TUTTO IL DICIBILE VA DETTO MA È RARO CHE IL DETTO CONCLUDA IL DICIBILE
Per una spaziosità binaria Aldo Iori
zerozerozerozero – Premessa Conosco Gianfranco da più di una quindicina d’anni. C’incontrammo la prima volta nei primissimi anni Novanta in occasione di una mostra a Pistoia nel rinnovato Palazzo Fabroni. Gli amici che me lo presentarono mi sussurrarono essere lui l’artista oggetto di molte conversazioni sul panorama dell’arte centroitaliana. Con il suo basco un po’ demodé faceva il paio con un altro artista fiorentino che negli stessi anni cominciavo a conoscere e frequentare e in quell’occasione scoprii la loro amicizia. Gli chiesi timidamente il permesso di poterlo andare a trovare allo studio in un mio prossimo viaggio a Pistoia; mi rispose che ne sarebbe stato felice e mi allungò sorridendo un bigliettino colorato con l’indirizzo di via Val di Brana. Facemmo anche un tratto del percorso espositivo insieme e lui mi suggerì, nel commentare le opere esposte, alcune chiavi di lettura utili a comprendere e conoscere l’artista oggetto della mostra. Gli amici mi rivelarono poi che il suo studio, com’era successo a loro, mi avrebbe dischiuso una ricerca unica ed elevata. Sarebbero passati molti mesi prima che io andassi a Pistoia al suo studio, poiché circostanze esterne si frapponevano sempre al mio progetto. Fino alla sua mostra a Perugia che portò una maggiore conoscenza reciproca, l’inizio di una frequentazione e di un rapporto epistolare.
Pagina precedente: Gianfranco Chiavacci alla personale alla Galleria Numero di Firenze nel 1967 con l’opera 0075. La frase è tratta dal testo Nello studio & Progetto Fenoma Umano, Pistoia, maggiogiugno 1997.
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L’opera di Gianfranco Chiavacci è frutto di cinquant’anni di serio lavoro artistico condotto con costanza e tenacia intorno a nodi cruciali del linguaggio e del pensiero contemporaneo. Le opere prodotte sono moltissime, a tutt’oggi quasi duemila, e spaziano dalla pittura, realizzata con eterogenee tecniche classiche e sperimentali, a opere tridimensionali vicine alla scultura, da sperimentazioni materiche a indagini fotografiche, da piccoli libretti a diffusione limitata a episodi classificabili come mail-art. Al primo periodo di autoformazione e a un secondo di influenza informale negli anni Cinquanta segue nel 1963 l’inizio di un percorso pittorico che ha come elemento centrale della propria speculazione la logica binaria. Essa diviene struttura fondante per l’elaborazione sia teorica sia pratica delle opere che negli anni si susseguono in continue verifiche e sperimentazioni. Pur con contemporanee ricerche in campi paralleli, la metodologia operativa binaria rimane una
costante negli anni poiché la contaminazione, che produce al suo contatto con l’arte, dischiude innumerevoli possibilità creative e induce l’artista a riflessioni teoriche divulgate poi in molti testi. Il percorso di questi cinque decenni è complesso e poliedrico e nonostante sia possibile una ricostruzione strettamente cronologica (tutte le opere sono numerate, datate, schedate e accompagnate dagli appunti relativi alla loro realizzazione) il corpus appare come una composizione di vari sottoinsiemi dai plurimi intrecci relazionali, risultato di un operare, pur con una logica lineare, a differenti livelli del fare e del pensare. La forma mentis dell’artista trova nella logica binaria un idoneo sostegno teorico e operativo: pur con un controllo ferreo e scientifico di una progressione o di una fase combinatoria, essa da subito non si dimostra chiusa e autoreferenziale ma dà spazio, nella continua scelta, al dubbio, allo scarto laterale, alla verifica del meno importante e anche al caos destabilizzante.
Scrivere della sua opera è marcare i salti logici e dimensionali che la caratterizzano, seguire i fili tesi di un ragionamento e dipanare grovigli tensionali, rincorrere insomma profumi e sapori in una cucina dove molte sono le pignatte al fuoco. Lo stesso artista annota: «La storia degli eventi non corrisponde alla cronologia. Avvengono spesso riallacciamenti a eventi precedenti ma distanti che, nel tempo, hanno mantenuto in modo sotterraneo carica provocatoria o portato con loro problemi irrisolti che trovano, in mutate situazioni oggettive, condizioni favorevoli per nuovamente emergere1».
Roberto Longhi2 definisce spazioso l’interesse di Giotto per la questione dimensionale, il suo inedito modo pittorico di rappresentare il mondo; la densità spaziale - prodotto dell’intreccio tra l’uso della prospettiva, le colorazioni nuove, la narrazione e il tempo, il naturale in rapporto al sacro e all’umano e, non ultima, anche la finzione scenografico-architettonica - rende la pittura giottesca innovativa e slegata dai dettami iconici bizantini, introducendo respiri e ritmi mai esperiti nell’arte. Il pittore toscano medioevale, in questa vocazione spaziosa, è ancora libero dal rigoroso metodo della costruzione prospettica rinascimentale e questo permette di avere maggior coraggio e raggiungere, anche intuitivamente, risultati eccellenti e stimolanti per ogni successiva riflessione dimensionale. La tendenza a considerare l’opera quale insieme di più aspetti, secondo questa definizione di spaziosità, è propria di molti artisti nel tempo e soprattutto nella contemporaneità; il termine si adatta all’opera di Gianfranco Chiavacci poiché egli non cerca la rappresentazione prospettica o la semplice tridimensionalità nello spazio pittorico, cromatico, materico dell’opera, ma tende a dare definizione a una complessità mediante le proprietà degli elementi che costituiscono l’opera e la struttura teorica che la affianca. Attraverso una definizione metodologica aprioristica di questa attitudine spaziosa giunge a proporre soluzioni che rivelano la presenza di una densità nella quale è possibile inoltrarsi con lo sguardo e con la
mente. Il termine densità associato allo spazio pittorico richiama anche una tradizione di pensiero che attraversa la storia dell’arte, da Leonardo a Lucio Fontana, in formulazioni che in entrambi, seppur in maniera diversissima, si legano al pensiero della scienza, utile quanto proficuo compagno di percorso di molti artisti e di Gianfranco Chiavacci in particolare. La specifica attitudine spaziosa del pensiero e dell’opera di Gianfranco Chiavacci diviene ragione e realtà in una produzione artistica che fin dai primi anni non prevede la rappresentazione del reale. La densità dimensionale proposta dalle opere trova struttura nella logica binaria, che la definisce e ne permette la nascita, e si evidenzia nell’uso del colore e della materia, nella loro elaborazione e articolazione spaziale. Il pensiero di formazione scientifica, che l’artista adotta quale elemento fondante teorico e pratico del suo fare artistico, si connette dal 1963 con la vocazione e la scelta di un tipo di arte che lui stesso è uso definire anche come astratta. Su questa decisione iniziale di Gianfranco Chiavacci, e per la comprensione della sua opera e delle scelte che nel tempo vengono effettuate, è necessario fare una riflessione che riguarda il rapporto tra l’opera e l’osservatore che la contempla, soprattutto quando viene meno la ragione mimetica che nel corso del tempo pare a volte sostenerla. In questo caso si tratta di pittura che viene definita cromatica, polimaterica, concettuale, programmata e con molte altre etichette che di volta in volta vengono utilizzate per classificare in maniera sempre insufficiente l’opera. Proprio la definizione di Pittura Astratta e di Astrattismo trova nell’opera di Chiavacci una curiosa declinazione. I termini devono essere intesi secondo le varie accezioni che da un secolo si rincorrono tentando di andare oltre le definizioni di arte non figurativa, di arte non oggettiva o di altro. Si conviene con l’artista, spesso critico nell’uso di questo termine, che il processo di astrazione è proprio di tutta l’arte e che nella contaminazione tra la binarietà e l’arte, nell’applicazione della metodolo-
1. Gianfranco Chiavacci, Nello studio Opere recenti, Pistoia, 1995. 2. Roberto Longhi, Giotto spazioso, “Paragone”, 31, 1952, pag. 18.
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gia propria alla prima su di un sistema di valori che riguarda la seconda, si attua un processo di semplice e continua astrazione. In una conversazione egli definisce questo procedimento come: «…il recuperare un contenuto da un ambito e formalizzarlo in ambito diverso3».
Naturalmente tale nuova formalizzazione, che sia nella storia la forma di una bottiglia o di un quadrato monocromatico, presuppone un’elaborazione dovuta ai criteri culturali introdotti dal singolo artista. L’opera rimane centrale in questo processo poiché in essa l’astrazione si condensa formalizzandosi in un momento epifanico ogni volta nuovo e sorprendente anche per il suo stesso artefice.
3. Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia. 4. René Magritte, La Trahison des images (Ceci n’est pas une pipe), 1929, huile sur toile, 59 x 65 cm, County Museum, Los Angeles. 5. Può essere posto come primo momento di una coscienza critica moderna l’opera Las Meniñas o La damigelle di corte (1656) di Diego Velásquez, Museo del Prado, Madrid. 6. Michel Foucault, Questa non è una pipa (1973), Serra e Riva, Milano, 1980.
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Nel 1926 con un disegno e poi nel 1929 con una tela, prima versione del celebre quadro4, René Magritte sente la necessità di porre all’attenzione che ciò che si vede in un’opera pittorica, in quel caso una pipa, non è ciò di cui l’arte tratta ma una forma, in quel caso mimetica, riferibile a qualcosa di cui si ha esperienza ma che ci indica un altrove in una differente condizione del pensiero. L’arte ammirabile nei musei e nei monumenti, dal graffito paleolitico alla Venere sorgente dalle acque, dalla Madonna con Bambino al paesaggio della campagna toscana, dimostra che ciò di cui tratta è pur sempre l’invisibile, ciò che non può essere rappresentato, e che ciò che si vede è comunque un’astrazione dal mondo del reale al mondo delle idee e da questo di nuovo al reale tramite l’opera. Nella finzione teatrale si cessa di vedere l’attore per intendere il personaggio e nella poesia la concatenazione delle parole fa cogliere l’impronunciabile; in pittura è necessario superare la soglia dell’icona per addentrarsi in altre dimensioni oltre la vista. Chiudere le palpebre fisiche nella visione per aprirne altre mentali. L’arte dimostra di essere anche nella contemporaneità un insostituibile medium, dalla storia antichissima, idoneo a trasferire un pensiero del mondo in forma e permettere ad altri di comprenderlo; e di poterlo
fare anche senza il bisogno delle immagini della natura e del reale. Il mutamento linguistico in atto fin dal XVII secolo5, si definisce con l’avvento della fotografia e del cinema, nuovi fasulli portatori di verità oggettiva del mondo; la pittura introduce oggetti provenienti dal mondo reale, nel collage cubista o nel ready made dadaista e surrealista, o introduce forme geometriche o elementi che inducono a sensibilità nuove, esasperando così l’astrazione fino a rendere irriconoscibile il legame con la realtà. L’astrattismo si declina in molti modi nel corso del Novecento ed è sempre meno legato ai moti d’animo e sempre di più a un pensiero concettuale nel quale ogni azione è sostenuta dalla logica di una necessità e di una scelta. A questa tradizione è possibile ascrivere molta parte del pensiero di Gianfranco Chiavacci. In un famoso saggio sul quadro magrittiano sopra citato, Michel Foucault6 affronta il problema della separazione tra rappresentazione plastica, che può implicare la verosimiglianza, riferita essenzialmente alla vista, e referenza linguistica, che può escluderla, e riguarda principalmente la parola. Il filosofo, nonostante l’opera esaminata proponga una probabile e specifica soluzione, è dubbioso sulla possibilità di una loro contemporanea convivenza anche se prevede ampie e reciproche contaminazioni. Certamente l’arte e la filosofia in questi decenni hanno fornito molti suggerimenti e interessanti risposte a questo dibattito che rimane sostanziale per capire come gli artisti della seconda metà del secolo scorso abbiano con il loro lavoro teso proprio a un superamento di tale divisione. I risultati sono stati diversissimi e le vicende alterne, a causa delle molteplici nature di chi si cimenta in ciò e l’opera dell’artista pistoiese diviene testimonianza dell’attualità di tale dibattito. Fin dai suoi primi esercizi artistici egli abbandona ogni suggestione mimetica non volendo rappresentare il mondo in senso tradizionale; nell’opera non offre più alcun riferimento
naturale e la priva di una immediata chiave di lettura, di una soglia definita da parametri e abitudini consolidate nel corso della storia. L’osservatore, dinnanzi a una pittura astratta così definita, è conscio di non essere di fronte a una pipa o a una donna con bambino ma a una intensa e vitale formalizzazione linguistica di un pensiero, di una materia in forma di immagine che evoca il sacro, il tragico, il sublime o anche la meccanicità di un procedimento; un seppur ristretto e mai banale passaggio verso la comprensione delle ragioni del fenomeno visivo di cui si è testimoni. Il mondo odierno propone continuamente messaggi rassicuranti nei quali la realtà è salda nella sua apparenza e spesso l’arte storica è posta a confronto con la contemporaneità per il suo positivo carattere mimetico. Per questo e altri motivi l’osservatore a volte rifiuta di comprendere l’opera astratta, preso dal panico dovuto alla non riconoscibilità e dalla paura che oltre quello che si vede ci possa essere il nulla; in tal modo si corre il rischio di giungere al fraintendimento del pensiero e finanche al travisamento delle intenzioni dell’artista. Gianfranco Chiavacci sente questo pericolo e cerca di tranquillizzare l’osservatore con la scrittura, fornendo i codici necessari per la lettura e la comprensione della propria opera. Gli artisti della tradizione astratta mantengono un forte rapporto con l’oltre-immagine. Fin dai primi testi teorici, anche degli stessi artisti, si pone l’accento sul rimando ad una condizione mentale della pittura e su come l’espressività possa colmare la mancanza di riconoscibilità immediata del soggetto7. La via espressionistica interessa Gianfranco Chiavacci solo in un primo momento poiché in seguito egli desidera invece un raffreddamento dell’opera a favore di ambiti nei quali il razionale pone le condizioni costitutive dell’opera. Nella disamina del suo percorso artistico si nota comunque come l’irrazionale, inteso in molteplici forme e il più delle volte non legato al sentimento né a moti d’animo di tradizione romantica,
continuamente cerchi di forzare la struttura del lavoro e conduca l’artista, anche nelle fasi di sperimentazione più stretta, a marcare i limiti, a segnare le estreme possibilità del metodo, a forzare la maglia/gabbia razionale in fughe realizzate spesso grazie all’attenzione eccentrica dell’artista. Per Gianfranco Chiavacci diviene fondamentale l’esperienza artistica del Novecento nella quale l’astrattismo paga un importante debito alla referenza linguistica e l’opera diviene positivo inciampo visivo di un percorso spesso lontano dalle necessità proprie di un’arte più tradizionale. In questo campo molti artisti, tra i quali a pieno titolo si pone Gianfranco Chiavacci, percorrono vie interessanti e stimolanti verso la costruzione di una rinnovata coscienza del concetto di astrattismo: partendo dai principi che la rendono necessaria, l’opera diviene il frutto di una mediazione tra il pensiero e il reale attraverso la contaminazione di differenti ambiti non immediatamente sovrapponibili. Essa si arricchisce in una tolleranza che permette l’abbandono di radicalismi, ideologici o dettati da integralismi esasperati, che l’arte del Novecento spesso possiede, senza mai comunque perdere di vista il percorso intrapreso. La costanza di tale impegno in Gianfranco Chiavacci è caso esemplare e unico nel suo genere seppur all’interno di un panorama nel quale anche altri artisti, in anni contemporanei e successivi ai suoi, partendo da presupposti simili, sviluppano opere nelle quali si ritrovavano elaborazioni di differenti pensieri come quelli scientifici, filosofici, mistici o anche di logiche come quella musicale o architettonica8. Altro aspetto importante dell’opera di Gianfranco Chiavacci è la presenza di una cospicua produzione teorica in scritti e riflessioni, che va considerata come parte integrante della sua produzione artistica. Egli scrive molto e da sempre accompagna il suo lavoro con un diario personale nel quale annota i suoi pensieri, non solo le combinazioni o gli aspetti tecnici del
7. Wassilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte (1912), De Donato, Bari, 1968. 8. In terra toscana sono presenti gli esempi di Marco Bagnoli, Remo Salvadori, Giuseppe Chiari e Daniele Lombardi.
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lavoro. Fin dalla mostra del 1965, sente l’esigenza di rendere esplicito il suo pensiero tramite dei testi, pubblicati spesso in forma autogestita, da fornire agli amici in varie occasioni. Le mostre nelle quali proporre una pienezza della ricerca sono evento raro e anche molto mondano e superficiale. La situazione artistica toscana nei decenni passati ha spesso negato possibilità e spazi a un’arte che non avesse una solida strutturazione mercantile e che non fosse facilmente appetibile per un mercato e per una critica che rincorreva molte volte la novità e anche la superficialità. L’amicizia di Fernando Melani, Donatella Giuntoli, Lando Landini, Siliano Simoncini e molti altri sostiene l’artista nelle sue scelte. Tuttavia anche persone amiche e informate della sua ricerca stentano a comprenderlo e sospendono il proprio giudizio forse attendendosi dall’Arte messaggi più rassicuranti e consolatori o pensando che il rapporto con l’opera si esaurisca in un momento solo visivo dal quale far scaturire la comprensione. Gianfranco Chiavacci comprende la difficoltà per l’osservatore di penetrare nella densità del proprio lavoro e di comprendere elaborazioni teoriche complesse e risultati formalmente e materialmente distanti gli uni dagli altri. Sente quindi l’esigenza di mantenere vivo il rapporto con l’osservatore con interventi che spiegando i processi del lavoro tendono a introdurlo all’opera affinché lo sguardo sia colto e possa ritrovare i codici e le scelte effettuate. Il testo che rimane fondamentale è La binarietà e lo spazio bidimensionale. Analisi di una ricerca sperimentale in arte reso pubblico nel dicembre 1980. In esso egli rende evidente il suo metodo di lavoro, il pensiero elaborato sulla binarietà e le ragioni della sua applicazione in campo artistico. Gianfranco Chiavacci è convinto quindi che la sua opera, come sempre nell’arte, necessiti anche di un forte momento di conoscenza dei presupposti, teorici e non, del pensiero che la produce. Oltre a questo testo rende pubblici scritti ed elaborazioni teoriche 13
fornendoli e inviandoli per posta alle persone che ritiene possano apprezzarli o presentandoli in aperture pubbliche del proprio studio. A questi si affiancano anche piccoli libretti che seguono invece percorsi differenti e divengono un particolare insieme di interventi e azioni scritte che si distanziano dalla speculazione teorica e dalla ricerca più propriamente fatta in campo binario. Questo particolare versante della produzione artistica, dove lo humour e l’ironia caratteriale dell’artista, vicina a volte al cinismo, trovano libero sfogo in soluzioni formali anche ludiche e calembour linguistici di derivazione illuminista e neo concettuale, si spera sia in futuro oggetto di specifiche analisi, riflessioni ed esposizioni. Come pure la quasi inedita ricerca fotografica che qui viene trattata solo per i suoi rapporti con il percorso artistico più propriamente pittorico. La mostra di Pistoia vuole dare testimonianza della ricchezza e poliedricità dell’opera di Gianfranco Chiavacci e il presente catalogo, concepito come primo e non certo esaustivo strumento di conoscenza e analisi del corpus artistico di Gianfranco Chiavacci, vuol proporre un percorso di lettura che, date le caratteristiche proprie dell’operare dell’artista pistoiese, segua anche non cronologicamente le tappe fondamentali della sua opera e i principali aspetti che la caratterizzano. Promosso dal Centro di Documentazione sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese, l’evento espositivo permette la presentazione pubblica dell’opera dell’artista dopo la personale della fine del 2003 presso una galleria privata della città ed è diviso in due sedi: nel Palazzo Azzolini si presenta una piccola sintesi della ricerca fotografica e nelle Sale affrescate del Palazzo comunale una selezione di opere esemplificative dei vari momenti e delle singolarità del pensiero artistico di Gianfranco Chiavacci. Nel catalogo, accanto a molti testi prodotti dall’artista nel corso degli anni sono presenti anche alcuni in-
terventi critici, ricchi di intuizioni e considerazioni, che hanno fornito letture ravvicinate dell’opera. Il dialogo tra l’artista e Annamaria Iacuzzi fornisce inoltre valido contributo alla rilettura della vicenda biografica dell’artista in relazione anche alla cultura toscana di questi ultimi decenni. All’osservatore nell’intraprendere il cammino nelle sale viene consigliato di tralasciare ogni luogo comune e di porsi in condizione critica di ascolto delle opere che vengono offerte alla visione poiché esse, in prima istanza, forniscono possibilità elaborativa di
un pensiero critico. Non più solo riflesso della mente né risultato di un metodo, di combinazioni di colori, di forme e di materiali, esse diventano produttrici di significato e aiutano a formare una nuova visione metafisica del reale, contribuendo alla crescita della storia. L’opera, come spesso afferma l’artista, è: «un prodotto raffinato, specialistico della comunicazione interumana9»
che necessita di una particolare attenzione e di una frontale presa di responsabilità da parte di chi si pone dinnanzi a essa.
zerozerozerouno – La ricerca di un baricentro Camminare sapevi camminare, ma non ti è mai garbato bighellonare. Se non proprio un centro cercavi un tuo baricentro per rimettere in equilibrio il tutto. Temevi che la vocazione all’arte non fosse sufficiente da sola a esprimere la voglia che avevate dentro di fare meglio dei vostri padri? E poi dare forma a un mondo nuovo e pieno di speranze. Tutto cresceva in fretta e sembrava esplodere verso il futuro ed eri fiducioso. Ma avevi bisogno di seguire la traccia di un progetto che fosse la risultanza di una misurazione non più sul corpo ma sul pensiero dell’uomo. E poi tagliare con quelle grandi forbici nere ti è sempre piaciuto.
L’avventura di Gianfranco Chiavacci nel campo dell’arte, poiché di vera e propria avventura si tratta, comincia nella prima metà degli anni Cinquanta dettata da una curiosità che lui stesso definisce all’inizio essere onnivora. La collocazione culturale, più che geografica, della città natale di Pistoia gli permette di frequentare quotidianamente l’arte, con visite alle chiese, ai musei, ai monumenti che arricchiscono il territorio toscano, tra i più densi al mondo di preesistenze storiche. Nelle città del dopoguerra l’arte non si presenta nella veste turistica e multimediale di oggi, ma è elemento di una ricchezza considerata normalmente patrimonio necessario alla formazione di un giovane che affronta gli studi superiori e che trova riscontro immediato in una pratica e in un’etica del vivere fornendo aureo riverbero per le letture che a
quell’età sono necessario nutrimento della personalità in crescita. La sua curiosità, la voglia di conoscere e incontrare l’arte deriva non solo da studi anche umanistici ma da un’esigenza innata di capire il mondo, quel che l’uomo ha studiato e creato e il perché. La lettura di testi storici, scolastici e non, accompagna la sua conoscenza e lo forma in modo anticonvenzionale e senza schemi disciplinari precostituiti. Pistoia e la Toscana del nord sono in quegli anni un’interessante fucina culturale e vi si respira un clima di nuovo vigore e future prospettive soprattutto nel campo delle arti visive10. Le giovani generazioni uscite dall’esperienza bellica con molte speranze e ideali desiderano un rinnovamento e un superamento della cultura tradizionale e stantia che aveva caratterizzato
9. Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia. 10. Giovanna Uzzani, Firenze e la Toscana, in La Pittura in Italia, Il Novecento/2, Electa, Milano, 1993, pag. 482.
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il territorio toscano tra le due guerre. Firenze è luogo privilegiato e ricco di nuovi fermenti ove non mancano forti contraddizioni e anche contrasti tra le varie fazioni artistiche: da una parte i propugnatori di un’arte autentica, intesa in senso più accademico, e dall’altro quelli per un’arte nuova, legata a esperienze e umori europei. Anche Pistoia, pur non avendo ancora significative gallerie d’arte è luogo periferico di dibattito culturale dove interessanti personalità si muovono tra la città e il capoluogo di regione divenendo portatrici di decise istanze di rinnovamento11. Le riviste e i giornali che si occupano di arte arrivano da Firenze, da Roma, da Milano e cominciano a circolare nei timidi circoli culturali o nelle Case del Popolo dove ancora molte battaglie devono essere combattute proprio a favore di quell’astrattismo che in Italia ha ancora così poca storia. Per renderlo anche meno estraneo alla storia e ostico per gli osservatori, si era giunti precedentemente ad abbinare il termine astrattismo all’aggettivo classico e in questa nuova accezione aveva trovato maggior consenso, attenzione nei giovani e anche formulazioni teoriche che ne tentavano una solida giustificazione estetica12.
11. Enrico Crispolti e Manuela Crescentini, Nativi: per un modello formale dell’universo, catalogo, Fortezza Santa Barbara, Pistoia, 1982. 12. Giusta Nicco Fasola, I pittori dell’astrattismo classico, presentazione della mostra presso l’Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1950.
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Il giovane Gianfranco, pur avendo intrapreso studi scientifici, è incuriosito dai nuovi linguaggi dell’arte e si muove da autodidatta tra un improvvisato angolostudio della casa paterna e una pittura ‘en plein air’, tanto per esercitare la mano e scioglierla sugli incerti confini tra informale e figurativo; prove, in massima parte distrutte, bruciate e disperse dallo stesso artista, che potrebbero oggi essere considerate solo un primo allenamento verso un’attitudine e una messa a punto di tecniche manuali e che non rappresentano ancora il frutto di una coscienza del fare che si manifesta nella seconda metà dei Cinquanta, quando lo sguardo è più interessato a operare una selezione. Il pensiero scientifico, la lettura dei testi di matematica e fisica sperimentale confermano una visione del mondo proiettata verso una forma di progresso nel quale la fiducia nella speculazione teorica si abbina alla
necessità di una verifica empirica. Il mondo sotto lo sguardo della scienza appare in continua e inesorabile evoluzione, nonostante la coscienza degli orrori perpetrati pochi anni prima, grazie anche alla scienza, in occasione della guerra mondiale, dallo sterminio dell’olocausto alle bombe atomiche. La stessa arte deve sembrare al giovane artista come qualcosa che abbia un percorso irreversibile e quindi l’astrattismo diviene una scelta sottolineata dalla normalità e la linearità di un comportamento. Le visite alle gallerie specialistiche di arte contemporanea si accompagnano a visite ai musei d’arte antica, allora poco frequentati, creando nel giovane la coscienza di un’eredità ma anche di una scissione avvenuta con le avanguardie storiche, una sorta di prima e dopo Galileo. Il suo interesse per il pensiero positivista non è isolato ma trova rispondenza e possibilità di un confronto in altri giovani intellettuali pistoiesi. Nel 1956 matura la sua decisione, mantenendo il lavoro di ragioniere, di dedicarsi alla pittura con maggiore impeto e costanza di prima, con la volontà di trovare nell’arte risposte a una necessità interiore, affiancando alle letture, che spaziano in sempre più ampi settori della cultura umanistica, scientifica e anche politica, un fare arte che sia specifica presa d’atto di una nuova condizione culturale. Indicativa è la presenza nella biblioteca del suo studio di prime edizioni italiane di testi che sono normale bagaglio dell’intellettuale progressista di allora (Eco, Barthes, Jung, Cassirer, Panofsky, Durkheim, Lukàcs, Marcuse, Foucault, Levi-Strass, Althusser) ma anche di altri testi che indicano una più specifica scelta di settore (Leibnitz, San Tommaso, Einstein, Shannon, Wittgenstein, Sant’Agostino, Jakobson, Heidegger, Rossi, McLuhan): il giovane artista vuole dare alla sua formazione vivacità e ampio spettro di interessi. La pittura di quegli anni è composita e segue differenti lunghezze d’onda e innamoramenti. Esercizi di campiture cromatiche tendono a raffinati equilibri di tipo classico e controbilanciano spaziosità nelle quali
la frammentazione della pennellata rivela l’esigenza di superare il puro visibilismo per verificare tessiture più complesse. Le opere di questo periodo, già con una loro autonomia e struttura, presentano in nuce gli elementi che nelle fasi successive troveranno sistemazione teorica e giustificazione estetica. Le titolazioni degli anni 1957 e 1958 sono Grovigli, Scherzo, Composizione o hanno sigle alfanumeriche e i lavori spesso sono realizzati velocemente a pastello, a china e a pennarello su cartoncino, quasi a segnare tempi abbreviati e la voglia di ottenere un risultato definito e controllabile i tempi immediati. L’opera 1204-A/3 (pag. 50) del settembre 1958 è un piccolo olio nel quale le campiture si affermano in uno spazio definito geometricamente da una griglia cinque per quattro. Il riferimento alla tensione formale di un astrattismo strutturalista, con richiami concretisti, appare evidente e la stessa scelta dei quattro colori lo ascrive a una ricerca che ha nel neoplasticismo le sue radici più profonde. Rispetto ad altre opere di pochi mesi prima, che risentono ancora di echi dell’Espressionismo statunitense e del Surrealismo, questo lavoro appare più maturo e più conscio e lo spazio pittorico è il risultato di un estremo controllo della dimensione e della stesura accurata del colore. Tra settembre e novembre le opere si susseguono con un rinnovato impegno. Il diario dell’artista riguardo all’opera 1589 del 1958 annota: «Ho finito proprio ora Archeologia 1. Com’è avvenuto questo cambiamento compositivo ?... l’avvertimento di una ‘tendenza spaziale’ - nella sua componente direzione - si è fatta in me sempre più cosciente ... Il cammino verso le forme libere, autonome, non mi sono mai negato che sarà lungo e comporterà una ricerca analitica con il crisma della spregiudicata distruzione dell’acquisito quando questo, per svuotamento, genererà altre soluzioni. Oggi mi sembra che la via da seguire sia quella del ‘centro vitale’ o dei ‘centri vitali’ ...13».
L’artista è conscio del cambiamento in atto e di essere sulla buona strada verso quella tendenza spaziale,
caratteristica peculiare dei lavori dei decenni successivi. La volontà è di raggiungere forme libere vicine a un astrattismo che insegua stati d’animo interiori lasciando tuttavia all’opera una propria autonomia di determinarsi nella forma. Su questo punto, presente in altri appunti del medesimo mese, inizia a prevedere la necessità di un ordine strutturale che sovrintenda la formazione dell’immagine indipendentemente dall’artista che vuole divenire elemento propulsivo delle scelte ma poi quasi estraneo all’opera nel suo farsi. Anche la definizione di quel ‘centro vitale’ o dei ‘centri vitali’ che ricompaiono nelle annotazioni sulle opere plastiche degli anni seguenti, è interessante poiché rivela la richiesta che il quadro possegga in sé una gerarchia energetica che lo fecondi. Se il 1958 rappresenta un momento felicemente ricco di intuizioni e di risultati, ad esso segue invece un 1959 di ripiegamento in forme calligrafiche e strettamente segniche, quasi un ritorno alla gestualità espressiva ma controllata. Decisamente più stimolanti le soluzioni che segnano gli ultimi mesi e la stagione estiva del 1960. Il mutamento di rotta si manifesta con opere decisamente più legate al clima informale, forse non del tutto ancora risolto dall’artista, che indicano la sua volontà di inserire nell’opera una maggiore gestualità legandola a una strutturazione cartesiana dello spazio, quasi facendo un cammino a ritroso dall’astrattismo geometrico, reso con stesure piatte, a un astrattismo più legato all’emotività e alla densità segnica. Proprio nella spazialità che si forma si inseriscono nuovi fattori che germoglieranno nel successivo lavoro a base binaria. Quella tendenza spaziale prima annotata diventa una densità di piani e di volumi cromatici con un continuo gioco percettivo di avanzamento e retrocessione che se è debitore alla storia precedente è anche portatore di nuovi respiri e fughe poetiche. Ne sono esempio l’opera 1573 - Dispersione B (pag. 51) e l’opera 1574 - Dispersione 1 / Gatti e binari (pag. 52). Per quest’ultima il 18 settembre 1960 annota:
13. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 27 novembre 1958.
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«Sono le ore 7 del mattino, di questo grigio mattino domenicale. L’aria è ferma. La domenica tutto sembra dormire di più. In questa stanza l’odore della vernice si è posato. Comincio a intravedere in questo mio ultimo lavoro qualcosa di concreto. Anzitutto lo chiamo gatti e binari ovvero Dispersione n. 1. Forse anche l’opera di decantazione del tempo contribuisce a che le braccia si slancino e i sorrisi di solidarietà trionfino nelle penombre delle maglie dell’esistenza. Ieri sera, prima di addormentarmi ho fantasticato molto circa visioni concrete di sintesi fantastica. Auto multiformi e multicolori che si intrecciano. Via vai di gatti sornioni che passano sotto di esse; vanno oltre, attraverso decine e decine di binari appaiati, e miagolano quando i treni recalcitrano nelle manovre eterne: avanti e indietro, sudati ... E gli orologi instancabili che battono il ritmo di una danza rituale di foglie, frutti che maturano e un passare, passare di nubi su un cielo solcato da corde flessibili e infinite dai colori tenui e trasparenti ...14».
14. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 18 settembre 1960.
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È solo una curiosa coincidenza che in questa titolazione appaia per la prima volta il termine ‘binari’: esso tuttavia non è riferito alla numerazione che caratterizzerà il lavoro dei decenni successivi, ma alla semplice realtà. Il testo riportato dà ragione e forma a un sentimento non immediatamente visibile e non descritto nel quadro attraverso la figurazione, eppure l’artista vuole trasporre nell’opera le dense suggestioni di un momento e renderle percepibili all’osservatore; è una tendenza propria della musica, che evoca piuttosto che descrivere, e di molta arte europea di quegli anni che tenta la trasposizione di una carica emotiva nell’opera pur nella negazione di elementi descrittivi e figurativi, demandando l’evocazione a elementi costitutivi e a speculazioni teoriche. Le opere di questo scorcio di anno e dei primi mesi del successivo continuano a definire lo spazio con tale struttura espressiva differenziando il centro dal margine, come se vi fosse una situazione di maggiore caos verso l’esterno e le forme trovassero un maggiore ordine e una composizione più bilanciata verso il centro (vitale?). Alcune richiamano velatamente soluzioni più
rispondenti alla ricerca di senso che le letture scientifiche, a differenza dei modelli a lui presenti in campo artistico, sembrano poter fornire. Proprio la costruzione di un senso sembra essere ciò che tormenta l’artista in questi mesi in opere sempre più rarefatte e sporadiche nel tempo fino al successivo 1962, nel quale la produzione sembra essere totalmente assente. In questi primi sette anni il lavoro artistico di Gianfranco Chiavacci denota chiaramente il passaggio dalla formazione di una coscienza del fare, nel 1956, legata alla scoperta entusiasta e alla pratica delle molteplici possibilità espressive della pittura, alla profonda coscienza, nel 1962, che il procedere senza una solida metodologia rende il processo sterilmente autoreferenziale e non aperto a ciò che lo stesso essere posti al mondo richiede. La crisi sembra essere profonda poiché la definizione estetica dell’opera pur soddisfacente in molti casi, è tuttavia demandata a una casuale combinazione di fattori non controllabili e la ricerca necessita di una strutturazione che porti, come nel pensiero scientifico, a un controllo da parte dell’autore, a continue verifiche delle possibilità, a scelte motivate e giustificate sul piano teorico. Questo momento di stasi nel lavoro di Gianfranco Chiavacci si accompagna a una intensa riflessione, attraverso la verifica e lo studio dei maestri dell’arte astratta del Novecento e alla ricerca di un proprio centro propulsivo interno al lavoro e di una propria collocazione nel nuovo clima europeo. La situazione che vive Pistoia nei primi Sessanta è di una città periferica rispetto ad altre centralità, nella quale l’aggiornamento e la tensione sono mantenuti solo attraverso l’informazione, i contatti personali e la possibilità di viaggiare per essere testimoni diretti del cambiamento epocale in atto. La frequentazione di nuovi spazi culturali sollecita l’artista a nuove letture di testi, giornali e riviste d’avanguardia che annunciano tale cambiamento e forniscono testimonianza sulle situazioni
nelle principali città italiane ed europee, sul formarsi di nuove tendenze - arte programmata, optical, cinetico-visiva - e sulla riflessione sui destini artistici e critici dell’arte italiana. In anni successivi scriverà in una sua biografia: «la consapevolezza che, in arte, l’invenzione autentica avviene soltanto se si esce dalla combinatoria dell’arte
del passato e cioè facendo continuo riferimento non al sé pensante in un indecifrabile solipsismo o al sé storicizzato, ma alle conoscenze positive che trasformano continuamente, e oggi in maniera particolarmente accelerata, il mondo e l’uomo in esso15».
Occorre quindi dare un nuovo senso al fare dopo la libertà informale.
zerozerounozero – La scoperta e lo sviluppo della binarietà Certo che i gatti sono più intelligenti dei binari! Tutta una vita a stare lì paralleli ad aspettare che qualcuno muova gli scambi. Eppure la gente alle prime mostre li cercava, vero? E ti facevano le battute. E tu a spiegare, spiegare e cercare di fare intendere cos’era l’elaboratore elettronico e la logica informatica, i codici e i linguaggi. E anche quelli che nell’arte ne parlavano ne sapevano alla fine così poco! E forse facevano cose così ingenue che anche l’elaboratore, se avesse avuto una seppur minima ironia artificiale, avrebbe sorriso. Tu ci lavoravi insieme e sapevi che le macchine non sono intelligenti.
