti. Inizialmente nella pagina dell’oggetto era presente una foto
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che lo ritraeva e simulava l’effetto “loculo”. Questa è stata tolta per rendere più forte il legame tra l’oggetto e la storia dello stesso, quindi tra il loculo e la pagina web, portando l’utente a guardare l’oggetto fisico durante la lettura. Questo cambiamento ha richiesto la riprogettazione di una pagina più dinamica, avendo rinunciato ad un importante elemento di interesse visivo. Inoltre è stato cambiato l’albero di navigazione con lo scopo di dare maggiore fluidità all’esplorazione. È stato facilitato l’accesso alla pagina “conosci” e a quello del “racconta”, e ostacolato, senza renderlo impossibile, quello alla “home”, dalla quale era possibile consultare le pagine degli altri oggetti. Quest’ultimo cambiamento riguarda le singole pagine degli oggetti che durante la mostra funzionano unicamente in modalità responsiva, questo per sottolineare maggiormente l’importanza dell’interazione fisica tramite smartphone A partire dal giorno successivo il sito entra in piena funzione diventando completamente navigabile: 1. Le pagine sono collegate in maniera semplice e fluida e l’albero di navigazione è più intuitivo e immediato. 2. In ogni pagina dei singoli oggetti si trova una foto, che va a sostituire quello fisico nel loculo, anche grazie all’estetica ottenuta in post-produzione e alla posizione. 3. Si attiva la modalità desktop oltre a quella mobile. Un’altra questione sul legame tra fisico e digitale riguarda il collegamento, ovvero il “pairing methods” attraverso il quale l’utente può interagire per accedere al sito. Il desiderio era quello di permettere all’utente un’interazione personale, ovvero attraverso il proprio smartphone. Questo era vantaggioso anche perché il sito sarebbe rimasto nella memoria di navigazione del dispositivo dell’utente, favorendo di conseguenza il ritorno sulla pagina.
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PAIRING METHODS
Figura 48 – Albero di navigazione del sito web nella versione mobile.
OGGETTO
OGGETTO
VITA OGGETTO
MORTE OGGETTO
OGGETTO Fig. 48
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OGGETTO
OGGETTO
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CONOSCI
HOME 109
Matthias Baldauf è un ricercatore senior, docente universitario e project manager in R&S.
Figura 49 – Pairing methods trattati da Baldauf.
Lo smartphone si può considerare come un telecomando onnipresente che si presta a diversi utilizzi, e che offre molteplici strumenti tecnologici, diventando quindi un interlocutore tra il mondo reale e quello digitale. Durante gli ultimi anni le tecnologie nel campo dei pairing methods si sono notevolmente sviluppate. Alcune sono ancora proibitive dal punto di vista del prezzo, altre si considerano obsolete dalla maggioranza degli utenti. Per la scelta relativa al progetto si sono tenuti in considerazione diversi fattori, principalmente: 1. La distanza e l’interferenza: disponendo gli oggetti vicini tra loro, non si potevano scegliere dispositivi che emettessero segnali a lunga distanza, perché questi sarebbero entrati in interferenza tra loro. Inoltre l’obiettivo era proprio quello di far avvicinare l’utente all’oggetto. 2. L’accessibilità: quest’ultimo è stato probabilmente l’aspetto più vincolante. All’interno di un progetto che voleva far riflettere gli utenti sull’obsolescenza programmata, era fondamentale che l’esperienza fosse accessibile da qualunque dispositivo, anche se più datato. Una soglia di utilizzo bassa avrebbe influenzato l’efficacia dell’esperienza. Di seguito si propone un confronto tra diversi pairing methods, in relazione alle tecniche di interazione fisica, basato su uno studio di Matthias Baldauf (2013). 1. Touching: avvicinamento di un dispositivo mobile (5 cm o meno) a un’etichetta intelligente per leggere le informazioni di associazione senza un vero e proprio contatto. 2. Short-range pointing: identificazione di un oggetto catturando un corrispondente marcatore visivo unico attraverso la fotocamera integrata al cellulare. 3. Scanning: selezione della visualizzazione desiderata da un elenco mediante la scansione dell’ambiente. 4. User-mediated pairing: immissione manuale di un codice sul dispositivo che specifica l’oggetto da abbinare.
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Fig. 49
touching
short-range pointing
020798
scanning
user-mediated pairing
display pointing
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Il Prof. Dr. Enrico Rukzio è professore all’Università di Ulm. Ha pubblicato oltre 60 pubblicazioni internazionali tra conferenze e riviste.