Tra il 1962 e il 1964 avviene il mutamento, annunciato come necessario, nell’opera e nella vita di Gianfranco Chiavacci. Nel 1962 la banca per cui lavora lo individua tra il personale quale soggetto idoneo a essere inviato presso i centri IBM per la formazione in campo informatico. Il computer è una realtà agli albori e, nonostante sia ancora qualcosa di sconosciuto alle grandi masse e abbia un’aura negativa e favolistica nell’immaginario legato ai mass media dell’epoca, si appresta a diventare elemento primario per il calcolo e per la gestione dei dati delle aziende. Gianfranco Chiavacci intraprende la strada di programmatore con particolare entusiasmo poiché l’informatica rappresenta per lui l’insolita possibilità di dedicarsi a qualcosa, ancora precluso ai più, in cui comincia a credere fermamente. La dedizione allo studio e alla formazione è forse un’altra causa del rallentamento nella produzione artistica e dell’assenza di opere significative nell’anno 1962, ma è anche la fonte di una riflessione e di un’energia inedita che avrà conseguenze in tutta la sua opera futura. Egli sa di essere testimone del futuro nascente e che d’ora
in avanti l’uomo non potrà più fare a meno dell’informatica. Molti artisti in quegli anni iniziano a essere interessati non solo alla numerologia16 ma anche alle nuove tecnologie audiovisive e di massa, alle possibilità tecniche di lavorazione di nuovi materiali e alle intelligenze artificiali ma ciò avviene con un atteggiamento verso la macchina come elemento produttivo di un qualcosa che può ancora essere considerato opera. Gianfranco Chiavacci non è attratto dalla tecnologia, né dalla macchina in sé, né tantomeno desidera produrre arte con essa, non ricerca nel computer le domande e le risposte precedentemente poste alla pittura. Le letture di testi sulla logica matematica, sulle intelligenze artificiali e sulla cibernetica17 spostano il suo interesse verso il pensiero che sovrintende il funzionamento dell’elaboratore elettronico, verso la logica di cui esso è portatore. La scoperta delle radici antiche del calcolo binario, della numerologia, della matematica indiana, delle teorie combinatorie degli I-Ching o dello Shu forniscono giustificazione alla sua applicabilità in campo artistico e nel contempo gli dischiudono un orizzonte nuovo con il quale
15. Autobiografia presentata in occasione della mostra personale Limiti presso Opera, Perugia, 1994. 16. In questi anni in Europa e negli Stati Uniti alcuni artisti iniziano ad elaborare l’opera secondo logiche matematiche e il numero appare nelle rappresentazioni e nella metodologia; esempio per tutti l’opera di Roman Opalka che nel 1965 inizia la sua numerazione verso l’infinito. 17. A queste letture di stampo più scientifico si affiancano i testi di Eco e di altri intellettuali sull’arte programmata e fa seguito nel 1966 quella del testo di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica che lo induce a riflessioni poi rese esplicite nella ricerca fotografica.
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0011, 1963
vuole fare i conti dal punto di vista non tecnico ma culturale. La misurabilità del processo formativo dell’immagine artistica deve divenire significante in sé e superare l’aspetto programmatico e metodologico che la caratterizza. È questa la scommessa che viene giocata e sulla quale l’artista comincia a investire, allora confortato solo dall’esempio di alcuni predecessori e dalla storia del pensiero teorico nel rapporto scienza/arte. Nel 1963 inizia a verificare una prima formulazione della binarietà in opere nelle quali gli elementi strutturanti sono la presenza e l’assenza; il canone selettivo è ancora decisamente casuale come nell’opera 0011 (pag. 19) che risultando in parte ancora acerba nella sua formulazione, è comunque uno dei primi tentativi che denota un modo nuovo di fare arte, più analitico e con una logica che sostenga il susseguirsi delle scelte formali. La binarietà è applicata in una versione semplicistica che presto dovrà essere sostituita da una speculazione più vasta, compresa e meditata.
18. Alberto Boatto, Lo sguardo dal di fuori, Nuove frontiere dello spazio e dell’immaginario, Feltrinelli, Milano, 1981.
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La produzione precedente al 1963 necessitava di una strutturazione e la binarietà può essere la risposta a quell’esigenza, fornendo nuovo spazio e ragione all’attitudine sperimentale dell’artista. Il cammino in questo territorio da subito si presenta come arduo e difficoltoso ancorché portatore di una grandissima possibilità espressiva, intuita ma non ancora esercitata. Egli si rende conto che non è nelle risposte che va cercata la soluzione ma, come sempre, nelle domande e, in questo caso, nelle questioni logiche che la scelta della binarietà sottopone costantemente a chi voglia acquisirle come metodo. La sua formazione culturale lo porta in questa direzione ed egli assume la binarietà come elemento primario del rapporto con la realtà. La sua opera diviene quindi negli anni testimonianza di questo suo costante tentativo di rapportarsi alla realtà dell’arte con questo specifico pensiero; sebbene questo comporti un
allontanamento dell’emozionalità sensitiva, di contro fornisce metodo, misura e controllo non più alienabili dal proprio operare. Come nel Rinascimento la prospettiva diviene metodo non solo rappresentativo di un mondo ed elemento della sua interpretazione, nei primi anni Sessanta molti intuiscono, e Chiavacci è tra questi, che il pensiero contemporaneo sarà sempre più condizionato dalle scoperte scientifiche e tecnologiche. Molte rivoluzioni sono in atto e sta cambiando il rapporto stesso dell’uomo con il mondo. Il viaggio di Yuri Aleksejevi Gagarin nel 1961 rende irreversibile la coscienza della possibilità di quello sguardo dal di fuori che l’arte aveva precedentemente annunciato18; la conquista del satellite luna nel 1969 rende ciò definitivo e l’avvento del personal computer e della tecnologia internet in tempi recenti modifica la percezione e la definizione della dimensione spazio-temporale. Gianfranco Chiavacci in quei mesi del 1963 sembra interrogarsi sulla possibilità che l’arte acquisisca ciò che è il cuore del problema, la struttura più interna della binarietà, ovvero la sua logica. Oggi essa ha invaso moltissimi campi della speculazione e della creatività umana e si avverte tuttavia che è divenuta meno visibile rispetto ai primi anni. La pubblicità della prima macchina fotografica a scatto, messa in commercio centotrent’anni fa, invitava l’utente di massa, ignorante dei processi fotografici, solo a inquadrare e schiacciare il pulsante (You press the button - we do the rest); così oggi l’accesso alle nuove tecnologie informatiche avviene senza alcuna conoscenza del funzionamento di ciò che usiamo. Le giovani generazioni forse sanno dell’esistenza della logica binaria e dei bit quasi quali dati storici: pochi utenti per accedere all’uso del computer ne studiano i linguaggi e il funzionamento. Nei primi anni Sessanta invece, la logica binaria è la base necessaria per ogni conoscenza informatica e il rapporto con l’elaboratore avviene tramite le schede perforate, richiamate dai primi
lavori del 1963, nelle quali la presenza o l’assenza di un foro è significante per la lettura del programma. L’artista, come altri in quell’epoca, non scrive messaggi sulle tele usando il linguaggio binario o particolari codici semiotici, ma pone la logica binaria a un livello strutturale necessario a dare ordine a un approccio che egli sente ancora dipendente da istanze legate a una cultura tardoromantica. La binarietà come fatto strutturante diviene modalità generante la rappresentazione non del mondo ma del pensiero artistico del mondo. Gianfranco Chiavacci sembra intuire da subito, come gli artisti medioevali per la prospettiva, la trappola possibile che l’applicazione meccanica di una logica metodologica presuppone ed è nella stessa binarietà, nelle sue immense possibilità di contaminazione del dominio artistico, che trova la libertà che la creatività richiede. La binarietà viene assunta quindi non solo come elemento puramente sintattico ma come elemento ‘mutante’ che determina un cambiamento all’interno del processo formativo dell’opera. L’artista non si dimostra mai interessato ad applicazioni pratiche della macchina: «Non ho mai usato il computer per fare arte, qualche calcolo per risparmiare tempo, ma mai per fare direttamente l’opera come fanno altri. Non mi ha mai interessato19».
Tecnicamente preparato, non ricorre al computer oltre alla possibilità di calcolo, di archiviazione o di banca dati che esso può fornire. L’atteggiamento che ha con la fotografia negli anni Settanta rivela un similare disincanto per il mezzo da usare; gli interessa la logica piuttosto che la semplice attività applicativa e questo gli permette di non subirne la seduzione mimetica. La binarietà non conduce a una illustrazione del problema né a una traslazione di elaborazioni fatte a differenti livelli, è luogo stesso di una verifica, più o meno certa, di un procedimento, come elemento logico fondante. In esso è presente la possibilità di una scelta, di una messa in discussione continua del
processo operativo, di una mutazione che affianchi, permettendoli e ampliandoli, i processi propri del fare artistico. Egli ritiene necessaria una: «autofondazione del processo artistico non in vaghi ‘sentire’ ma in articolabili ed esplicitabili passaggi operativi. Sono quindi determinato nell’assumere la binarietà (la logica a due stati - da non confondere con la dualità o il dualismo) come tecnica-processo strumentale per creare e indagare sperimentalmente il mondo formale attinente alla bidimensionalità....20».
E inoltre nel 1980: «l’ipotesi di fondo di questo lavoro (… è il) tentativo di introdurre una mutazione controllata e controllabile nei modi e nei contenuti del fare arte21».
Questa affermazione è basilare per avere una chiave di accesso alla comprensione dell’opera di Gianfranco Chiavacci. Un momento importante nella vita di Gianfranco Chiavacci riveste il suo incontro nel 1964 con l’artista Fernando Melani. Egli già lo conosce di vista, e ha potuto osservare la sua opera in alcune esposizioni a Pistoia22; l’occasione per incontrare l’artista, allora del doppio di età rispetto ai suoi ventotto anni, è l’allestimento della mostra personale presso il Circolo di Cultura e le conferenze che Melani tiene sul tema dell’astrattismo, poi oggetto di una piccola pubblicazione23 a cura del Circolo stesso. I due artisti, dopo un primo periodo di osservazione reciproca, entrano in sintonia e ne nasce un’amicizia profonda e un sodalizio culturale che durerà fino alla morte di Fernando Melani avvenuta il 28 marzo 1985 nella sua casa-studio pistoiese di via Gramsci. Le due personalità artistiche sono molto diverse e i presupposti che ne animano il percorso artistico sono a volte completamente divergenti. La reciproca frequentazione, il costante confronto e la stima che si costruisce tra loro, in un situazione inoltre di isolamento culturale che entrambi in certi anni vivono, alcuni atteggiamenti assimilabili nei riguardi del mondo scientifico e artistico, hanno fatto sì che spesso i due
19. Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia. 20. Autobiografia presentata in occasione della mostra personale Limiti presso Opera, Perugia, 1994. 21. Gianfranco Chiavacci, La binarietà e lo spazio bidimensionale. Analisi di una ricerca sperimentale in arte, Pistoia, dicembre 1980. 22. In particolare le opere di Fernando Melani sono presentate a Pistoia alla Mostra d’arte Astratta all’Università Popolare nel 1960, alla Mostra Internazionale d’Arte Astratta in galleria Nazionale nel 1961 e alla collettiva alla Saletta Jolly del 1963. 23. Fernando Melani, Astratto vecchio nuovo e oltre, 2 marzo 1964, Circolo di Cultura, Pistoia; ripubblicato nel catalogo della mostra Fernando Melani. La casa-studio, le esperienze, gli scritti, dal 1945 al 1985, Electa, Milano, 1990, pag. 168-171.
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generazione sia più giovani. Il suo pensiero, teso a definire l’opera come momento finale di un processo operativo che ha riscontri nella fisica sperimentale, è alquanto anomalo nel panorama italiano di quegli anni. I rapporti energetici presenti nella materia sono elementi che conducono all’individuazione della forma, a un fare arte che diviene mezzo e non fine e a un’estetica che si lega in una risonanza alla vita stessa dell’artista. Certamente per Gianfranco Chiavacci questo incontro e quest’amicizia segnano un momento cardine di un percorso già avviato: data la forte personalità artistica e l’autorevolezza di Fernando Melani è logico che a volte egli sia sensibile alle critiche dell’amico, lo citi spesso nei suoi scritti, ne accolga i suggerimenti, apprezzandone il lato similmente sperimentale, e faccia riflessioni sulle argomentazioni delle discussioni che avvengono nei momenti di incontro tra i due, soprattutto nello studio di via Gramsci. A sua volta Fernando Melani, fin dalla prima conoscenza, comprende l’importanza della ricerca del giovane artista all’interno della cultura dell’astrattismo toscano e lo incoraggia introducendolo nell’ambiente artistico fiorentino della galleria Numero di Fiamma Vigo e presentandolo a Lando Landini e Donatella Giuntoli e ad altri artisti o cultori delle arti. 0029/1, 1964/1969
24. Bruno Corà, Risonanza resa manifesta. Fernando Melani primo artista del dopoguerra e penultimo del millennio, in catalogo mostra Fernando Melani. La casa-studio, le esperienze, gli scritti, dal 1945 al 1985, Pistoia 1990, Electa, Milano, 1990.
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artisti vengano erroneamente accomunati nelle poetiche. A volte si è anche parlato, sempre sbagliando, di affiliazione del lavoro di Gianfranco Chiavacci rispetto quello dell’amico più anziano. Fernando Melani nel 1945 decide, a trentotto anni, di dedicarsi all’arte e dopo un quinquennio di esperienze tra figurativo e figurazione astratta giunge all’inizio degli anni Cinquanta alla maturazione di un linguaggio autonomo24. Egli vive la ricca stagione fiorentina del dopoguerra partecipando attivamente all’esperienza di Fiamma Vigo e della galleria Numero, ove esporrà in diverse occasioni, e legandosi in sincera stima reciproca a molti artisti sia della sua
Alla galleria FLOG, una sezione culturale delle Officine Galileo di Firenze, i due artisti espongono nel gennaio 1965 nella mostra Collaborazione differenziata insieme a un altro artista toscano, Carlo Lupetti. Viene redatto un catalogo che raccoglie gli scritti di autopresentazione del proprio lavoro e la lettura incrociata di ognuno di loro del lavoro degli altri due. Nel testo su Chiavacci Fernando Melani appare convinto del portato estetico e innovativo della sua opera e, collocandolo nella zona più fredda dell’arte, pone alcune questioni sulla logica che deriva dall’informatica e definisce il percorso dell’amico come un’«ardua impresa o pretesa o forse più probabilmente, la solita plausibile utopia che spesso solleci-
ta gli stimoli più sottili e nascosti della creazione25». L’uso della parola ‘utopia’, può apparire oggi strano anche se in questo caso associata all’aggettivo ‘plausibile’; in quegli anni questo termine stava mutando senso, non solo in campo artistico, per divenire desiderio, rivendicazione e possibilità di riscatto per popoli e nuove generazioni. Egli inoltre sottolinea l’importanza del lavoro di Gianfranco Chiavacci e ne descrive il processo logico formativo fornendo possibili letture e termina ringraziando dell’apertura indiretta di uno spiraglio dentro le ‘meraviglie’ del cervello elettronico. Indubbiamente è ancora difficile per l’artista più anziano, immerso in una speculazione legata a una visione scientifica differente, intuire pienamente gli sviluppi possibili di un lavoro che comunque su questo fronte solo in seguito giungerà a piena maturazione. La speculazione di Gianfranco Chiavacci è infatti ancora agli inizi e l’elaborazione teorica non ancora pienamente completata. Ne è prova lo scritto Per tentare una spiegazione nel catalogo della mostra nel quale l’artista si domanda: «se fosse possibile tentare di immettere nel fatto artistico un sistema operativo nuovo, che propendesse per una elaborazione tecnicamente razionalizzabile. Razionalizzabile nel senso di logicamente prevedibile a priori quanto a strutturazione e quanto a potenziali alternative di pratica attuazione26».
E inoltre pur parlando anche lui di ‘sensazione di freddo’ e aggiungendo ‘di calcolato e di limitato’ circoscrive la propria definizione della nozione di ordine strutturale: «L’ordine strutturale che è alla base dei miei lavori è un espediente tecnico, che attualmente mi serve per elaborare delle analisi. Prima di scrivere su queste, preciso meglio da dove derivi quel simmetrismo che ho definito ‘ordine strutturale’. Non è un modello, la materializzazione di qualcos’altro. Gli elementi plastici che dispongo in sequenze, le superfici reticolate, i reticoli stessi, non sono che astrazioni, come i numeri. Anche 0 e 1 sono due numeri della serie decimale;
possono però anche essere gli elementi di una serie binaria, quella che ha come base non dieci, ma due, appunto 0 e 127».
0030, 1964
Quindi non un modello ma una struttura che permetta al quadrato di divenire doppio quadrato e di scorrere nello spazio per definire una bidimensionalità del tutto. Sottolineando che vi è una perdita di ricchezza emotiva, si dichiara interessato ad altro, alle possibilità che l’opera tenda a dimostrare l’applicabilità di una logica e che per l’osservatore vi sia la possibilità di essere introdotto a questa ricerca e costretto a porre l’attenzione sulla particolare struttura reticolare, e quindi sul referente strutturale, proposta in ogni opera. I lavori esposti a Firenze presentano il tentativo di una strutturazione dello spazio e di intraprendere la via verso una bidimensionalità dell’opera che si espleta anche in una tridimensionalità effettiva in un rilievo delle parti incollate sul supporto. Questo si osserva nell’opera del 1964 (poi rielaborata nel 1969) 0029/1 (pag. 21) nella quale i bit divengono elementi compositivi legati anche a una fruizione ottica dovuta all’incidenza della luce e alla monocromia del tutto. Di essa scrive: «Vorrei tentare proprio una elaborazione più definita, bianco/nero, alternanze verticale/orizzontale, oppo-
25. Fernando Melani , Franco Chiavacci elaborato dal Melani, nel catalogo Collaborazione differenziata / Chiavacci Lupetti Melani, Firenze, 1965. 26. Gianfranco Chiavacci, Per tentare una spiegazione, nel catalogo Collaborazione differenziata / Chiavacci Lupetti Melani, Firenze, 1965. 27. Ibidem.
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bre 1964 è strutturata in bande cromatiche verticali di cui quella a sinistra presenta una conformazione simile all’opera precedente. «L’opera 0030 è, dopo alterne vicende legate alle scelte di dimensione, in lavorazione. Problema n.1: colore. Voglio tendere a trovare una certa freddezza, almeno farla avvertire per buona parte. Potevo benissimo puntare sul ‘grido’, caricando l’opera di imponenze da colpire. Ho preferito che venisse una cosa piuttosto seria, una specie di “lettore di pezzi”. (…) Ne è uscita una cosa che colpisce e piace. Mi è stato anche fatto notare (Melani): già prevedevo tutto ciò. Io dico che l’opera mi è sfuggita di mano mi è scappata dal cervello a cui era destinata. Pazienza29».
0020 – Cubo, 1964
28. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 25 agosto 1964. 29. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 10 novembre 1964. 30. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 17 novembre 1964.
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sizione massima tra bande di superficie ed elementi (sia nel colore sia nella direzionalità (…) Ha un equilibrio elaborativo al limite delle possibilità. Perché? Perché è pieno. (…) Essenziale è tenere presente, in sede critica a posteriori, il fuoco di tutti i problemi: la mia opera deve essere propedeutica non conclusiva. Devo scendere a trovare sollecitazioni ‘monosillabiche’ e non tanto a coordinarle in una esatta elaborazione estetica. Ecco perché presumo che con l’opera 0030 avrò una battuta di arresto e un riesame critico del già fatto28».
Gianfranco Chiavacci si rende conto di essere in una fase di preparazione, propedeutica, e che ogni conclusione o arresto potrebbe essere dannoso e inficiare il cammino intrapreso. Il pericolo di fare dei ‘lettori di pezzi’, come li definisce allora, di fare delle rappresentazioni di un metodo esecutivo o di una processualità autoreferenziale è sempre presente e la combinatoria deve essere leggibile per chi guarda e dare senso al lavoro. La ‘battuta di arresto’ della 0030 (pag. 22) si rivela invece come ulteriore ‘deflagrazione’ del processo creativo: l’opera del settem-
La questione della libertà è qui posta e non è la prima volta che l’artista annota che l’opera ha comandato il risultato quasi a voler sfuggire di mano. Il risultato ottenuto è soddisfacente; Melani sospetta che ciò sia stato invece un risultato prevedibile. Sono ambiti nei quali ogni giorno l’artista annota diversificazioni e progressi. Sempre nel 1964 realizza l’opera 0031 (pag. 54) un piccolo lavoro a proposito del quale annota: «Non ho trovato la soluzione degli elementi sul reticolo. Ho operato: fondo nero, texture quadrettata bianca (forse il mio reticolo non nasce da una quadrettatura?), reticolo sospeso, in filo di cotone, nero. Mi sembra molto interessante l’effetto della presa di coscienza del mio reticolo attraverso l’apparire e lo sparire continuo delle linee che lo definiscono. D’altra parte per me il reticolo non è fine a se stesso, deve suggerire la genesi dei miei elementi ... Tuttavia devo ancora constatare come abbia il cervello affollato di progetti e come realizzi opere di un certo e crescente interesse30».
Il reticolo di filo diviene elemento strutturante lo spazio e un elemento materico che tornerà spesso nell’opera futura. Anche la 0020 - Cubo (pag. 23) del giugno 1964 presenta una struttura tridimensionale con del filo. In un cubo vi è una tessitura interna di reticoli sovrapposti: «Mi è venuto in mente, anche come eco di conver-
sazioni precedenti, che la nostra attenzione deve continuamente essere rivolta alla ricerca del livello presociale del nostro essere. L’estetica, purtroppo, fino a ora è stata un aspetto del livello sociale. Forse un giorno potrà essere una nuova branca della scienza. Ecco perché dobbiamo assolutamente fare in modo da evitare il rischio di adagiarsi in sterili posizioni formalistiche, con il contentino di una teorica prefazione avanguardistica31».
In esso la definizione di estetica come un aspetto sociale e possibile futura branca della scienza appare alquanto bizzarra se non riconducibile alla fiducia che nutre per il pensiero scientifico. Le opere di questi anni sono sia monocrome che a bande cromatiche come l’opera 0013 (pag. 53) del 1965, realizzata con 684 elementi, una superficie con struttura bidimensionale binaria, lineare. Il bit, doppio quadratino, unità minima binaria, trova una collocazione nello spazio a due dimensioni del quadro e si struttura secondo uno schema semplice, tra verticale e orizzontale, che prolifera in situazioni più complesse come nella 0075 (pag. 24) del gennaio 1967, un’evoluzione successiva della 0013 in quanto lo spazio occupato dai 579 bit è stratificato in elementi a rilievo in sei colori differenti e in sei spazialità determinate da sei gradienti. Cosa sia il gradiente lo spiega nel 1980: «Un altro aspetto fondamentale da esaminare è quello relativo al gradiente metrico adottabile per la elaborazione. La formula del bit spaziale o elemento binario è ‘n / 2n’, che indica il rapporto delle dimensioni verticali e orizzontali del bit stesso. La formula rappresenta il gradiente binario. In essa ‘n’ rappresenta l’indice basso mentre ‘2n’ rappresenta l’indice alto. È intuibile che a ‘n’ può essere attribuito un valore metrico qualsivoglia, ricordando che esso costituirà anche il valore di maglia del reticolo di partenza32».
Quindi la scelta del gradiente diviene elemento fondamentale per la scelta delle dimensioni del reticolo e per il suo sviluppo progressivo e analogico nel lavoro secondo valori tabellari precostituiti.
Nel 1967 una prima personale alla galleria Numero di Firenze lo pone all’attenzione della critica e degli altri artisti non solo toscani e una seconda alla galleria FG di Pistoia ne conferma l’interesse. La presentazione in catalogo di questa seconda personale è ancora una volta dell’amico Fernando Melani che amplia i temi del precedente testo entrando nello specifico del lavoro di Gianfranco Chiavacci dopo una dissertazione sullo stato dell’arte alla luce dei nuovi linguaggi. Specifica la non sovrapposizione dei termini ‘verticale- orizzontale’ con ‘perpendicolarità’ e ‘doppio quadrato’ con ‘rettangolo’. Come nel testo precedente ribadisce che l’artista vuole essere il più chiaro e comprensibile possibile, senza essere mai
0075, 1967
31. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 11 giugno 1964. 32. Gianfranco Chiavacci, La binarietà e lo spazio bidimensionale. Analisi di una ricerca sperimentale in arte, Pistoia, dicembre 1980.
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semplicistico, non stimando troppo «l’alone di mistero, in ogni modo sempre meno fitto, entro cui ancora tanti amano avvolgere i fatti artistici33». L’opera si presenta complessa ma l’artista vuole renderla decodificabile, percorribile dallo sguardo in una visione che può giungere a comprendere il pensiero che la sostiene. E conclude con una riflessione ancor oggi di grande attualità circa la possibilità che l’arte possa giungere a una sua universalità che proprio in quegli anni viene sempre più messa in discussione come elemento legato a una gestione di classe della cultura. «Per la presenza di Gianfranco Chiavacci stiamo ricevendo originali e precisi umori sulla direzionalità, se non sbaglio non è frequente in pittura, quella logica binaria mentre resta in sospeso l’eventuale contributo alla grossa faccenda se una maggiore misurabilità delle operazioni che strutturano l’opera d’arte non debba anche risuonare dentro il giudizio di valore ormai così equivoco nella sua gratuita universalità34». L’artista manterrà saldo negli anni questo rigore nella possibilità di una mutazione controllata e controllabile in una sintonia metodologica vicina ad altri maestri dell’arte europea che conosce in esposizioni e in cataloghi che cominciano a circolare in modo più
continuativo. A volte pare che egli tema la non controllabilità dell’evento cromatico. Se in opere come la citata 0075 il ricorso ai sei colori è dettato da una seria riconsiderazione delle strutture cromatiche che la tradizione ci offre (giallo, azzurro, arancio, blu, verde e rosso) ed è strutturata rigorosamente secondo i sei gradienti corrispondenti, in molte opere successive opta decisamente per la soluzione monocroma che già gli aveva fornito una più fredda considerazione del lavoro e anche un’assolutezza maggiore del portato iconico. È il caso di una coppia, la 0293 -Grande presenza azzurra (pag. 56) e la 0294 - Grande presenza gialla (pag. 57) entrambe del marzo 1969. Nell’opera blu lo spazio è quadripartito e i bit sono alternativamente posti secondo una collocazione verticale o orizzontale con due differenti spazialità che generano due differenti ritmi di lettura, sinistra-destra e alto-basso, incrociati secondo le diagonali; nella campitura gialla lo spazio è strutturato dall’alto verso il basso con un cambiamento sulla diagonale da sinistra verso destra. I due pezzi sono di grande efficacia visiva e la semplicità cromatica e il minimalismo strutturale rendono le opere positivamente affermative.
zerozerounouno – Il metodo e la continua mutazione Hai trovato la bicicletta. Due ruote che ti aspettavano sulla via. Una davanti e una dietro e devi mantenere l’equilibrio e sulla canna ci puoi portare il mondo. E devi pedalare perché la strada è lunga. Ti consola solo la forza di Gilli e il sorriso dei bambini e qualche amico bischero come te. L’arte non è un passatempo ma una necessità che viene da dentro. Da quel dentro che ti fa capire che mettere insieme le cose, cercare un nuovo ordine è continuamente una sorpresa, un pensiero nuovo che si forma. Che sia poi anche bello? Anche l’uso di questa parola è insufficiente. Reimpostare ogni volta e tutto muta.
33. Fernando Melani, Presentazione della mostra di Gianfranco Chiavacci alla galleria FG, Pistoia, 1967. 34. Ibidem.
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I rinnovati rapporti tra arte e scienza portano a interessanti soluzioni nel campo dell’arte e molte volte la stessa terminologia individua una situazione di confine. In un travaso che ricorda le sinergie tra musica
e arti visive nelle avanguardie storiche, gli artisti impiegano parole indite legate a prassi tecnologiche e gli scienziati prendono in prestito vocaboli propri all’arte: nei testi scientifici compaiono inoltre annota-
zioni vicine a una concezione estetica del fenomeno osservato. Gianfranco Chiavacci nei numerosi scritti adopera spesso termini come verifica, sperimentazione, tradizione operativa, efficacia e molti altri propri della sua formazione scolastica non umanistica e del suo abituale lavorare in campo informatico; egli è tuttavia convinto che il processo artistico debba essere la sommatoria di una serie di verifiche attuate operativamente nella creazione delle opere e crede sempre più che la crescita del fenomeno, e quindi anche del fenomeno artistico, avvenga attraverso la contaminazione. Questa convinzione, associata all’uso della terminologia scientifica, potrebbe indurre a considerare, come altre volte nell’arte contemporanea, le opere sminuite del loro portato estetico, a considerarle come risultato di un serie di esperimenti privi di valenze artistiche: l’elaborazione teorica che accompagna o precede l’opera, la costante preoccupazione che il risultato abbia internamente una forte potenzialità propria all’arte storica e la valenza estetica del risultato finale allontanano sempre questo sospetto. L’artista inoltre introduce nei suoi scritti pensieri, riflessioni e termini che derivano dalla speculazione estetica sul suo fare arte; spesso scrive e afferma35 che proprio attraverso l’applicazione metodologica e l’operare a contatto con quello che l’opera gli suggerisce, nei risultati dimensionali, nell’uso del colore e della materia, è comunque possibile raggiungere la libertà creativa e l’autonomia proprie dell’arte di sempre. L’opera conquista la sua dimensione di prodotto dell’ingegno, con tutto il suo portato immaginifico, e l’irrazionale, seppur posto in anomala condizione, è salvaguardato nel suo apparire dalla libertà posseduta e permessa dal referente strutturante razionale con la continua contaminazione dell’ambito di applicazione: la mutazione che ne consegue conduce negli anni anche a risultati imprevisti e distanti dai presupposti di partenza. La sperimentazione diviene continua verifica di una delle possibilità esecutive previste dalla binarietà e le
scelte fatte in corso d’opera e dettate dallo stesso fare, sono sempre riconducibili alla cultura, alla fantasia e alla genialità dell’artefice. La costante fiducia nella possibile coniugazione del pensiero scientifico con l’arte porta l’artista in molti casi all’impiego del termine ‘sperimentale’ nella nuova accezione interna alla processualità artistica; il suo operato si differenzia così dalla tendenza, di cui subirà a volte il fascino, che prevede l’analisi e la produzione scientifica del fenomeno artistico con un approccio fortemente concettuale che conduce a una impersonale meccanicità del fare. Gianfranco Chiavacci se ne allontana poiché crede nella sistematizzazione di un metodo in una prassi che sia condizione di continuo controllo e di sempre possibile scelta dell’artista. L’impiego di una protocollarità binaria consolidata dischiude enormi possibilità; essa permette ogni volta il dischiudersi di soluzioni nuove, poiché la scelta interviene fin dal primo momento, e permette altresì di mantenere sempre una condizione di libertà all’interno del reticolo logico e metodologico adottato. Una personalità orientata politicamente, come è l’artista in questi anni, non potrebbe accettare un sistema che sia di chiusura piuttosto che di apertura al fattore libertario proprio dell’uomo. Nel Diario di lavoro, che accompagna la realizzazione delle opere, si ritrovano definizioni e termini quali rete, gabbia, dominio, sito, griglia strutturante già in un’accezione moderna, vicina a quella di internet oggi, e nella loro accezione di possibilità di spazi di ricerca, di bivi, di percorsi alternativi e anche di cul de sac e di possibilità di errore e di fuga in un altrove differente; l’immissione nel processo artistico di un referente strutturante esterno permette tutto questo poiché anche quest’ultimo risulta fortemente contaminato da una logica non scientifica. Zero/uno, assenza/presenza, colore/non-colore, destra/sinistra, alto/basso, vuoto/pieno portano in sé continuamente la scelta nel procedere, risultato di
35. Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia.
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0296 – La frase, 1969
36. La binarietà appare nell’interesse di artisti statunitensi ed europei, per esempio Mel Bochner, Alighiero Boetti o il più giovane Karpüseeler, ma non è elemento logico fondante del loro operato artistico, seppur con esiti interessantissimi. 37. In quegli anni viene pubblicato Johannes Itten, L’arte del colore, (Milano, 1965), circolano l’edizione estera dei testi di Albers e informazioni sulle sperimentazioni in ambito dell’arte programmata e sul rapporto coloremusica di Luigi Veronesi poi pubblicate successivamente in Luigi Veronesi, Proposte per una ricerca sui rapporti tra suono e colore, Siemens, Milano, 1977.
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una complessa struttura di variabili possibili su differenti piani logici e operativi. L’uomo/artista è sempre al centro e la logica combinatoria, la prassi del lavoro, la struttura dello spazio pluridimensionale che si determina, divengono luogo privilegiato, come sempre nell’arte, nel quale poter esercitare e verificare termini come espressione, estetica, visione, significante, visionarietà e molti altri. Gianfranco Chiavacci negli anni Sessanta continua la sua opera sperimentale nel campo della binarietà e contemporaneamente esplora anche altre possibilità creative. Sono anni di grandi rivoluzioni formali e linguistiche e l’artista si sente in parte attratto da ricerche che sono tangenziali al suo lavoro e che, anche se diverse nei presupposti che le sostengono, possono condurre a definizioni formalmente simili. La critica di allora equipara sotto le medesime etichette di optical, di arte cinetica o di arte programmata, l’opera di artisti differenti a causa di una sua diffusa impreparazione metodologica, legata ancora alla metodologia in uso per l’arte antica, sebbene operi da posizioni privilegiate interne alla rivoluzione in atto. Le eccezioni eccellenti ci sono ma sono poche e la mancanza di
una scrittura critica specifica e puntuale induce molti artisti nel panorama italiano, e a Pistoia Melani e Chiavacci tra gli altri, a dare spiegazione e ragione del loro operato tramite scritti, trattatelli teorici, interviste o autopresentazioni alle mostre. Gianfranco Chiavacci viaggia quanto è più possibile e partecipa a mostre collettive soprattutto nel nord Italia dove è più viva una ricerca che pone l’accento su principi scientifici. Il suo lavoro suscita curiosità poiché in quegli anni si presenta come uno dei pochissimi interessati a una lettura così specifica e inedita della binarietà. Altri artisti si occupano del linguaggio ma lo fanno con altra ottica interessati alla progressione numerica36, al rapporto duale tra zero e uno, alla questione presenza /assenza e sostanzialmente per un atteggiamento positivo nei riguardi di ciò che viene proposto dal campo scientifico. Gianfranco Chiavacci assume in maniera inedita e personale la binarietà come logica strutturante che permette una proliferazione del lavoro e la sua mutazione in senso creativo e non solo quantistico e logico-meccanico. In questo senso elabora sempre più le campiture e i reticoli nei quali sviluppa o determina le sue forme e opere come la 0296 -La frase (pag. 27), la 0297 (pag. 58) e la 0325 (pag. 59), tutte della metà del 1969, rappresentano esiti molto interessanti e riusciti nei quali il linguaggio binario appare maturo e il fare sicuro. La tensione tridimensionale dell’opera esacromatica 0075 del 1967 è per ora accantonata per verificare una bidimensionalità che segua proporzioni dettate da gradienti metrici strettamente legati alla scelta del colore. In questi anni si comincia a insinuare nell’artista il dubbio sulla possibilità di avere un colore definibile binario legato a una qualsivoglia tabellazione37 o regola scientifica che ne permetta un uso oggettivo. L’artista sembra preoccupato che la scelta del colore possa essere troppo dettata dal libero arbitrio operativo, anche se ciò lo incuriosisce e lo stimola, e ciò che faccia rientrare quella sensazione bandita come elemento che conduca al risultato estetico.
«Abbiamo, è vero, una sensazione di elementarità. Perdiamo certamente in ricchezza emotiva. Ma per me l’importante è altro…38».
In queste tre opere del 1969, più che in altre, va inoltre notato l’impiego di quella parte di spazio che segna l’assenza del bit cromatico, elemento sempre più accomunabile al vuoto o meglio al silenzio. Il bianco non è solo fondo, non è texture di preparazione su cui depositare un fraseggio, è un colore che esalta o calma quelli che su di esso vengono posti; in tal modo l’artista annuncia una ricerca, che ritornerà spesso negli anni, sulla presenza del bianco come entità portante o da collocare con il nero in una gerarchia paritaria con gli altri colori dello spettro. Proprio a seguito di quella curiosità che lo anima e dei contatti che tesse con altre realtà artistiche italiane, Gianfranco Chiavacci, tenta fin dalla metà dei Sessanta, degli esperimenti che in parte esulano dal percorso intrapreso. La sua opera risente sempre della necessità di esperire nuovi territori anche fuori dalla strutturazione binaria che si è dato. Negli anni Sessanta percorre alcune vie che pur conducendolo a volte lontano dai suoi scopi, lo arricchiscono di esperienze tecniche, cromatiche, anche ludiche, che, anche a molti anni di distanza, hanno una positiva ricaduta nella speculazione più propriamente di matrice binaria. Egli è fermamente convinto che l’arte non debba essere chiusa in sé stessa e la logica binaria è una contaminazione che ne induce altre: «Credo che la contaminazione in senso interdisciplinare sia uno degli elementi più prepotenti di spinta che possano esistere, anche in arte. Oggi grazie alle contaminazioni non si parla più di binario puro ma di binario sfumato39»
Le ricerche sono accompagnate da scoperte di nuovi materiali, quali i vetri a superficie rigata, e di nuove tecniche pittoriche, come il monotipo, i colori fluorescenti, la battitura di lettere con la macchina da
scrivere e lo spruzzo. Il suo studio diviene fucina di esperimenti più complessi con la costruzione di vere e proprie macchine ottiche, marchingegni stroboscopici che gli richiedono anche un notevole sforzo teorico40. Il risultato sono televisori con dischi rotanti, box con serie di elementi dalla geometria semplificata posti a distanza variabile dalla superficie del vetro rigato, verifiche della statica e della dinamicità di un colore spruzzato, come nell’esempio 0232 (pag. 28) del giugno 1968, o colato su dischi ruotanti, ‘aerograformi’41 variabili nelle forme e nelle dimensioni, quaderni zeppi di pazienti righettature incrociate che ricordano analoghe soluzioni di artisti minimalisti statunitensi. L’artista si muove in questo territorio come un esploratore che intende verificare empiricamente l’elaborazione prioritaria di una formulazione teorica e in taluni casi alcune sperimentazioni sono sicuramente il risultato di discussioni con l’amico Fernando Melani. L’opera 0041 (pag. 55) del dicembre 1965 è esempio tipico di questa ricerca che qualche anno dopo si arresta e non sarà più ripresa. Ma questo periodo elaborazioni anziché allontanarlo dal suo interesse per la binarietà rafforzano le sue idee che trovano applicazione in nuove stesure cromatiche e sperimentazioni con intagli lignei alla fine degli anni Sessanta o lo conducono nel 1972 a opere come la 0409 - Scacchiera binaria (pag. 28). In quest’ultima, l’eco di una ricerca ottico-visuale viene ricondotta all’interno della logica primaria del lavoro, eliminando qualsiasi suggestione determinata dalla presenza del colore e modulando il calcolo combinatorio della composizione solo con una scala precostituita di grigi. Già nella prima metà del 1968 egli introduce le prime sperimentazioni sulla curva binaria che alla fine dell’anno e negli anni successivi troverà pienamente soluzione formale in moltissime occasioni. Nell’opera 0353 - Curve binarie (pag. 60) del gennaio del 1970 e nella 0358 – Curve binarie (pag. 29) del
0232, 1968 0409 – Scacchiera binaria, 1972
38. Gianfranco Chiavacci, Per tentare una spiegazione, nel catalogo Collaborazione differenziata / Chiavacci Lupetti Melani, Firenze, 1965, pag. 3. 39. Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia. 40. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 16 marzo 1965: «Sono due mesi che non lavoro, nel senso che non realizzo un’opera, anche se alcune le ho pensate, altre progettate. Ma non sono stato fermo. Ho svolto un lavoro teorico su alcuni problemi». 41. Termine più volte impiegato dall’artista nelle sue notazioni di lavoro che indica un particolare uso della tecnica a spruzzo.
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rivare alla superficie elaborata per ‘esplosione’ della banda logica. Tale esplosione (scusarsi per il metaforeggiare) risulterebbe chiara, nelle intenzioni almeno, nella scelta del particolare momento della banda stessa. E per momento intenderei quel taglio particolare, quel mettere a fuoco un punto, sia esso l’intersecarsi Orizzontale-Verticale, sia il dispiegarsi libero in tutta la sua verticalità42».
Il bit non è più solo un doppio quadrato ma prolifera in una forma che permette una modulazione dello spazio mantenendo salda però la verticalità o l’andamento secondo direttrici generatrici che tutt’al più possono prevedere la diagonale. Infatti pochi giorni dopo aggiunge: «Nell’opera è interessante, esteticamente ma non solo, la fissità degli elementi contrastata dalla sinuosità delle bande. Il problema era anche quello di trovare un parallelismo complementare, una simultaneità, tra bande ed elementi. La pulsazione rigida, discreta, degli elementi, comparata con la fluidità delle bande. Il tutto dovrebbe informare, esteticamente, sulla comune matrice di reticolo bidimensionale43».
0358 – Curve binarie, 1971
1971 trovano finalmente esecuzione le proposizioni teoriche di una nuova dimensionalità non più basata sulla scientificità fredda del sistema cartesiano. La seconda è realizzata su tela su legno sagomato e si discosta dal muro creando un effetto volumetrico e di ombra. La scoperta della possibilità di modulare e modificare il reticolo di base in curvature (bande) apre enormi possibilità: «…il problema intellettuale (pre-estetico) è ancora quello di elaborare una superficie in binario. (…) ho cercato, attraverso la evidenziazione particolare di un ‘momento’ della banda binaria, di trovare la superficie
42. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 5 gennaio 1970. 43. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 22 gennaio 1970.
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elaborata. Cioè, dato un certo modo di ‘tagliarsi’ della banda, quale e quanta superficie risulta (se) elaborata. Vi è un po’ il tentativo, inconfessato fino a ora, di ar-
La logica binaria, a volte quasi al limite del banale nella sua semplicità strutturale originaria e nella sua applicabilità al processo artistico, si amplia in infinite possibilità; in questi anni l’artista si rende conto che ciò che sta studiando e applicando permette continuamente nuove aperture dimensionali, possibilità combinatorie, declinazioni e variazioni che lo entusiasmano. Altre volte tale ampiezza della ricerca lo demoralizza poiché il compito esplorativo gli pare arduo e al di sopra delle proprie forze. Lo stesso lavoro con le sue continue scoperte e improvvise soluzioni e anche la vita, con la presenza della moglie amatissima Gigliola e dei due figli Sandra e Carlo e l’amicizia di alcuni artisti e intellettuali che credono in lui e lo sostengono, forniscono quotidianamente l’energia necessaria a trovare la forza e le ragioni di una perseveranza nel cammino intrapreso davvero esemplare.
zerounozerozero – La ricerca fotografica Il clic è così emozionante! E non si deve mica fare i ritratti ai bambini. Quella è un’altra cosa e riguarda il progetto di una grande famiglia. Una foto che si scatta ad obiettivo aperto mentre si sta pedalando o dal finestrino del treno. Il sole oggi è così caldo! Il ritratto dell’omino con il basco e la sigaretta rifotografato, rifotografato, rifotografato…uno, due, quattro, otto, sedici, trentadue… vedi che ritorna anche qui il binario! Anche quando non vuoi è lì il tuo chiodo fisso, come dicono gli amici. Tu ami la fotografia e il ragazzo lo sa. 3009/RF, 1973-74
La ricerca fotografica costituisce un corpus particolare e interessantissimo dell’opera di Gianfranco Chiavacci al quale, data la vastità, si può qui solo accennare prendendo in considerazione alcuni aspetti che aiutano a capire il perché di alcune sue scelte in pittura. La sua sperimentazione con il mezzo fotografico, realizzata negli anni Settanta, esula da quella binaria e segue in parallelo la produzione artistica aprendo spiragli inediti. L’artista se ne occupa perché è interessato alla questione dell’immagine e vuole andare a fondo sulle problematiche sollevate da un medium che in quegli anni gode di un rinnovato interesse nel campo dell’arte. Egli elimina, e non potrebbe essere altrimenti, il valore iconico del risultato: utilizza la macchina come un meccanismo che può permettere un nuovo pensiero processuale nei riguardi del reale e non per suggerire un nuovo modo di vedere o di riprodurre la realtà. La casualità dello scatto, la matericità della pellicola e i processi fisici dello sviluppo e della stampa, l’impersonalità disincantata, forse possibile, e soprattutto la ripetitività del gesto e dell’immagine sono i cardini di questa ricerca. Il suo pensiero è reso pubblico nel 1977 con il testo Fare fotografia. L’opera fotografica viene presentata in diverse occasioni private, semiprivate e pubbliche come nella serata intitolata “Gianfranco Chiavacci, Diapositive movimento-colore” nel maggio 1975 presso la Galleria Vannucci di Pistoia, durante la quale lo stesso Fernando Melani interviene per la presentazione44 delle opere realizzate tutte in diapo-
sitiva. Con il testo, reso pubblico tramite l’invio a un folto numero di amici, egli ribadisce che la fotografia per lui è: «Un percorso per ritrovare l’artificiale, creazione ed espansione dell’esperienza fisica45».
Un percorso anomalo che permette la verifica di un metodo, differente da quello binario, dove l’improvvisazione assume nuove caratteristiche. La fotografia come meccanica di scatto, di sviluppo e di stampa necessita di un grande rigore se si vuole giungere a risultati apprezzabili; tutto deve quindi essere ben strutturato e anche l’incidente, l’inciampo procedurale, la casualità di un’immagine devono essere previsti e circoscritti all’interno di un percorso metodologico. La fotografia per lui è soprattutto una nuova disciplina che permette alle sue indagini di impostazione scientifica di giungere a sperimentazioni che intacchino la parte mentale del processo favorendo delle aperture del pensiero nell’ambito dell’immagine. È indubbio che il suo atteggiamento, anche in questo caso, sia soprattutto di tipo artistico perché in questo nulla cambia rispetto alla sua ricerca pittorica. Se in quella è la logica binaria che struttura il tutto e ne determina la possibile evoluzione e mutazione, nel campo fotografico è la logica del medium che sovrintende all’approccio e agli altrettanti infiniti processi evolutivi dell’immagine. La sperimentazione fotografica posta su di un piano differente dalla ricerca in campo binario permette una verifica veloce e consente di elaborare in poco tempo una serie di opere che facilmente possano definire i risultati.
44. Fernando Melani, Sintetismi attorno a Gianfranco Chiavacci, documenti relativi alla serata Gianfranco Chiavacci, Diapositive movimento-colore, presso la Galleria Vannucci di Pistoia, 1975. 45. Gianfranco Chiavacci, Fare fotografia, dattiloscritto, 1977.
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L’analisi del testo, nel cui titolo è basilare il termine ‘fare’, rivela che il suo desiderio in realtà va oltre la fisicità e l’oggettività del mezzo e gli permette di reintrodurre alcuni elementi che credeva non più interessanti o quantomeno non così centrali nella ricerca binaria della pittura: la distorsione, l’indefinito e quindi la sfocatura, la ripetizione meccanica del gesto, la perdita momentanea di coscienza a favore di un lasciar fare alla macchina. E il processo gli mette in luce (è proprio il caso di dirlo) fattori dell’immagine che possono essere riportati nella sua ricerca pittorica. «Forse, la prima volta per l’occhio, una possibilità di visione intenzionale di zone e fenomeni evanescenti perché ai bordi46».
La questione del bordo fin dal periodo più informale era rimasta un po’ sospesa, anche se ripresa nelle volumetrie binarie e in alcune bande o curve binarie; nella pittura genera strutture frastagliate e aperte nello spazio della parete. Anche la questione della luce diviene centrale:
0528-SF – La scalinata, 1981 0527-SF - Il muro, 1981
46. Ibidem. 47. Ibidem. 48. Gianfranco Chiavacci, Fare fotografia, dattiloscritto, 1977.
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«Lavorare sulla fotografia, sul processo fotografico, significa essenzialmente mettere in evidenza la quantificazione della luce. Ogni evento, fenomeno, viene letto e registrato soltanto nella sua dimensione luminosa. Accumulo di luce che si quantizza verso il bianco, nel tempo. Eventi brevi in durata e a forte intensità luminosa o eventi prolungati a bassa luminosità, in fotografia si equivalgono sotto il profilo della quantità di luce accumulabile. Operando su questi elementi è possibile tradurre un evento dinamico nella sommatoria di luce che esso riflette nel tempo47».
La questione della quantità rivestirà particolare interesse anche per la ricerca sul colore. Il tempo rispetto alla dinamicità dell’immagine era gia stato oggetto di riflessione nel periodo optical e pare invece rinnovarsi nella fotografia con ricadute immediate nella ricerca pittorica all’interno di una speculazione sullo spazio inteso come totalità fenomenica. «Nascono in fotografia le fissazioni dei movimenti, rotatori, oscillatori, periodici o meno. Si profila la fo-
tografia come registrazione statica di eventi dinamici, unico supporto che diventa memoria, memoria statica, spessore luminoso, traduzione analogica di un processo altrimenti sfuggente. Sullo stesso filone esperienze di accumulo più discrete, controllate. Sovrapposizioni successive dello stesso colore, o di colori diversi, leggermente traslate - fisicamente, per una migliore lettura del processo di accumulazione - (vedere n volte la stessa banda colorata, ogni volta leggermente spostata, e vedere il risultato finale, globale, fisico dell’accumulo)48».
La dinamicità di una rotazione, la ripetibilità con filtri differenti della medesima inquadratura sul medesimo fotogramma, il cogliere il riverbero su di una superficie luminescente richiedono maestria e il superamento delle sperimentazioni delle avanguardie fotografiche del primo Novecento interessate alla stupefacenza iconica dell’immagine e spesso alla casualità del risultato. Negli appunti di lavoro che accompagnano la ricca produzione di opere raccolte in album e cartelle, si nota anche che la sperimentazione fotografica lo induce a considerazioni oltre che sulla ripetitività, sulla traslazione, sulla distorsione, anche sull’economia del lavoro e sul conseguente valore residuale degli elementi di scarto o di margine; l’artista conduce queste riflessioni all’interno dell’operare pittorico con quegli effetti deflagranti che spesso si augura di trovare nel lavoro. Le serie di immagini numerate e accompagnate dalla dizione RF (pag. 30 e pag. 128-132) del 1973 e 1974 sono interessanti esempi della sua ricerca in questo campo attraverso sia la stampa su carta o altro supporto che proiettate come diapositiva. L’immagine nel mostrare la sua finitezza illusoria si descrive. Ma mostra anche di non essere fine a se stessa dilatandosi nel tempo dell’osservazione che, dimentica del reale, diviene strutturazione interrogativa dello sguardo. Scatto dopo scatto l’artista si accorge che è proprio l’oltre-immagine che lo interessa e la meccanicità e la stoltezza del mezzo ne rendono possibile l’apparizione. L’immagine si replica e si moltiplica aprendo un baratro infinito di possibilità, tutte plausibili poiché i postulati le rendono tali.
La scoperta più interessante avviene durante l’osservazione microscopica del fenomeno: egli nota che fisicamente il negativo e la carta da stampa, tramite l’azione della luce e degli acidi, divengono superfici plastiche assimilabili a rilievi scultorei. Nasce quella che Gianfranco Chiavacci chiama la Scultura fotografica. I soggetti sono in molti casi parti del proprio corpo, come nella 0522/SF – La mano il braccio il muro (pag. 32) del 1982, la sua persona, collocata in elementi fotografici49 come nella 0528/SF – La scalinata (pag. 31) o in soluzioni al limite del tautologico, come nell’opera 0527/SF – Il muro del 1981 (pag. 31), o riprodotta a grandezza naturale nello spazio dello studio. Le fotografie, in questo caso in un bianco e nero che ripropone la dualità binaria,
vengono traslate nello spazio fino ad assumere volumetria, come nella serie 0523/SF, 0524/SF, 0525/ SF, 0526/SF e 0530/SF (pag. 133). In queste opere del 1982 egli interseca in modo analogico la ricerca fotografica con la binarietà fino a creare, come ultimo limite, candidi volumi, in gesso e segatura, che riportano solo la sagoma dell’immagine fotografica elaborata spazialmente, come se subissero un’impressione che genera un calco negativo, il vuoto, la mancanza di una presenza; esse segnano la fine di quest’esperienza che coincide non casualmente con la lettura del testo di Roland Barthes50. La fotografia continuerà a essere fedele compagna per la catalogazione e la documentazione delle opere.
0522-SF – La mano il braccio il muro, 1982
zerounozerouno – Il colore binario e la materia che diviene forma Ti piace la materia, accarezzare i colori, distendere le garze e posizionarle sul piano ad intersecare delle mappe che sono stratificazioni non di secoli ma di un’opera sull’altra. Riparti spesso da zero e la memoria è salda nelle mani e nell’occhio oramai sapienti nel trovare misura per tutto e ti spingi in territori che neanche sospettavi di poter raggiungere. Non ti perdi perché ti accorgi di essere nativo di quei luoghi e ti guida il profumo della terra.
Nel 1974 il rinnovo dello studio e la ricollocazione delle opere segna un altro momento di riflessione che investe il colore e la materia. Già da un paio di anni ha intrapreso la ricerca parallela nel campo della fotografia e lo studio e l’uso di questo medium infonde nuovo impeto all’attività pittorica. È lo stesso artista che ne scrive: «Ricomincio a lavorare nel nuovo studio. Questa rete... da anni con me. Il legno supporto... mi sono sempre interessati gli effetti di ombra. Ma ora voglio lavorare i materiali, unirli in modo informante. Agire sulla loro fisicità fenomenica. La rete è regolare (?) il fondo piano. Per ora è bianco, tutto. Penso al giallo, molto... è otticamente attivo51».
Il lavoro di Gianfranco Chiavacci sembra essere esente, in questa fase, da riflessioni che investono
aspetti filosofici del rapporto tra luce e ombra. La luce è fenomeno come lo è l’ombra, non il buio né la tenebra. Egli osserva ciò che avviene se la luce investe una determinata collocazione dei bit bianchi o colorati; non è interessato, e lo ha dimostrato anche nel periodo legato alle poetiche ottico-cinetiche, a speculare sulla luce ma solo ad accertare una possibilità di visione ottimale dell’opera poiché il suo interesse è strutturale e non visibilista. È interessato alla luce nell’affrontare la fotografia. In alcune opere dei primi Sessanta cerca volumetrie binarie con tele estroflesse nelle quali risente di una fascinazione della curvatura tridimensionale dello spazio vicina alle precedenti soluzioni di Enrico Castellani e di Agostino Bonalumi e anche in questo caso la questione è posta a livello di spostamenti binari della forma nello spazio, come
49. È interessante notare come questa attitudine, anche ironica, possa essere in parte confrontabile con l’uso della fotografia fatto pochi anni prima da un artista toscano suo amico, Renato Ranaldi, in opere nelle quali, all’interno delle composizioni pittoriche, sono inserite immagini fotografiche della propria persona. 50. Roland Barthes, La camera chiara, note sulla fotografia (1980), Einaudi, Torino, 1980. 51. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, febbraio 1974.
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dal mondo fisico. Semmai dal mondo fisico possiamo mutuare dei metodi, delle analogie. È indubbio che rosso e blu sono gli estremi delle bande visibili. Ecco, io ho tentato di usarli come contrappunti dominanti a certi settori dello spettro54».
Il suo interesse non è quello scientifico di Luigi Veronesi o di altri artisti che cercano una razionale corrispondenza tra colore e altre logiche. Egli vorrebbe risposte direttamente dalla binarietà come quelle fornite nel campo della spazialità e tenta una possibile teorizzazione della scala cromatica55.
0438, 1977
avviene nelle bande curve dei primi Settanta; la luce è fenomeno successivo ed esterno e se l’ombra fosse prevista essa dovrebbe essere posta all’interno della logica strutturale del quadro. Il colore nero e il colore bianco risentono poi, nell’ultima lunga fase della binarietà, quella più libera, di un alternarsi inevitabile in una nuova definizione della dualità binaria mai simbolica o altro: « …perché il colore, per me, è solo una marcatura; non gli ho mai attribuito, in fase operativa, valori espressivi, simbolici o altro52».
Comunque i colori, siano bianco, nero o altro, sono innanzitutto materia pittorica.
52. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 7 febbraio 2003. 53. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 15 aprile 1975. 54. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 21 aprile 1975. 55. Gianfranco Chiavacci, La binarietà e lo spazio bidimensionale. Analisi di una ricerca sperimentale in arte, Pistoia, dicembre 1980. 56. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 22 gennaio 1970.
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«Sempre lo stesso problema: esiste il colore binario? Ho pensato varie volte al colore inteso come filtraggio da nero a bianco. Ma è possibile? Esistono fattori fisici mutevoli in modo disordinato (illuminazione) che fanno decadere un discorso in tal senso. È possibile forse con la fotografia53».
A un momento interrogativo, presente fin nei primi testi, segue l’applicazione diretta nel lavoro di ciò che pensa e il lavoro stesso fornisce le questioni e le risposte cercate: «Sto lavorando sull’opera 0420. Forse il primo tentativo di affrontare la binarietà nel colore? Rosso … Blu come nelle stelle binarie, e poi il ribaltamento Blu … Rosso. Ma non si tratta di creare dei modelli mutuati
Nella ricerca delle curve binarie, e delle bande cromatiche che le definivano, la questione si era già posta all’attenzione come impossibilità di raggiungere una formalizzazione che fosse soddisfacente: «Resta, come sempre, il problema dei colori, che non riesco a ‘formalizzare’. Sono ancora colori a sfondo didattico, distintivo. Va da sé che il colore comporta poi una particolare ‘nutrizione’(?) dell’elaborato, che sfugge al mio controllo logico56».
L’artista non accantona di certo il problema ma momentaneamente rinuncia a una sua immediata soluzione per dedicarsi alacremente a un lavoro sul colore che sia combinatorio e strutturale in senso nuovo rispetto alle campiture precedenti. Il ritorno a una stesura e una composizione propria della fine degli anni Cinquanta, questa volta è supportato da una padronanza del campo d’azione e dalla maturità di saper operare con sicurezza in una struttura logica ben sperimentata. Nascono opere che segnano un momento di felicità creativa che continuerà a evolversi in continue elaborazioni per più di un decennio. L’opera 0438 (pag. 33) del gennaio 1977 è sostanzialmente un dittico nel quale il reticolo scompare al di sotto di tessiture dai colori forti che si impongono alla visione. Nei mesi successivi realizza gruppi di opere, tre o quattro relazionate, nelle quali esperisce le variazioni di un metodo ora più sciolto e libero nella sua composizione bidimensionale. L’opera 0440 1/2/3/4 (pag. 61) del febbraio 1977 è composta di quattro elementi di ridotta dimensione dei quali scrive:
«È poi assurda questa avventura? Ho ultimato l’opera 0440. La costellazione così formata non è percepibile se non rinunciando alla ‘cultura’. La definitoria concettuale, come tentativo di superare, nella astrazione biopsichica – culturale - alfabetica, il complesso delle realtà, artificiale, binaria (...), mostra la corda. È impossibile prendere possesso. A meno che ... il solito discorso: decifrazione totale e co-presente del codice in tutte le sue varianti operative qui mostrate. E dopo di ciò che cosa rimane? Che cosa c’è in più o in meno rispetto al momento - dopo dell’esistenziale lettura storica? Difficile alfabetizzarlo. Forse soltanto la rinuncia, il rifiuto sistematico, elevato a metodo percettivo. Troppo poco? Quant’altro invece nell’alternativa rifiutata? Molto meno, sostanzialmente; formalmente una combinatoria che rallegra se conferma57».
Il linguaggio usato è particolare e risente dell’entusiasmo per i risultati raggiunti che suscitano anche delusione e curiosità per essere altro dalle aspettative. In una serie seguente, la 0445 - A/B/C (pag. 34) del 1977, avviene un ulteriore mutamento che riguarda la rotazione dello spazio binario. L’ortogonalità ortodossa si dinamicizza a causa dell’inserimento della rotazione. Il nuovo fenomeno, che concerne la natura operativa dello spazio bidimensionale binario, si evidenzia nel fare e pur rimanendo ferma la struttura bidimensionale, gli stessi concetti di alto, di basso, di destra e di sinistra si relativizzano e alla bidimensionalità binaria canonica, si sovrappone un’altra nella quale le referenze di orientamento mutano angolazione. Il fenomeno di dinamicizzazione viene ripetuto in altre opere e persiste fino agli esiti più recenti. Queste soluzioni vengono in aiuto alla questione del colore, che diviene sempre di più parte integrante strutturale dell’opera, e permettono le forzature necessarie per saggiare i continui limiti del metodo; tali forzature, il sottoporre a continue sollecitazioni dimensionali e cromatiche sono la messa in prova della tenuta del processo operativo. Tale procedimento lui stesso lo vede di positiva utilità poiché come in campo scientifico sperimentale:
«…ogni nuova uscita è spesso propedeutica a una nuova entrata. Da quest’ultima possono fare capolino nuove problematiche di arricchimento58».
L’opera 0495 (pag. 64) del gennaio 1981 presenta uno spazio elaborato come in quattro campi quadrati la cui percezione reticolare si perde in una scomposizione delle forme che potrebbe evocare quella suprematista, se non fosse per la possibilità che l’opera ci offre di un ulteriore passaggio a una geometria complessa. Tale situazione viene contraddetta in un certo senso dal piccolo lavoro 0546 (pag. 66) dell’aprile 1983 nel quale avviene una vera e propria frattura con la tradizione operativa dell’artista. Essa presenta un’interruzione, una sospensione che viene attuata non nel momento programmatico ma in quello operativo. Il metodo quindi comincia a prevedere anche l’errore o per lo meno la sospensione, l’accennato ma non detto. Per l’artista è un momento importante perché significa interrompere una processualità dagli esiti che cominciano a essere scontati. La forte volontà di ottenere ancora un risultato che lo stesso artista definisce di natura culturale e che ha sicuramente a che fare con l’ambito estetico provoca la rottura rendendo reale una libertà che l’artista metterà in pratica con costanza solo qualche anno più tardi. In questi anni è infatti maggiormente interessato a esperire l’altro ambito che riguarda la materia e che lo impegnerà nella combinatoria che si instaura con la binarietà: «La binarietà è un dato di partenza sul quale tramite l’avvento della materia e del colore si può attuare un processo differente dalle possibili previsioni59».
0445- A / B / C, 1977
La conoscenza di fenomeni nuovi, collegata alle ricerche in ambito fotografico, lo induce a fare esperimenti con la pittura che in un primo momento pare mimetica della fotografia. È necessario rendere la granulosità del negativo impressionato e la materia interviene in aiuto dell’artista. Egli non ha mai avuto particolari problemi a inserire nella pittura elementi eterogenei e in questa fase individua la segatura, mi-
57. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 14 febbraio 1977. 58. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 8 marzo 1982. 59. Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia.
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plasticità binaria. Pittura-scultura... L’attenzione allo spessore, già quello della gelatina sensibile di un negativo fotografico, sta fruttificando. Trovare lo spessore, il sopra/sotto della spazialità binaria. Ho riflettuto oggi su un aspetto del mio lavoro, che, pur mutate le referenze, penso sia comune a tutti gli sperimentatori autentici: la binarietà è la sintassi con la quale ‘elaboro il mondo’. È un comportamento, una struttura profonda, la verità (culturale) singola che è in ciascuno di noi (uomini). La singolarità e l’unicità di ogni essere vivente (culturale?). È un’angolatura dalla quale ‘preferiamo’ osservare il mondo. Ne è punto di attacco, ciò che ritma sistole e diastole e le rende due momenti di un unico processo». [dopo venti giorni] «Ho terminato l’opera. Sono abbastanza soddisfatto. Ho raggiunto un grado di complessità dinamica. L’opera ha una certa aria di ‘classicità’. Equilibrio laborioso? Terminato questo devo finire la scultura binaria. Poi mi dedicherò alla fotografia61».
0512, 1982
60. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 24 marzo 1982. 61. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 5 gennaio 1984 e 25 gennaio 1984. 62. Gianfranco Chiavacci, L’evoluzione della binarietà / opere 1979 – 1993, dattiloscritto, 1993.
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schiata con collanti sintetici, quale materia privilegiata per ottenere una rugosità quasi aptica dello sguardo o effetti di differenziazioni reticolari e di campitura nei monocromi. L’opera 0512 (pag. 35) del marzo 1982 ha queste caratteristiche. In essa: «[…] fa la sua comparsa, su fondi monocromi, la matericità, grazie all’incontro della ricerca con un materiale inerte: la segatura. Viene avvertita immediatamente la congruenza di questo materiale (uniforme nella sua microdifformità, risultante da un processo di frantumazione, di dissoluzione della macrocorporeità, vera e propria grana, come la sabbia, ma prodotta in artificiale) con la binarietà, frantumazione controllata dello spazio bidimensionale. Va tuttavia precisato che l’uso di questo materiale inerte proviene dal lavoro e dalle ricerche eseguite a partire dal concetto di ‘scultura fotografica’60».
Le nuove texture sono presenti in successivi lavori come l’opera 0559 (pag. 68) del gennaio 1984, nella quale la spazialità, già presente nell’opera 0495, subisce modificazioni tridimensionali. «Lavoro sull’opera 0559. Primo elaborato, forse, con
Nello stesso anno 1984 realizza una grande opera, la 0574 (pag. 70), nella quale i movimenti plastici dei piani del supporto si combinano con delle variazioni di azzurro, steso in bande e matericità differenti, giungendo a un risultato dal grande potere cromatico-tensionale. La matericità diviene compagna di lavoro e da ora in poi non potrà essere scissa dal colore del materiale usato o della parte di opera che viene rielaborata e reintrodotta nella composizione. Questo è un fatto che viene suggerito dall’esecuzione di alcune opere attraverso le quali decide di reimpiegare i residui di altre non giunte a compimento. La differenza tra reperto e dato: «Reperto: il prodotto di una precedente lavorazione artistica, che non ha trovato una sua realizzazione finale e definitiva. Dato: ciò che proviene dall’esterno della ricerca, ma che in questa viene assunto ed elaborato62».
Egli si accorge che tali reperti hanno una qualità differente in quanto provenienti da elaborazioni precedenti e li chiama ‘materiali culturali’; essi hanno caratteristiche binarie poiché sono frutto di quella logica e il loro inserimento in una nuova situazione reticolare
provoca ancora una volta i ricercati sviluppi e aperture in soluzioni inedite. «Esiste una marginalità e quindi un oggetto come residuo? Con questi ultimi elaborati ho messo in atto il tentativo di affrontare una situazione lontana dallo stato di equilibrio (intendo qui stato di equilibrio quello integralmente previsto dalla logica binaria cioè programmatico) (‘causale’ in senso binario). È evidente, negli elaborati citati, che emergono Esiti nuovi (situazioni nuove è ovvio). Uno scarto, anche se minimo o parziale, che devia (proprio nel senso dell’albero binario) dal procedere lineare63».
La materia e questi residui vanno a turbare lo stato di equilibrio, lo mettono in crisi, ne verificano i limiti e l’opera d’ora in avanti non potrà più fare a meno di tale processo. Le garze idrofile sono un incontro inevitabile con una materia in un certo senso omologa al lavoro che possiede i reticoli strutturali: l’ordine meccanico e anche casuale del materiale si sovrappone all’ordine logico sottostante. Ne nasce una serie numerosa di opere che si combinano con conquiste e scoperte che avvengono nell’ambito cromatico e spaziale. Il dittico del 1991 formato dalle due 0835 (pag. 91) e 0836 (pag. 92) segna un interessante punto di arrivo nella ricerca cromatica e materica che la successiva 0833 (pag. 89) riporta a un livello spaziale più complesso. Nell’opera 0880 – Il vegetale (pag. 95) dell’ottobre 1990 la materia vegetale diviene quasi elemento soverchiante e conduce a successive intromissioni di oggetti, veri e propri ready made, all’interno della composizione secondo un ampliamento del concetto di ‘materiale culturale’. Come nella serie dei Cassetti di cui fanno parte la 0945 – Cassetto 2 (pag. 99) e la 0947 – Cassetto 4 (pag. 100) del 1994 o delle opere in cui vi è l’uso dello spago, di lunghezza rigorosamente binaria, impiegato fino al febbraio 2005. La produzione dagli anni Novanta tiene conto delle conquiste raggiunte e in due episodi specifici ritorna in primo piano la riflessione sulla materia e sul colore. Il primo episodio riguarda la serie di opere, numera-
te dal 0952 al 0960, riunite sotto il medesimo titolo di I cieli, le terre, gli elementi (pag. 101-104) datate gennaio 1995. L’opera è alquanto anomala: seppur essa parta da un’impostazione binaria il risultato è alquanto sconcertante poiché nove dischi dal diametro costante sono lavorati con materie e tecniche diverse. I tre in alto, I cieli, sono realizzati con la cenere, pigmento e pietre di tre differenti colori, i tre centrali, Estetica, La quotidianità e Il ritorno, del trittico Le terre, sono realizzati con terra senese, del proprio giardino e del bosco dell’infanzia e gli ultimi tre, La natura acquea, La natura vegetale, La natura minerale del trittico Gli elementi, sono di stoppa con pigmento. Nel periodo che segue la mostra Limiti a Perugia l’uso della materia e dei materiali gioca un ruolo determinante in opere che sono estremamente eterogenee. La forzatura del limite viene portata in questo ciclo di nove opere a un estremo che sarà eguagliato solo con le trenta piccole opere del Progetto Fenoma Umano nel dicembre 1996. Il sentimento e il pensiero che lega l’artista alla materia fornisce l’autorevolezza e il coraggio del gesto:
0936 - Scultura di terra,1994
«Ore 22, sto ultimando la terza Terra. Questa mattina sono stato a prelevare la terra nel bosco di Cireglio, bosco della mia infanzia e giovinezza, al quale sono legati molti ricordi. E ora, mentre sto stendendo questo impasto, pieno di grumi, di sassolini, di residui vegetali, foglie, rametti, mi è tornato alla mente un evento abbastanza significativo della mia infanzia, quando solo, nell’orto di casa, costruivo piccole casette in muratura, utilizzando sassi legati da un impasto di terra e acqua64».
È come se l’artista volesse riportare all’interno dell’opera la totalità della materia, la totalità del mondo nella sua fisicità che qui è rappresentata anche dall’intimità che lui ha con parte di essa. L’opera esposta la prima volta nella mostra Nello studio Opere recenti sconcertò alcuni visitatori e ne entusiasmò molti altri come Siliano Simoncini che nel suo bel testo65 parla in modo entusiasta di questo nuovo corso dell’opera dell’artista e sottolinea la nuova relazione empatica che si richiede all’osservatore. L’artista per anni ha
63. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 4 ottobre 1985. 64. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 30 gennaio 1995. 65. Siliano Simoncini, L’ altra faccia della luna (l’arte si fa come scienza), Pistoia, luglio 1995.
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condotto per mano con i suoi scritti l’osservatore spiegando le ragioni e le modalità di un fare; negli anni Novanta sembra che voglia aggiungere a questo la maggiore potenza evocativa della materia, del colore che, uniti alla forma, inducono a un’ulteriore mai esclusa via alla comprensione dell’opera. L’altra opera dove invece interviene una interessante ripresa e verifica delle possibilità combinatoria del colore è l’Opera all’azzurro (pag. 117) numerata da 1748 – La Matrice (pag. 118) alla 1768 (pag. 119-120). È un’opera importante che segue un intero anno, dal gennaio al dicembre 2002, e un ritorno all’arte dopo un periodo negativo della vita privata. Il lavoro lo induce a una nuova considerazione del colore e del metodo da applicare con nuove varianti nei quattro anni successivi fino alle ultime opere del periodo binario. Una matrice è posta in una sorta di armadietto e ne viene studiata una serie di venti possibili varianti. Il bianco, la mancanza, diviene il vuoto necessario, non più solo fisico, che deve essere colmato e ricondotto in un ossessivo gioco con la combinatoria e la sintassi di un solo colore, l’azzurro. L’artista spinge ancora una volta al massimo limite la ricerca cromatica, che continuerà anche negli anni
successivi, in una dimensione stavolta più impersonale e oggettiva. Un testo accompagna la presentazione del lavoro, che sarà esposto un anno dopo nel gennaio 2004 in occasione della mostra Sonde a Palazzo Fabroni a Pistoia: «Sinteticamente posso dire che la Matrice viene da me assunta come un punto di partenza suscettibile di varianti combinatorie non solo nell’ambito dei codici che contiene ma anche di codici aggiuntivi che sopravverranno nel corso delle elaborazioni come ulteriori varianti dei codici programmati66».
Il procedimento di realizzazione delle tele quadrate di ugual misura e il loro rapporto con i gradienti di variazione viene semplicemente svelato e l’artista, rendendosi conto che la spiegazione ricercata in tanti testi mostra la sua inutilità, si domanda alla fine del testo: «È cattiva prassi artistica disvelare, anche se in parte, l’Arcano? Molti artisti lo credono, ma io ritengo che l’intera opera vada ben oltre i suoi meccanismi, gli stimoli generativi, la sua storia insomma, e proietti la sua articolata complessità illuminando con essa, semmai, il vero Arcano costituito dalla produzione di Arte. Questo almeno è quello che accade a me, ma su ciò non voglio dilungarmi perché, citandomi, “il dire è il dire del dire”67».
zerounounouno – La dimensione in-finita Imparare a muoversi nello spazio come in una danza, misurando con il corpo, respirando e cantando. La voce salda e le forme seguono armonie che si intrufolano, ampliandosi, negli spiragli del caos, nelle pieghe dello spazio-tempo e ciò che ne viene fuori è qualcosa che ha sempre da dire, come se venisse da un lungo viaggio. E a tutti piace ascoltare il dire e scivolare nel rigore delle crome per poi dire di nuovo.
66. Gianfranco Chiavacci, Opera all’azzurro, dattiloscritto, dicembre 2003. 67. Ibidem.
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Il luogo di lavoro di un artista è spazio indicativo di un pensiero e di una sua applicazione nell’opera. Nella contemporaneità lo studio di Piet Mondrian e quello di Francio Bacon segnano le caratteristiche estreme di un luogo dove il pensiero si fa forma. Lo studio di
Gianfranco Chiavacci, che lui spesso chiama laboratorio, è particolare poiché indica ciò che né le opere né gli scritti possono. Purtroppo oggi esso è alquanto ridotto e modificato rispetto a quello mantenuto fino al 2004 e nel quale realizza due esposizioni personali.