Baldauf (2013) si concentra sullo studio delle particolari tecnologie utilizzate integrate nello smartphone. Un utilizzo diventato molto popolare negli anni è quello che sfrutta i calcoli geospaziali basati sul riconoscimento della posizione integrato, ovvero il GPS. Mentre la semplice posizione del dispositivo può essere utilizzata per realizzare funzioni di scansione elementari, questa può essere combinata per esempio con le informazioni di orientamento raccolte da una bussola per realizzare pairings più complessi. Un’altra innovazione per realizzare short-range pointing è il display pointing, ovvero il rilevamento visivo attraverso la fotocamera integrata di un dispositivo mobile con metodi di visione computerizzata adeguati. Le ricerche più recenti hanno consentito tecniche che impiegano in tempo reale il riconoscimento di immagini naturali e confrontano le istantanee con una serie di foto di destinazione. Un esempio popolare basato su un database di immagini in remoto è Google Lens, un’applicazione mobile per identificare punti di riferimento indicando con uno smartphone. Un terzo attivatore tecnologico per l’interazione mobile sono le tecnologie di comunicazione wireless come NFC, Wifi e Bluetooth. NFC (Near Field Communication) è una tecnologia a corto raggio e può essere utilizzata per recuperare o scrivere dati su chip non alimentati, i cosiddetti tag, attraverso un’interazione fisica di touching o di approssimazione. Al contrario, Bluetooth e Wifi sono i pilastri tipici delle tecniche di scanning a medio raggio per il rilevamento di oggetti intelligenti nelle vicinanze. Anche Rukzio si è focalizzato sull’ambito dei pairing methods, ed è stato uno dei primi ricercatori che ha confrontato diverse tecniche di interazione per ricavare linee guida su quale metodo applicare a seconda dello scenario. Secondo lui per esempio, nel contesto di intrattenimento culturale, lo
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scanning e lo user-mediated pairing sono le tecniche preferite per le applicazioni delle guide turistiche, perché permettono un’interazione a breve distanza con artefatti visivi pubblici come pannelli informativi e poster. In un contesto museale in cui i visitatori si trovano in prossimità degli oggetti, il touching è il metodo più adeguato. Per il progetto, considerando contesto, esigenze e possibilità tecniche, si è arrivati a individuare come modalità percorribili l’NFC e lo short-range pointing, ovvero il QRcode. Rispetto a queste tecniche un altro studio (Reischach, Michahelles, 2009) mostra che, su un campione di 1000 persone con età diverse, l’NFC è preferibile in termini di velocità, seguito da vicino dallo scanning di codici visivi. Entrambe le tecniche comunque sono risultate preferibili all’immissione manuale di un codice. Per quanto riguarda l’utilizzo, risulta che gli inesperti preferiscono il QRcode per la maggiore facilità di utilizzo, mentre i partecipanti più navigati hanno preferito l’NFC per l’immediatezza (O’Neill, Thompson, 2007). In conclusione, se anche l’NFC è un pairing method che si sposa perfettamente col progetto, nella sua velocità e immediatezza, questo porta ad escludere una parte di pubblico. Informandosi sulle caratteristiche dei diversi dispositivi mobile si scopre che molti modelli non hanno un sensore di riconoscimento NFC o non possono utilizzarlo per accedere liberamente a siti web. Inoltre, mentre il QR è immediatamente riconoscibile e generalmente conosciuto, quindi non necessita di spiegazioni, l’NFC non ha una visibilità immediata e la sua fruizione non ha ancora la stessa intuitività. Per questo motivo la scelta è ricaduta sulla modalità meno intuitiva, quella del QR code, che si adegua ugualmente ai vincoli del progetto, anche se non gode di grande considerazione nell’audience media, perchè è quella che risulta più accessibile ed inclusiva per il pubblico.
PASSAGGIO DA FISICO A DIGITALE
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An evaluation of product identification techniques for mobile phones, Springer, Heidelberg (2009).
Reach out and touch: Using NFCand 2D barcodes for service discovery and interaction with mobile devices. Springer (2007).
WEB EXPERIENCE E MEMORIA
INTRODUZIONE
Umberto Tolino è docente di Visual e Web Design all’interno del corso di Laurea Triennale in Design della Comunicazione. Il suo ambito di ricerca riguarda il Digital Design, ovvero la sperimentazione digitale e l’esperienza utente.
EXPERIENCE DESIGN
La decisione di utilizzare l’interazione con una pagina web come principale artefatto comunicativo è spinta dalla natura del progetto. Lo scopo principale infatti è far riflettere l’utente sul tema della obsolescenza programmata e percepita, a partire da un livello più emotivo, indotto dall’impressione che provoca la metafora del memoriale, fino ad uno più approfondito che richiede informazioni tecniche. Per questa tipologia di contenuto si adatta la forma del sito, il design digitale infatti dà la possibilità di creare artefatti densi di contenuti spesso interattivi. Quindi anche il messaggio può ottenere diverse sfumature arricchite di significato. Questi strumenti, capaci di coinvolgere l’audience, sono in grado di generare un ricordo memorabile. “Ma di maggiore interesse è il significato semantico che identifica l’esperienza come momento conoscitivo derivato da un accumulo di eventi noti per sensazione. (...) È quindi evidente che l’esperienza è strettamente legata alla memoria nelle sue diverse attività: conservazione, reminiscenza e richiamo di sensazioni passate.” (Tolino, 2007, p. 20). Pur essendo il contenuto il protagonista del sito, è la qualità dell’experience che lo può portare a diventare un ricordo, una nuova consapevolezza nell’utente. Questa sezione si occupa di descrivere in che modo, attraverso quali strumenti, si è creata una esperienza significativa per l’utente. Se le storie degli oggetti sono la principale tipologia di contenuto presente nel sito, si può dire che anche l’esperienza web ha elementi affini ad un racconto, intendendolo come flusso narrativo carico di significato, per cui abbiamo un racconto “raccoglitore” che contiene altri racconti. Infatti:
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SITO WEB E ARCHIVIO
“... è inoltre possibile evidenziare come i costituenti dell’esperienza possano essere associati a degli elementi ricorrenti in un qualsiasi racconto: lo spazio, l’attore, l’evento e il tempo. Così come questi quattro costituenti possono dar vita a una serie di intrecci narrativi, tendendo verso opportune sfumature e connotazioni, anche l’esperienza, per generare una narrazione, deve declinare i propri elementi in modo tale da creare una serie di possibili, potenziali esperienze.” (Tolino, 2007, p. 20). All’interno del libro Web experience: l’ambiente informativo come neo-luogo della comunicazione (Tolino, 2007) viene presentata un’analisi del racconto, in cui ogni elemento è legato ad una fase specifica dell’esperienza. 1. Spazio: inteso come luogo di regia. Può essere fisico o virtuale ed è strettamente legato all’impressione. 2. Attore: può essere anche più di uno. Sono i protagonisti dell’esperienza, le cui azioni sono in grado di produrre un effetto di senso. È strettamente connesso all’esplorazione. 3. Evento: consiste nello svolgimento dell’interazione, cioè quello che di fatto succede, che si verifica nella scena. È strettamente connesso all’uso. 4. Tempo: elemento caratterizzato dalla capacità di genesi di stati di relazione. È strettamente legato alla memoria. Ad ogni elemento costituente del racconto quindi è legato un elemento costituente dell’esperienza. È importante considerare che non si tratta di fasi tra loro separate, ma che si accavallano e si intrecciano a seconda dell’utente e dell’oggetto a cui si interfaccia. A partire dall’analisi generale di ogni elemento costituente si vuole far emergere gli aspetti specifici del sito web di In Loving Memory, sia nella sua fase “durante” che nella fase “post”.