Entrare nel suo studio di via Val di Brana negli a nni Ottanta e Novanta è una esperienza che induce a considerazioni specifiche sul versante della conquista di una nuova spazialità: la presenza delle opere, sui muri, sulle librerie, pendenti dal soffitto, aggettandosi e contrappuntandosi l’una con le altre, crea una densità cromatica, materica, decisamente spaziale di nuova generazione. Ne sono testimonianza le parole di Siliano Simoncini: «Io e con me, credo, tutti coloro che hanno visitato in maggio lo studio di Gianfranco, abbiamo vissuto un’esperienza esaltante.68». L’impatto non è quello della fucina del mago né di una colta wunderkammern ma di un luogo dove, pur nel sottile confine posto tra caos e armonia, è la ragione del tutto che sovrintende. La ragione di un essere presente in una determinata collocazione spazio-temporale. Il caos è mantenuto in una posizione potenziale, non solo energetica, dalla quale indica le possibilità, e al quale viene giustapposto un ordine controbilanciante. Negli scritti l’artista parla di bidimensionalità e di tridimensionalità giungendo a ipotizzare un ‘iperspazio binario virtuale’ che rimane come estrema proposta. Nella visita allo studio, nella complessiva visione delle opere, colte nei loro riverberi logici e rimandi, si comprende immediatamente come sia possibile quella densità e quella spaziosità che rende l’opera di Gianfranco Chiavacci inedita anche sul fronte della dimensione spazio temporale dell’arte contemporanea. La compresenza delle opere nello studio sollecita inoltre una riflessione sulla particolare caratteristica dimensionale del lavoro e questa non può seguire il corso cronologico, ma, ancora una volta, essere condotta lungo specifici percorsi che le stesse opere hanno marcato negli anni. Con le opere e gli scritti l’artista dimostra che la logica binaria si sposa a una questione dimensionale non nello spazio cartesiano, del resto insufficiente, ma in una concettualità che trova applicazione non semplicemente nei termini di verticalità e orizzontalità
e di destra e sinistra ma anche di davanti e dietro e di prima e dopo. Una idea archetipica che richiama l’essere dell’uomo nello spazio e il suo procedere in esso, nel tempo del vivere come momento in cui esperire il proprio rapporto intellettuale e fisico con il mondo. Egli non è interessato alla questione cinetica, già superata nei lavori datati al periodo optical, ma a una considerazione concettuale dello spazio della visione inteso in una sua totalità mentale, non solo visiva e fisica. L’artista non è esente da un richiamo formale e proporzionale alla classicità dovuto alla propria formazione e soprattutto al vivere in un territorio denso di preesistenze; quasi si potesse parlare di una oramai naturale genetica del vedere e del pensare lo spazio. L’opera di Burri e di altri artisti forniscono un valido esempio69 di questa attitudine alla forma proporzionale classica e andrebbe verificato se questo avviene anche nelle nuove generazioni oggi con modelli visivi non più solo desunti dalla storia dell’arte ma dall’esperienza quotidiana dei mezzi di comunicazione di massa e non. Gianfranco Chiavacci sovrappone a un equilibrio di matrice classica, presente fin dalle prime opere anche informali, una struttura dimensionale di rigore geometrico-scientifico, il reticolo binario, che porta alla proliferazione, traslazione e ripetizione combinatoria dell’impostazione spaziale dell’opera. Anni di costante lavoro, di lucida ossessione a determinare, misurare, calibrare le forme, l’uso di scale di gradienti e di progressioni combinatorie modificano l’impostazione della visione, la misura, il tempo e lo spazio conducendo a un superamento della proporzionalità classica. Tale nuova concezione si radica nell’artista in profondità tanto che è riscontrabile anche nelle opere che non seguono la logica binaria o sono realizzate recentemente dopo la conclusione di tale percorso. Questa nuova attitudine spaziosa si riscontra nei lavori degli anni Ottanta fin a quelli degli inizi del nuovo
0808 - Uovo/uomo dell’elettrocene, 1990
68. Siliano Simoncini, L’ altra faccia della luna (l’arte si fa come scienza), Pistoia, luglio 1995. 69. Bruno Corà, Burri: la misura dell’equilibrio, nel catalogo della mostra Burri 1949-1994 - La misura dell’equilibrio, Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversatolo (PR), Silvana editoriale, Milano, 2007.
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0378, 1971
70. Carla Accardi è tra le prime a introdurre materiali industriali trasparenti come supporto alla pittura utilizzando fin dai primi Sessanta il sicofoil. 71. Gianfranco Chiavacci, L’evoluzione della binarietà / opere 1979 – 1993, dattiloscritto, 1993.
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millennio: opere che seguono le necessità del colore, della materia, delle misure per protendersi nello spazio, per scendere dal soffitto, per giocare di trasparenze e per instaurare con l’osservatore un inedito rapporto visivo e finanche empatico. La necessità di spiegare, di far intendere il proprio cammino logico a poco a poco viene un po’ accantonata perché l’opera sembra privilegiare maggiormente il coinvolgimento spazio temporale tra le due polarità opera/ osservatore in un momento conoscitivo diretto. Nei lavori di questi anni c’è una libertà compositiva che non sembrerebbe più verificata con gradienti e misurazioni strettamente corrispondenti alla binarietà se gli appunti e le note di lavoro non ci fornissero precise descrizioni tecniche sulla metodologia elaborata. Nella complessità trova collocazione anche l’errore, lo scarto dimensionale, l’ironia e l’innamoramento per un colore abbinato a un altro; la personalità dell’artista e i suoi umori fisici e intellettuali sembrano determinare una mutazione e un superamento della rigidità strutturale dell’opera e conseguentemente il suo rapporto spaziale. Il passaggio che viene effettuato da una binarietà hard, più legata ad una ortodossia teorica, a una soft, con la comparsa di una prassi nuova e più contaminata da elementi esterni, conduce a risultati che rimarcano sempre di più la nuova idea di superamento dello spazio classico proporzionale e chiuso in una tradizione anche astratta.
tridimensionalità o prospettiva sebbene si prevedano possibili elaborazioni dello spazio bidimensionale in soluzioni definite ‘articolatorie’. Nel successivo testo del 1993, L’evoluzione della binarietà / opere 1979 – 1993, viene precisato che la prospettiva può essere elemento insito della speculazione binaria; lo scritto ripercorre cronologicamente le opere di circa un decennio e i vari aspetti affrontati in esse con un andamento chiaro ma, riflesso del suo operare, non strettamente lineare e consequenziale. Già nel 1971 realizza una serie di opere, come la 0378 (pag. 39) nelle quali la presenza di plexiglass crea interessanti soluzioni vicine alle ricerche di altri artisti70 interessati a materiali industriali; la soluzione pare non soddisfacente e dopo una serie di piccole opere tralascia questo supporto. L’opera 0462 (pag. 62) del dicembre 1979 invece è l’inizio di una nuova apertura della ricerca verso la definizione di una spazialità complessa, verso una condizione di prospettiva binaria supportata negli stessi anni dalla speculazione sul colore. La via appare ancora troppo legata alla questione percettiva e l’artista non pare convinto della soluzione di elementi posti in una visione di sguincio che mima la condizione della prospettiva tradizionale.
Il percorso verso la conquista di una spaziosità e di una possibilità di libera azione in essa è lungo e complesso. La tridimensionalità materica si affianca a campiture pure e monocrome e opere quasi scultoree sono contemporanee a una pittura che nega ogni prospettiva: questo percorso avviene con salti, progressioni, riprese, approfondimenti, ripensamenti e verifiche che l’entusiasmo per la ricerca, l’incontro con la poliedrica realtà dell’opera e la sua indole rendono continuamente necessari. Il testo del 1980 introduce la questione della bidimensionalità ma non vengono ancora usati termini come
Meglio la rotazione esemplificata nel trittico 0445 /A/ B/C (pag. 34) del settembre 1977 nel quale pur rimanendo inalterata la questione bidimensionale vi è una relativizzazione degli orientamenti che mutano angolazione. L’artista in questo caso è soddisfatto del passaggio da una binarietà ortodossa a una binarietà relativa in campo spaziale e nella stessa seconda metà dei Settanta l’opera si arricchisce con sovrapposizioni cromatiche e materiche abbandonando le due dimensioni del supporto e proiettandosi verso lo spazio esterno. Le precedenti ricerche volumetriche degli anni Sessanta, in cui la tela appariva estroflessa da supporti
«Prospettiva binaria che non ha un centro ottico, ma che è soltanto la messa in atto di una frontalità modulata. È il comportamento che decide il risultato71».
posti sul telaio, divengono negli anni Ottanta modulazione del telaio stesso come nella 0504 (pag. 40) del maggio 1981 o elementi cromatici, i bit, posti sulla tela come nell’opera 0549 (pag. 67) del giugno 1983. La via è aperta a prove che coinvolgono lo spazio antistante o che investono totalmente l’ambiente come nell’opera 0578 (pag. 71) del 1984, collocabile sul muro secondo differenti orientamenti, o nella più libera 0721 (pag. 77) del 1987. La struttura bidimensionale non è infranta ma è modificata nel superamento del concetto di bidimensionalità rigida già messa in crisi fin dalle opere realizzate nei primi anni con i fili di nylon. I piani sono posti in libere coniugazioni corrispondenti a uno stato nuovo di equilibrio. L’evoluzione della bidimensionalità binaria è conseguente a una nuova condizione dell’opera, maggiormente legata alla prassi del fare: «…accettazione di uno spazio da elaborare in termini binari così com’è dato, casualmente, nel rispetto della sua datità e senza preliminari preoccupazioni circa la possibile progettabilità binaria. (…) ...ho attuato il tentativo di affrontare situazioni ‘lontane dallo stato di equilibrio’ (intendo qui ‘stato di equilibrio’ quello integralmente previsto dalla logica binaria, cioè programmatico-causale in senso binario)72».
L’artista pone la questione a un differente livello rispetto alle condizioni logiche iniziali sfruttando fino in fondo la possibilità mutante di queste e realizzando una nuova situazione ‘generante’, come la definisce, di una pittura tridimensionale nello spazio realizzata per piani, come nell’opera distrutta 0486 – Quattro ipercellule binarie (pag. 41) del 1980, con elementi che si modulano liberamente nell’ambiente mantenendo una base a terra, come nella serie degli anni 19841986 (pag. 69 e 73) poi ripresa nel 1993. Punti fermi nella ricerca spaziale si trovano anche in precedenti elaborazioni dello spazio pluridimensionale dell’opera: nel febbraio del 1982 realizza una piccola opera a muro, la 0510 (pag. 65), che è formata da due piani ortogonali e da un cubo elabo-
rato cromaticamente. Esso non appare frutto di una scansione di piani ma di considerazioni sul problema della volumetria con una logica che conduce a definizioni tridimensionali (cubo) e bidimensionali (pittura). Altri riscontri si trovano in opere successive, verifiche di aperture a una pittura che si avvicina alla scultura. Le riflessioni sullo spazio, sul vuoto, sul margine, sul limite che la logica pone, determinano opere che sono il risultato di libere articolazioni e volumetrie; le progressioni di un medesimo algoritmo logico e visivo e la possibile deformazione rendono possibili traslazioni reticolari, perdite del centro ottico e del baricentro fisico, mai di quello logico. In opere come la 0883 (pag. 96) o nella 0891 (pag. 97), entrambe del 1982, o in elaborazioni successive più complesse, come l’opera gli I cieli, le terre, gli elementi (pag. 101-104) del 1995, la forma giunge a contemplare lo spazio curvo fino a richiamare l’idea leibnizziana di piega. Nelle opere 0537 (pag. 41) del 1982, 0707 (pag. 76) del 1987, 0724 (pag. 78) anch’essa del 1987 e anche 0766 (pag. 80) del 1988 viene introdotto
0504,1981
72. Gianfranco Chiavacci, L’evoluzione della binarietà / opere 1979 – 1993, dattiloscritto, 1993.
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zione del linguaggio binario come prevedibile integrazione di ciascun elaborato-momento con quelli che lo precedono e quelli che lo seguiranno. C’è inoltre un altro dato che emerge: il pieno e il vuoto come momenti binari positivi. Il residuo o la ‘traccia’ di un prelievo, come strutture che rientrano in modo pertinente nella logica binaria. Nello stesso tempo la struttura prelevata e reinserita diventa stratificazione (già scultura?) e forma spazio tridimensionale nella sua bidimensionalità operativa74».
Le opere iniziano a presentare residui di altre opere che si sovrappongono alla struttura generando soluzioni interessanti e stimolanti per la possibilità di elaborazione. Le opere 0834 (pag. 90) e 0844 (pag. 93) del 1991 sono tra i risultati più felici di questa attitudine alla forma aperta e non più controllata da un rispetto della forma rettangolare del contorno. Nel 1993 approfondisce ulteriormente:
lo spazio vuoto che già nei primi Sessanta era stato accennato nella riflessione effettuata sui concetti di mancanza e di presenza / assenza:
0486 – Quattro ipercellule binarie, 1980 0537, 1982
«Il piano reticolare: spazio dal/nel reticolo. Bidimensionalità come piani reticolari stratificati. Il resto è volume, cubo. Cubo binario. Lo spazio è sezionato in piani. Cosa avviene se lo spazio viene elaborato ‘totalmente’? Qui abbiamo, a rigore, una lettura a ‘salti’, che passa da un livello (piano) a un altro ‘per assenza’. Con l’elaborazione totale dovremmo avere un salto ‘per presenza’. E il senso di scorrimento? Qui avviene piano per piano, e sempre in Orizzontale/Verticale. Nel caso di elaborazione ‘totale’ avremmo anche un davanti/dietro. Approfondire (È il caso di dirlo!)73».
Nel 1981 approfondisce: 73. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, gennaio 1967. 74. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 14 maggio 1981. 75. Gianfranco Chiavacci, L’evoluzione della binarietà / opere 1979 – 1993, dattiloscritto, 1993.
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«Il tentativo rientra in una visione dinamica dell’operazione binaria, che tende a creare un rapporto più integrato tra i vari elaborati. Tale maggior integrazione fisica dovrebbe condurre anche il fruente a considerare il procedimento binario come articolazione ‘insoluta’, come momento preponderatamente articolatorio del fare arte. È un ulteriore passo, esplicito, nella articola-
«Ciò che prima veniva considerato come ‘vuoto’, cioè un ‘non elaborato’, adesso diventa struttura articolata e quindi positivamente significativa75».
Il vuoto diviene quindi elemento compositivo che assieme all’introduzione della matericità, e a una nuova coscienza del colore, comporta una frammentazione, meglio una frantumazione, dello spazio bidimensionale, si organizza nel e intorno allo spazio della rappresentazione come nella serie di opere dal carattere fortemente geometrico ma libere nella collocazione nello spazio (pag. 84). Il vuoto non più come forma e non più come spazio inelaborato ma come spazio (vuoto) operativo. Il segno, il colore e la materia nella loro nuova libertà compositiva, pur all’interno di una dimensionalità binaria più complessa, sono soggetti a una sintesi che si attua tramite un forte ritorno alla geometrizzazione. Le linee curve sono tralasciate e le tensioni della linea retta si affiancano alla marcatura di piani nei quali la rotazione permette alle forme di ottenere discreti slittamenti e deformazioni come nella piccola opera 0672 – Triangolo binario (pag. 75) del novembre 1986, a struttura triangolare, posta libera nello spa-
zio che sintetizza una posizione personale relativa a simili proposizioni avute nella storia dell’arte precedente. Altre opere nel corso degli anni sono composte di elementi collocati nello spazio alla maniera di quel primo appendiabiti di Duchamp ma soprattutto delle successive sculture mobili di Alexander Calder. Di quest’esperienza storica precedente esse recuperano una necessaria deviazione anche verso l’ironico e il ludico oltre la volontà di verifica del rapporto con la gravità e la possibilità di uno sguardo non più orizzontale. Le opere 0485 – Sei ipercellule binarie (pag. 63) del giugno 1980, 0781 (pag. 85) dell’aprile 1989, fino alla più recente 1742 (pag. 116) del luglio 2001, presentano il definitivo distacco dal muro e la collocazione nella densità spaziale resa più esplicita in occasione della loro primitiva collocazione nello studio. In altre opere la pittura è invece resa plasticamente nello spazio fino a raggiungere la dimensionane umana. È il caso dell’opera 0604 (pag. 42) e ancor di più di 0561 (pag. 69) del 1984, di 0646 (pag. 73) del 1986, di 0848 – Scultura di carta (pag. 94) e di 0908- Cuore binario (pag. 42) del 1993. In esse viene verificato l’impatto visivo, quasi uno a uno, con l’osservatore che relaziona, misurandolo, lo spazio della pittura con il proprio corpo. L’uso di questa scala, seppur interessante, rimane un fatto circoscritto a questi momenti e ad alcuni episodi della scultura fotografica dove l’ironica riproduzione della propria figura è a grandezza naturale; l’artista sembra preferire un controllo dell’opera più ravvicinato e l’uso di dimensioni più ridotte. L’opera 0780 - Silesia (pag. 84) del marzo 1989, risulta una presa d’atto delle potenzialità fornite dalle opere dell’anno precedente, in particolare di 0758 - I quattro ingressi del Bardo (pag. 79) di gennaio, di 0768 (pag. 81) di novembre e di 0776 (pag. 83) di dicembre 1988. In quest’opera gli elementi non posseggono più un’unità compositiva univoca e i quattro elementi perimetrali secondo le direzioni alto, basso,
destra e sinistra possono trovare collocazione anche a discreta distanza dal centro. Il ricordo di un possibile telaio si definisce ironicamente in uno spazio sghembo e i vari elementi si combinano con cromatismi apparentemente saltellanti e non più riconducibili a una griglia cromatica strettamente osservante dell’ortodossia binaria. La 0780 - Silesia segna un momento estremo della produzione di Gianfranco Chiavacci che, accanto all’accettazione del dato spazioso che l’opera stessa pretende e comanda, inizia lentamente a proporre una rinnovata presenza del reticolo binario, in questi anni posto in una condizione meno evidente. L’artista sente la necessità di ritornare alla struttura fondante, dopo e durante l’esplorazione dei suoi limiti: pur interessato a spazi periferici lontani da quello stato di equilibrio e al concetto di vuoto, sente la necessità di ritrovare un rigore compositivo legato maggiormente alla prassi binaria. In precedenti opere il reticolo e lo spazio appaiono congiunti indissolubilmente all’andamento operativo della materia e del colore come nell’opera 0626 (pag. 43) del novembre 1985, trasposizione semplificata delle conquiste verificate nelle contemporanee pitture con un’esplicita, e ironica, raffigurazione di una simil-finestra nella quale il dentro e il fuori si relativizzano. La struttura filiforme è una rivisitazione delle reti in un’articolazione non cartesiana, con una rigorosa misurazione dei punti di intersezione e della lunghezza dei fili: la maglia libera da una scansione rigida si presenta non più ferma e tesa ma molle, come se la deformazione rendesse esplicite le differenti tensioni e prese di possesso dello spazio, regolate da nuove progressioni binarie. Il rapporto tra trama e ordito si confonde, sarà recuperato con le garze, e il reticolo cromatico è lavorato in sinapsi complesse; in opere, come la 0639 (pag. 72) di due mesi successiva, o la 0671 (pag. 74) dell’ottobre del 1986, i piani bidimensionali scompaiono. La nuova interpretazione di reticolo binario, elaborata in misurazioni di fili e spaghi fino al 2005,
0604, 1985 0908 - Cuore binario, 1993
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0626, 1985 0743 - Albero binario rosso, 1987
è successiva alla presentazione sulla pubblicistica di massa delle definizioni della Teoria delle stringhe76 e forse frutto di discussioni con l’amico Fernando Melani precedenti alla sua improvvisa scomparsa nel 1985. Le piccole 0743 - Albero binario rosso (pag. 43) del 1987 e 0808 - Uovo/uomo dell’elettrocene (pag. 38) del 1990 sono esempi di una grande serie di opere nelle quali viene sperimentata, in uno spazio articolato e con possibili distorsioni, la nuova struttura compositiva. In 0772 (pag. 82) del 1988 i fili si distendono liberamente secondo le leggi di gravità e in 0833 (pag. 89) del giugno 1991 l’opera trova collocazione nello spazio con una sua visibilità sia anteriore che posteriore. Le opere di questo tipo, poste direttamente nell’ambiente non sono numerose. L’artista in questi anni preferisce esperire la dimensione tridimensionale della pittura in piccole opere che travalicano l’idea di bozzetto poiché come spesso afferma lui stesso, esse sono opere finite che possono essere realizzate anche in scala maggiore. La piccola dimensione permette una verifica con tempi accorciati pur con una atten-
zione massima ai particolari che un bozzetto necessariamente non prevede. Così nascono nel 1994 opere come la 0913 (pag. 44), o la 0933 (pag. 98) o anche la 0936 - Scultura di terra (pag. 36) vera e propria quinta con una differente lavorazione materica secondo i differenti punti di vista. Questa attitudine prosegue nel corso degli anni con riprese e approfondimenti. Ne sono prova anche le opere, come la 1812 (pag. 44) del gennaio 2004, nelle quali l’idea di filo deformato è ripreso alla luce di esperienze ove il reticolo da rigido e vincolante diviene elemento libero nello spazio. La riflessione sulla condizione dimensionale conduce anche alla realizzazione di grandi pitture nelle quali l’impatto visivo tra superficie dipinta e sguardo è di tipo più classico. Tutto è riportato all’interno dello spazio canonico della pittura come nelle grandi tele delle opere 0803 (pag. 86) del maggio 1990, 0831 (pag. 87) o 0832 - Grande tela blu (pag. 88) dell’anno seguente che rimangono esempi isolati di questa dimensione e segnano una condizione della pittura aperta verso sonorità cromatiche e ampie spazialità di solida tradizione.
zerounounozero – La conquista della libertà, il limite e oltre la fine Ogni tanto mi arriva un tuo libretto, foglietti sparsi, annotazioni puntuali, tassonomie letterarie, con il carattere Olivetti. Mi mettono sempre allegria. Avevi pensato che il tuo limite fosse l’azzurro del cielo e ne avevi saggiato le potenzialità. Conoscendo fin dove si può arrivare si è più forti e sicuri nel fare. Ma i limiti sono anche muri molto spessi e alla fine rimane l’azzurro nelle sue infinite declinazioni. Mai sei pessimista nel vedere avanti. La mancanza e forse l’errore tuttavia fanno parte del rischio combinatorio. 76. La teoria delle stringhe nella fisica ipotizza la materia, l’energia e in alcuni casi lo spazio e il tempo come la manifestazione di entità fisiche sottostanti, chiamate appunto stringhe o brane, secondo il numero di dimensioni in cui si sviluppano e vibrano. 77. Gianfranco Chiavacci, L’evoluzione della binarietà / opere 1979 – 1993, dattiloscritto, 1993.
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Nel testo del 1980 La binarietà e lo spazio bidimensionale e nell’apertura nel 1993 dello scritto L’evoluzione della binarietà / opere 1979 – 1993 l’artista afferma che il metodo binario permette una mutazione pur mantenendo saldi i principi basilari della ricerca: «L’abbondante decennio trascorso ha naturalmente
portato a nuove acquisizioni, operato mutazioni comportamentali, aperto nuove prospettive, ma ha lasciato inalterato il senso più profondo delle fondamenta programmatiche77».
Negli anni Novanta e nei primissimi del nuovo millennio le opere sono sempre più libere nell’uso dei
materiali, del colore e di una spazialità, come si è visto, particolari. Tre eventi espositivi, uno a Perugia e due nel proprio studio pistoiese, sono indicativi delle caratteristiche del lavoro di questi anni. Nel maggio 1994 viene invitato da Bruno Corà a realizzare una personale a Perugia nello spazio di Opera, un’associazione culturale animata, oltre che dallo stesso Corà, da docenti della locale accademia, da giovani artisti e da cultori dell’arte. Lo spazio è un locale composto di due piccole stanze con le finestre che affacciano direttamente sulla piazza dove campeggia la fontana di Nicola e Giovanni Pisano. In esso hanno esposto, con opere realizzate spesso appositamente, molti artisti e una caratteristica delle mostre è sempre il rapporto che essi liberamente instaurano all’interno con ciò che è posto nella piazza perugina. Anche la scelta del titolo Limiti, se ne discusse all’epoca, riguarda la poetica del lavoro e ben calza con l’osservazione che veniva fatta dell’opera degli scultori che sia a Pistoia che a Perugia operarono sul confine, sul limite delle forme dei pulpiti o delle fontane. Sulle pareti dello spazio Gianfranco Chiavacci colloca una quindicina di opere multiformi: esse riguardano studi sul colore, reti, elementi polimaterici, strutture mobili nello spazio; li accompagna un piccolo foglio con un disegno e un breve testo. Un breve video documenta la mostra e l’artista che ruota un quadro, l’opera 0821 (pag. 45) del 1990, realizzato con reti e incernierato alla parete in prossimità della finestra. Attraverso l’opera e la finestra sono visibili la fontana e la piazza mentre si ode il suono dell’acqua. Nella seguente conversazione realizzata all’interno dell’Accademia di Belle Arti con Corà e con il sottoscritto l’artista spiega78 che il concetto di limite gli deriva dalla lettura di testi scientifici della nuova fisica, da Ilya Prigogine a molti altri. Avvicinarsi sempre più al limite consente anche la verifica delle possibilità e della tenuta del metodo.
Un anno dopo, nel maggio 1995, l’artista ritorna sull’aspetto del limite nel testo di presentazione della mostra Nello studio, Opere recenti. Ancora una volta tenta una spiegazione dei meccanismi propri della processualità metodologica del suo lavoro, costante tentativo di condurre l’opera in una situazione sempre al limite delle possibilità creative permesse dalla binarietà. La mostra presenta una forte densità di lavori nello spazio ridotto dello studio. A differenza della personale perugina, dove lo spazio era rarefatto e strutturato su sintetici rimandi tra le opere e al luogo, a Pistoia tutto si mostra contemporaneamente: opere appese alle pareti, elementi che pendono dal soffitto, quadri accostati gli uni agli altri in un mosaico nel quale ogni tessera adduce a una spazialità, a esperienze e a tempi differenti. I cieli, le terre, gli elementi si rispecchiano nei taccuini di lavoro, le opere con reti in quelle con le garze e incredibilmente i rimandi tra le opere moltiplicano e ampliano, come in una camera di specchi, la portata del suo lavoro. Due anni dopo l’esperienza espositiva nel proprio studio viene ripetuta con la mostra Nello studio & Progetto Fenoma Umano. In essa vengono esposte le opere dell’ultimo biennio in una sistemazione simile alla mostra precedente e al centro, su di una piattaforma circolare rotante, l’opera 1003/1032 (pag. 108-110) del dicembre 1996, composta da trenta elementi, frutto di un progetto specifico. «Dopo la recente malattia ho ripreso il lavoro. Un po’ con fatica. Ho organizzato le pareti per la mostra “Progetto Fenoma Umano” PFU. In essa compariranno le opere seguite nell’anno 1996 e in questi primi mesi del 1997. Quasi una parete sarà dedicata ai piccoli lavori che poi hanno dato origine al PFU. Il PFU vero e proprio sarà in mostra su una piattaforma lentamente ruotante di 150-160 cm di diametro79».
Anche in questo caso un testo accompagna l’esposizione e in esso Gianfranco Chiavacci spiega l’uso della parola ‘fenoma’ contrapposta a ‘genoma’, usato nel Progetto Genoma Umano80 di quegli anni:
0913, 1994 0812, 2004
78. Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia. 79. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 26 aprile 1997. 80. Il Progetto Genoma Umano (HGP) è un progetto internazionale della durata di tredici anni, iniziato ufficialmente nell’ottobre del 1990 da Francis Collins per scoprire tutti i 30000 geni che compongono il DNA umano e renderli accessibili per ulteriori studi.
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«‘Fenoma’ è un neologismo costruito sul calco di ‘genoma’. Mentre quest’ultimo rinvia a una realtà biologica definita, ‘fenoma’ è un termine strumentale da me usato per sintetizzare il tentativo di definizione di una sequenza di personali comportamenti operativi da me attuati nel fare artistico. Allude semmai, per contaminazione con ‘genoma’, a una, del resto inipotetica, mappa comportamentale; ma allude soltanto81».
Il testo analizza la ‘mappa comportamentale’ che si rivela essere in questo caso composta nella sua combinazione realizzativa di trenta opere: «Ho terminato oggi la serie di trenta piccole opere che costituiscono il ciclo Progetto Fenoma Umano - PFU Materiale composito - composto in getto sequenziale. Quasi quarant’anni di lavoro che si sono stratificati e ora escono, disegnando questo itinerario polisemico nel tentativo, non poi così lucido, di ciclopedia autogenerativa82».
0821, 1990. Video realizzato alla mostra Limiti, Opera, Perugia,1994
81. Gianfranco Chiavacci, Nello studio & Progetto Fenoma Umano, Pistoia, 1997. 82. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 17 gennaio 1997. 83. Gianfranco Chiavacci, La tavolozza di Émile Zola desunta da Al Paradiso delle Signore (Au Bonheur des dames), 30 esemplari, Pistoia, 1997. 84. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, settembre 1996. 85. Gianfranco Chiavacci, testo in catalogo della mostra Occasioni e labirinti, Analisi e stile, Pistoia, 1990.
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Un lavoro quindi di rilettura globale delle proprie attitudini applicate al metodo binario anche per dimostrare la conquistata versatilità della binarietà. La libertà esecutiva è oramai enorme e l’artista si permette in questa occasione di allegare al testo, di carattere più scientifico, un’appendice, Valentino, l’Abisso, il Silenzio, la società digitale... e (perché no ?) l’arte, una sorta di storiella tra la parabola e le favole dei saggi orientali che sposta la riflessione su di un livello proprio di altre ricerche dell’artista, quei libretti semiseri che invia ad artisti, critici e amici pretendendo spesso un cenno di risposta. Nello stesso anno il travaso sarà inverso e un’indagine su di un romanzo di Émile Zola83 sarà una ferrea catalogazione dei colori e degli oggetti legati a essi presenti nel testo francese, come se la metodologia del Progetto Fenoma Umano si ribaltasse in questo. Le opere di questi anni risentono di una gioia creativa dovuta alla padronanza totale dello spazio pittorico e della conquistata libertà che la logica binaria spinta ai suoi limiti estremi può permettere. Le opere 0990 (pag. 105) di settembre 1996 e 0993 (pag. 106) di ottobre 1996 sono due reticoli, uno su fondo nero e
uno su fondo bianco, di dimensione quadrata. Il ritorno allo spazio quadrato sarà una costante di quasi tutti i lavori dell’ultimo decennio. L’artista definisce gli incroci cromatici della rete come ‘sinapsi colorate’. Nelle note di accompagnamento alle due opere ben spiega l’operazione estetica che sta conducendo: «Nella rete c’è programmazione, poesia e tensione. Programmazione unita alla casualità. La rete, quest’opera e altre simili, nelle quali i colori sono frammentati e diffusi: tendono a negare la forma sotto il profilo del condensamento dei colori che fanno forma e a dissolverla anzi, ritrovandola a diverso livello, nella dispersione, nel caos (ordinato!). Questo in generale. In particolare: si pone il problema di individuare il colore negli incroci, colore come concrezione, ripetutamente stratificato. E allora si adotta un programma (sempre si adotta un programma!). Questo consiste in passaggi successivi, ciascuno dei quali individualizza una determinata situazione in base a dei parametri di vicinanza di altri colori, della loro collocazione ortogonalmente intesa ecc. Il procedere è quello degli automi nucleari. (…) Se la base è una struttura linguistica potenziale, la sua degenerazione consiste nell’articolazione di eventi su e intorno a essa: il linguaggio come degenerazione della struttura. Se la base è una struttura linguistica potenziale (la rete) la sua degenerazione consiste nell’articolazione di eventi (non strutturali?) su e intorno a essa. Date certe premesse-regole il risultato, in quel momento, non può essere che quello.84».
La struttura binaria è presente ancora in opere come la 1124 - Fili tirati (pag. 107) del 1998 dove su di una tela di iuta dipinta con bianco e borotalco vengono tirati dei fili secondo un ordine semplicissimo ma travolgente nei risultati. La pittura diviene ancora una volta un accidente nella sua applicazione metodica sulla materia85 in questo caso tratta, come le garze di anni prima, direttamente dal reale. Similmente avviene nella 1460 (pag. 112) del dicembre 1998 dove la cellula binaria centrale si deve ricollocare in una sorta di equilibrio in una sospensione vibratile nello spazio cromatico-materico definito nella sua totalità senza interventi pittorici.
Le opere del 1998 e 1999 sono fortemente cromatiche e lo spazio, seppur regolato da un ferreo ordine gerarchico non immediatamente percepibile, sembra riprendere quello che nel 1960 denominava come Dispersione; in questi mesi i lavori dei Sessanta vengono ripresi dal magazzino e ricatalogati e forse forniscono stimolo all’artista per tornare su quei temi. I quadri, come l’opera 1138 del 1998 (pag. 111) e la 1569 del 1999 (pag. 46), sono cromaticamente saturi e il bianco, non più il fondo o il vuoto di altre volte, è uno dei sei colori che strutturano dimensionalmente la spazialità. Il ritorno a uno spazio in cui compare una forte presenza del rapporto verticale/orizzontale è presente anche in opere del 2000 e 2001, eseguite principalmente con la pittura a olio. L’artista, forse tormentato in quei mesi da una situazione privata dolorosa, vuole quasi rinunciare a quell’apertura verso anche il caso e l’irrazionale, conquistata negli anni precedenti, che la materia e la contaminazione del sistema avevano introdotto. Non rinuncia a essi ma li inserisce all’interno della probabilità combinatoria del processo operativo: la chiama ‘combinatoria positiva’ e il computer diviene ausilio fedele per elaborare complessi algoritmi che producono innumerevoli tabelle classificatorie da cui trarre le griglie cromatiche. «…forse queste opere diventano sempre meno decodificabili da parte degli esterni. Ma che senso può avere per me pensare a loro? Sono sempre più autoreferente, occultista, compiacentemente segreto. Dovrò, in avanti: pensare - progettare - eseguire – pensare - Marcare, no segnare86».
Le opere del marzo 2000 e quelle dei mesi seguenti sono molto strutturate secondo schemi visivi rigidi a maglia quadrata e sono frutto di elaborazioni stocastiche di migliaia di codici cromatici derivati dalla dimensione del supporto. I colori estratti trovano locazione secondo un programma stabilito e poi viene attuata una sorta di ‘erosione da virus’, come la definisce l’artista. La serie del 2000 di cui fanno parte le opere 1700 (pag. 47), 1702 (pag. 113) e 1711
(pag. 48), a esempio, è un’elaborazione ulteriore di una scala cromatica a nove colori con 810 elementi (somma delle scale di opere precedenti); la progettazione è serrata e sembra che continui l’autoreferenzialità sottolineata precedentemente. L’anno seguente le soluzioni sono più luminose con l’introduzioni di colorazioni più chiare, come nella 1735 (pag. 114) del maggio 2001, e comunque sembrano condurre sempre più in una strada compositiva senza uscita. Nel mese seguente nell’opera 1738 (pag. 115) la volontà di sfuggire dalla dimensione razionale lo induce a un ritorno alla pittura emo-
1569, 1999
86. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 13 marzo 2000 e 23 marzo 2000.
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1700, 2000
zionale nella quale, riprendendo a mano libera il reticolo di base, giunge a soluzioni tuttavia soddisfacenti sul piano estetico: «Sto tracciando il reticolo sulla tela. Prima considerazione: queste linee che formano il reticolo di base a gradiente 2 verranno tracciate a mano libera. Lì si eserciterà la pittura. È una pittura che ha uno spazio residuale ormai, esegue dei programmi, traccia se stessa. È l’estrema solitudine del pensare e del fare. In quest’opera non solo non si evidenziano elementi binari, ma nemmeno un reticolo binario, si evidenzia un reticolo di base, potenzialmente binario. Diventa questo sede dell’elaborazione87».
87. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 18maggio 2001. 88. Gianfranco Chiavacci, testo in catalogo della mostra Occasioni e labirinti, Analisi e stile, Pistoia, 1990.
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L’artista sembra avere sempre meno fiducia non nel pensiero binario ma nella sua ancora possibile applicazione nel campo dell’arte, come se si stesse esaurendo un’esperienza. Il punto zero di partenza sembra vicino e, nonostante gli esiti interessanti di molte opere, l’artista sente la presenza di un forte stato di crisi, dovuta anche a un doloroso fatto della vita privata, e presto interrompe il lavoro artistico per diversi mesi fino al gennaio 2002 nel quale inizia l’elaborazione dell’Opera all’azzurro (pag. 117) che lo occuperà per quasi un anno fino al dicembre successivo. Essa certamente sottolinea un accantonamento della libertà creativa conquistata in anni di convivenza stretta con la binarietà e un ritorno a una metodologia
più rigida, al calcolo combinatorio: la dimensione fisica della superficie sulla quale intervenire è costantemente il quadrato di misure sessanta per sessanta. Nell’anno seguente si nota un recupero, seppur con sostanziali modifiche, del reticolo dei primi anni, la progressione combinatoria delle soluzioni è ferrea e l’uso strumentale del computer permette di giungere alla compilazione dell’opera verso un’esattezza razionale che da anni era assente nel suo lavoro. L’elaborazione della crisi lo porta nuove soluzioni dove ritrova una momentanea fiducia nel fare binario, come nella 1774 - Cantata policromatica per 24 voci combinate (pag. 121) del febbraio 2003. Ma la fede nel bit, nel processo, nella logica binaria sembra ogni giorno venir meno e l’opera 1820 (pag. 122) dell’agosto 2004, finale di una sequenza di più lavori, segna la massima espansione del colore nero. Gli altri colori sono condotti al limite della tela, sul margine estremo come se nel centro non fosse più possibile alcuna rappresentazione e si possa accampare solo il nero, elemento che, anche non volendo, possiede comunque decisi rimandi simbolici. «Ai margini avviene la definizione88»
aveva scritto nel 1989 ed è proprio sul margine, sul limite della tela, sul confine estremo tra ciò che è (arte) e ciò che non lo è più, o ancora, che appare sempre più esile la rappresentazione, determinata dalla logica binaria; come se fosse necessario ritornare a una situazione di vero azzeramento o spingere al massimo, a una situazione di vera crisi, il sistema binario. Le opere sono meno frequenti e richiedono una lenta elaborazione anche nella loro semplicità monocroma, come la 1836 (pag. 123) del 2005, o materica, come la serie 1845-1847 (pag. 124, 125 e 126) dello stesso anno, con elaborazioni di lunghezze binarie dello spago. L’artista nei suoi appunti appare sempre meno fiducioso di un possibile recupero della struttura binaria e sempre più conscio che la creazione passa attraverso libertà nuove che proprio la conoscenza e il conseguente superamento della
binarietà permette. Non rivela mai la coscienza di una perdita o di una sconfitta, piuttosto vi è un’accettazione della conclusione di un ciclo naturale, organico della sperimentazione sulla binarietà. Il mondo, dopo più di quarantacinque anni dall’inizio della sua ricerca artistica, appare completamente ristrutturato secondo una logica binaria che è penetrata oramai in modo strutturale, e meno visibile, all’interno della vita e delle comunicazioni interumane. Tutto è ‘bittizzato’ e ora, si domanda l’artista, è forse il momento di abbandonare. Queste considerazioni lo rendono ironicamente attento ad altri aspetti del lavoro come se la conclusione della ricerca non lasciasse un vuoto
ma una nuova coscienza e una nuova tensione con le quali intraprendere nuove strade, riprenderne molte che si erano tralasciate, affacciarsi in nuovi ambiti del pensiero. Il 16 ottobre 2006 firma un’opera tra le più riuscite degli ultimi anni, quadripartita ed essenziale nella sua composizione. Il titolo è anch’esso quadruplo, 1890 - Il bit solitario. Il bit abbandonato. Solitudine del bit. La morte del bit (pag. 127) e nel diario di lavoro annota laconicamente: «Ho creduto per decenni all’opera che si fa razionalità. Ora credo che la razionalità non possa più farsi opera. È tutto in tale stato precario che nulla più si determina. Non so. Ora che tutto è bittizzato, in me muore89». 1711, 2000
unozerozerozero – Conclusione improbabile dell’epoca bit Tu spesso sospiri. Più volte mi hai chiesto se ero convinto di scrivere. Lo ero e come vedi lo sono e l’ho fatto fino alla fine. Ora so molto di più del tuo lavoro. E so che è un inizio.
Si è giunti allo unozerozerozero che sarebbe 1000 che poi sarebbe otto. Otto tappe per introdurre e avvicinarsi al pensiero e alle azioni che hanno generato le circa duemila opere di Gianfranco. Lui ha decretato la morte del bit ma il povero bit solitario delle primissime esplorazioni rivendica la non-fine dell’avventura. Gianfranco continua a produrre opere e afferma che non sono più binarie ma a ben vedere credo che in fondo non abbia ragione. Come affermato qualche capitolo fa non è più possibile per lui fare a meno della misurazione binaria, di vedere il mondo attraverso la lente binaria. Due occhi permettono la visione prospettica (o la fanno credere) e se per un periodo si copre, per scherzo e non per malanno, un occhio si continua a vedere in prospettiva (e quindi a credere di vedere in tal modo). Gianfranco Chiavacci non ha mai smesso gli occhiali binari, non ne può fare a meno e continua, pur non volendo, a ragionare e ad
agire in quel modo. Come pure, ci viene il sospetto, in tanti casi dove afferma che la binarietà non c’entra punto, dalla fotografia ai libri d’artista. L’osservatore, dopo aver frequentato le sue opere, forse comincia a mantenere quello sguardo per cui tutto ciò che guarda ora gli pare un po’ bittizzato e le cose in quel modo gli cominciano a garbare di più. Che sia una nuova malattia dello sguardo o la via intrapresa è oramai, per tutti noi osservatori, irreversibile come la digitalizzazione dell’universo? In foto di tanti anni fa si vedevano uomini e donne guardare verso lo schermo con gli occhialetti rossi e blu per vedere tridimensionale. Forse anche noi abbiamo oramai una sorta di occhialetti binari, tanto che anche il naso di Pinocchio nei suoi alterni allungamenti ci sembrerà pur sempre regolato da gradienti bugiardi. Fuorcivitas, tra le bande chiare e le scure nel sereno duemilasette
89. Gianfranco Chiavacci, Diario di lavoro, inedito, 16 ottobre 2006.
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opere
1204 – A/3, 1958
50
1573, 1960
51
1574 - Dispersione 1 / Gatti e binari, 1960
52
0031, 1964
53
0013, 1965
54
0041, 1965
55
0293 - Grande presenza azzurra, 1969
56
0294 - Grande presenza gialla, 1969
57
0297, 1969
58
0325, 1969
59
0353 – Curve binarie, 1970
60
0440 - 1/ 2 / 3 / 4, 1977
61
0462, 1979
62
0485 – Sei ipercellule binarie, 1980
63
0495, 1981
64
0510, 1982
65
0546, 1983
66
0549, 1983
67
0559, 1984
68
0561, 1984
69
0574,1984
70
0578, 1984
71
0639, 1986
72
0646, 1986
73
0671, 1986
74
0672 – Triangolo binario, 1986
75
0707, 1987
76
0721, 1987
77
0724, 1987
78
0758 - I quattro ingressi del Bardo, 1988
79
0766, 1988
80
0768, 1988
81
0772, 1988
82
0776, 1988
83
0780 - Silesia, 1989
84
0781, 1989
85
0803, 1990
86
0831, 1991
87
0832 – Grande tela blu, 1991
88
0833, 1991
89
0834, 1991
90
0835, 1991
91
0836, 1991
92
0844, 1991
93
0848 – Scultura di carta, 1990
94
0880 – Il vegetale, 1992
95
0883, 1992
96
0891, 1992
97
0933, 1994
98
0945 - Cassetto 2, 1994
99
0947 – Cassetto 4, 1994
100
0952- 0960 - I cieli, le terre, gli elementi, 1995
101
0953 - I cieli, le terre, gli elementi / I cieli / B, 1995
102
0959 - I cieli, le terre, gli elementi / Le terre / La quotidianitĂ , 1995
103
0955 - I cieli, le terre, gli elementi / Gli elementi / La natura vegetale, 1995
104
0990, 1996
105
0993, 1996
106
1124 - Fili tirati, 1998
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1003 / 1032 - Progetto Fenoma Umano, 1996 / 1997. Veduta d’insieme
108
1003 / 1032 - Progetto Fenoma Umano, 1996 / 1997. Particolari
109
1003 / 1032 - Progetto Fenoma Umano, 1996 / 1997. Particolari
110
1138, 1998
111
1460, 1998
112
1702, 2000
113
1735, 2001
114
1738, 2001
115
1749 – 1768 - Opera all’azzurro, 2002, installazione a Palazzo Fabroni, mostra Sonde, 2004
116
1748 - Opera all’azzurro / Matrice, 2002
117
1763 - Opera all’azzurro, 2002
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1767 - Opera all’azzurro, 2002
119
1742, 2001
120
1774 - Cantata policromatica per 24 voci combinate, 2003
121
1820, 2004
122
1836, 2005
123
1845 - Giallo, 2005
124
1846 - Bianco, 2005
125
1847 - Nero, 2005
126
1890 - Il bit, 2006
127
6010/RF, 6014/RF, 1973-74
128
4020/RF, 5001/RF, 1973-74
129
3018/RF, 6503/RF, 1973-74
130
5031/RF, 6001/RF, 1973-74
131
5021/RF, 5022/RF, 1973-74
132
0523/SF, 0524/SF, 0525/SF, 0526/SF, 0530/SF, 1982
133
Se dico, dico il dire; dire dico è dire più il dire del dire. Perciò diciamo dico, è come dire dire e il dire del dire.
auto nomia del linguaggio
Dire si dice. Il detto è detto, ma dire è dire, e dire è il dire del dire.
(declamare)
134
Dialogo per una biografia Annamaria Iacuzzi
Annamaria: Ogni biografia inizia con la nascita... Gianfranco: Io sono nato il 1° dicembre del 1936 a Cireglio, in montagna, e vi ho trascorso un’infanzia felicissima di cui ho ricordi meravigliosi: io da piccolo con il cappotto dinanzi a una neve altissima, settanta/ottanta centimetri. Il giorno di Befana avevo ricevuto delle caramelle al mandarino e, fuori, tra la neve spalata che mi sovrastava, io mi gustavo la luce bianca accecante e questo sapore che sentivo in affinità con quello che vedevo. Ricordi di una vita semplice e di una natura incontaminata, meravigliosa, senza macchine: non passava quasi mai nessuno, un camion forse ogni tanto, qualche carro. Mio padre, Attilio, faceva il sarto e aveva la sartoria al piano terreno dell’abitazione. Per me lui è stato molto educativo per le esperienze che aveva vissuto nella sua vita. Da militare, in artiglieria da campagna, era stato in Africa, in Eritrea, e aveva riportato oggetti che colpivano la mia curiosità. Come sottufficiale aveva dovuto fare degli studi di trigonometria ed era appassionato di astronomia. Mi portava spesso di sera lungo la via di Belriguardo, che va da Cireglio a un paese vicino, a osservare le costellazioni nel cielo di cui ho ancora il ricordo di un blu profondo. Da primo non riuscivo a capire le costellazioni, poi piano piano i collegamenti tra le stelle che formano le figure delle costellazioni mi apparvero chiari. Pagina precedente: Gianfranco Chiavacci nello studio, 1996. Il testo Ho detto dire è stato reso pubblico in forma dattiloscritta in occasione della mostra Nello studio Opere recenti presso il proprio studio di Pistoia nel maggio 1995.
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Due ricordi di ‘vastità’: quello del paesaggio bianco innevato e quello del blu profondo del cielo notturno. Sì due episodi che mi segnarono molto. E poi la vicenda... Quando da bambino la sera, verso le sei,
uscivano le lavoranti dalla sartoria, io andavo a vedere mio padre tagliare la stoffa per fare gli abiti. Non riuscivo a capire come da una figura piana che era costituita dalla stoffa attraverso quei segni che venivano tagliati con grosse forbici, si costituisse l’abito, cioè una cosa che ha volume... Io guardavo incuriosito. Mi ha sempre colpito come questa vicenda, pubblicata anche sul Bollettino del Centro di Documentazione [n. 1, 2006, n.d.r.], sia spesso riferita da te come un primo incontro con l’arte. Sì l’incontro con l’arte della sartoria! Mi ha probabilmente avvicinato all’idea della progettualità, della misura. Quando mio padre misurava i clienti, dalla base del collo alla vita, e poi le circonferenze che si trasformavano in forme bidimensionali e poi tridimensionali. C’è un filone nella tua produzione artistica che sfugge alla programmazione, alla regola della binarietà – diciamo più ‘affettivo-concettuale’ – che si riallaccia anche a ricordi autobiografici, alla famiglia: opere come l’Antenato nel cielo di maggio 1992; oppure La giacca, in cui hai lavorato sulla giacca che tuo padre ti aveva cucito per il giorno delle tue nozze, che in questa mostra non sono esposte, tanto è vasto il tuo lavoro! Sì affettivo-esistenziale, sono compagnie fisse che si portano dietro tutta la vita. Presenze ed esperienze che sfociano in materializzazioni creative, artistiche. Perché l’arte ha anche un aspetto comportamentale. Cioè quando si fa questo lavoro non si può non notare dei piccoli particolari anche nell’osservazione comune: bisogna assumere in sé certi comportamenti...
Questa attitudine a essere sempre aperti, ricettivi dinanzi al reale, al mondo, agli spunti che offre anche con errori, ti giunge dai tuoi interessi o è una sensibilità che hai sviluppato attraverso la sperimentazione artistica legata alla regola binaria che porti avanti dagli anni Sessanta? Non direi dalla binarietà. La binarietà è frutto di pura logica. Mi deriva dalle mie esperienze biografiche, dal mio atteggiamento di apertura. Bisogna sempre essere aperti, giorno e notte! Fino a quando sei rimasto a Cireglio? Ci sono rimasto fino al 1943-1944, ma con vari spostamenti in tempo di guerra. Ci dettero ventiquattro ore di tempo per lasciare la casa che fu fatta saltare in aria, perché il paese si trovava sulla linea gotica. Quindi andammo in Selvapiana, sulla strada che conduce alle Grazie dove rimanemmo qualche mese per poi di nuovo trovare rifugio verso Vinacciano. Nel 1944 con la liberazione ci trasferimmo in Porta al Borgo. Ti incammini a studi di avviamento commerciale e quindi all’Istituto tecnico diplomandoti in Ragioneria. Sì, al Pacini. Quindi la mia formazione scolastica è stata di tipo matematico; l’interesse tecnico-scientifico è frutto di mie curiosità. Mi è sempre piaciuto studiare. Nel 1956 appena diplomato fui chiamato in banca. D’altra parte fu una necessità oggettiva dato che mio padre era già vecchio e mia madre casalinga. Entrai alla Cassa di Risparmio il 1° settembre. Ma la tua attrazione verso l’arte a quando risale? Eri già diplomato o è precedente? Risale a quel momento magico, quando da ragazzi si vaga da soli per la città e si comincia a rendersi autonomi, a undici-dodici anni. Prima in modo distratto – io non la conoscevo Pistoia – quindi in qua e là. Poi rimasi attratto da quegli avelli della chiesa di San Paolo che erano dipinti anche se ormai deteriorati. Mi ricordo che c’era una maternità che adesso non c’è più, forse una pittura decorativa al più dell’Ottocento che facevano gli imbianchini-pittori, gente anche piut-
tosto brava. Questa maternità era stranissima, anche se oleografica. Forse il tema stesso della maternità con questo bambino che guardava, mi incuriosì. Lì cominciai a chiedermi “Ma cos’è questo rapporto con la figura?” Ecco io sentivo questo interrogativo a cui non sapevo ancora rispondere. E quali altri luoghi della città visitavi? Le piazze, Piazza del Duomo, il Duomo, la chiesa di San Francesco che mi piaceva tantissimo dentro perché c’è una spazialità incredibile, è immensa. Mi ricordo che quando non c’erano funzioni mi mettevo in mezzo e guardavo il soffitto altissimo, decorato sulle travi colorate... e poi il chiostro dove, più in là con l’età, si andava a giocare a calcio! Fu questa sensibilità... penso che molto dipenda dalla natura del soggetto. Che letture facevi? Letture umanistiche? Bisogna vedere che s’intende. Mi ricordo di aver letto la Storia della letteratura italiana del De Sanctis che chiesi in dono allo zio di Firenze per il mio tredicesimo o quattordicesimo compleanno. Mi affascinava, non avevo una cultura di altre prospettive storiche, era divertentissimo. Letture che poi hai coltivato anche in seguito, approfondendo anche con testi filosofici, perché, mi dicevi, che in te è sempre stato forte questo fascino per la parola, il dire. E le scorribande a Firenze? Durante la scuola, al Pacini. Il più delle volte era la domenica: partivo presto, col treno delle 7.30, da solo, e giravo. Mi ricordo le visite agli Uffizi semideserti. Ti trovavi nei saloni da solo con queste immagini prepotenti. Ero molto trascinato alla lettura dei Primitivi, Margheritone d’Arezzo, e gli altri. Mi affascinavano questi fumetti: ho sempre avuto l’idea che è stata la chiesa a inventare la comunicazione di massa. Quindi, coltivavi questi interessi indipendentemente dall’ambiente culturale pistoiese dell’epoca; hai frequentato l’ambito della Scuola d’arte del dopoguerra? Ti sei avvicinato a qualche artista pistoiese
Caro Chiavacci, la Commissione composta dal Maestro Chiari, Corrado Marsan, Arch. Porcinai, Claudio Popovich, Fiamma Vigo ha assegnato il secondo premio ex-equo per la Mostra Piccolo Formato a Chiavacci, Conti, Palamà. Mi fa molto piacere per lei. II premio consiste in una personale simultanea in una saletta (una per ciascun artista) nella galleria di Venezia, data da stabilire. Il I premio è stato vinto da Fernando Melani. L’aspetto domani venerdì con l’opera per la mostra. Saluti e complimenti vivissimi. Fiamma Vigo (Lettera inviata da Fiamma Vigo a Chiavacci, datata 19-1-67, Pistoia, Archivio Chiavacci)
136
in quel momento? No, non conoscevo l’ambiente artistico cittadino. Solo dopo, studiando la storia dell’arte a livello personale, mi resi conto della situazione storica. Ma io sono sempre andato avanti a intuito, anche sbagliando, cioè io devo avere una spinta interiore per fare qualcosa e questo dipende dal non avere avuto corsi di studio in questi settori. Io avevo studiato matematica. Non hai cercato quindi di avvicinarti ai professori della Scuola d’arte? No, mi ricordo che avevo un buon rapporto con quello che poi divenne direttore del Museo Civico e che aveva lo studio in Piazza Mazzini in angolo con via Sant’Andrea, Vasco Melani. Non ricordo quando l’ho cominciato a frequentare; l’avevo conosciuto alle scuole di avviamento professionale nel ramo commerciale, alle Betti, dove lui insegnava disegno. A quel tempo, mi ricordo di aver avuto una specie di attitudine intellettuale per la stenografia, ne ero appassionato, mi esercitavo a casa con il giornale radio. Perché ti piaceva? Perché era un linguaggio sintetico, astratto? Una forma meravigliosa, un po’ occulta, da iniziati, forse in questo c’era un inizio di snobismo. Vasco Melani mi interessava perché era un fiorentino, un ciarliero. Ero affascinato dalla personalità in sé, esuberante; mi piaceva il suo disegno e il segno sicuro che aveva, la sua disinvoltura.
Lo studio di Gianfranco Chiavacci a metà degli anni Novanta
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È stata una personalità importante per Pistoia, amante e cultore dell’arte e dell’archeologia, come direttore del Museo Civico seguiva, al suo interno, l’attività della Ghibellina, una sorta di spazio espositivo istituzionale dedicato soprattutto all’arte contemporanea. Ti ricordi le mostre provinciali degli anni Cinquanta a Pistoia, le opposte fazioni di artisti astratti e figurativi? Sì ne ho un ricordo lontano. Mi ricordo le mostre all’Università popolare degli astrattisti con Fernando Melani, ma anche Lando Landini e anche dei realisti.
Sarà stata la fine degli anni Cinquanta e poi proprio nel 1960 all’Università popolare si svolse la mostra di Arte astratta a cui si opponeva il gruppo dei Pittori e scultori pistoiesi, figurativi. L’anno successivo, nel 1961, invece si tenne la Mostra Internazionale d’Arte astratta in Galleria nazionale in collaborazione, grazie a pistoiesi come Fernando e Vasco Melani, con la Galleria Numero di Fiamma Vigo di Firenze. A quell’epoca avevi già sentito la necessità di un coinvolgimento nel ‘fare’ arte. Ero già attratto dall’arte. Nel 1956-1958 l’introiezione di cultura visiva, letteraria, esplode all’esterno. Ero affascinato anche dallo scrivere: la scrittura è sempre stata una passione, quando scrivo sento che scrivo. Attualmente conservo dei lavori che risalgono al 1957-1958, perché nel 1958 distrussi tutto quello che avevo fatto prima, perché sentivo che non erano lavori maturi. Nel febbraio del 1958 ci fu il grande falò, distrussi e ricominciai da zero. Quelle precedenti erano cose astratte miste a una sorta di traduzione visiva di certe letture, dal romanzo ai saggi critici. Una sorta di trasposizione astratta di emozioni, suggestioni, impressioni. Sì. Però non sentivo ordine in quelle prove, non era una base solida per partire, perché sentivo che quella era una partenza, ma era fragile, non convincente. La distruzione è segnata nel Diario di lavoro. Dove avevi visto l’arte astratta? A Pistoia, come ho detto, poi anche a Firenze alla Strozzina e quindi alla Galleria Numero. Sarà stato nel 1958. Della Numero e della Vigo mi affascinava questo colloquiare, seduti, dinanzi alle opere esposte. Mi rese molto gradevole quella situazione. Mi ricordo di averci visto la mostra di Nigro, prima del 1960, ma non quella di Fernando Melani nel 1954 che ancora non conoscevo. In seguito cominciarono a mandarmi gli inviti per le mostre, così mi tenevo aggiornato. Mi ricordo un po’ vagamente la mostra della collezione della Numero alla Ghibellina nel 1956.
Tieni presente che già nel 1954 andavo almeno una volta l’anno a trovare mia sorella a Roma: ci stavo un mese intero e visitavo la città. Lì ho visto l’arte antica, ma anche le prime mostre alla Galleria d’arte moderna: nel 1958 Pollock, poi Mondrian che mi colpì molto. E dei tempi in cui sul Globo si discuteva di arte e di politica? Te li ricordi? Ma, io sulla fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta condividevo già molto con Gigliola, quella che nel 1961 diventò mia moglie e molte delle discussioni avvenivano con lei. Mi ricordo di aver visto Ruffi passeggiare sul Globo. Ma comunque non partecipavo a quelle discussioni, mi ricordo soprattutto la figura di Fernando Melani anche in occasione di una mostra al Palazzo di Giano. Erano gli anni in cui gli artisti si stavano staccando dai dettami del Partito comunista e dal realismo per rivendicare una propria autonomia artistica. Così si svolgono anche le vicende di artisti pistoiesi come Cappellini o Landini che, sulla rivista “Realismo”, già alla metà degli anni Cinquanta, parla di isolamento e appartamento degli artisti di provincia. Sì, queste isole, feconde... Anch’io conservo alcuni numeri di “Realismo”. Gli artisti pistoiesi, sia i figurativi che quelli impegnati in una ricerca di avanguardia, hanno fatto dell’isolamento un momento fertile, un pregio, un orgoglio, tu ne sei un esempio. Sì, un grande pregio: io credo nell’isolamento. La ricerca in questi ambiti, umanistici, diciamo, è isolata, per cercare il proprio filo interiore, per ricostruirlo. Direi che quasi tutti avete cercato di ritagliarvi una sfera di autonomia anche economica per potervi dedicare all’arte senza condizionamenti: chi lavorava in banca (tu, per esempio), chi in fabbrica, chi come restauratore, chi come insegnante... ognuno ha lavorato nella propria isola fertile, senza creare scuole. Sì, autonomi, liberi dal condizionamento. È vero. For-
se al fondo di questo c’è una forma di anarchismo produttivo e creativo, cioè crearsi le condizioni per potersi esprimere, anche tra difficoltà estreme: perché l’isolamento ha un contraltare. Quando cominciano le tue letture scientifico-progressiste? Molto presto. Uno dei primi testi di divulgazione scientifica che mi interessarono riguardava la fisiologia o l’anatomia: per capire i propri meccanismi, la visione. Già da ragazzetto, attorno ai quindici anni, ero interessato a questo aspetto, leggevo con grande passione le pagine di divulgazione scientifica della “Nazione”, che allora riguardavano quasi esclusivamente l’astronomia. Le teorie cosmologiche dell’origine delle stelle. Fu un grande interesse, le ho raccolte e le conservo tutt’ora. Per te la proiezione scientifica nasce da un riflesso delle nuove scoperte, dell’ampliamento di orizzonti e confini che poi portò alla passeggiata sulla Luna... Sì soprattutto dalle teorie cosmologiche. Interessi per l’incommensurabile, la ricerca delle origini, non è un caso infatti che, quando nel 1995 ho fatto l’opera dei cieli e le terre, con i nove elementi [I cieli, le terre, gli elementi, nd.r.], io sia andato a riscoprire le origini. Sentii il bisogno di tornare a un rapporto con la terra, mi venne spontaneo di cercare la terra dell’infanzia in un bosco del paese di nascita, la terra estetica, quella di Siena, e poi quella della quotidianità, del giardino dove hanno giocato i figli e dove, se si scava, si trovano ancora pezzi di giochi. Questo rapporto con la terra delle origini c’è. Esiste infatti, come dicevamo, nella tua opera un portato legato anche a un bisogno, diciamo umanistico, una forma di autobiografia discelata. Un elemento che esula dalla binarietà, che è una regola autofondante dell’opera che la struttura modulandola in infinite possibilità e da cui a volte scaturisce l’errore... Un dato biografico, esistenziale, che esce fuori pur dalla binarietà. 138
amplio, dilato anche questo concetto. Tutte le opere sono legate da un filo invisibile. Inoltre avevo una certa manualità, fin da piccolo costruivo piccole case di fango nell’erba, con le mani. Sì, c’era un bisogno di fare, come l’homo faber rinascimentale.
Gianfranco Chiavacci con Fernando Melani in occasione della personale alla Galleria Numero,1967: alle spalle l’opera 0075
Ma andiamo per ordine: dopo le prime esperienze artistiche pittoriche nel 1958, nel 1962 intraprendi, per motivi di lavoro, una formazione come programmatore di calcolatori elettronici all’IBM, prima a Milano quindi a Roma e Firenze. A partire da questo nuovo impulso dato dall’elettronica decidi di intraprendere una ricerca estetica sulla base di un linguaggio proprio della macchina, che è la legge binaria dello 0-1 con le sue infinite combinazioni. Più che altro intuisco che c’è un futuro inimmaginabile. Perché coniugare questa legge binaria all’arte? Perché era l’unica possibilità espressiva e costruttiva insieme, più che altro. Un lavoro in cui fosse possibile il massimo delle modificazioni possibili con una sintassi rigida, precalcolata. Così al bit elettronico si sostituisce il bit spaziale. Certo successivamente il lavoro si complica, forzando i limiti di questa regola, si auto genera. Io adotto anche delle auto provocazioni, cambio completamente registro pur rimanendo nel quadro generale dell’elaborazione binaria, però poi
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Gli anni tra il 1962 e i primi Settanta, come li hai vissuti? Sono stati anni improntati a... Soprattutto alla ricerca sulla binarietà, quindi sulla bidimensionalità. Anche la ricerca fotografica che comincia ai primi anni Settanta nasce da un fatto bidimensionale. La fotografia, lo diceva anche Fernando Melani, in un testo in presentazione a una serata organizzata alla Vannucci [Diapositive movimentocolore,10 maggio 1975, n.d.r.], facendone un po’ la storia dalle origini, ha determinato molte cose. A me interessava il processo della fotografia, ma anche la meccanica ridotta al grado minimo dello scatto e progressione che forma poi la fotografia. Quali sono gli incontri determinanti degli anni Sessanta? A Pistoia sono gli anni della conoscenza di Fernando Melani, prima alla mostra all’Università popolare nel 1960, poi? Sì, un primo approccio, però la conoscenza profonda del suo lavoro avvenne nel 1964 al Circolo di Cultura in corso Gramsci, in occasione della sua personale. Mi ricordo che c’erano anche Barni e Ruffi, si aiutava Fernando nell’allestimento, e mi adoperai molto, essendo nel Comitato del Circolo, perché venisse realizzata questa mostra. Con me c’erano anche personaggi come il Dottor Landini, Enzo Bargiacchi... Melani nell’occasione fece delle conferenze sull’arte contemporanea, mi ricordo Pignotti, Miccini, e anche il critico Claudio Popovich che aveva grandi capacità espressive e purtroppo morto trentenne: penso che per la cultura fiorentina fu una grande perdita. A Firenze frequentavo Carlo Cioni che era un pittore che praticava l’astrazione, Paolo Masi, l’architetto Ricci, Giuseppe Chiari, e altri come Tolu... Il punto
d’incontro, catalizzatore, era la Galleria Numero, ci vedevamo per le inaugurazioni. Qui feci la mia prima mostra personale nel 1967. Vinsi il secondo premio di una mostra-concorso del ‘Piccolo formato’ consistente in una mostra personale alla Numero; Melani invece vinse il primo premio, una personale a Milano. Alla Numero ci bazzicava la cultura fiorentina più vivace, non quella impastata. Si discuteva, anche se molto diversi... Hai citato artisti dalle esperienze molto diverse e soprattutto distanti dal tuo lavoro. Quale era il legante, la forza aggregante, il punto di contatto. Ma, non so, forse anche la coscienza o l’illusione di far parte di una élite... una élite di contemporaneità che si muoveva ciascuno nel proprio territorio indagando, testimone del proprio tempo. C’era anche un francese, un certo Morellet, che faceva una ricerca più optical e materica. Comunque io stavo un po’ stretto con i tempi: in banca fino alle sei, poi gli impegni di famiglia, l’educazione dei figli a cui io ho voluto essere partecipe... Quindi non sempre ero disponibile. Come ti ponevi rispetto ai nuovi linguaggi come l’optical o l’arte programmata e quindi in seguito il concettuale? Mah, leggevo le riviste a disposizione, “SeleARTE” di Ragghianti e poi più verso gli anni Settanta “NAC”. “SeleARTE” rendeva conto anche un po’ delle esperienze astratte, poi leggevo anche “Marcatre” di Eco. Per l’optical, che è stato un mio grande interesse, ho il catalogo della mostra a New York nel 1965 – The responsive eye -, che richiesi direttamente all’epoca. Questa della optical art è soprattutto una ricerca autonoma, perché il visivo mi ha sempre interessato molto. E le biennali? Mi ricordo quella del 1964, che è anche l’ultima a cui sono andato perché mi parve quasi conclusiva. Era la biennale in cui fu presentata in Italia la Pop art che per altro anche a Pistoia ha avuto esponenti
rappresentativi, la cosiddetta “Scuola di Pistoia”. La pop ti ha interessato? Poco, la vedevo non abbastanza problematica, ma dal punto di vista del secondo livello, non quello visivo, ma il livello teorico, concettuale. A chi facevi vedere il tuo lavoro? Ad amici curiosi, non necessariamente artisti. Molti nell’ambito del lavoro, per esempio un amico, tecnico dell’IBM, da cui attingevo libri tecnici sui transistor che furono inventati poco dopo la guerra, verso il 194748. Mi rammento una frase emblematica proprio da un libro tecnico sui transistor che adesso leggo come un’affermazione allarmante e allora invece mi scaturì una lettura positiva: “questi transistor si sa che cosa fanno, per ora, ma non si sa a cosa porteranno”. Positiva perché mi sembra che la ricerca scientifica prodotta dall’uomo sia l’aspetto più bello anche se poi su questa si innestano interessi non tutti confessabili. A quando risale la tua amicizia con Lando Landini e Donatella Giuntoli? Sarà stato ai primi anni Settanta. Il catalizzatore fu Melani, anche se già conoscevo Landini. Poi loro per un certo periodo abitarono a Monza, dove Donatella aveva lavorato molto e Lando aveva elaborato una certa forma di astrazione, mi ricordo una mostra alla Vannucci [nel 1964, n.d.r.] con opere di quel periodo. Il nostro rapporto stretto, con Fernando e Donatella, risale alla metà degli anni Settanta, Lando spesso non c’era e quando ci ritrovavamo tutti insieme le discussioni si facevano animate. A un certo punto si pensò a una ‘comune per l’arte’ di cui ho ancora qualche documento. Forme utopiche in cui si auspicava che agli artisti fosse concesso un minimo reddito da parte delle autorità locali. Un minimo, e le opere dovevano essere donate alla comunità. Un’utopia sulla scia sessantottina, direi. Sì, senza dubbio, molto. Dal punto di vista ideologico comunque ci si scontrava... C’era anche Claudio Frare, che poi non ho più visto. Il punto di contatto 140
con Fernando e Donatella era soprattutto nei comportamenti, nell’estrema educazione reciproca nel dire le cose in modo leggero. Con Donatella ci siamo frequentati molto, veniva spesso qui, in questa casa. Il fare artistico di Donatella non costruiva, non inventava, ‘scopriva’ qualcosa, come quelle sue composizioni con le cartoline degli anni Venti. Aveva molto il senso dello stupore o dello scoprire.
che. Per esempio a Napoli un convegno su cibernetica e genetica con genetisti a livello internazionale.
Qual era la vostra consapevolezza, quella di aver recepito in modo più costruttivo la contemporaneità? Sì, forse sì. Se vogliamo una contemporaneità molto raffinata, non volgare, non vociante. Anche se ci sono stati gli scontri in quel periodo; a Pistoia ci fu una grande mobilitazione politica, e nel Sessantotto, a Brescia per esempio....
E la Ti.zero a Torino? È un’esperienza contemporanea che nasce dagli incontri fatti alla Sincron. Conobbi infatti Gribaudo all’incontro Sincron Rimini. Lavorava al centro di calcolo a Torino e faceva musica elettronica, anzi computer-music. Si riuscì anche a fare un’iniziativa nel ’72-’73 nell’ambito della Festa dell’Unità qui a Pistoia. Poi c’era Nelva che ammirava le ricerche visuali, con il quale strinsi amicizia. Con la Ti.zero si fece una settimana d’arte a Pejo vicino Trento nel 1971. Nel 1973 vi feci una mostra personale incentrata sulla binarietà per il quale composi anche uno scritto.
Ecco, alla fine degli anni Sessanta tu fai delle incursioni nel nord, da cosa scaturiscono? Parlami delle esperienze con la Galleria Sincron a Brescia e poi a Torino con la Ti.zero. Questa Sincron era, non dico una comunità, ma qualcosa del genere. Le riunioni finivano a cena dal contadino sul lago, delle cene meravigliose, con un grande aspetto di convivialità. Ma sia Fernando che Donatella non avevano mai frequentato la Sincron, ero io che andavo e riportavo notizie. Solo nell’occasione del ritrovo di Rimini parteciparono anche loro. Non gradivano uscire, forse per una certa pigrizia; anche se Fernando era già in contatto con le gallerie milanesi. Questi del nord erano tutti dediti alla tecnologia, un po’ come Munari. Che poi questo era un aspetto che a me non andava molto, perché la tecnologia è un po’ il braccio armato della conoscenza. Anche Silvio Ceccato, libero docente, con cui ero in contatto in quegli anni, non era uno scienziato: lui costruiva una macchina per riconoscere gli oggetti. Ma non credo che l’abbia terminata. C’ero entrato in rapporto perché organizzava convegni su macchine elettroniche, cioè i computer, e vari aspetti delle discipline scientifi141
Come mai questi rapporti si interrompono? Ma perché sono contatti sterili in cui ognuno rimane della propria opinione. Poi era una situazione faticosa, dispendiosa: partivo con la Cinquecento il sabato per andare a Brescia e tornare la domenica sera. Credo che la Sincron l’abbia frequentata Giorgio Ulivi anche.
Quindi, in questi anni, i contatti con le gallerie nascono da una tua iniziativa personale, non sei legato a critici, anzi frequenti piuttosto ambienti culturali di orientamento scientifico. Sì, nasce tutto dalle mie curiosità. L’unico critico con il quale ero in contatto e che stimava il mio lavoro fu Claudio Popovich. Per tornare agli anni Settanta, mi colpiva che tu, nell’intervista su “NAC” (gennaio 1973) avessi dichiarato che la cultura è politica, ribadendo l’isolamento delle ricerche individuali, ma anche questo bisogno di riportare le ricerche a una dimensione... ... una dimensione collettiva. C’era il buio più pesto... anche ora, se vogliamo. Furono anni di ... ... di forte intensità partecipativa sia alla cultura a livello collettivo sia alle idee. Dal punto di vista del lavoro procedo, sperimento, perfeziono, teorizzo.
Quando cominci a teorizzare la ‘binarietà’? Quasi subito, già nel 1965; poi verso la fine degli anni Settanta scrissi quel testo della Binarietà e lo spazio bidimensionale [pubblicato in proprio nel 1980, n.d.r.], perché mi ero reso conto che parlandone non era troppo chiaro. È un testo didattico, fatto per l’osservatore; avevo fatto degli opuscoli, ne ho dati via moltissimi, ovviamente agli interessati. Lo scritto è conclusivo di una teoria accertata, accertata attraverso una esperienza di lavoro di anni. E la fotografia? Intesa come un’acquisizione di tridimensionalità piatta, o meglio l’immissione di una tridimensionalità in fotografia che poi porterà alle sculture fotografiche e a una ricerca tridimensionale nella binarietà, con un nuovo binomio di avanti/ dietro? Mi dicevi che l’attenzione per la fotografia aveva in qualche modo influenzato la tua ricerca sulla binarietà portandoti a scoprire la ricchezza del materiale. Sì, cominciai a fare fotografia verso il 1971-1972 e proseguii fino alla fine dei Settanta. Quando fai fotografia la fai con un’attenzione allo strumento che hai in mano. Si può fotografare con uno strumento non accorgendosi di usare uno strumento, illudendosi di fotografare il reale. Invece è questa macchina, attraverso la scansione dei tempi di esposizione e dell’inquadratura, a rendere diverse le immagini proprio selezionando queste due variabili. Quindi lavori sulla profondità che però rendi nella bidimensionalità. Per cui mi sono interessato molto alle sfocature, alla contaminazione tra le capacità ottiche meccaniche e il reale dell’oggetto. È raro guardare in un punto e percepire lo sfocato di quello che sta attorno: a me spesso interessa più quello che sta attorno del resto. Perché nel contorno c’è una traduzione meno umanistica, o meglio meno contaminata dall’osservatore. La fotografia ha sempre una curiosità morbosa, selettiva. Nella fotografia mi è interessato molto anche il concetto quantitativo dell’immagine, per cui un rullino che contiene 36 scatti può essere stampato in un unico
provino e rifotografato all’infinito, la quantità della prima immagine aumenta e si rimpiccolisce il formato: ne veniva fuori una sorta di genetica e quindi una specie di albero genealogico. Sul fondale di tutte queste osservazioni c’è la complessità, sempre. Non posso più guardare un filo che pende senza non tener conto di tutto quello che accade attorno. La fotografia abitua a essere molto attenti, è altamente selettiva, io dico ‘scopica’.