WEB EXPERIENCE E MEMORIA
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IMPRESSIONE
L’impressione è di fondamentale importanza perché di fatto predispone all’interazione successiva il soggetto che la vive, condizionando le sue azioni, le sue scelte e quindi influenzandone gli esiti. Ha come protagonisti elementi sensoriali, come le forme, i colori, le luci, le ombre, i materiali e i suoni. La combinazione di tali fattori genera un effetto globale e provoca una sensazione. “L’impressione è la prima fase dell’esperienza. Si tratta di un insieme di fattori che predispongono a un determinato giudizio percettivo, dettato sia da causanti e motivazioni emozionali interne, che da motivazioni reali e razionali esterne. (...) L’impressione che si ha di un luogo, di un oggetto, di una persona, spesso deriva da un insieme di elementi riconoscibili in modo sintetico, complessivo, e predisposti a rapidi confronti con le proprie esperienze passate, con la propria conoscenza, con la propria ideologia, con il proprio atteggiamento mentale, in una parola, con la propria cultura.” (Tolino, 2007, p.22).
Figura 50 – Pagina web dell’orologio Swatch GP128K nella versione desktop.
Per quanto riguarda il progetto, la prima rilevante impressione avviene attraverso l’estetica del memoriale, che il sito segue in maniera coerente. L’identità visiva di In Loving Memory viene trattata precedentemente, ma ci sono delle particolarità proprie della pagina web. Appena aperta la pagina della storia dell’oggetto infatti questa si “attiva” passando da un grigio più scuro a uno più chiaro. È un effetto leggero, ma genera un senso di continuità tra la l’esperienza fisica, in cui si accendono i led, e quella digitale. Come già affrontato precedentemente, in questa fase non compare la foto dell’oggetto. Quindi, per dare maggiore dinamicità alla pagina si è utilizzato lo sfondo che attraverso
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un gradient dal grigio chiaro al grigio scuro, accompagna la narrazione, dalla parte più positiva del racconto della vita, a quella più negativa della spiegazione della morte. Nella versione completa della pagina web la fotografia dell’oggetto è presente, e si lascia “galleggiare” nello spazio del sito proprio per conferire quella sensazione eterea e monumentale che caratterizza tutta la comunicazione. Nella home invece, nella sezione “ricorda”, gli oggetti sono organizzati in delle “box” che ricordano la disposizione regolare del memoriale, cosa che gli conferisce un senso di monumentalità di forte impatto. “È una fase esperienziale che richiede una partecipazione attiva da parte dell’individuo. Questi, dopo aver preso coscienza degli effetti e delle sensazioni di un ambiente, sceglie di muoversi dentro lo stesso, di esplorarlo, appunto, in modo libero e personale. Oggetti di interesse in questa situazione non sono tanto la visibilità dei percorsi, delle scelte, quanto la potenzialità delle relazioni che si possono instaurare.” (Tolino, 2007, p. 23). Per quanto riguarda l’esplorazione, si cerca di predisporre l’ambiente per innescare nell’audence uno stato d’animo instabile, dinamico, curioso di provare, navigare nello spazio che lo circonda, al fine di ottenere una conoscenza più approfondita e che soddisfi totalmente l’utente. Il senso della curiosità e dell’esplorazione è un carattere molto importante dello spirito umano, ma la modalità con cui essa viene espressa varia profondamente a seconda del tempo e della cultura che la crea: circostanze sociali, politiche, economiche e tecnologiche comportano un cambiamento significativo nel singolo soggetto.