Gianfranco Chiavacci con Fernando Melani in occasione della serata Diapositive movimento-colore alla Galleria Vannucci, 1975
Andando verso gli anni Ottanta, quelli in cui ti rivolgi verso un utilizzo libero della binarietà. Sono gli anni in cui ti interessi anche di Mail-art che è un’esperienza che si protrae per tutti gli anni Novanta, parallelamente al lavoro sulla binarietà. Sì anche. Sono gli anni in cui si sono intrecciati anche una serie di rapporti personali e di conoscenze nate proprio a partire dall’esperienza della Sincron, con Nelva e Gribaudo appunto. La Mail-art è un sostituto artistico della corrispondenza. È anche un gesto ‘generoso’? Come l’abitudine di donare piccoli testi, libretti, taccuini, alle tue mostre. 142
Anche la fotografia gioca sul registro dell’ironia. Penso agli autoritratti fotografici, molto sperimentali Egocentrismo dichiarato, come il lavoro con il mio autoritratto fotografico sezionato, oppure a 360 gradi. D’altra parte l’uomo è stato sempre al centro di tutto, è un esibizionista e quindi questi sono anche tentativi di smitizzazione, di renderlo un burattino.
Gianfranco Chiavacci con Donatella Giuntoli durante l’allestimento della personale di Ranaldi a Palazzo Fabroni, 1994
Anche. C’è anche l’aspetto del donare. È forse un bisogno di contatto, di poter tenere libere queste linee per poter comunicare e inoltre la Mail-art mi diverte, e rido quando lavoro pensando alla stupefazione di chi la riceve. È un rapportarsi discreto, non invasivo, un invito a tener presente che ci sono. Una provocazione? Anche, soprattutto quando faccio quelle più mordaci. Parlami dell’ironia. È la cosa più stupefacente. Sono sempre stato ironico, soprattutto rispetto ai rapporti umani. E i libri? Come mai a un certo punto cominci a produrre opere in forma di libro, di piccolo taccuino, che spesso regali, o addirittura perdi di vista. Quando cominci, all’epoca della Mail-art? Ma, forse si sono un po’ sovrapposte le due cose. Comunque la Mail-art è un momento di felicità estrema.... Non ci sono mail-art “tristi” anche se forse qualcuna..., per esempio quella con la frase del filosofo goriziano Michelstaedter, che ha molto dell’austriaco, un po’ triste.
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Dei tuoi libri ci sono diverse tipologie: lo scritto teorico, il libro-opera che riflette sulla combinatoria, che non si legge ma che si propone come esperienza unica, quindi i libri del ritaglio. I libri del ritaglio... in questo caso ho inventato una specie di neologismo. ‘Libri del ritaglio’, non vuol dire niente, cosa sono? L’idea del ritaglio è l’idea del frammento, della piccola cosa riportata a dei livelli superiori, sorprendenti. Un prelievo, un frammento da una superficie più ampia genera sempre qualcosa d’interessante, ma non tanto il frammento in sé, quanto il residuo. In uno di questi libri, per esempio, ho messo delle piccole scaglie del tavolo di lavoro... a volte il mio tavolo di lavoro mi sembra una delle più grandi opere che abbia fatto nella mia vita! Ecco, a proposito del lavoro, che ruolo ha lo studio. Mi ricordo che negli anni Novanta hai fatto due aperture bellissime dello studio, per presentare il tuo lavoro, piuttosto che nelle gallerie. Un ruolo importante, perché ha una frequentazione continua però di un ambito creativo, più importante, per me, di una camera o della cucina. Adesso però sono un po’ mutilo perché ho dovuto spostare lo studio che fino agli anni Novanta era stato al piano superiore e che avevo rialzato nel 1974 su progetto dell’architetto Bassi. Era uno spazio bellissimo, irriproducibile. I miei studi sono sempre stati in casa: nel 1962-63 ho costruito questa abitazione e nella parte centrale del tetto avevo ricavato uno studio, poi nel 1974 con il nuovo progetto, feci una struttura a gradoni con uno spazio molto versatile. In questo studio c’era un angolo col divano, ci si ritrovava spesso a chiacchierare con Melani, Donatella.
Fernando tutte le sere faceva la passeggiata, passava e si chiacchierava, si programmava. Hai frequentato le gallerie pistoiesi attive tra gli anni Ottanta e Novanta, come lo Studio La torre? Sì, dal Nespoli ci andavo spesso, sia col Melani sia da solo, ma non ho mai avuto rapporti di lavoro. Lì fu presentato il Progetto di lettura globale di Melani. Da Tonino c’erano sempre grandi discussioni. Con chi hai condiviso esperienze importanti dal punto di vista intellettuale e artistico? Con Gribaudo. Veniva spesso a casa mia, era abituato a viaggiare, era un patito delle scalate, arrivava fino ai cinquemila metri sull’Himalaya. Conosceva molto bene la cultura di quelle popolazioni che io ammiro molto... La nostra intesa era nata su basi meccanicistiche elettroniche, ma poi, quando ci vedevamo si spaziava dalla politica alla filosofia. Con lui ho intrecciato un fitto epistolario nel tempo. Poi tra gli artisti Ranaldi. L’ho conosciuto da Fernando, ai primi anni Ottanta, siamo amici, abbiamo passato molti momenti insieme. È un grande artista, uno dei pochi che non ho trovato mediocri proprio per la sua cultura e l’ironia fulminante, che polverizza. L’ironia per me è davvero il segno dell’intelligenza. L’unico che procurava grandi stimoli a tutti era Fernando. Con lui ho intavolato un rapporto intellettuale di altissimo livello. A volte si facevano delle discussioni scientifiche - di nozioni scientifiche - molto filosofiche, molto rarefatte. Si arrivava a dei livelli di astrazione... E del Progetto Fenoma umano, oggetto dell’ultima mostra nello studio nel 1997, che in qualche modo chiude questa mostra, che mi dici? Nasce dall’idea di fare, come Dulbecco per il Progetto Genoma Umano, un Progetto Fenoma Umano, dove la parola ‘fenoma’, che non esiste, indica l’elemento base dei processi fenomenici. Una serie di piccole opere su cartoncino in cui ho esplicitato l’uso che io ho fatto di tutti i materiali usati durante il lavoro di una vita. Questo insieme di trenta opere è divenu-
to a sua volta un’opera unica e nuova. Quindi essa individua questi elementi fenomenici di base, non manipolati in modo eccessivo, ma nel modo in cui io ho sempre manipolato la materia: garze, stoppa, etc.. Cioè raccontano come io ho sempre lavorato i materiali. Le opere disposte a spirale su una base ruotante lasciavano vedere una parte e l’altra, sembrava una visione del cielo, qualcosa del genere.
Gianfranco Chiavacci con Renato Ranaldi alla mostra Limiti, Opera, Perugia, 1994
Che valore dai ai tuoi scritti? Divulgativi. E al Diario di lavoro? Molta, è una sorta di biografia delle opere. Io scrivo sempre quando lavoro, a volte mi basta una sola frase, una parola: il Diario è la parte teorica forte del mio lavoro.
Dialogo composto sulla base di alcune conversazioni con l’artista avvenute tra la primavera del 2006 e l’autunno del 2007, materiali depositati presso il Centro di Documentazione sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese.
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Scritti di Gianfranco Chiavacci
Per tentare una spiegazione Testo pubblicato nel catalogo della mostra Collaborazione differenziata. Chiavacci, Lupetti, Melani, Firenze, Galleria FLOG, gennaio 1965 Il vivere quotidianamente a contatto con un mezzo tecnico quale un elaboratore elettronico mi spinge sempre più a penetrare nello stesso, non per annichilirmici, ma per cavarne fuori quelle informazioni tecnico-operative che mi permettono di vedere, al di là delle pratiche utilizzazioni del mezzo, qualcosa che ‘leghi’ sempre più con altri elementi che scaturiscono dai campi in cui l’uomo opera con intenti conoscitivi. I moderni problemi che la Cibernetica si pone ed i contatti di questa con altre branche scientifiche, come la neurobiologia, credo siano la riprova che anche in una ‘macchina’, al di là del suo quotidiano sfruttamento, c’è tutta una vasta gamma di fenomeni, di problemi, di soluzioni, che sono di importanza interdisciplinare. Non si tratta di instaurare gratuiti e semplicistici parallelismi, ma di cogliere, in una soluzione tecnica per esempio, elementi da tenere presenti per l’esame di fenomeni in campi diversi. È da queste considerazioni che in massima parte sono giunto nella determinazione di sperimentare qualcosa di simile per quanto riguarda il mio lavoro artistico. Mi sono chiesto se fosse possibile tentare di immettere nel fatto artistico un sistema operativo nuovo, che propendesse per una elaborazione tecnicamente razionalizzabile. Razionalizzabile nel senso di logicamente prevedibile a priori quanto a strutturazione e quanto a potenziali alternative di pratica attuazione. È la logica binaria, quella delle lampade accese o spente, di 0 o di 1, di chiuso o aperto, che mi ha spinto verso la mia particolare soluzione. Tuttavia non è una questione soltanto di un nuovo sistema operativo. Con esso credo di introdurre nel mio lavoro anche qualcos’altro. Per esempio il concetto di quantità. L’iterazione di elementi formali non è un fenomeno nuovo nel panorama delle ricerche estetiche. Lo si ritrova, de resto, anche nella espressione psico-patologica. È un fenomeno nuovo però quello realizzato attraverso moduli univoci e mono-toni; è un pò come parlare di serie, nel primo caso, di seriazione nel secondo, introducendo cioè come modalità discriminante il concetto rispettivamente di qualità e quantità. Quantità nuova anche perché l’attuazione di essa avviene per ‘salti costanti’, per unità costanti, identiche. Del resto la particolarità di questo fenomeno trova giustificazione nella organizzazione lineare delle ‘unità’. Una linearità che va oltre il concetto di allineamento e diventa struttura rigida e fissa.
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Notiamo che nel campo scientifico sentiamo parlare spesso di quantità, di salti quantici, di aggregati quantitativi, di organizzazioni lineari o meno, di strutture rigide... Non si tratta, nel mio caso, di ricercati parallelismi verbali. La strutturazione particolare dei miei lavori è nata al di fuori dei modelli. Se poi certe soluzioni richiamano concetti di altre discipline non posso che rallegrarmene. Cercherò ora di esaminare, in maniera possibilmente dettagliata, quanto sono riuscito a realizzare. La componente di razionalità e l’intervento volitivo riscontrabili nel mio lavoro, dovrebbero richiamare alla mente dell’osservatore un concetto tecnico, qualcosa cioè che suggerisca un antefatto culturale impegnato su elementi antitetici rispetto ad un atteggiamento emotivo-sentimentale. Indubbiamente può derivare da ciò anche una certa sensazione di freddo, di calcolato e di limitato. È un aspetto, credo, da non trascurare perché può contribuire a costituire una base di predisposizione al ragionamento, al discorso. L’ordine strutturale che è alla base dei miei lavori è un espediente tecnico, che attualmente mi serve per elaborare delle analisi. Prima di scrivere su queste, preciso meglio da dove derivi quel simmetrismo che ho definito ‘ordine strutturale’. Non è un modello, la materializzazione di qualcos’altro. Gli elementi plastici che dispongo in sequenze, le superfici reticolate, i reticoli stessi, non sono che astrazioni, come i numeri. Anche 0 e 1 sono due numeri della serie decimale; possono però anche essere gli elementi di una serie binaria, quella che ha come base non dieci, ma due, appunto 0 e 1. 1 e 0 che possono corrispondere a si e no, chiuso-aperto, acceso-spento, puntolinea, presente-assente. Con l’alfabeto Morse si possono trasmettere complessi messaggi. Anche gli elaboratori elettronici adottano notazioni binarie. A parte queste applicazioni specialistiche ed al di là di esse, è intuibile come il riuscire a precisare un codice semplice (es. 0 e 1), binario, possa permetterci la elaborazione di complesse configurazioni logiche, grafiche e formali. Il problema, e qui mi riferisco al mio lavoro, consiste nel trovare un simbolo che abbia carattere di univocità e mono-tonìa. Univocità che vuol dire ‘ad un solo significato’; mono-tonìa ad ‘unica tensione’, ad unico stato, a tono costante.
Mentre l’univocità mi giustifica l’elemento nella sua genesi (parte uniforme di superficie), la mono-tonìa mi preclude l’evasione in sequenze modulate, determinate cioè dal non avere più un solo simbolo, ma questo con tanti sotto-simboli. L’alternanza binaria evidentemente riesco ad ottenerla con la presenza o l’assenza del simbolo, tra due serie estreme di cui una di tutte presenze e l’altra di tutte assenze. Quanto alla genesi di questo elemento dovrebbe risultare chiaro che essa è rintracciabile in una simmetrica suddivisione della superficie di lavoro. Da questa operazione esce definita una ‘unità’ : il quadrato. Le ragioni dell’adozione come elemento del ‘doppio quadrato’ sono ricavabili da un’osservazione che fin dall’inizio è stata una costante del mio lavoro e cioè la bidimensionalità della superficie (verticale-orizzontale). Giunto al concetto di binarietà e risolto questo relativamente all’elemento, nel senso di ‘presenza-assenza’, mi sembrava preclusa la possibilità di mantenere intatta la prerogativa di univocità rispetto alla direzionalità dell’elemento. Infatti un quadrato, in un reticolo, ha quattro possibili soluzioni di contrinuità. Un ‘doppio quadrato’ ha invece una disposizione spaziale univoca: verticale o orizzontale. È a questo punto che si è completata la definizione del reticolo, che mi suddivide la superficie in ‘bande’, in ‘circuiti’. Uno dei problemi fondamentali che si sono imposti alla mia attenzione, dopo il lavoro di messa a punto dello ‘strumento operativo’, è stato quello di tentare una ‘lettura’ dell’opera elaborata, in termini nuovi e cioè in termini di binarietà, di ‘senso’ di scorrimento visivo del pezzo.
È possibile cioè rinunciare alle classiche valutazioni plastiche per costringerci a seguire un po’ la ‘riga’, quella anche della scrittura? Io credo che un’esperienza in questo senso sia utile. Abbiamo, è vero, una sensazione di elementarità. Perdiamo certamente in ricchezza emotiva. Ma per me l’importante è altro: acquistiamo nulla di informazione tecnica? Riusciamo cioè a captare una alternanza potenziale continua nello scorrimento visivo dell’elaborato? Avvertiamo quando questa si realizza in alternanza concreta? Le mie ultime esperienze di lavoro, che si basano su un comune effetto ottico, sono state condotte proprio per cercare di forzare l’occhio che osserva, sollecitandolo con continue apparizioni-sparizioni (alternanza!) del reticolo. La serie dei reticolo di nylon su fondi colorati, se a prima vista può essere giustificata unicamente come ricerca di particolari effetti luminosi, coloristici ecc…, oggettivamente si basa sempre sul tentativo di creare un campo visivo tale da costituire, per l’occhio e la mente, una sollecitazione a prendere contatto con una superficie tecnicamente reticolata. La costruzione a cubo, che formalmente può anche collegarsi, per certi particolari effetti, agli ultimi lavori, è un’altra prova dei mezzi tecnicamente attuabili per costringere l’attenzione sulla particolare struttura reticolare. L’esistenza di punti di vista ‘ottimali’ per captare quest’ultima, e gli spostamenti da questi, possono dar luogo a quella ‘presa di coscienza’ momentanea tale da generare stimolo efficace per spingere l’osservatore ad effettuare ulteriori prove.
Gianfranco Chiavacci Dichiarazione pubblicata in Arti visive in Toscana, inserto a cura di Carlo Cioni, “NAC”, gennaio 1973 In una città di provincia come Pistoia direi che la situazione artistica ricalca quella di altre città simili, dove a livello pubblico non esiste che l’attività di pochissime gallerie private che svolgono una funzione priva di qualsiasi connotazione culturale d’avanguardia. Se esistono isolali casi di operatori che portano avanti una ricerca sperimentale, le strutture pubblicistiche se ne disinteressano. Tuttavia sembra che a Pistoia stia maturando qualcosa che potrebbe essere l’inizio di una politica culturale. È il caso per esempio del comunale teatro Manzoni che, tolto all’iniziativa privata, ha cominciato a svolgere una discreta attività nel campo teatrale, legato al circuito regionale. Il problema è quello di operare in modo da costituirlo in centro culturale, con larga partecipazione degli operatori. Chiaramente non esistono scelte culturali ben precise; è qui forse che si misurerà anche la capacità di tutti gli operatori per far maturare queste scelte. Scelte, che per non rimanere isolati tentativi, soggetti ad ogni tipo di condizionamento locale, dovrebbero essere fatte con respiro più ampio. Penso per esempio ad un probabile ambito regionale.
Spesso nei politici si nota una “attenta indifferenza” per queste scelte, che sfocia : poi in iniziative conservatrici, con sforzi finanziari notevoli e ben altrimenti e più proficuamente utilizzabili (a Firenze recente mostra Moore, a Pistoia Fabbri). È qui che salta automaticamente fuori la necessità di una risposta alla domanda sull’importanza dell’arte nella società contemporanea. Di fronte alla superficialità (o scelta politica precisa!) delle risposte che spesso vengono tornite dai politici, bisogna saper imporre il concetto che l’arte ha anche una funzione politica ben precisa; messa in crisi continua dei codici comunicativi, loro arricchimento sperimentalmente individuabile nelle ricerche più ficcanti, ampliamento di contenuti, dilatazione dei rapporti relazionali ecc. Come non rilevare anche il conseguente aspetto implicante la didattica? Aspetto automaticamente connesso con ogni ricerca che sia genuinamente sperimentale, aperta. Aggancio qui due righe sulle mie ‘motivazioni di poetica’ (con bella espressione). Le ricerche che porto avanti da anni risuonano continuamente di questa preoccupazione ‘didattica’, calata
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nel più ampio raggio della messa a punto di una grammatica binaria, con forme che nascono in essa, extra-artisticamente. La convinzione che il comportamento binario, 0 - 1, sia giù abbastanza ricco come risultati cui può condurre. II tentativo
di arricchire il mondo delle forme di ‘connotazione scientifica’ (e, sotto, il tentativo forse utopistico di far assumere alla misurabilità nell’operare artistico un significato che vada ben oltre l’aspetto programmatico e metodologico).
Fare fotografia Testo datato Pistoia 1977 e reso pubblico in forma dattiloscritta Questi scritti tendono a spiegare il lavoro effettuato con la macchina fotografica, oltre l’uso normale che di questa viene fatto. Le potenzialità legate ad ogni strumento vanno sempre oltre la utilizzazione ‘normale’ di questo e sono rilevabili quando l’attenzione dell’operatore si sposta dall’esterno dello strumento alla sua fisicità, che è poi la sua fisiologia, la sua meccanica. È fuor di dubbio che in tale atteggiamento operativo la spinta è costituita dalla convinzione che la dilatazione del comportamento, se legata alla fisicità degli strumenti, induce conoscenza e quindi sollecitazioni, stimoli più ricchi e nuove ipotesi. Vi è inoltre, in tutto il mio lavoro globalmente considerato, il tentativo di vedere gli elementi che intervengono nel ‘fare fotografia’ - macchina, ottica, luce, occhio, tempo, pellicola ecc. - in un rapporto inretativo, oltre il piatto meccanicismo che una visione soltanto razionalistica (nella ipotesi migliore) propone del sistema, con al centro l’uomo (meglio, l’Uomo), le sue idee, i suoi fantasmi, le sue interessate letture .... che del resto non sono poi sempre interessanti. LA MEMORIA STATICA Lavorare sulla fotografia, sul processo fotografico, significa essenzialmente mettere in evidenza la quantificazione della luce. Ogni evento, fenomeno, viene letto e registrato nella sua dimensione luminosa. Accumulo di luce che si quantizza verso il bianco, nel tempo. Eventi brevi in durata e a forte intensità luminosa e eventi prolungati a bassa luminosità, in fotografia si equivalgono sotto il profilo della quantità di luce accumulata. Operando su questi elementi È possibile tradurre un evento dinamico nella sommatoria di luce che esso riflette nel tempo. Per l’uomo i due eventi sono diversi. È impossibile valutare e percepire l’accumulo luminoso. L’intensità diventa l’elemento discriminante perché‚ i tempi della percezione non sono flessibili. Non esiste un’unita di tempo percettivo modificabile. È un limite che può essere interpretato come meccanismo che consente la sopravvivenza alla altrimenti inevitabile catastrofe luminosa cui andremmo incontro. Nascono in fotografia le fissazioni dei movimenti, rotatori, oscillatori, periodici o meno.Si profila la fotografia come memoria statica di eventi dinamici, unico
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supporto che diventa memoria, memoria statica, spessore luminoso, traduzione analogica di un processo altrimenti sfuggente. Sullo stesso filone esperienze di accumulo più discrete, controllate. Sovrapposizioni successive dello stesso colore, o di colori diversi, leggermente traslate - fisicamente, per una migliore lettura del processo di accumulazione - (vedere a volte la stessa banda colorata, ogni volta leggermente spostata, e vedere il risultato finale, globale, fisico, dell’accumulo). Gli eventi successivi che si cancellano o si attenuano o vengono filtrati, sono meccanismi che evitano all’uomo la paralisi. Il passaggio da un evento ad un altro comporta nell’uomo sempre un cambiamento di livello, come un voltare pagina. Il pacco dei fogli, anche se trasparenti, aumenta in spessore e la lettura per trasparenza precede quella vividezza che è propria dell’attualità. LA LUCE A FUOCO La selettività della messa a fuoco nella macchina fotografica, è un elemento per la scansione continua del campo visivo, lungo l’asse ottico. Vi sono sempre un ‘davanti’ e un ‘dietro’ che si fondono nei loro elementi di luminosità. Vi È sempre un campo osservabile oltre o prima della sfocatura e che si modifica col modificarsi di questa. È un vedere contemporaneo, se siamo disponibili: l’oggetto, la forma precisa e intorno. Immersione nella luce che trova il suo fuoco oltre le ottiche, nei granelli del supporto fotografico. Non esiste un vero e proprio ‘fuori fuoco’ se parliamo della luce. Soltanto gli oggetti, occasione fisica per l’assorbimento / emissione della luce, limitati, precisi, nello spazio, possono essere ‘fuori fuoco’. Lo strumento rivela qui un altro aspetto della sua meccanica dilatata. Ed è qui che avviene la registrazione delle interazioni della luce con gli oggetti, i colori, i materiali. Una forma 1 rossa accanto ad una forma 2 azzurra, devono creare necessariamente (fisicamente) qualcosa in più di quanto vediamo. I rimbalzi/emissioni luminosi si fondono, si assorbono, quale comportamento? La macchina fotografica come sistema fisico atto a registrare le interazioni luminose e metterle a fuoco sulla memoria analogicamente (l’artificiale è sempre
anche analogico?). Forse, la prima volta per l’occhio, una possibilità di visione intenzionale di zone e fenomeni evanescenti perché‚ ai bordi. E allora anche valutazione/rilievo che è espansione della conoscenza, arricchimento oltre il preciso che spesso è limitato, un momento della realtà, forse anche il più banale all’osservazione, anche se il più utile o usuale. PRODUZIONE RIPRODUZIONE PRODUZIONE 12 fotogrammi, 20 fotogrammi, 36 fotogrammi a cui corrispondono misure precise di banda sensibile (dimensionamento della memoria statica). Ne prendiamo atto come primo momento/impatto col ‘fare fotografia’. Una scansione ritmica che può diventare mono-tona. Non questo, quello, qui, ieri, oggi... 12, 20,36 fotogrammi (quanti ‘-gramma’ nella storia della cultura dell’uomo!) sequenziali, intervallati dal tempo fisico necessario per ricaricare, la macchina fissa, incantata sul soggetto. Tutti diversi leggermente? Non importa. Importa la meccanica. Fotografare è anche caricare-scattare-caricare-scattare … E poi la stampa, non selettiva fotogramma per fotogramma ma globale, l’intera banda fissata come un unico fotografico. 12, 20, 36 scansioni intervallate (impossibile evitare il silenzio, non luce, vuoto?, ritmo), ora globalità quasi fredda. Il risultato di luce, banda sensibile, discretizzazione, ora in interazione come globalità, nuovamente, per essere registrata, 12, 20, 36 volte. 12 volte 12, 20 volte 20, 36 volte 36. 12, 20, 36 registrazioni mono-tone, scansione ritmica. 12, 20, 36 fotogrammi sequenziali. intervallati dal tempo fisico. …. Dopo, in fondo, quando?, lettura complessiva. Rimpicciolimento progressivo. 12 di 12 di 12 di 12 … 20 di 20 di 20 di 20 … 36 di 36 di 36 di 36 … La definizione dell’immagine (mito meccanicistico?) sempre più approssimata. Decresce (la qualità) di ogni singolo frammento, aumenta (la qualità) verso la globalità. Un’indagine-ricerca-produzione nel fare fotografico quasi-rito automatico che emerge come apprezzamento quantitativo (e anche come-perchè‚ quantitativo?). Il fare fotografico capace di produrre arricchimento, nuovamente. FOTOGRAFIA TOTALE Supporti sensibili, le immagini, le immagini stratificate - non mediate, fisico compenetrarsi in profondità, miscelate nella gelatina, supporto-humus attivo nel tempo che si evolve: registra e si aggiorna.
Non sappiamo fino a quando: tempo. Non sappiamo fino dove: spazio un’esposizione indefinita nel tempo fisico susseguirsi micro immagine non più piatta
- la vecchia figurina fotografica - codici - polivocità - sentimenti - equivoci - ricordi
senza selezioni umanistiche
- soggettività un meccanismo fisico
sistema fisico
immotivato?: oltre i finalismi occasionali autonomo fino al totale esaurimento = tutto = totale attività. E dopo? uno scheletro disseccato? non credo, anzi pattern a strati non certo euclideo, linearmente, ma fisico. Perché‚ interessa? può anche essere imbarazzante o inquietante o deludente ma finalmente: per conoscere-agire fisicamente per riconoscersi-interagire fisicamente un passo molto piccolo: ma dentro Su di esso: espedienti discreti di dosaggio fisico passa/non passa - la misurazione passa più/passa meno - meno misurazione più comportamento anche: il tempo come continuità interrotta misura dentro il processo, non questo attraverso la misura (clic) ancora: un colloquio contatto - l’autoritratto gli autoritratti fisico, attraverso la luce fotoni che (rimbalzano?) entrano tutti ciascuno col proprio spazio nel tempo oppure anche: la contestualità come analogia nero/exposed bianco/unexposed exposed/bianco unexposed/nero chiarendo caso caso la referenza (tutto questo però è prima come ieri ecco anche perché‚ fisico come analogico). E DOPO? Ancora la luce e gli oggetti come due termini di un rapporto binario. Questa volta però immediato, con l’artificiale creato come supporto/analisi/rivelatore/diaframma/per/della luce. Forse anche comportamento arricchito come intelligenza della luce e/o scelta operativa sperimentale in cui la luce determina, pone i termini sperimentali del fenomeno. E allora oggetti utili, fisicamente credibili, anche se discreti e forse ironici nella dimensione percettiva tutta-uomo. Un percorso per ritrovare l’artificiale. creazione ed espansione dell’esperienza fisica.
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La binarietà e lo spazio bidimensionale. Analisi di una ricerca sperimentale in arte Testo datato dicembre 1980 e reso pubblico in forma dattiloscritta; successivamente posto in appendice al testo L’evoluzione della binarietà. Opere 1979-1993 del settembre 1993 PREMESSA Questo scritto sintetizza in forma espositiva il punto di arrivo dell’approfondimento teorico e della sistematizzazione da me condotti sui risultati conseguiti nel mio lavoro di ricerca sperimentale, la cui prima impostazione risale al 1963. Lo scritto tende quindi a mettere in evidenza e ad esaminare in modo particolareggiato l’ipotesi di fondo di questo lavoro e cioè il tentativo di introdurre una mutazione controllata e controllabile nei modi e nei contenuti del fare arte. Tale esperimento si è concretizzato nella immissione in essi di un referente strutturante esterno al processo, la binarietà, che in prima approssimazione può essere indicato come il ‘mutante’. Il discorso verterà quindi sulle caratteristiche del mutante, sulla definizione del punto in cui esso viene inserito nella catena della operazione artistica e sul rilevamento delle modalità funzionali che la nuova costellazione strutturale ‘mutata’ presenta. Un’altra parte sarà inoltre dedicata all’ipotesi di una scala cromatica che sia correlata alla elaborazione binaria dello spazio bidimensionale. PARTE PRIMA il mutante
La binarietà, o se si preferisce il sistema binario, può essere definito in modo semplice come un procedimento logico-matematico a due stati (aperto/chiuso, si/no, 1/0). Tale procedimento ha interessato a più riprese varie discipline, dalla logica alla linguistica, dalla cibernetica alla neurofisiologia alla semiologia. Al di là di ogni considerazione sull’ampiezza dell’estensibilità del termine ‘binario’ e sulla validità del binarismo, intorno alle quali diversi studiosi hanno preso posizione, merita precisare che il carattere di estrema semplicità del procedimento ha costituito forse il dato più rilevante ed utile per la sua adozione in diverse situazione sperimentali e teoriche. lo spazio bidimensionale
La bidimensionalità può essere assunta come dato primario dello spazio da elaborare, almeno nella specificità di una dichiarata situazione sperimentale, come la presente, nella quale si richiede di ridurre al minimo le varianti in input onde garantire quella controllabilità della sperimentazione alla quale è stato fatto riferimento più sopra. È inoltre evidente la considerazione che non si può avere spazio da elaborare al di sotto delle due dimensioni. Oltre a ciò l’assunzione dello spazio come entità bidimensionale offre, intrinsecamente, l’aggancio funzionale con la binarietà. la mutazione - il processo analogico Binarietà e bidimensionalità sono quindi i due termini, geneticamente irrelati, attraverso i quali si vuole instaurare un processo di mutazione. Più nei dettagli: si ha
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un certo fenomeno, la binarietà, del quale interessa non tanto la specifica forma che ha nel proprio contesto, quanto la sua meccanica articolatoria, che dovrà essere utilizzata in un contesto, come già rilevato, geneticamente diverso, quello della bidimensionalità. Detto in altri termini, ciò che interessa è il contenuto del primo per la formalizzazione del secondo. Ecco che allora la primitiva definizione del processo come mutazione si precisa meglio ed assume tutte le caratteristiche per essere indicato come processo di trasformazione analogica. E di questo la formalizzazione è fase primaria e determinante. Formalizzazione come encoding, a cui evidentemente corrisponderà un conseguente decoding, in cui il processo di codifica rinvia ai criteri che devono essere appropriati al sistema nel quale il codice diverrà operativo. Livello questo al quale si può parlare di sintassi o sintattica. Ma prima di entrare nel merito di ciò è forse più opportuno precisare meglio il passaggio analogico che conduce dalla binarietà e dalla bidimensionalità alla bidimensionalità binaria. Vi è stato, storicamente, il tentativo di individuare i termini binario ed analogico come due procedimenti se non addirittura antitetici certamente rivali. Sembra evidente che se questa impostazione corrispondesse al vero, un processo di trasformazione analogica del binario sarebbe una contraddizione in termini e quindi incostituibile. In effetti però l’antinomia risente dell’angolazione linguistica in cui è stato esaminato il rapporto, senza invece tenere presente, per quanto attiene al binario, la sua dimensione articolatoria. E questa dimensione è quella che invece costituisce il motivo di interesse per la ipotesi sperimentale proposta. La particolarità del processo analogico in esame è quella di implicare due termini che sono costituiti ciascuno da due momenti (binarietà: procedimento a due stati - bidimensionalità: realtà a due dimensioni) e nello stesso tempo ognuno di essi ha intrinseche specificità articolatorie (si/no rispetto a verticale/orizzontale). Su questa corrispondenza si instaura la trasformazione che conduce da un contenuto ad una nuova forma, in cui il primo termine, la binarietà, offre la meccanica per formalizzare la materia del secondo, la bidimensionalità. La trasformazione così operata evita, sia detto per inciso, il rischio della modellistica, che non interessa e che consisterebbe nella riproduzione sostanzialmente inalterata del fenomeno originario. la struttura mutata
Entrare nel merito della sintassi binaria significa percorrere le tappe attraverso le quali si attua la formalizzazione binaria dello spazio bidimensionale. È stato osservato che le due dimensioni costituiscono la condizione minima ed ottimale
dello spazio affinché di questo ne possa essere effettuata una sperimentazione articolatoria controllabile. Perché ciò sia operativamente possibile è necessaria tuttavia la presenza di un’altra condizione e cioè che lo spazio sia riconducibile a misura. Misura mono-tòna, come costituente microcellulare indifferenziato. La quadrettatura o il reticolo è il primo livello di discretizzazione dello spazio bidimensionale.
figura 3
La individuazione dell’elemento binario riorganizza quindi il primitivo reticolo (fig. 1), trasformandolo nel reticolo binario (fig. 4).
figura 1
La binarietà è procedimento a due stati, in cui l’elemento binario è presente oppure assente (1/0). Tale eventualità deve valere come possibilità alternativa anche per lo spazio bidimensionale, nel quale, tuttavia, l’elemento che verrà individuato come costitutivo della sua articolatorietà dovrà riflettere un’altra possibilità, quella relativa alla direzionalità dello spazio (verticale/orizzontale). È quindi necessario che questo elemento costitutivo risponda ad una esigenza biunivoca tra le due coppie presenza/assenza e verticale/orizzontale. Si forma così lo schema combinatorio, indicato nella fig. 2, nel quale è possibile effettuare la scelta tra le quattro alternative citate.
figura 4 i modi operativi
La fig. 4 indica la trama fisiologica dello spazio bidimensionale operativizzato in senso binario, che ne costituisce la digitalizzazione onnipresente, sia resa o meno esplicita visivamente nel contesto delle elaborazioni fattibili. In questa trama è infatti compresa la struttura nella quale le quattro possibilità alternative relative all’elemento binario sono copresenti. Tale struttura è indicata nella fig. 5 e costituisce il primo livello di aggregazione funzionale del bit spaziale.
figura 2
figura 5
Ma qual è l’elemento dello spazio bidimensionale che risponde a questa esigenza biunivoca? È un doppio quadrato, l’elemento binario o bit spaziale (fig. 3), costituente aggregato della mono-tona discretizzazione dello spazio.
Essa può essere definita cellula binaria e può assumere operativamente le quattro configurazioni indicate nella fig. 6, nelle quali i numeri in alto codificano le scelte operate sulla base dello schema combinatorio della fig. 2.
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figura 6
Occorre tuttavia precisare un aspetto importante della elaborazione binaria dello spazio. Esso avviene in modo lineare e sequenziale, da sinistra a destra e dall’alto in basso. Ciò comporta che per ogni cellula binaria, in cui è strutturato lo spazio, esiste una sola scelta possibile per ogni passaggio elaborativo. Una sola scelta per ciascuno dei due aspetti della bidimensionalità binaria: presenza/ assenza e verticale/orizzontale. Se viene pertanto ipotizzato, a titolo esemplificativo, uno spazio da elaborare con tutte le presenze, orizzontali e verticali, dovranno essere eseguiti due passaggi elaborativi successivi e lineari, come indicato nella sequenza della fig. 7.