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ESPLORAZIONE
OGGETTO
VITA OGGETTO
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MORTE OGGETTO
OGGETTO
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Nelle pagine che riguardano gli oggetti la libertà di esplorazione dell’utente viene limitata, perchè l’obiettivo è veicolare la sua attenzione soprattutto sulle storie, che sono il cuore del progetto. Mentre nella homepage può seguire un percorso personale guidato da quello che più lo attrae. Nella sezione “ricorda” entra in gioco maggiormente l’esperienza pregressa dell’utente, la quale anche attraverso processi che avvengono a livello inconscio porta l’utente a scegliere di approfondire la vita e la morte di un oggetto piuttosto che di un altro. Infatti, quest’ultimi sono disposti in maniera uniforme, nessuno ha un peso visivo maggiore rispetto agli altri, e questo rende la fruizione più libera. Se l’utente desidera ottenere più informazioni sull’obsolescenza programmata, quindi se la sua attenzione è catturata dalla sezione “conosci”, può approfondire entrando in una pagina dedicata. Anche qui potrà vagare tra informazioni di diverso tipo, tra le quali la sezione dei dati numerici è sicuramente di maggiore impatto. Si tratta di un altro tipo di contenuto che solo un sito web potrebbe comunicare in maniera credibile, ovvero un counter che si avvia al caricamento della pagina e mostra l’incessante crescere di diversi dati inerenti all’ambito. Pur essendo il dato numerico l’aspetto più “impressionante” è la modalità di fruizione che li rende davvero significativi per chi li vede. “Il terzo costituente è, probabilmente, quello più fondamentale, in quanto conferisce spessore e sostanza all’intero processo esperienziale. Infatti, il soggetto_ protagonista, dopo aver elaborato un pensiero, un’impressione, dopo aver esplorato l’ambiente e essendoci entrato in relazione, si vede, ora, a doverci interagire concretamente. Questi innesca un sistema di scambio energetico, sensoriale, fisico e mentale con l’intorno,
USO
Figura 51 – Home Page del sito web nella versione desktop.
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con la sceneggiatura, con lo stage dell’esperienza, sia in modo razionale che a livello inconscio. Si ritrova ora ad agire con delle intenzionalità precise, a esperire delle scelte, a sperimentare delle situazioni e degli eventi che hanno catturato la sua attenzione.” (Tolino, 2007, p. 24). L’uso è legato al concetto dell’evento, dell’azione, ed è relazionato alla dinamica dell’interazione, a quello che effettivamente accade nel sito. Progettare la web experience è innanzitutto pensare un potenziale “uso” da parte dell’individuo. Infatti “...si dovrebbe quindi trasformare in un verbo (con l’idea d’azione, con la centralità della sua pragmatica) un sostantivo (la staticità e l’immobilità delle tipologie)” (Tolino, 2007, p. 43). La costruzione del sito è avvenuta avendo come obiettivo non di creare un pacchetto preconfezionato di possibili azioni, ma creare i presupposti affinché potesse verificarsi un’azione, un’attività personale, libera e originale. Il nostro scopo era portare l’utente a conoscere in modo spontaneo, naturale, empirico, inedito, ossia in maniera imprevedibile e suggestiva, non subendo meccanismi didattici unidirezionali, ma riconoscendo e percependo con interesse partecipazione e facilità (Tolino, 2007). Grazie all’azione e alla conseguenza dell’evento, è possibile creare e innescare processi di presa di coscienza, di conoscenza, di riflessione profonda. Considerando la natura particolarmente informativa del tema trattato, ovvero l’obsolescenza programmata e percepita, è stato fondamentale creare un percorso che permettesse non solo diversi gradi di approfondimento, ma proprio il grado di profondità che l’utente desiderava, e la modalità di apprendimento che più gli si addiceva: quella che maggiormente potesse lasciare un’impronta nella sua memoria.
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HOME
HOME - ricorda
HOME - leggi le altre storie Fig. 51
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HOME - conosci
HOME - conosci
HOME - racconta 123
Yonatan Loewenstein è un professore associato alla Hebrew University of Jerusalem, che negli ultimi anni ha ricercato nell’ambito dei meccanismi neurali e dei principi computazionali alla base di diversi tipi di apprendimento.
Lo studio del comportamento dell’uomo da un punto di vista sociologico e psicologico rende evidente che ognuno di noi, pur avendo a disposizione un intero ventaglio di possibilità espressive, tende, nella realtà, a usarne solo alcune (Yonatan Loewenstein, 2014). In altre parole, siamo orientati ad adottare sempre i medesimi schemi percettivo-reattivi e a comportarci in modo riconducibile ad essi. Indubbiamente, infatti, le esperienze vissute, l’educazione ricevuta, il lavoro, le relazioni e una certa predisposizione naturale hanno, per ognuno di noi, effetti peculiari sulla formazione del carattere e della personalità, che si traducono in risposte molto differenti ad un uguale stimolo/situazione. Questo vale allo stesso modo per il metodo di apprendimento: diverse personalità vengono incuriosite e sollecitate da stimoli diversi. Ciò di cui sentiamo il bisogno di conoscere per riuscire abbracciare totalmente un concetto, dipende strettamente dalla nostra forma mentis. Il sito è stato progettato affinché una varietà di stimoli possano ingaggiare l’attenzione di users diversi innanzitutto da un punto di vista comportamentale: 1. Empatia: si provoca tramite il racconto nelle storie, ma anche nella scelta stessa degli oggetti che si collegano all’esperienza previa del soggetto. Un utente guidato dall’empatia sceglierà di usare le storie per il proprio apprendimento. 2. Informazioni: si passa dall’utilizzo di informazioni e dati numerici concreti alle fonti che rendono credibile il lavoro. Un utente interessato ai dati sceglierà di focalizzarsi su quest’ultimi per comprendere l’argomento in una maniera davvero adeguata alla propria razionalità. 3. Risultati: su questo aspetto specifico si concentra la sezione successiva, comunque si può dire che un utente può avvalorare la credibilità del progetto in base ai risultati che questo ha avuto, visitando la sezione delle storie che sono
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state raccolte a partire dal lancio, per vedere se le considerazioni portate avanti dai curatori hanno un riscontro reale nella vita di altre persone (storie scritte da altri utenti). 4. Immaginario visivo: il primo elemento nella home è un video composto da alcune riprese close-up degli oggetti, ottenendo un forte impatto visivo. Attraverso l’esaltazione del difetto si dà una forte impressione all’utente che sceglie di concentrarsi su di esso nella propria esplorazione. Nel componente della memoria convergono tutti gli sforzi progettuali sostenuti nei precedenti step esperienziali. “Il sigillo di un processo esperienziale è identificabile nel processo di rilascio di un ricordo, di una memoria dell’evento. Tale momento è quello che innesca e gestisce sistemi di relazione fisica e mentale, diluiti nel tempo. Il rilascio di memoria è difficilmente sottoponibile a un’azione progettuale, poiché interagisce profondamente con la soggettività dell’individuo. Dipende da come questi ha affrontato i precedenti costituenti dell’esperienza, da come li ha rapportati al proprio background culturale.” (Tolino, 2007, p. 32). Progettare per innescare un processo di memoria vuol dire creare degli argomenti di discussione e dialogo, dei punti di raccordo tra il contenuto e il destinatario di un simile messaggio, come pure delle proposte d’azione e reazione al di fuori dei contesti direttamente progettati. Il rilascio di memoria porta alla creazione di rapporti di confidenza, di fiducia, di relazione, favorendo il ritorno e garantendo una visibilità duratura nel tempo. Se una volta esplorato il sito l’utente decide di approdare alla sezione “racconta” allora gli sforzi progettuali pre-
WEB EXPERIENCE E MEMORIA
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MEMORIA
cedenti sono stati efficaci. Questo è infatti lo specifico passaggio nel quale l’utente, sentendo un’affinità con le storie che ha letto, decide di dare un suo contributo, di condividere qualcosa di personale. In questo momento l’utente mette in gioco se stesso, arriva al dunque, prende consapevolezza dell’opinione che ha sviluppato. Di conseguenza entra in dialogo e in relazione con il progetto e con tutti gli altri utenti partecipanti. Questo atto di contribuzione alla costruzione di un archivio che si propone l’obiettivo di crescere, che potrebbe condurre l’utente a tornare, a ricercare questo progetto che è diventato anche suo. Di queste dinamiche se ne parla approfonditamente nel capitolo successivo.
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Una delle prime decisioni prese è stata di dare agli utenti la possibilità di partecipare al progetto, condividendo la propria storia, questo principalmente per due motivi: innanzitutto per avere una sorta di “cartina tornasole”, una prova che facesse capire quanto gli utenti avessero compreso i concetti anche complessi su cui si voleva far riflettere; in secondo luogo, dare una forza maggiore alla web experience grazie al coinvolgimento soggettivo della persona. C’è un terzo motivo, molto pratico, ovvero che sul web non si trovano molte informazioni ufficiali sull’obsolescenza. Questa è diventata per il progetto una ragione di esistere anche dopo il giorno dell’installazione, ovvero quello di diventare un archivio delle storie riguardanti l’obsolescenza programmata. “Da questo spazio liquido, in cui gli assetti di accesso e scambio mutano in ogni istante, e le collettività costruiscono modelli di conoscenza mediante i differenti canali di relazione di cui dispongono, emerge la dimensione bottom-up dell’intero apparato: una filosofia grassroots, condivisa e partecipata, collettiva e ideografica, orientata a sostenere il consumo e la creazione di contenuti e informazioni in ogni momento e senza filtri se non quelli imposti dai limiti della tecnologia. Il Web si configura così come un dispositivo di dialogo, scambio e collegamento in cui l’informazione perde sempre più la strutturazione organica che può vantare negli spazi reali, per arrivare a proporsi come forma partecipata e condivisa di costruzione del sapere: un sapere connesso, costruito dal basso dagli utenti finali, e riarticolato secondo driver progettuali che maturano esclusivamente in quella che diviene sempre più la ‘coscienza collettiva’, esternalizzata e mutevole, degli utenti.” (Ciastellardi, 2009, p. 11).
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INTRODUZIONE
IL WEB COME SPAZIO DI RELAZIONE
Matteo Ciastellardi è docente di Sociologia dei Media e Sociologia dei Processi Culturali all’università di Design della Comunicazione. Conduce un percorso di ricerca transdisciplinare sui modelli emergenti della rete.