1° passaggio
l’indice alto. È intuibile che ad ‘n’ può essere attribuito un valore metrico qualsivoglia, ricordando che esso costituirà anche il valore di maglia del reticolo di partenza (fig. 1). L’attribuzione di questo valore permette la individuazione dei multipli di ‘n/2n’, cioè di diversi gradienti binari, e la conseguente stesura di una tabella nella quale potranno essere individuati i livelli tabellari specifici di ogni spazio bidimensionale ed i gradienti binari con i quali sarà possibile operare la elaborazione. Un esempio semplificato di tabella è rappresentato nella fig. 8.
figura 8
2° passaggio
Nella tabella surriportata si può constatare che, per esempio, uno spazio bidimensionale di livello tabellare 6x6 (A) permette la elaborazione con i gradienti binari 1/2 e 2/4, mentre al livello tabellare 18x18 (B) oppure 18x12 (C) i gradienti binari disponibili sono ½, 2/4 e 3/6. Ciò permette successivi e sovrapposti passaggi elaborativi (quelli a livello tabellare 6x6 sono esemplificati nella figura 9). 3° passaggio
figura 7
che in sovrapposizione daranno il risultato di una ‘presenza totale’ o prestot. Un altro aspetto fondamentale da esaminare è quello relativo al gradiente metrico adottabile per la elaborazione. La formula del bit spaziale o elemento binario è ‘n/2n’, che indica il rapporto delle dimensioni verticali ed orizzontali del bit stesso. La formula rappresenta il gradiente binario. In essa ‘n’ rappresenta l’indice basso mentre ‘2n’ rappresenta
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figura 9a
de esattamente al campo binario nel caso che quest’ultimo sia elaborato ad un unico gradiente binario. La fig. 10 è una sintesi schematica di tutte le strutture individuate nello spazio bidimensionale sottoposto ad elaborazione binaria.
figura 9b
È stato precisato che la cellula binaria, struttura primaria, contiene le scelte alternative relative al bit spaziale. In essa sono tuttavia presenti anche due componenti che nascono indissolubilmente legati all’elemento binario, rappresentandone ciascuno un aspetto monodimensionale e perciò indirezionato. Essi sono l’intercodice prearticolatorio e l’intercodice postarticolatorio. Il primo precede linearmente gli elementi binari (verticali ed orizzontali) ed è definito dal loro indice basso (‘n’); il secondo corrisponde all’interspazio fra gli stessi ed è definito dal loro indice alto (‘2n’). L’intercodice prearticolatorio è il luogo ove linearmente avviene la scelta dell’elemento binario in relazione alla sua presenza/assenza e verticalità/orizzontalità. Adempie cioè ad una funzione logica ben precisa nel flusso delle scelte operative. Tale funzione si amplia poi nel permettere la discretizzazione visiva degli elementi binari nella loro sequenza (funzione della presenza). Mentre gli intercodici ora menzionati sono componenti della cellula binaria e quindi già esplicitamente definiti nel reticolo binario, i precodici avranno una individualità riconoscibile soltanto se articolati nel processo operativo. Vi sono cinque tipi di precodici e precisamente: precodice basso - costituito dalla intera banda (o comunque porzione di essa superiore all’estensione della cellula binaria) verticale e/o orizzontale, sulla quale giacciono gli intercodici prearticolatori (valore binario = ‘n’); precodice alto - ha la stessa estensione del precedente, ma su di esso giacciono gli intercodici postarticolatori (valore binario = ‘2n’); precodice integrato - risultante dalla fusione di un precodice basso e di un precodice alto, contigui, omogenei, cioè risultanti dallo stesso gradiente binario (valore binario = ‘n + 2n’); precodice ristretto basso - costituito dalla fusione di un bit spaziale con il proprio intercodice prearticolatorio; precodice ristretto alto - costituito dalla fusione di un bit spaziale con il proprio intercodice postarticolatorio. Per completare la rassegna delle strutture che emergono dalla elaborazione binaria dello spazio, occorre ulteriormente definire la porzione di questo composta da più cellule binarie, seppur nell’ambito di un campo più vasto e inarticolato o articolato ad un diverso gradiente binario. Tale porzione di spazio può essere definita ipercellula binaria. Questa corrispon-
figura 10 la tabella dei termini
L’elenco delle strutture evidenziate nella fig. 10 costituisce la tabella dei termini (fig. 11) sui quali verte l’articolazione dello spazio. Nella tabella riportata i termini da 1 a 8 attengono alla definizione dello spazio e ne danno le caratteristiche fondamentali di operatività. I termini successivi definiscono lo spettro delle scelte attraverso le quali l’elaborazione diventa operativa. Tutti e ventuno i termini costituiscono quindi la costellazione globale entro la quale viene definita ogni elaborazione binaria possibile dello spazio bidimensionale. Se questi termini vengono disposti in una tabella combinatoria appropriata,
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PARTE SECONDA considerazioni aggiuntive
Nella prima parte di questo scritto è stata esposta la sintassi binaria che permette la elaborazione dello spazio bidimensionale. In questa seconda parte verranno svolte, in modo sequenziale e sintetico, alcune considerazioni aggiuntive che consentiranno di penetrare più profondamente nei meccanismi che presiedono alla elaborazione binaria, così come è stata impostata. Verranno enucleati pertanto quattro punti che riguardano altrettanti aspetti dell’ipotesi sperimentale proposta e cioè: lo spazio, il processo elaborativo, le scelte operative, la decodifica di particolari configurazioni dell’elaborato.
figura 11
emerge la possibilità di individuare in essa la rappresentazione grafica di tutte le scelte eseguite in qualsiasi situazione operativa. Un esempio di tabella in tal senso è quella rappresentata nella figura 12, che contiene anche le incompatibilità combinatorie, quelle cioè formate da termini che costituiscono sottoscelte alternative di un unico termine (nella tabella sono indicate con ‘ _ ‘). Essa contiene inoltre, a titolo esemplificativo, gli schemi grafici delle due seguenti elaborazioni: a - 4.7.11.16.20 = gradiente binario plurimo - campo binario - elementi orizzontali (elor) - precodice alto - intercodice postarticolatorio b - 5.9.12.17 = reticolo binario unico - cellula binaria - elementi verticali (elver) - precodice integrato.
figura 12
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1. Lo spazio 1.0 Lo spazio è bidimensionale. 1.1 La sua dimensione è prevista dalla tabella dei livelli, dalla quale si desumono i gradienti binari operativi al livello scelto. 1.1.1 Correlativamente la dimensione dello spazio può essere assunta, sempre in base alla tabella dei livelli, come dato subordinato rispetto alla scelta dei gradienti binari. 1.1.2 Lo spazio bidimensionale è sempre operativizzabile in modo binario. 1.1.3 Ad ogni valore di ‘n’ della maglia di discretizzazione dello spazio bidimensionale, corrisponderanno sempre elementi binari (bit spaziali) di formula ‘n/2n’ o suoi multipli. 1.1.4 Così ad ogni valore di ‘n/2n’ o suoi multipli, corrisponderà sempre uno spazio bidimensionale definito dalla maglia di discretizzazione di valore ‘n’. 2. Il processo elaborativo 2.1 Il processo elaborativo ha andamento lineare e si svolge di norma dall’alto al basso e da sinistra a destra. 2.2 Ogni elaborato è ottenuto con uno o più passaggi elaborativi in sovrapposizione. 2.2.1 Per passaggio elaborativo va intesa una serie omogenea di operazioni previste dalla sintassi binaria. 2.2.2 Sono serie omogenee di operazioni quelle che vertono selettivamente sui singoli punti della tabella dei termini (fig. 11) 3. Le scelte operative 3.1 Le scelte operative relative ai vari passaggi elaborativi sono quelle previste dalla tabella dei termini. 3.2 Il loro ordine è determinato in via preliminare 3.2.1 A ordine diverso può corrispondere in alcuni casi diversa strutturazione del risultato 3.3 La compatibilità delle scelte è indicata dalla tabella combinatoria 3.4 Il criterio delle scelte può essere stocastico oppure finalizzato alla messa in evidenza di uno o più termini della tabella e/o alla evidenziazione delle interrelazioni esistenti tra due o più termini di essa.
3.5 L’elaborazione può anche consistere nella traduzione operativa di un particolare tracciato grafico individuato nella tabella combinatoria. 3.5.1 Così, dopo la individuazione del tracciato esemplificativo ‘8.9.12.16.19’, può essere richiesta la stesura dell’elaborato corrispondente. La suddetta sequenza, in termini espliciti, prevede: sottocampo binario - cellula binaria - elemento verticale (elver) - precodice alto - intercodice prearticolatorio. Il risultato è schematizzato nella fig. 13.
SI
1. 3. 5. 11. 12.
NO
2. 4. 6. 7. 8. 9. 10. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21.
L’elaborato della fig. 14 viene conseguentemente indicato con la sequenza: 1.3.5.11.12. 4.4 Dalla sovrapposizione di successivi passaggi elaborativi possono risultare determinati elementi e strutture (transelementi e transtrutture) diversi da quelli previsti dalla tabella dei termini (elementi e strutture di prima articolazione). La figura 15 ne indica la genesi operativa.
figura 13
4. la decodifica 4.1 La decodifica è la lettura dell’elaborato in termini di sintassi binaria. 4.1.1 Qualsiasi altro livello di decodifica è improprio perché decontestualizza la genetica funzionale che ha condotto all’elaborato in esame. 4.2 La decodifica, come il processo elaborativo, è sequenziale e lineare. 4.3 Qualsiasi configurazione è sempre in rapporto con le altre che la precedono nella sequenza operativa e con quelle escluse dalla sequenza prescelta (funzione del valore operativo).
figura 15
4.4.1 La loro decodifica deve avvenire in modo sequenziale, decostruendo i passaggi elaborativi che li hanno generati. 4.4.2 Il risultato può essere anche quello di ottenere frammenti di elementi e strutture (sottoelementi e sottostrutture). Così, se viene ripreso in esame l’esempio rappresentato nella fig. 15, e ipotizzato che le due marcature in sovrapposizione si annullino, il risultato è quello che appare nella fig. 16
figura 14 figura 16
La configurazione soprastante si svolge in due passaggi elaborativi: 1) elor - elor - elor - elor 2) ----- elver ----- elver Scorrendo in sequenza la tabella dei termini possiamo elencare le scelte operative come sotto indicato:
4.5 I concetti di alto, basso, centrale hanno una connotazione esclusivamente operativa. Così negli esempi proposti nella figura 17 possiamo a rigore parlare rispettivamente, da sx a dx, di elor alto, elor basso e Precodice ristretto centrale.
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figura 17
4.6 Similmente deve dirsi per il concetto di simmetria. Due situazioni sono simmetriche quando lo sono le catene operative che le hanno generate. Così negli esempi schematizzati nella figura 18 non si può parlare di simmetria nel primo di essi, mentre è appropriato farvi riferimento nel secondo.
figura 18 Catene operative: elor
–
elor
–
elor
–
elor
–
–
–
elver
elver
elver
–
elver
–
PARTE TERZA un’ipotesi di scala cromatica
I punti assunti come base dell’ipotesi di una scala cromatica, che sia correlata all’elaborazione binaria dello spazio bidimensionale, sono: 1. il colore è usato come marcatura degli elementi e/o strutture che vengono determinati nel corso dell’elaborazione dello spazio secondo la sintassi binaria; 2. il colore, quindi, non ha funzione espressiva, plastica e non costituisce un particolare ipercodice culturale pittorico; 3. il colore è elemento descrittivo dello spazio, mostra cioè lo stesso come dato elaborato, attraverso la differenziazione cromatica degli elementi e/o strutture che lo operativizzano; 4. filogeneticamente viene dopo il codice binario, non dandosi il colore come valenza autonoma nella elaborazione binaria dello spazio.
Sono questi i termini elementari sui quali si basa la ricerca che qui viene proposta. Da questi possono essere derivati, attraverso opportuna miscelazione, i termini di prima coniugazione. La miscelazione, ammessa la costanza dei termini elementari per ogni fase di essa, dovrà avvenire con precisi criteri di controllabilità, al fine di ottenere una scala cromatica costante in ogni sua zona e congruente alla elaborazione binaria dello spazio. Escluso il ricorso ad una campionatura di ordine fisico-chimico, possibile, ma che qui non interessa in quanto condurrebbe ad un diverso ambito di ricerca, non rimane che la individuazione di un criterio operativo tale che permetta il rispetto delle attese insite nel tipo di elaborazione richiesta. Si dia a questo punto, come ipotesi di lavoro, la necessità di marcare due serie di bit spaziali dello stesso gradiente binario, di cui una verticale e l’altra orizzontale. Si è di fronte, giova rimarcarlo, a due serie geneticamente omogenee, ma diversamente articolate. Occorre quindi, per il principio della congruenza più sopra richiamato, individuare il procedimento idoneo ad ottenere, per miscelazione dei termini elementari, due termini di prima coniugazione ugualmente omogenei ma diversamente articolabili. Si tratta in sostanza di adottare un procedimento analogico che permetta di passare da un contenuto (in questo caso: orizzontale) ad un altro contenuto (verticale), in assenza di una forma comune ad entrambi (orientamento). Occorre cioè non tanto trovare la marcatura specifica della verticalità e della orizzontalità dei bit spaziali dello stesso gradiente binario, quanto individuare, per le due marcature, una genesi omogenea tale che renda intrinsecamente operabile una diversa articolazione. Se si pone attenzione al meccanismo che permette l’articolazione orizzontale/verticale del bit spaziale, si scopre che ciò avviene a causa della particolare struttura dei bit stessi, resi orientabili dalla loro costruzione in base alla formula ‘n/2n’ Il meccanismo consiste e si riduce quindi alla particolarità della quantificazione. E la quantificazione può diventare il criterio basilare per la costruzione della scala cromatica binaria. quantificazione della scala cromatica binaria
Partendo dalla triade cromatica formata da azzurro (da ora indicato con A) - giallo (idem con G) - rosso (idem con R) e operando la quantificazione in base alla formula ormai consueta , si ottiene la tabella della fig. 19.
genesi della scala cromatica
Il punto di partenza è costituito dalla triade cromatica
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azzurro
-
giallo
-
rosso.
figura 19
Pertanto le due coppie di marcature cromatiche da adottare per le due, più sopra ipotizzate, serie di bit spaziali, rispettivamente verticali e orizzontali, andranno evidentemente scelte tra VE (verde)/G e VE/A oppure tra VI (viola)/R e VI/A oppure tra AR (arancio)/G e AR/R.. Il risultato, che la tabella vista sopra evidenzia, è una scala cromatica strettamente legata ai termini elementari, dai quali discende attraverso una quantificazione rigida ed analoga, come procedimento, a quella che ha generato il reticolo che organizza in senso binario lo spazio fino ad allora inarticolato. routine, subroutine e ssubroutine cromatiche
Se i termini elementari e i termini di prima coniugazione così ottenuti vengono disposti graficamente in modo appropriato, si perviene alla redazione della routine cromatica che appare nella fig. 20.
figura 21
figura 20
All’interno della routine di fig. 20 sono individuabili tre subroutine (di A, di G, di R) nelle quali il termine centrale, il primario, corrisponde al termine elementare e quelli esterni, i secondari, hanno in comune tra loro, pur nella diversità cromatica, il quantificatore ‘2’ con il quale sono entrati nella miscela che ha loro dato origine. Sono cioè, se ci riferiamo per esempio alla subroutine di G, ‘ /G’ che equivale a ‘tendente a G’. Partecipano cioè del primario (G), dal quale derivano, attraverso una costante tendenziale. Una volta chiarito il procedimento attraverso il quale è stata ottenuta la scala cromatica riportata nella routine di figura 20, è possibile procedere ulteriormente nella coniugazione dei termini. Questa volta entreranno evidentemente in gioco non solo i termini elementari, ma questi e quelli di prima coniugazione già individuati. Si otterranno così termini di seconda coniugazione, che uniti agli altri precedentemente determinati, formeranno una scala cromatica più ampia, della quale, nella figura 21, appare la versione in forma di routine.
In questa figura compaiono sia le subroutine che Ssubroutine. Ogni subroutine è formata da tre Ssubroutine, una ciascuna per il primario e per i due secondari. E stato delucidato il rapporto cromatico esistente a livello di subroutine tra il primario ed i secondari. Tale rapporto persiste anche nella routine cromatica contenente i termini di seconda coniugazione. Persiste tuttavia sempre e solo a livello di primari e secondari, in quanto questi ultimi, nell’ambito della subroutine di appartenenza, hanno anche un termine estremo della loro specifica Ssubroutine che assume altre caratteristiche. A tale riguardo è necessario osservare che questi termini costituiscono particolari legami cromatici con i termini delle Ssubroutine contigue. Ciò del resto accadeva anche nella routine illustrata nella figura 20. La particolarità di questi legami consiste essenzialmente nel fatto che ciascun termine ha una composizione cromatica reciproca di quella del termine contiguo. Così infatti abbiamo le coppie: AR-R / AR-G e AR-G / AR-R , VI-R / VI-A e VI-A / VI-R , VE-A / VE-G e VE-G / VE-A Questi termini possono essere definiti, a causa del reciproco rapporto esistente fra loro, termini di legame. verso una sintassi cromatica?
L’osservazione effettuata a proposito dei termini di legame, consente di rilevare che ogni passaggio da una subroutine o da una Ssubroutine a quella contigua,
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che equivale a dire da una caratteristica sostanziale ad un’altra, avviene attraverso termini in tal modo articolati. Esiste cioè una costante che percorre tutta la routine. Al fine di interpretare esplicitamente il fenomeno, è forse opportuno rappresentarlo graficamente con una linea spezzata, assumendo che i termini giacenti sullo stesso tratto di linea orizzontale abbiano identica composizione cromatica sostanziale, anche se diverso indice di tendenza (fattori questi indicati nella formula di ciascun termine rispettivamente come numeratore e denominatore del rapporto). Il risultato è rappresentato nella figura 22 (limitatamente ad uno spezzone di routine).
figura 22
La linea spezzata riflette un andamento di tipo binario. In ogni punto in cui essa devia dal percorso vi è un cambio di polarità nei termini che lo contraddistinguono. Vi è cioè il passaggio tendenziale da una Ssubroutine all’altra attraverso l’inversione dei fattori dei termini nella formula cromatica, nella quale il numeratore passa ad essere denominatore o viceversa. Un cambio di polarità che riflette molto da vicino l’analogo processo che si verifica nella sequenza binaria al momento dell’inversione polare tra 0 e 1 (o viceversa). Ma un altro aspetto emerge direttamente dal tipo di percorribilità della scala cromatica che via via si è evidenziato. È la natura articolatoria del colore, che si impone come dato primario su qualsiasi reminiscenza di natura emotiva, percettiva o quant’altro. Analogamente a quanto era accaduto per lo spazio bidimensionale, dopo la messa a punto del criterio strutturante binario, il colore assume una referenza tutta interna a se stesso, sul proprio versante operativo. È questo certamente un elemento non secondario per valutare fino a che punto, partendo dalla ipotesi originaria ed adottando i criteri di quantificazione cromatica che sono stati precisati, si sia pervenuti alla definizione di una scala cromatica ‘pulita’, cioè la più vicina possibile alla sintassi binaria dello spazio, alla quale deve fornire elementi di marcatura congruenti. Il problema consisterà ora nel saggiare la duttilità di questo strumento nella concreta realtà della elaborazione binaria. E da questo aspetto discenderanno certamente nuovi arricchimenti e più precise informazioni sulla meccanica e sul comportamento della marcatura cromatica binaria.
Nota dell’artista Testo datato Pistoia, ottobre 1989 e pubblicato nel catalogo della mostra Labirinti. Analisi e stile, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Giorgio Ulivi, Pistoia, Palazzo Comunale, ex Centro Marino Marini, gennaio-febbraio 1990 Le opere esposte sono state prodotte nel periodo 1981-1989. L’anno 1981 rappresenta nel mio lavoro, dopo lo scritto “La binarietà e lo spazio bidimensionale”, un punto importante in cui si stabilizza una fase elaborativa con la sistemazione teorica del lavoro svolto. La rassegna è intesa a rendere conto delle acquisizioni e delle aperture che si sono andate successivamente costruendo intorno all’antica e permanente individuazione della binarietà come referenza intellettuale e metodologia costruttiva e quindi comportamento creativo. In tutto ciò gli aspetti che in questa occasione indicherei importanti ad un attento lettore sono: - il colore binario, nella sua accezione operativa cioè a referenza non autonomizzante ma interrelativa; - l’estroflessione nello spazio tridimensionale, come cadenzato impossessamento di una espansione controllata; - la tessitura materica delle superfici che, analogamente a quanto avviene per il colore, si attua sul versante operativo, al di fuori, di qualsiasi mitizzazione otticale;
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- le reti come reticoli compressi, necessari se relati a sottodimensioni metriche; - l’utilizzo del supporto accettato anche se dimensionalmente abinario ma da sistematizzare; - l’intervento sul residuo che, accoppiato e relato attraverso le strutture binarie, compatta, acquisendo senso; - la non vert/orizzontalità delle superfici a cui l’intervento sintattico binario fornisce struttura omologante o viceversa la non vert/orizzontalità delle strutture binarie che rendono leggibile la staticità delle superfici come parzializzazione geometrica-dimensionale; - le corde arboricole che correlano binariamente origini giacenti sul piano a scansioni dimensionali che da esse partono; - le sintesi mnemofantastiche sui materiali, i procedimenti, le tecniche - ormai vero e proprio ‘patrimonio genetico’ - (l’albero delle conoscenze?) Fin qui un plausibile, anche se affrettato, piano di lettura giocato sulla rilevazione
tassonomica di ciò che geneticamente determina il fare. Ma naturalmente coesistono altri livelli di decodifica, nel solito intreccio-gomitolo per cui sono così difficili in arte letture esaustive. Ecco infatti alcuni stralci dal mio “Diario di lavoro”: - .... eseguire (no, fare!) gli elaborati con una visione monoculare. - Pensare sempre che la nostra visione avviene attraverso la sovrammissione di due immagini, dx e sx, sfalsate in rapporto variabile. - Il ricamo-segno diritto-rovescio. - Lo specchio opaco. Il linguaggio. Due eventi coevi. Il mancato rispecchiamento. L’incoe-renza causale e la coerenza eventuale. Che tipo di rapporto è questo? - Costrutture binarie. - Bisogna scegliere tra l’essere pieni di sé e l’essere pieni di conoscenza.
- ...la binarietà è la sintassi attraverso la quale ‘elaboro il mondo’... È un punto di attacco, ciò che ritma sistole e diastole e le rende due momenti di un unico processo. - Reti anche come ‘eccesso’? - Ai margini-avviene la definizione. - La ‘pittura’ come ‘accidente’. Bisogna lavorare nonostante questa. - Il velamento è una simulazione rinviata. Il rinvio concerne la evidenziazione dei modi della simulazione. Il problema è semmai riuscire a operare una sintesi interlivellare tale da costituire necessaria ragione contestuale delle opere. Mi sembra evidente che se ciò si verifica non è sul piano critico ma nel momento della fattiva creazione artistica.
Rapidi appunti per sintetizzare il mio ultimo scritto “L’evoluzione della binarietà” e altro Testo datato Pistoia 22 dicembre 1993 e reso pubblico in forma dattiloscritta L’evoluzione che ha subito la mia ricerca ricorda in qualche misura ciò che è accaduto negli ultimi tempi alla ‘logica binaria’ pura nel campo dell’Intelligenza Artificiale e cioè il suo ampliarsi in ‘logica sfumata’. Nel caso dell’I.A. si è trattato di rispondere alla necessità di utilizzare uno strumento più sensibile per il rilievo-elaborazione del reale, per le ipotesi di reale a cui una logica decisionale (e tecnologicizzabile) deve rispondere. Nel mio caso si è trattato di una vera e propria automatica ‘mutazione’ dovuta al progressivo ed esplorativo necessitante ‘alzo del tiro’ sui comportamenti, le matericità, le culture che costituiscono lo specifico dato reale sul quale si applica la ricerca artistica: il tangibile,il visibile e la reattività verso di essi seppur assunti, nel mio caso, per il loro grado tendente allo zero. Esempi di questa mutazione: l’uscita dalla bidimensionalità, la più piatta, verso la modulazione tridimensionale; il passaggio dal colore mono-tono (elemento tracciante) al colore più problematico; dal levigato tendenzialmente amaterico alle impronte strutturali dei materiali usati, eccetera. Tutto ciò non esclusa la contemporanea attenzione all’operatore-osservatore. Quindi scoperta e rilievo dei suoi processi-meccanismi decisionali, del loro senso, del loro variare spesso per schemi, ora oppositivi ora assimilativi, ora decontestualizzati ora consequenziali, eccetera.Ma in senso molto generale: perché è accaduto tutto questo? Un ritorno all’ordine e/o all’organico? Una regressione? Non credo. La convinzione, molto generale ancora, è che stiamo attraversando uno di quei periodi significativi e non insoliti nella storia dell’umanità e nell’avventura del pensiero umano, nei quali alla assolutizzazione delle certezze innovative subentra un più meditato distacco osservativo, quasi un passaggio dal pensiero calcolante al pensiero meditante. Ambedue sembrano essere fasi di pulsazioni bipolari tipo
inspirazione/espirazione, che si alternano spesso su processi anche lunghissimi. A me sembra che ora siamo nella fase espiratoria, che conclude provvisoriamente il ciclo metabolico, e siamo forsanche nella fase della espulsione dei cataboliti (…troppo divertente sarebbe oggi fare un elenco dei più mirabolanti cataboliti che senza tregua vengono espulsi da ognidove...). Ma oltre e precedentemente a tutto ciò sta forse, innesco vero del processo e sua massima caratterizzazione, il fenomeno della linguisticizzazione (in senso lato) del reale, che emerge con forza negli anni settanta. Il reale, progressivamente, diventa ciò che è detto (non importa come, ad ogni dicitura corrisponde un relativo reale). Pensiamo alle scienze linguistiche, alle religioni (tutto linguaggio e niente reale), alle semiologie, alle filosofie, alle politiche, alle videosofie, eccetera. Ciò ha indubbiamente reso possibile un immenso lavorio, e altamente specializzato, sull’analisi, combinatoria, utilizzo dei linguaggi e suoi correlati (la realtà virtuale è il più raffinato risultato del lavoro con il linguaggio - nuova realtà miticomistica), ma ha anche contemporaneamente preparato il terreno per quella inesorabile legge che, sia nella natura sia nella cultura, presiede alla sopravvivenza, attraverso un riequilibrio, su punti più avanzati, del sistema globale. Le problematiche aperte a livello planetario sui più svariati ambiti ne sono testimonianza quotidiana. Simbolicamente: una rete, percorsa con continuità, prefigura un mondo a maglie, salvo imbattersi in un’apertura. In quel momento apprendiamo che il mondo non è soltanto, anzi lo è molto poco, a maglie; non resta che intascare questa possibilità e procedere. Moto pulsante bipolare ma non lineare però, la linearità sembra per ora con-
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cetto-processo arcaicizzato (processi non lineari si sviluppano ormai quasi in tutti i campi). Ecco: molto, ma molto genericamente e con vasta approssimazione, questo è il fondale della contemporaneità. In esso, entro di esso, prima e/o dopo di esso, gli sviluppi delle ricerche artistiche più sensibili agli eventi della contemporaneità. Ritorno allo specifico del mio lavoro: esso è coniugazione di un paradigma che, traslatamente, recita: dire è il dire del dire. L’attenzione è posta tutta nel processo interno al farsi (attenzione sia genetica che articolatoria). Non vi è referenza esterna intenzionale se non nella primaria, originaria, essenziale assunzione una tantum di un dato, la binarietà, da contesti extrartistici. Da allora il meccanismo autogenera se stesso e le proprie finalità come interconnessionimoltiplicantisi ed intersecantisi ad ogni minimo procedere della fattualità operativa.
Se poi in questo autoprocedere emergono analogiche assonanze con la contemporaneità degli eventi della cultura extrartistica, la ragione va ricercata nella lontana filogenitura che, processo ormai ereditario; marca di sé, variatamente, le singole emergenze dell’onda oscillante della ricerca. assonanze:
la rottura della linearità (già ricordata), l’ordine del disordine, il dato come elemento incausato nel processo ma fattualmente attivo, l’autogeneticità degli obbiettivi, la provvisorietà delle acquisizioni come risultante della parzialità dei processi genetici (fatto che qualifica a sua volta, ed esso solo, il tipo di provvisorietà), l’inoccultabilità dell’operatore ma la sua contemporanea riduzione a modulatore di scelte, peraltro già insite nel processo (e quindi la sua insignificanza esistenziale che semmai riemerge a livello di fruizione e riacquisizione dei risultati), eccetera. Sono questi, realmente, degli appunti molto rapidi e sommari!
Limiti Testo reso pubblico in forma dattiloscritta in occasione della mostra Limiti presso Opera, Perugia 16 maggio 1994
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Nello studio Opere recenti Testo pubblicato in proprio e reso pubblico in occasione della mostra omonima presso il proprio studio di Pistoia nel maggio 1995. Viene qui omessa la premessa Il titolo dell’ultima mia mostra, tenutasi alla Galleria Opera di Perugia nel maggio del 1994, era limiti. Con essa volli significare che ogni lavoro creativo, magari ogni gesto, al di l della sua complessità e ampiezza, segna un limite. E ciò in più direzioni: 1 - rispetto al complessivo operare di quell’artista, marcando un territorio fino allora inesplorato, oppure diversamente esplorato, oppure ancora parzialmente esplorato o solo accennato e così via; 2 - rispetto alla positività dell’atto, nel senso di una rottura (e rottura specifica, determinata) del silenzio su ciò che l’atto esplora e, specularmente, persistenza del silenzio su ciò che l’atto, limitato, non esplora (ma è possibile rilevare questa silenziosità residua?); 3 - rispetto alla costellazione combinatoria degli allontanamenti dal centro nucleare dell’agire proprio dell’artista (e ciò parzialmente rinviando al punto 1); 4 - rispetto all’ambito di attese che la cultura arte (in senso lato e nel suo complesso, sia come storia dell’arte che come conoscenze percepite) dinamicamente genera. Le opere che vennero presentate alla rassegna di Perugia cercarono di mettere in interrelazione questi eventi positivi, proponendo un itinerario complesso di atti e di verifiche, di ambiti e di pertinenze e suggerendo così una continua e problematica provvisorietà conoscitiva che è uno dei temi fondamentali della mia ricerca sulla binarietà. In altra sede ho rilevato come lo specifico del mio lavoro sia la coniugazione di un paradigma che traslatamente, operando qui e ora a livello linguistico, recita: dire è il dire del dire L’attenzione è posta tutta nel processo interno al farsi (attenzione bidirezionale: genetica e articolatoria). Non vi è referenza esterna se non nella primaria, storica, essenziale assunzione una tantum, da contenuti extraartistici, di un dato: la binarietà. Da allora il meccanismo autogenera se stesso e le proprie finalità come interconnessioni che si moltiplicano e si intersecano ad ogni minimo procedere e variare, secondo una sintassi all’uopo generata, della fattualità operativa. Da ciò emerge una tautologia fondante i limiti della ricerca artistica, almeno per quanto mi riguarda, ma lo schema è generalizzabile per questo suo aspetto auto-nomistico (la vera ‘autonomia’ dell’arte è questa). Detta tautologia è rappresentabile, se dobbiamo ancora usare il livello linguistico, in una sequenza-matrice ternaria di dire (figura 1) nella quale: 1 - è la concreta e specifica comunicazione (stadio fattuale) 2 - è la tecnica pertinenziale (stadio modale) 3 - è la possibilità comunicativa originaria (stadio potenziale). Da qui gli itinerari tautologici: 1 - 2 - 3 la concreta e specifica comunicazione è l’articolazione, attraverso la
figura 1
tecnica pertinenziale, delle possibilità comunicative originarie; 2 - 3 - 1 la tecnica pertinenziale articola la possibilità comunicativa originaria in atto di concreta e specifica comunicazione; 3 - 1 - 2 la possibilità comunicativa originaria si traduce in atto di concreta e specifica comunicazione attraverso la tecnica pertinenziale. Questo schema è una versione generalizzata del processo che è pensabile si attui ogniqualvolta vengono compiuti atti comunicativi. Una versione di questa matrice, più relata alla mia ricerca, potrebbe essere quella riportata nella figura 2, nella quale: 1 - articolazione del reale fattuale (fattualità) 2 - scelte operative di sintassi binaria (modalità) 3 - la binarietà come processo intenzionale (potenzialità) Conseguentemente gli itinerari tautologici diventeranno: 1 - 2 - 3 l’articolazione del reale fattuale avviene sulla base di scelte operative di sintassi binaria che attuano la binarietà come processo intenzionale;
figura 2
2 - 3 - 1 le scelte operative di sintassi binaria attuano la binarietà come processo intenzionale articolando il reale fattuale; 3 - 1 - 2 la binarietà come processo intenzionale è articolata nel reale fattuale attraverso scelte operative di sintassi binaria. Tutto lo schema può apparire abbastanza ovvio, ma ritengo che la continua coscienza dell’intero processo che esso identifica e cristallizza, sia modalità comportamentale di chi vuol tener viva, nel proprio agire, la consapevolezza della operatività che ogni scelta comporta. Per inciso bisogna notare che lo schema indicato richiama un concetto di limite(con il quale ho aperto questo scritto) sia per la riduzione necessariamente semplificante che esso comporta rispetto alla realtà del fenomeno che indica, sia, più propriamente, livello comunicativo diverso dalle precedenze e procedure della ricerca positiva che esem-
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plifica. Ma continuando la navigazione al suo interno, si può osservare che le sequenze-itinerario indicate (1 - 2 - 3, 2 - 3 - 1, 3 - 1 - 2) comportano, da un’ottica combinatoria, anche la possibilità di un senso invertito e cioè 3 - 2 - 1, 1 - 3 - 2, 2 - 1 - 3. Questo ci permette (atto illuminante del ribaltamento avanti/indietro, diritto/rovescio ecc. - antinomie ricorrenti nella mia ricerca) di identificare meglio tre diversi modi, che attengono al punto di attacco del processo che può, nelle varie realtà della ricerca, essere diversamente causato. Il modo A (3 - 2 - 1) si realizza quando la spinta ad agire operativamente è dovuta alla preponderanza dell’intero processo rispetto ad eventuali singole realtà fattuali e scelte procedurali binarie (quasi un solipsismo della teoria). Lo identifico come comportamento deduttivo. Il modo B (1 - 2 - 3), da ritenersi opposto a quello A, può essere definito comportamento induttivo perché‚ è sì accompagnato dalla consapevolezza causale dell’intero processo, ma a partire dalla realtà fattuale che si sottopone alla concretezza operativa. Esiste poi un modo C nel quale accade che lo stimolo non parte n‚ dalla binarietà come processo intenzionale (potenzialità) n‚ dalla concretezza della fattualità, ma dalla spinta che il meccanismo stesso (definito nello schema modalità) genera nella sua dinamicità operazionale con a monte una sintassi. Si direbbe non processo intermedio di una generica intermedie combinatoria (come semplificatamente esprime lo schema), ma stadio eccitato ed oscillante nel tentativo di mettere in moto un coerente qualsiasi esito, compreso entro i due poli tra i quali si di-batte. Un’ulteriore considerazione: mentre il modo A (comportamento deduttivo) ed il modo B (comportamento induttivo) rappresentano modi storicamente classici o lineari nel farsi rispettivamente coscienza teorica e comportamento pragmatico, il modo C sembra avvicinarci ad ambiti di processi non lineari o quantomeno, una volta innescati, autogenetici, quasi automatici, con un ampio margine di imprevedibilità circa la localizzazione nella quale emergerà la loro forza genetica. Nasce qui, spontaneo suggerimento che prenderò come digressione, il pensare a territori problematici completamente diversi, che si costituiscono, suscitando anche preoccupati scenari, nelle società a tecnologia avanzata, in cui si sia definitivamente attivato un processo nel quale i momenti autogenerativi della tecnologia in atto, determinano e ridefiniscono continuamente sia la concretezza dell’esistente, sia, qui con espressione generica, le premesse teoriche intorno e sulla base delle quali è ritenuto si fondano e si organizzano i sistemi sociali. Non è un caso se il linguaggio, quello diffuso ed omologante, nella sua continua tensione verso l’esistente, riflette questa polarizzazione normalizzando, per esempio, la desuetizzazione del termine tecnica e la promozione ridondante di tecnologia. Sembra così ormai accettato che tecnica alluda ad operazioni manuali o di meccanizzazione primaria, mentre tecnologia rinvii ad un know-how che non è più soltanto la letteraria abilità, ma un complesso stratificato di conoscenze specialistiche, anche interdisciplinari, computerizzabili, a forte proiezione sperimentale e innovativa (e anche, prendiamone atto, a forte carica mitopoietica). Chiudo qui la digressione, ma è comunque mia convinzione che la ricerca artistica più ficcante e consapevole, è sempre stata quella che ha fatto e fa (esplicita-
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mente o meno) della contemporaneità, nei suoi aspetti meno episodici e transitori o probabilisticamente combinatori, il fondale di discreto riferimento. Ciò riflette una realtà della ricerca artistica sperimentale (sperimentale: termine oggi così preclaramente innominato) e cioè che essa non può ignorare i problemi, i meccanismi, le condizioni che attengono alla conoscenza. Rientrando nello specifico del modo C più volte richiamato, non è difficile identificare in esso, parallelamente a quanto definito per i modi A e B, cioè comportamento deduttivo e comportamento induttivo, un comportamento dell’esistenza, proprio per questa sua vitalistica oscillazione, come ho già scritto, entro i due poli tra i quali si di-batte. In questa figura, di una trinarietà impropria, in effetti i termini sono propriamente due (1 - 3), essendo il terzo (2) intermodalità di relazione tra i precedenti, oppure campo in cui i precedenti si attivano, oppure ancora campo mediatico in cui si realizza in forma concreta il messaggio, genericamente, comunicativo. Un’altra ipotesi, e questa più convincente per la sua valenza di processo rispetto ad una di comunicazione, richiama quanto sta avvenendo nel campo della ricerca sull’Intelligenza Artificiale. Qui la binarietà, intesa come logica binaria (ed in questo caso non solo teoria ma anche concreta tecnologia elettronica), sta diventando sfumata e ciò sotto la spinta del polivoco e complesso reale cui la logica deve far fronte. Ma sono evidentemente questioni abbastanza diverse, anche se diversità non significa totale irrelabilità dei due ambiti. Resta il fatto che quando una tecnologia e/o una teoria affrontano il reale, le certezze sfumano non nel senso che si vanificano ma richiedono procedure più complesse e/o adeguate. Credo che l’umanità, nella sua avventura per la sopravvivenza (e spesso, purtroppo, per la sopraffazione), abbia sempre sperimentato, a vari livelli, questo contrasto problematico. E qui si potrebbero aprire ulteriori e plurime derivate, con digressioni su ciò che esso può riflettere, ma non rivelare, cioè il processo tendente ad una normalizzazione totale, sintassi totale o, per dirla con termine di angosciante attualità, pensiero unico, ultimo e definitivo accadimento tecnologico. Comunque, lasciando in sospeso l’in-pertinente, ora, questione, un ulteriore atto affermativo che è possibile fare ancora sul modo C riguarda la convinzione che è nel suo ambito che avviene il processo di mutazione della binarietà che ha caratterizzato l’ultimo periodo delle mie ricerche (le prime sperimentazioni in tal senso risalgono a cavallo degli anni 1970/80). Ambito nel quale, è già stato accennato, la concretezza delle contingenze fattuali, sulle quali si esercita l’intervento operativo, si pone problematica di fronte alla necessità dell’elaborazione binaria o, viceversa, “la binarietà come processo intenzionale codificato sconta i propri limiti nel correlarsi alla alterità del reale sottoposto ad elaborazione”. Le scelte operative di sintassi binaria devono qui affrontare e superare complessità o ostacoli non previsti oppure scientemente messi in atto come ostacoli operativi, oppure ancora come situazioni lontane dallo stato di equilibrio, intendendo per stato di equilibrio non certo uno stato entropico, terminale, ma attivo e integralmente previsto dalla logica binaria, cioè programmatico-causale in senso binario. È in questa situazione, nella quale la certezza si rarefà, che in definitiva avvengono i salti evolutivi, gli azzardi creativi, i cui scarti esplicitano nel contempo i