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Fig. 52
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Il web è descritto come uno spazio liquido, in cui i normali canoni attraverso cui le relazioni avvengono sono mutati. Cambiano i limiti e di conseguenza cambiano le modalità, e tra queste emerge la logica del bottom-up: una conoscenza collettiva, che vuol dire semplicemente che il web è costruito da chi lo vive. Non esiste più un unico sapere “erogato” dall’alto, ma invece una moltitudine di conoscenze interconnesse e in continua mutazione. “L’identità come spazio del sé è una forma che emerge nel momento in cui viene data interazione con altri utenti e con altre forme partecipative del sistema-rete, ed è connaturata al tipo di relazione che l’utente decide di costruire con il mondo virtuale degli oggetti telematici.” (Ciastellardi, 2009, p. 30). Navigando nel web l’utente crea la propria identità, la quale viene modellata dalle interazioni e dalle scelte che fa. Dipende più di tutto dalle relazioni che si costruisce, e per questo la rete è uno strumento interessante per progettare forme di dialogo e di scambio. In pratica lo spazio virtuale non si fonda più su un sistema a griglie di conoscenza, ma su una struttura connettiva a rete che si propaga e si potenzia, basata sui singoli utenti e sulle loro relazioni. L’utente navigando sul web di fronte allo schermo interattivo del suo dispositivo entra in contatto con un ampio insieme di persone, compartecipando ad una conoscenza collettiva e condivisa. La dinamica di questa condivisione emerge da una spinta ad associarsi, anche con lo scopo di ritrovare un senso di appartenenza ad una comunità. Per quanto riguarda la comunicazione online, è possibile rilevare il design che caratterizza le geografie sociali
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GEOGRAFIE DELLA CONOSCENZA
Figura 52 – Form del sito web con cui gli utenti possono raccontare le proprie storie. Figura 53 – Un utente lascia la propria storia. Foto degli autori.
Fig. 53
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rappresentative di scenari e spazi di aggregazione e confronto, a seguito della traduzione di alcune delle loro coordinate dal mondo quotidiano alla dimensione digitale della comunicazione Web (Ciastellardi, 2009). Ciastellardi analizza le “geografie della rete”, avendo come scopo non tanto di valutare una migrazione culturale dalla realtà al web, quanto per ripensare in che modo vengano tradotti i legami, le relazioni, i vincoli che costituiscono l’esperienza quotidiana di ogni utente nella rete, quali aspetti incidano nella gestione delle informazioni quando avviene il trasferimento tra questi due ambiti. L’analisi si focalizza sull’ambito delle geografie sociali della conoscenza, che Ciastellardi considera “il più fervido e il più vasto” (2009, p.53). Questo in primo luogo perché la traduzione delle conoscenze dal mondo reale a quello virtuale ha vissuto una crescita esponenziale negli ultimi anni grazie alla nascita di piattaforme che consentono agli utenti di intervenire generando contenuti (wiki, sistemi collaborativi, editor online, social software, etc.). Inoltre, grazie alla costituzione di comunità che condividono attività e i interessi, tramite il Web riescono a gestire e a coltivare senza gli ostacoli di tempo e distanza che il mondo materiale pone. La struttura dell’informazione nell’ambito della conoscenza online ha visto passare il suo modello di aggregazione da una prima generazione in cui i dati vengono riarticolati dalle piattaforme stesse secondo dei criteri fondati una pregressa organizzazione, a modelli innovativi che vanno dall’author rank agli user generated content, principalmente grazie all’avvento dei social network e la costituzione bottom-up di informazioni. Il modello topografico proposto da Ciastellardi si sviluppa misurando e posizionando secondo criteri specifici, sistemi e
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IL MODELLO TOPOGRAFICO
Figura 54 – Modello topografico.
piattaforme disponibili online. Si tratta di una classificazione fondata su vettori di riferimento che derivano da considerazioni di carattere progettuale e cognitivo: l’asse spaziale, quello temporale e quello relazionale. Questi assi presentano variazione incrementale o decrementale, orientati su una scala di proiezione che permette di inscrivere i sistemi web all’interno del grafico, dopo averne censito le differenti caratteristiche, con criteri che riflettono particolarmente sulla relazione tra gli utenti tra di loro e con la piattaforma stessa. 1. L’asse cronologico. È il vettore che descrive l’importanza attribuibile al fattore temporale nella considerazione delle funzionalità delle piattaforme considerate. L’asse cronologico si sviluppa in due direzioni opposte: andando verso la soglia incrementale porta a indicare sistemi che si fondano su azioni che si sviluppano nel tempo e che necessitano quindi di una crescita sull’arco temporale del loro sviluppo; muovendosi invece verso la soglia negativa evidenzia apparati che possono svilupparsi e funzionare normalmente prescindendo da eventi scanditi temporalmente. 2. L’asse di prossimità e varianza. Questo è il vettore che riguarda la proliferazione informativa, alla costruzione di dati e alla produzione di nuovi materiali o alla ridefinizione dei precedenti. Con i termini di ‘prossimità’ e ‘varianza’ si indicano la proposta di contenuti uniforme o scarsamente eterogenea e la produzione multilineare degli stessi. Questo comporta che piattaforme che offrono contenuti ma lo fanno in modo continuativo senza variazioni, senza cambiamento di registro, tenderanno a coprire la parte decrementale del vettore, quella dove la varianza è minima e la prossimità tematica è costante. Piattaforme che invece portano ad una proliferazione dell’informazione e alla crescita eventualmente esponenziale dei contenuti si collocheranno sulla soglia
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Fig. 54
AS S E DI PR OS S IMIT À + 1 E VAR IANZ A
+1
ASSE RELAZIONALE
AS S E CR ONOLOGICO
+1
-1 -1
-1
SISTEM I AGON IST ICI
S IST E M I D IAC R ON I C I
SI STE M I D I AC R I TI C I
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incrementale (questo avviene quando una piattaforma lascia in mano ai suoi utenti la possibilità di costruire autonomamente o con poche gerarchie costrittive i contenuti stessi). 3. Asse di relazione o metafora cognitiva. L’asse della relazione traduce legami, modalità espressive, vincoli, inclinazioni e differenti forme di interazione che costituiscono le principali architetture delle piattaforme online. L’analisi delle singole piattaforme avviene mediante la considerazione di nodi, cluster e collegamenti che caratterizzano ogni sistema preso in esame. Nella parte incrementale della sua inclinazione vengono compresi i sistemi che privilegiano una costruzione di contenuti e di relazioni tra utenti, tra argomenti e tra oggetti informativi anche di molteplice natura, offrendo una piena modalità di ridefinizione collettiva e soprattutto connettiva sugli elementi che si vanno a considerare come nodi della relazione. La parte decrementale costituisce invece una limitazione di espressione e di legame che si traduce con una forte gerarchizzazione dei costrutti informativi, per quanto lascino dei margini di retroazione e connessione, e un’impostazione più narrativa che ipertestuale. Analizzati gli assi, Ciastellardi prende in esame ciascuna delle zone descritte da questi. Ogni zona si riferisce ad un sistema caratterizzato dagli attributi e dalle peculiarità che definiscono le piattaforme stesse. Di seguito vengono presi in analisi sistemi che presentano caratteristiche affini con quello di In Loving Memory, con lo scopo di evindenziarne le debolezze e le potenzialità. 1. Sistemi diacronici. Sono piattaforme di vario tipo, il cui esempio più diffuso è il modello del blog e del microblog. In questi sistemi la specificità è la distribuzione cronologica e sequenziale delle informazioni il cui sviluppo di feedback procede principalmente con una modalità di crescita temporale, a prescindere dal contenuto informativo offerto.
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Si può osservare il valore negativo sull’asse di prossimità e varianza, poichè questo tipo di piattaforma vede uno sviluppo monografico dei suoi contenuti, sia sull’asse di relazione, che non trova particolare sviluppo da parte dell’audice quindi con limitate forme di espressione bottom-up. 2. Sistemi agonistici. Questi si basano su una particolare forma di interazione uno-a-molti, in cui ogni soggetto partecipa con gli altri alla costruzione dei contenuti. Tali sistemi, seppur bottom-up negli intenti di costruire conoscenza, non vantano una forma partecipativa orientata a una vera e propria collaborazione, quanto a determinare la validità del contenuto informativo in base a leggi di grandi numeri. 3. Sistemi diacritici. Sono rappresentati da piattaforme come i forum o le Web-board. Questi sistemi portano ad una maggior oscillazione sull’asse spaziale di varianza e pertinenza, facendo procedere il contenuto informativo in maniera temporale solo in condizione di focalizzazione tematica e feedback specifico rispetto ai nodi di sviluppo, e hanno inclinazione positiva su tutti e tre gli assi di valutazione. Per quanto riguarda In Loving Memory, si può concludere che esso appartiene ai sistemi diacritici perché: 1. È un sistema che si articola cronologicamente per il suo sviluppo, fondando sull’asse temporale uno dei parametri che incide sulla modalità stessa della sua crescita. 2. La disposizione dei contenuti favorisce una pluralità di contributi senza un’impronta nettamente gerarchica, cioè senza una struttura che determini un contenuto di prevalenza sugli altri, di conseguenza si colloca nella parte incrementale dell’asse di prossimità e varianza. 3. L’asse di relazione presenta una tensione incrementale perché anche il rapporto tra gli utenti e la dimensione cognitiva innescata dal sistema permettono di avere un piano di collaborazione e condivisione di sapere.
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È inoltre possibile trovare delle affinità con altri due sistemi. In primo luogo coi sistemi diacronici, in quanto pur non avendo una gerarchizzazione dei contenuti essi trattano di un argomento preciso e richiedono campi obbligatori che ne sfavoriscono la variabilità. In secondo luogo coi sistemi agonistici, poiché la somma dei contenuti pubblicati ha anche come scopo quella di determinare la validità di un contenuto informativo riguardante l’obsolescenza programmata. WIKIPEDIA E GLI USER GENERATED CONTENT
La progettazione secondo la logica bottom-up ha dato il via a sistemi interamente basati sugli “user generated content”, ovvero a sistemi informativi in cui la conoscenza è principalmente fornita dai contributi degli utenti. “Tramite la progettazione di soluzioni idonee a costruire leve e agevolare dinamiche che si orientino tra la tecnologia e il sostrato sociale della popolazione, si possono trovare i criteri e le modalità per riarticolare l’informazione secondo un modello più sostenibile e aperto, fondato non più sulla forza delle identità e delle conoscenze del singolo, ma sulla distribuzione e sulla collaborazione delle masse in rete.” (Ciastellardi,2009, p. 32). Wikipedia è un esempio di piattaforma che esiste con grande successo esclusivamente grazie agli “user generated content”, essendo un’opera scritta da un gran numero di utenti che sono anche utenti o lettori dell’opera stessa, piuttosto che essere scritta e modificata esclusivamente da un gruppo selezionato di scrittori ed editori. Ci sono circa 200 dipendenti retribuiti presso la Wikimedia Foundation, che lavorano con una grande comunità globale di volontari per supportare il lavoro dietro le quinte del progetto.
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Ognuno dei “progetti gemelli” che si affiancano a Wikipedia è scritto da redattori volontari. I redattori svolgono molti lavori sui progetti Wikimedia, tra cui la copia e l’aggiunta di riferimenti ad articoli, l’integrazione di nuovi elementi, l’organizzazione di WikiProjects e l’eliminazione di articoli quando necessario. Nessuno di questi lavori è organizzato centralmente. Gli editori lavorano in maniera collaborativa ma indipendente, operando secondo le linee guida editoriali e tenendo d’occhio le modifiche altrui, ma senza una vera e propria supervisione dall’alto verso il basso. Wikipedia è anche open source, un termine che descrive un lavoro che è concesso in licenza e che può quindi essere liberamente riutilizzato. Sebbene Wikipedia sia uno degli esempi più riusciti e ampiamente utilizzati sia di contenuti generati dagli utenti sia di contenuti aperti, ci sono molti altri siti Web e progetti di riferimento che vengono prodotti dai loro utenti. “User generated content” è un termine generico e questi siti sono disponibili in molti tipi, sebbene tutti condividano la caratteristica di essere scritti da grandi gruppi di collaboratori (generalmente volontari). - Servizi e siti di riferimento: i siti di contenuti generati dagli utenti che si intendono esplicitamente come opere di riferimento mirano a essere risorse affidabili, e talvolta accademiche. Questa categoria include progetti di dizionari e enciclopedia specializzati, che possono esaminare i contributi degli utenti prima di accettarli, un processo che aiuta a garantire la coerenza ma aggiunge un onere per il sito. - Siti di risposta alle domande, istruzione e procedure: Chiunque abbia mai cercato online la soluzione a uno strano problema informatico ha familiarità con questa categoria di siti e la loro potenziale utilità nel rispondere alle domande. - Siti di discussione e condivisione: il termine social ha confini labili ed è vagamente usato per comprendere tutto
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ciò che si intende come un luogo in cui le persone possono connettersi tra loro attraverso la condivisione di informazioni e contenuti. Molti siti web hanno funzionalità social, anche se questo non è il loro scopo principale. Tutti i siti di tipo user-generated possono essere analizzati, considerando chi contribuisce e perché, le linee guida del sito e i meccanismi per assicurare l’autorità e lo scopo del sito. Le domande specifiche da porre includono: 1. I contenuti sono sottoposti a moderazione o peer review o visualizzati direttamente come ricevuti? 2. Chi può iscriversi come contributore e ci sono standard per chi può contribuire? Sono chiare le potenziali motivazioni per i contributori (vale a dire, c’è una missione o uno scopo chiari a cui i collaboratori lavorano)? 3. Con che velocità viene aggiornato il sito? Se il sito include argomenti che cambiano rapidamente, sono attuali? Nel caso in cui il sito dipenda dalli revisioni fornite dall’utente, questa recensione avviene effettivamente? 4. Se si tratta di un sito che dipende da una varietà di prospettive individuali (come un sito di domande e risposte), esistono diverse risposte? Risposte alle domande e c’è una comunità rispettosa attorno alle discussioni? 5. Quali sono le motivazioni dell’editore del sito e sono a scopo di lucro o no profit? Il contenuto contribuito è semplicemente un mezzo per i proprietari del sito per fare soldi ottenendo più clic dai risultati di ricerca? 6. Nel caso in cui il sito utilizzi materiale proveniente da molte fonti, tali fonti (e le loro licenze) sono chiaramente indicate? Se il sito è destinato a scopi accademici o di riferimento, indica anche altre risorse pertinenti? 7. Il contenuto è concesso in licenza liberamente o è protetto da copyright e la licenza (o il copyright) del contenuto è chiaramente indicata?
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Per quanto riguarda il sistema di In Loving Memory si è prevista una revisione “istituzionale” delle storie scritte dagli utenti, che va a controllarne la forma e la pertinenza, completando eventualmente campi che sono rimasti vuoti. Si è deciso di non richiedere l’iscrizione, poichè sarebbe uno step in più per l’utente che potrebbe scoraggiarlo a partecipare, e inoltre non è necessario per il progetto. Come viene spiegato nella sezione precedente, l’archivio del sito web è progettato allo scopo di dare all’utente una motivazione esplicita per la quale il suo contributo ha un valore, non solo per sé stessi, in quanto indice di un passo di consapevolezza, ma anche per altri. La quantità e la qualità dei contributi raccolti è indice di quanto l’utenza abbia compreso e abbracciato la missione del progetto. L’aggiornabilità del sito e le tempistiche di pubblicazione si possono prevedere in relazione alla disponibilità del team e alla quantità dei contenuti arrivati. Il desiderio comunque è invogliare l’utente a tornare nel sito nell’immediato futuro per vedere il proprio contenuto pubblicato. Per concludere, la sfida degli user generated content è che i contributi non sono garantiti. Considerare bene le motivazioni dei collaboratori e l’autosostenibilità del progetto è una parte importante dell’analisi critica, nonché qualcosa che ogni progetto deve affrontare per sopravvivere. Basarsi su una comunità di lettori e collaboratori implica comunque un rischio maggiore di insuccesso, per quanto possa invece rivelarsi una risorsa utile e una marcia in più.
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