limiti dell’atto (ritorna costantemente questo concetto fondamentale del limite) e le aperture di nuovi fronti di ricerca teorica e prassi operativa. Non voglio, con questo, suggerire che tutto l’itinerario qui sommariamente enunciato sia paradigmatico, con gli opportuni adeguamenti, di ogni evento creativo; se suggerimento può ricavarsi in tal senso è solo suggestione inferenziale. Nei fatti l’intenzione è stata soltanto quella di affermare che nella mia ricerca esiste, in forma programmatica, e trasparentemente esplicita poi in ogni concretezza sperimentata, un’autodenuncia del processo globale. È l’atto che esplicitando se stesso come articolazione e non come globalità, rivela i meccanismi del suo farsi, genetico e fattuale. E questa trasparenza può essere un limite (un altro limite) necessario, un autolimitarsi, al limite (!) tra la rinuncia ad una affermazione di globalità (troppa ricerca è alla ricerca di affermazione di globalità, che poi spesso è genericità assolutizzante) e la tentazione di una parzialità dilatata, accentuazione della risonanza dei singoli dati, che trascenda i propri confini.Una rilettura diacronica di questa trasparenza mi rinvia agli inizi della mia ricerca. Fernando Melani, nella presentazione di una mia mostra personale alla Galleria Numero di Firenze, diretta dalla indimenticabile Fiamma Vigo, nel 1967 scriveva: “resta in sospeso l’eventuale contributo (di Gianfranco) alla grossa faccenda se una maggiore misurabilità delle operazioni che strutturano l’opera d’arte non debba anche risuonare dentro il giudizio di valore ormai così equivoco nella sua gratuita universalità”. A parte la validità ancora attuale del riferimento al giudizio di valore, devo sottolineare che l’intento cui accennava Melani sulla misurabilità dell’arte non era certamente da interpretarsi come messa a punto di criteri computazionali, quanto (e qui sta la pregnanza dell’affermazione) leggibilità, nelle opere stesse, dello scarto creativo che si rivela-rileva tra una teoria deterministicamente programmatica e le attualizzazioni che questa subisce nel concreto del farsi operativo. E ciò riconduce, nuova forma-fase di circuitalità diffusa, allo schema dei tre modi da dove sono partito per questo excursus. Ma ben oltre le possibilità operazionali del processo binario, che quanto scritto finora hanno evidenziato, emerge un aspetto importante e fondamentale per gli ulteriori sviluppi della ricerca. Lo scontro-verifica con la fatalità fa uscire in primo piano la complessità e la necessità che essa sia assunta-assorbita come stato permanente della ricerca, a livello conoscitivo e quindi comportamentale. Complessità che non è un attributo generico dell’esistente, che appare perché‚ esiste. Tutto il percorso fin qui tracciato ci ha significato che essa è dato culturale, di conoscenza. La complessità può essere supposta ma non la si conosce in quanto tale se non svoltolando continuamente il reale, qualunque esso sia, organizzandolo, segmentandolo, ricomponendolo, verificandolo e continuando a svoltolarlo. Ecco perché‚ poi gli itinerari devono essere tanti, diversificati, intersecati ecc. Anche in questo panorama di discorso riemerge nuovamente il concetto di limite, di cui ho scritto fin dall’inizio. La complessità è essa stessa un limite in quanto rende sempre più problematica la conoscenza/percezione globale del fenomeno sotto analisi. Nella complessità sfuggono spesso i passaggi al limite (!) tra una faccia ed un’altra della polivoca presenza. E ciò sia in estensione che in intensio-
ne. È un limite perché‚ figura mai centrata ed in essa una qualsiasi perturbazione in un loco ne può determinare altre in loci magari lontani, il tutto di difficile previsione. Il ragionamento umano, viceversa, sembra essersi affermato, almeno in quella che viene definita civiltà occidentale, per cultura e per apprendimento, in modo centrato, sequenziale ed autoreferente. In altro luogo ho scritto, a proposito di una lettura globale e attuale della mia ricerca: “...che essa analogicizza una realtà che contiene da un lato la messa a punto, lo specializzarsi ed il rendersi autonomo di un processo razionale, e dall’altro la massa dei dati che, eventi diffusi, non partengono a questo processo e si danno come eventi fenomenici. Il tentativo è forsanche quello di creare una grande tautologia formale”. Ed è in questa ottica che il più volte ripetuto modo C sintetizza più chiaramente il momento attuale della mia ricerca, col suo porsi come modo oscillante, nel tentativo di assumere da un lato la complessità del dato e dall’altro di confermare, se necessario ricategorizzandola, la linearità della teoria binaria come facoltà potenzialità. Ma tutto ciò può avvenire se lo strumento tecnologico (la sintassi binaria) si fa autogeneratore di mutazioni, sotto lo stimolo provocazione dei dati; essi soltanto sono capaci di generare ricategorizzazioni nelle potenzialità che a monte definiscono le facoltà del processo binario. È una scommessa metodologica che, seppur limitata all’ambito ristretto e specialistico della ricerca artistica sperimentale (richiamando così quasi una sperimentalità pura, in vitro, da laboratorio), non disdegna alludere a sensi più vasti di una realtà contemporanea che, quella sì, nel reale intersoggettivo, ricategorizza continuamente presupposti, scenari, prospettive. Questo lungo ragionamento dovrà ora affrontare più specificatamente (nel tentativo di dare corpo alle parole: impresa difficile perché‚ tali) aspetti e problemi nei quali, nella loro fattività realizzata, sono transitati in forma percepibile i momenti significativi di cui ho scritto fin qui. Lo farà cercando di condensare ed evidenziare alcuni dei più importanti nessi problematici che la ricerca di questi ultimi anni mi ha reso espliciti. Per fare ciò, essendo qui fuori luogo ripercorrere storicamente le tappe della ricerca (del resto puntualmente già evidenziate in un altro mio scritto intitolato “Evoluzione della Binarietà”), mi riferirò alla traiettoria che, nel tempo, la teoria della binarietà ha delineato, nel processo, già menzionato, di ricategorizzazione. La sequenza dell’analisi non percorre quindi sentieri storici, ma agisce per contaminazioni nucleari, quasi una visione dall’alto che permetta sempre di abbracciare l’insieme. Ciò anche perché la storia degli eventi non corrisponde alla cronologia. Avvengono spesso riallacciamenti ad eventi precedenti ma distanti che, nel tempo, hanno mantenuto in modo sotterraneo carica provocatoria o portato con loro problemi irrisolti che trovano, in mutate situazioni oggettive, condizioni favorevoli per nuovamente emergere. È l’intreccio radicolare sommerso che accompagna sempre la ricerca. Inoltre quest’analisi è scelta metodologica cosciente di mettere in atto una sperimentazione di diverso livello comunicativo, pertinente all’uso linguistico del ‘parlare di’. Tutta la sequenza delinea il rilievo del passaggio da una binarietà totalizzante, che prevede ogni aspetto dell’opera, a modulazioni di essa che successiva-
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mente, nel corso e nel corpo della sperimentazione, la fluidificano e la rendono operativamente più duttile nel confronto con l’abinario. L’emergere primigenio di questa sequenza si rileva in una forma che indico come binarietà assoluta. L’opera nella quale essa appare ha la caratteristica di essere strutturalmente assemblata nello spazio con criteri che genericamente definisco abinari, cioè non derivati da una applicazione ortodossa della onnicomprensiva sintassi binaria. Questa, peraltro, attua una elaborazione di forme che, come diffuse e circolanti nello spazio, si proiettano sui supporti materici, veri e propri ostacoli-rivelatori. A questo stadio tuttavia il processo binario è ancora sintatticamente integro, per quanto è dato vedere nelle forme in cui si sostanzializza. Dove invece l’integrità del processo comincia ad incrinarsi si determina una binarietà instabile. Cioè la sua integrità formale si ricompone solo a conclusione di un percorso percettivo, nel tempo e nello spazio, che presuppone lo spostamento alternante del punto di osservazione da parte del soggetto e conseguente memoria percettiva. La binarietà si d qui in forma fratta e la sua ricomposizione avviene solo come epifenomeno dell’esperire soggettivo, a causa anche di una copresente forte strutturazione espressiva dell’opera. Questa ambiguità fa scattare un’ulteriore diversa connotazione del processo binario, la sua riduzione epistemica. Esso subisce cioè, oltre l’instabilità, una riduzione di senso e di importanza in ciò che concerne la lettura-conoscenza dell’opera stessa in termini binari. È da notare che queste mutazioni non sono, nella pratica della ricerca, irreversibili, ma certamente introducono varianti, anche comportamentali, che marcano il primitivo totalizzante processo binario. Questa marcatura avviene ogniqualvolta emergono eventi operativi nuovi, che danno luogo, così lo definisco, ad un meccanismo di rimappizzazione dell’intero processo. Con ciò intendo che quelle procedure, sequenziali, multiple e correlate (mappe) del processo binario originario, subiscono una rivisitazione che determina il depotenziamento di alcune di esse e l’attivazione, anche modalmente variata, di altre. Questa risposta è possibile in quanto il processo binario, per costituzione sintattica, è un complesso di elementi alternativi, e questa sua caratteristica genera la presenza di multiformi connessioni e interconnessioni, tali da renderlo flessibile di fronte a nuove impellenze operative. Questa caratteristica è in effetti anche quella che sostanzia la possibilità di fornire una risposta a quella che definisco la rottura della congruenza programmatica binaria. Altro evento constatato, in situazioni diverse, promana dal rapporto tra binarietà e pittura. Nella accezione che io pratico, pittura è da intendersi come gestualità materizzante, comportamento sostanziativo di matericità, gesto ripetuto e stratificato, oltre ogni referenza espressiva, verso una referenza costitutiva di substrato a strutturazione diffusa. Qui l’intervento binario si fa gesto minimale, perinferenza, con-ponendosi, discretamente e sottilmente, quasi ricordo, traccia mnemonica. Non è superfluo richiamare qui il già citato fenomeno della riduzione epistemica, cui è sottoposta la binarietà. Ma altrove, quando il fare tende ad un azzardo di più marcata sintesi tra i due momenti, si forma un rapporto dialogico. In questo caso la genitura processuale comune ai due termini è anche esaltazione e limite del rapporto stesso, che si condensa in variegati momenti nei quali gli stessi termini passano dalla con-fu-
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sione alla reciproca differenziata esaltazione. Tutto ciò richiama positivamente il concetto di fluidità. In questo progressivo evolversi del processo binario, nonostante le mutazioni intervenute, le forme che ne sostanziano l’apparire non hanno ancora interrotto la filogenitura diretta da esso. Ma un ulteriore accadimento ci preavverte che proprio la filogenitura diretta sta subendo un radicale shiftaggio verso un’accentuazione del farsi ontogenetico. Ciò accade quando il materiale in elaborazione è costituito da un filamento, corda, nastro; qualcosa affrontabile soltanto sul versante monodimensionale. Su di esso la processualità binaria può operativamente intervenire soltanto come scansione, ritmo, successione lineare di marcature discrete. Un ulteriore farsi discreto quindi, accenno soltanto alla propria origine più lontana e profonda e essenziale, come valore dichiarato. Binarietà come dato dimensionale. Ancora oltre, la sua permanenza fenomenica nell’opera raggiunge un punto critico di autonomia percettiva quando la strutturazione del dato, ancora qui inteso, come traspare in tutta la trattazione, presenza abinaria da sottoporre ad elaborazione, è così forte e preponderante, positiva, compatta, da lasciarsi esposta all’intervento binario solo in frammenti del proprio corpo ed in modi marginali e deboli. Assistiamo qui ad un decadimento della binarietà, per questo suo apparire sub-alterna, vera e propria opposizione debole; decadimento quasi nel senso della fisica, osservato come risultato finale di una trasformazione; anche decadimento vicino ad una residuale pura citazione, detto non dicibile. Ma prima della totale frattura del cordone filogenetico c’È ancora spazio, in questo territorio ormai estremamente assottigliato, per due ulteriori forme di apparizione: una come binarietà inarticolata e l’altra a funzione esclusivamente rappellativa. La prima è un’appropriazione primaria dello spazio inteso nel suo versante bidimensionale. Appropriazione ed espropriazione come sottrazione ad ulteriori elaborazioni, gesto immediato ed esaustivo: nello specifico due garze occupano il duplice spazio, esaurendolo sia con la loro pregnanza formale-materica sia con la loro presenza, sì bidimensionale, ma sottilmente e percettivamente modulata. Dopo di ciò l’altra forma, la seconda, oltre l’inarticolato, rimane solo come dichiarativo nominarsi, esplicitando in chiaro soltanto il proprio rapporto quantizzato, 10:20. Al di là dovrebbe esserci il silenzio, l’altro indefinito. Ma non è certo. I sentieri possono interrompersi per l’estraneo, ma il nativo sa dove proseguono e possono ricominciare, avere nuovamente inizio, anche da un punto più arretrato e portare ben oltre. Vediamo allora questo ulteriore ultimo esito, uscendo dalla semiseria e semifilosofica immagine escursionistica. Questo esito accade quando la binarietà è implicata in eventi elaborativi che, autonomamente, presentano forti esaltazioni del duale (non di matrice binaria), sia esso il raddoppio di una forma, il calco e l’originale, il prodotto di due identici successivi interventi su una corporeità ecc. In questi casi, nell’ambiguità della referenza originale del duale e di fronte alla sua pregnanza espressiva, la binarietà sembra sparire (anche se binario può essere iperonimo di duale, ma non decisamente), vanificarsi; ma io
dico residuarsi a semplice referente. Vediamo allora per quali strade è possibile verificare il senso di questo evento. Si dimostra qui interessante attuare una contaminazione interdisciplinare con la linguistica, attraverso il triangolo di Ogden e Richards che concerne i rapporti tra significante, significato e referente(figura 3). Il rapporto tra il significante (opera) e il referente (binarietà) è mediato dal significato (doppio - duale). In sostanza il significato (doppio - duale) è limmagine del referente (binarietà) che ci perviene se abbiamo assunto la cultura binaria così come si è determinata nella storia soggettiva della ricerca. Lo schema sopra indicato può sopportare un’ulteriore contaminazione e precisamente con lo schema proposto all’inizio e riferentesi alla formula dire è il dire del dire. Se infatti lo organizziamo vettorialmente come il triangolo di Ogden e Richards abbiamo la figura 4 Anche in questo schema il rapporto tra dire - evento concreto - e del dire - realtà potenziale - è mediato da è il dire che è l’immagine attuale attraverso la
figura 3
quale del dire si rivela. Senza voler troppo caricare questi schemi di significati (!), coerenze, similarità, mi sembra che anche qui quello che precedentemente abbiamo indicato come modo C si riveli essere particolarmente congruente con uno degli attributi della ricerca binaria e cioè processo operazionale, circuitale, a tautologia autofondante. Dopo di ciò, e per concludere, devo aggiungere che la ricerca binaria, oltre agli attributi che via via ha assunto e che ho cercato di riassumere in questo scritto, ne ha un altro: prevede la propria messa in crisi (e questo lo abbiamo visto) e la propria negazione. Una delle regole fondanti della sintassi binaria (beninteso sempre come io l’ho
figura 4
elaborata) prevede scelte alternate che riguardano vari aspetti della procedura. Tra queste scelte esiste anche la coppia presenza/assenza. Può pertanto verificarsi il caso che tutte le scelte siano orientate sul secondo termine. E allora: assenza totale. E qui il discorso può ritenersi, per ora, concluso.
Itinerari Testo reso pubblico in forma dattiloscritta in occasione della mostra Nello studio Opere recenti presso il proprio studio di Pistoia nel maggio 1995 necessità di riaffermare la ricerca/speculazione evitare come la peste la scalmanante affabulazione per far erompere il silente pensiero meditante in simbiosi con il fare sperimentale riaffermare fattualmente la priorità dei linguaggi operativi versus quelli declamativi uscire dalla speculazione asettica (necessaria in una prima fase di assorbimento comportamentale) per riportare i sensi ora vigili e cognitivi in prossimità/con tatto/interno del reale esper/ibile/ito necessità di riaffermare la ricerca/speculazione
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Nello studio & Progetto Fenoma Umano Testo pubblicato in proprio e reso pubblico in occasione della mostra omonima presso il proprio studio di Pistoia nel maggio-giugno 1997. Vengono riportati qui solo la premessa e le conclusioni premessa
L’iniziativa di quest’anno comprende due eventi integrati: l’esposizione delle opere eseguite nel periodo fine 1995 – metà 1997 e la presentazione di un lavoro, parzialmente autonomo, intitolato “Progetto Fenoma Umano”. Quest’ultimo a sua volta è costituito da due sezioni: la prima comprende una sequenza di opere nate come atto preparatorio al Progetto stesso, la seconda, il”Progetto Menoma Umano” propriamente detto, esposto separatamente e de considerarsi come opera unica. ‘Fenoma’ è un neologismo costruito sul calco di ‘genoma’. Mentre quest’ultimo rinvia ad una realtà biologica definita, ‘fenoma’ è un termine strumentale da me usato per sintetizzare il tentativo di definizione di una sequenza di personali comportamenti operativi da me attuati nel fare artistico. Allude semmai, per contaminazione con ‘genoma’, ad una, del resto inipotetica, mappa comportamentale; ma allude soltanto. Le parole-chiave che definiscono ciascuna opera e che compaiono nelle elaborazioni che seguono queswta premessa, non esauriscono certamente gli aspetti costruttivi, percettivi, intenzionali ecc. che all’opera hanno condotto. Tendono piuttosto ad enucleare quei concetti guida che, in modo primario e dominante, hanno determinato le scelte dell’artista anche tenendo conto che ciascuna opera si inserirà poi in un più vasto progetto globale che le includerà e le ingloberà tutte. Occorre inoltre osservare che queste parole-chiave nascono nel corso della elaborazione di ciascuna opera: traccia linguistica analogica del processo creativo. L’aspetto logico-tassonomico che globalmente caratterizza le elaborazioni presentate in questo breve opuscolo, riflette il senso del mio attuale fare (ma ogni fare è il territorio che si estende tra natura e artificio), che si connota per una marcata evidenziazione dell’aspetto operativo, essenzialmente e combinatoriamente inteso, pur nell’ambito del più vasto tracciato che una più che trentennale ricerca ha delin eato, depositando e stratificando, nei singoli atti, sensi e significazioni note a chi ha seguito l’evolversi della ricerca. Di essa sono peraltro testimonianza gli scritti teorici prodotti nel corso degli anni. La struttura a parole-chiave già indicata e che caratterizza le pagine seguenti, dovrebbe permettere, ad un (improbabile?) osservatore curioso, di ipertestualiz-
zare l’intero ciclo, ricavandone itinerari di lettura intersecati e dai quali potranno anche emergere nodi significativi per l’evidenziazione di varianti (percettive, materiche, strutturali, operative ecc.) e/o persistenze. La perentorietà dei termini usati, propria di ogni tassonomia, va letta non come una forma di riduzionismo, cioè non come conclusiva ed esclusiva, ma come lancio orientato di direzioni di lettura; non esclude ma includew ipotesi modificative, aggiuntive, limitative, alternative. Ritornando al globale senso di tutto questo scritto: tutto il dicibile va detto ma è raro che il detto concluda il dicibile [...] conclusione (?) Ho scritto nella Premessa: “ogni fare è il territorio che si estende tra natura e artificio”. In prossimità di questo artificio c’è l’arte nei pressi anche la combinatoria (esplicita o implicita). Le contaminazioni sono fisiologiche. E allora perché non accettare almeno in via sperimentale una sfida e porsi dalla parte se volete dell’UTOPARTE (il non luogo dell’arte)?
Valentino, l’Abisso, il Silenzio, la societa’ digitale ... e (perché no?) l’arte Testo pubblicato in proprio e reso pubblico in occasione della mostra Nello studio & Progetto Fenoma Umano presso il proprio studio di Pistoia nel maggio-giugno 1997 C’era una volta Valentino, lo gnostico, che non riuscendo a rispondere direttamente ad una domanda circa le origini, rivoltagli da un caro allievo, narrò questa favola-apologo:
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In origine era l’Abisso, un maschio tutto mente. Ma essendo preso nei ghirigori di questa, gli era preclusa ogni possibile uscita. E così non partoriva nulla, nonostante il suo affanno mentale.
Un giorno, sul far del tramonto, gli apparve una femmina-verità, Silenzio, che per cause ontologiche non era, o almeno, inesisteva, sterile, incapace, ma forse nemmeno, di farsi feconda. ABISSO, con la sua rituale riservatezza (mentale), si avvicinò lentamente, mentalmente presumo, a SILENZIO e, fu come fu, riuscì a fecondarla. Evento veramente epocale ... seppur silenzioso ! Da questa unione nacquero Sapienza, Intelletto e una sequela di eoni che da allora dilettano e perseguitano gli umani. L’allievo si dichiarò soddisfatto. commento semiserio e semivero
La mente se non feconda la verità rimane senza frutti tangibili. La verità se non è fecondata dalla mente rimane inesistente, sterile. La mente e la verità insieme sono come lo 0 e l’1 di un codice binario. Ma una sequenza di soli 0, qualunque sia la sua estensione, è meno che niente, è come un neg-infinito, un soffritto continuo di monotonia. Così una sequenza di soli 1, qualunque sia la sua lunghezza, esprime solo se stessa, è priva di significato relazionale, è come contare da 1 all’infinito. E allora? 1. Non ci preoccupiamo del significato di ‘mente’ e ‘verità’. Qualunque cosa
significhino, ci interessa constatare che comunque qualcosa nasce soltanto nell’attualità del loro rapporto duale. È questo che innesca il processo comunicativo, dando ad esso nel contempo anche senso performativo. 2. La sterilità dei due singoli momenti, se presi scissi dal rapporto duale, ci richiama una ferrea legge di natura: tutto è comunicazione. 3. Ma Silenzio è tuttora disponibile a farsi fecondare? C’è Silenzio? Dov’è ? Chi è Silenzio? 4. Abisso. È proprio sterile o, magari in un occasionale rapporto con Silenzio, in epoche ‘storiche’, ha escogitato (gli è proprio!) una variante per autoriprodursi ? La tecnologia? Non so. L’Artificiale? È riuscito a clonarsi, magari con piccoli programmati spostamenti autogenetici (combinatori?) tali da permettergli di ‘far da sé’? Con quali ridondanze? Il mentale è diventato (possibile?) automentale (ha senso?)? “...si pose automentalmente la domanda ... ha un’infermità automentale ... stava riflettendo automentalmente ... “ e via di questo passo. Lo slogan dell’IBM negli anni Sessanta e che faceva mostra di sé in ogni ambiente, era ‘think!’ riflettete! 5. L’allievo, a questo punto, non avrebbe potuto che dichiararsi insoddisfatto.
Opera all’azzurro Testo reso pubblico in forma dattiloscritta nel dicembre 2003 e successivamente in occasione della mostra Sonde a Palazzo Fabroni a Pistoia, il 17 gennaio 2004 Il primo ciclo dell’ opera all’azzurro qui in mostra, il solo per ora realizzato dei venti possibili, inizia nel gennaio 2002 con l’opera 1748 e termina con l’opera 1768, ultimata il 16 dicembre 2002. Un anno di lavoro quindi, preceduto da una lunga fase progettuale che inizia nel mese di agosto del 2001. La prima opera (1748) è una matrice - Da questa opera discenderanno le successive dando così realtà all’opera all’azzurro (Esoterica, Alchemica, Programmatica, Randomizzata, Autogenerante). I colori acrilici utilizzati sono due, mescolati in vari e controllati dosaggi quantitativi: Blu Celeste e Bianco Platino. La matrice contiene anche un’assenza cioè uno spazio inelaborato che entrerà nel processo esecutivo come gli altri codici: quelli realizzati nella matrice e quelli che la pratica inventiva e interattiva del fare produrrà nel tempo. Sinteticamente posso dire che la matrice viene da me assunta come un punto di partenza suscettibile di varianti combinatorie non solo nell’ambito dei codici che contiene ma anche di codici aggiuntivi che sopravverranno nel corso delle elaborazioni come ulteriori varianti dei codici programmati. Si tratta di una matrice aperta (anche se chiusa nel suo contenitore) Un punto sul quale forse è necessaria una precisazione esplicativa è quello
che riguarda l’utilizzo di due soli colori, miscelati a discreti e misurati dosaggi stocastici nell’ambito di un minimo ed un massimo prestabiliti. E qui il numero due assume una figura simbolica e generativa. Infatti sono due le fonti che hanno generato sia la scelta di due colori sia il dimensionamento reticolare di base sul quale si articolano le elaborazioni: un colore che concerne una pigmentazione organica (l’Osservato) e la distanza interpupillare dei miei occhi (l’Osservatore). La prima ha richiesto l’utilizzo della miscela cromatica Blu Celeste e Bianco Platino in quanto soggetta, nella sua realtà e per la sua natura, a variazioni di intensità e di luminosità; la seconda ha generato la propria metà come elemento mono-tono di reticolazione delle intere superfici da elaborare (tele quadrate di cm. 60x60). È cattiva prassi artistica disvelare, anche se in parte, l’Arcano? Molti artisti lo credono, ma io ritengo che l’intera opera vada ben oltre i suoi meccanismi, gli stimoli generativi, la sua storia insomma, e proietti la sua articolata complessità illuminando con essa, semmai, il vero Arcano costituito dalla produzione di Arte. Questo almeno è quello che accade a me, ma su ciò non voglio dilungarmi perché, citandomi, “il dire è il dire del dire”.
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Antologia critica
Fernando Melani, Franco Chiavacci elaborato dal Melani in Collaborazione differenziata (Chiavacci, Lupetti, Melani), catalogo della mostra (Galleria FLOG, gennaio 1965, Firenze), Firenze 1965 L’opera d’arte è sempre materia ordinata in un certo modo e la cui lettura non è mai facile. Dentro questo ordine distintivo dell’arte possiamo rilevare, nella gamma non figurativa, un estremo che rischia coi suoi formalismi di saltare fuori e l’opposto che non deve arrivare mai al disordine perché con questo l’arte non può essere. Nella zona così detta più fredda che, nella ricerca di nuovi segni e significati, si distingue per una maggiore attività teorica troviamo con maggiore frequenza: piccole dosi di matematica e di geometria, ripetizioni di elementi semplici concatenati e armoniche esatte logiche divisioni delle superfici. Vecchi procedimenti come la prospettiva (sempre più livellata) o figure geometriche come il cerchio la spirale il quadrato si ripresentano, volta volta, in raffinate maniere mentre lontani echi impressionisti e divisionisti riaffiorano nei materici luccichii. In questa zona sentiamo parlare di linearità, di ritmi, di piane o volumetriche pu rezze più o meno vibranti di colore, di elementi semplici che ripetendosi strutturano l’artistico costrutto in modulazioni variabili all’infinito o quasi, di programmazioni, di serialità fino a monotone sequenze che rasentano il livellamento entropico (entro cui viene meno il rilevarsi delle informazioni). Le ricerche di Franco appartengono a questo settore più secco entro cui tenta una particolare e originale operazione estrapolata dal denso clima dell’elaboratore elettronico. Ragioniere impiegato di banca è utilizzato presso questo mezzo tecnico e, a differenza dei più, fa il possibile perché il rapporto di lavoro non lo alieni ma anzi lo solleciti nelle sue ricerche estetiche. I nuovi contenuti cristallizzati nella mac china, fra le più evolute e progressive del nostro tempo, stabiliscono un particolare, volontario colloquio, diciamo, tecnico-artistico da situare entro i nuovi significati della informazione che costituiscono, anche in arte ormai, un brillante e positivo momento. A parte ogni complessità tecnica, il più tipico e logico elemento del’e.e. può es sere individuato nel BIT. Chi è costui? si dice che sia la più piccola unità che si gnifica qualcosa entro cui deve scorrere la comunicazione debitamente codificata alla partenza e decifrata all’arrivo. Il bit è dato dalla presenza simmetrica di un segnale e dalla sua assenza... come dire che il silenzio diviene l’equivalente preciso del suo opposto. È questa una nuova logica ben distinta dalle altre esistenti? È molto probabile. Per cercare di distinguerla non possiamo parlare di vuoti o di pieni, concetti già in sé
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troppo plastici né di nulla opposto a qualcosa, troppo filosofico né di dialettica cioè di qualcosa che porterebbe incorporata la negazione di sé con la susseguente nuova sintesi non è l’accoppiamento di due fatti, l’uno positivo o vero l’altro negativo o falso, dai significati troppo ampi e perciò ambigui e neppure è la tacca del peso, benché come questo, abbia le intenzioni di misurabilità sarebbe invece un nuovo e rivoluzionario elemento emerso, come sempre e come tutte le progressive modifiche del pensiero umano, dalla interazione con la macchina e come tale bisogna estrarlo senza troppe mescolanze col passato. Altrimenti che nuovo è? Franco non ama quell’alone di mistero che fascia l’arte (fortunamente in modo sempre meno cabalistico ed esistenziale) e ritiene che una maggiore misurabilità realizzata sul piano tecnico possa facilitare una lettura più univoca e razionale. Ardua impresa o pretesa o forse, più probabilmente, la solita plausibile utopia che spesso sollecita gli stimoli più sottili e nascosti della creazione. Per una corretta decifrazione di F., oltre alla logica bit, bisogna intendere l’usomisura del doppio quadrato (non un rettangolo, attenzione!) che a differenza del quadrato semplice, permette senza equivoco una precisa e reversibile direziona lità, orizzontale-verticale, e il moto dall’alto verso il basso e viceversa. La logica bit, la binarietà, le dimensioni, le divisioni della superficie dipendono tutte dalla scelta decantata del modulo mono-tono ed univoco rappresentato dal doppio quadrato, mentre l’alternarsi delle presenze-assenze dipende sì dalla co dificazione dell’elemento base ma anche dalla inevitabile varietà inerente ad ogni ricerca sperimentale. I pezzi hanno una direzione precisa nella binarietà: se l’elemento base, cioè il quadrato, nel suo raddoppiarsi si pone orizzontalmente la lettura va effettuata in tal senso da sinistra a destra, se invece l’elemento base è verticale la lettura va effettuata dall’alto in basso e viceversa. Il tutto... naturalmente sospeso in quegli umori per cui l’arte diviene! F. si è costruita così una logica gabbia (a doppio quadrato!) ove elabora i suoi esperimenti estetici tutt’altro che monotoni e resta intanto che con la sua presenza (!) stiamo ricevendo un nuovo significato ed una precisa direzionalità entro il già vasto teatro della informazione artistica. Non rimane che cercare d’intendere, di decodificare con attenzione e ringraziare perché a mezzo suo si può aprire (sia pure indirettamente) uno spiraglio dentro le «meraviglie» del cervello elettronico.
Carlo Lupetti, Lupetti a Chiavacci in Collaborazione differenziata (Chiavacci, Lupetti, Melani), catalogo della mostra (Galleria FLOG, gennaio 1965, Firenze), Firenze 1965 L’arte di Chiavacci si articola e si risolve attorno ad un discorso logico. All’arte è venuto con modestia e chiarezza quasi a rimproverarci esperienze passate non del tutto cancellate. L’elaboratore elettronico, con il quale vive, per alcune ore del giorno, gli ha insegnato un linguaggio particolare. Da questo Chiavacci è partito per giungere a comunicarci attraverso spazi reticolari ed artistici poi. La sua attenzione è attratta dalle possibilità “ragionative” della macchina, pren dendosi con questo la responsabilità di analogie con i processi mentali. Sulla base dei modelli vengono cercati nei laboratori elettronici i segreti di complicati funzionamenti biologici; perché dunque in arte non si dovrebbero seguire analoghi procedimenti? A questo punto è necessario chiarire come per Chiavacci il fatto estetico non sia affidato al sentire in un modo anziché in un altro, quanto ad un pensare in un modo anziché in un altro, o meglio al concretizzarsi della suddetta esperienza intellettuale. Ma quale può essere l’esperienza intellettuale a contatto con una macchina? Non certamente il filosofare su di essa, ma semplicemente il rendersi conto come nel funzionamento si arrivi ad una conclusione logica mediante un certo numero di operazioni semplici. Supponiamo un campo di predicati DORMO RIPOSO LEGGO e consideriamo la proposizione: IO LEGGO QUANDO NON DORMO. Con il sistema binario si può dare a 1 il valore di SI ed a 0 il valore di NO. Un campo di predicati può dunque esprimersi mediante una serie di 1 e di 0. Ciascuno di questi simboli binari forma ciò che si chiama una combinazione logica. La via escogitata con il sistema binario per arrivare ad una struttura logica si riduce ad una quantità di operazioni organizzate sui simboli suddetti. L’uomo in una situazione analoga procede in modo diverso, limitando le operazioni su
dormo
riposo
leggo
ris. logico
0
0
0
0
0
0
1
1
0
1
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0
0
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1
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0
1
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0
simboli complessi, poiché operazioni numerose e rapide non sarebbe in grado di compierle. Macchina = lavoro quantitativo; uomo = lavoro qualitativo. In arte non si tratta di procedere in modo analogo alle macchine calcolatrici (ma perché no?) o di prendere un insieme di strutture logiche e tra SI e NO (“pieni” e “vuoti” per Chiavacci) avere il pezzo pronto. Sembra piuttosto sua intenzione far derivare la pittura da un atteggiamento con seguente alle conoscenze tecniche sull’elaboratore elettronico. Vuole in definitiva organizzare la sua pittura in modo lineare come avviene per i dati memorizzabili, senza alcuna preferenza spaziale e collocando in modo elementare (orizzontali e verticali) elementi univoci. Non ci sono incertezze: un impulso passa (SI) o non passa (NO). In questo deciso collocare o non collocare vi è una rinunzia programmata al tradizionale soggettivismo (una macchina ci supera in questo). In un periodo di intensa ricerca come l’attuale, non è lecito abbandonarsi solo alla sensibilità poetica od altro. Ogni studio condotto seriamente può essere efficace se specie azzarda dire una parola nuova. Questa parola nuova, per Chiavacci, sembra accordarsi con la teoria dell’informazione. “Quello che si oppone al disordine — essa dice — è l’informazione. L’Entropia misura il grado di disorganizzazione di un sistema come l’informazione misura il suo grado di organizzazione”. Poiché questo aumento di entropia significa un crescente disordine ed una perdita conseguente di struttura,credo sia l’arte de! Chiavacci altamente informativa e inserita quindi nell’odierna civiltà tecnico-scientifica.
Nella colonna di fianco allo specchietto sarà 0 se la combinazione non concilia con la frase proposta e 1 se concilia. Il risultato esprimerà la struttura di una funzione logica. 01010000 sarà dunque la espressione perfetta di IO LEGGO QUANDO NON DORMO.
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Fernando Melani, Presentazione in Gianfranco Chiavacci, Personale, pieghevole della mostra (Galleria Numero, 18 febbraio-3 marzo, Firenze), s. l., 1967 Ogni cosa nell’universo è superficie di nubi di particelle da cui ne rimbalzano altre che picchiettano e sollecitano in qualche modo il nostro organismo, quando ci arrivano, memorizzandolo informandolo anche l’arte non è che nubi di particelle fissate in un certo ordine e la cui lettura, come di ogni altra cosa, non è mai facile oggi che tutto è immerso nella marea della quantità, della complessità, della complementarietà, della “incertezza” ... Escluso il figurativo che qui non interessa si parla di serialità, di elementi semplici ripetuti, più meno programmati, più meno sensibilizzati o indifferenti, di scienza (spesso a sproposito), di modelli estrapolati da altri settori più sperimentabili (frequenti gli ottici) piccole dosi di matematica di cinetica di cibernetica di elaborazioni elettroniche lungo è l’elenco. Vecchi procedimenti come la prospettiva, sempre più schiacciata, ed il geometrismo si ripresentano in raffinati ritorni mentre lontani echi impressionisti e divisionisti riaffiorano nei materici luccichii, nelle lanterne magiche. Il tutto ondeggiante, come sempre, tra un estremo troppo formale in cui viene meno ogni informazione e l’opposto che restando grossolano, a volte volgare, non arriva a trasformarsi in creazione artistica. Fra i collanti più usati troviamo lo ineffabile strutturalismo, la psicologia della forma così poco sperimentabile e la teoria dell’informazione che sembra la più utilizzabile. Di questa tutti ne conosciamo qualcosa: una sorgente che emette segnali, il messaggio, i canali entro cui questo avviene, la decodificazione all’arrivo fra ridondanza e degradazioni ed infine il consumo che spesso è velocissimo. Stiamo elaborando nuovi linguaggi, si tengono congressi di diecine di specialisti per parlare alle macchine assistiamo, più o meno attenti, ad un flusso continuo di fresche conoscenze che soltanto le macchine possono predeterminare picchettandoci con precisione e anticipo il tracciato del progresso-civiltà. Con incertezza attorno al BIT la più semplice unità che significa qualcosa per l’e. e. rete complessa ma lineare di cancelli chiuso-aperto, assenza-presenza impulsi a catena per contatto induzione retroazione percorsi altamente selettivi scelte alternative specializzate risposte veloci esatte univoche. Una nuova maniera di fare scorrere il pensiero? in attesa che si decanti non resta che fare ipotesi su quanto non è: non il nulla opposto al tutto troppo filosofico e generico non vuotopieno troppo plastico non dialettica che porterebbe incorporata con la negazione di s‚ la nuova sintesi non il confronto di due eventi l’uno positivo o vero, l’altro negativo o falso dai significati troppo dubbi. Ed ora Gianfranco ragioniere impiegato di banca è utilizzato presso l’elaboratore elettronico e, a differenza dei più, fa il possibile perché‚ il rapporto di lavoro non lo alieni ma lo solleciti e questo sembra avvenuto almeno per quanto riguarda la sua ricerca artistica. Il suo colloquio con l’e.e. (di questo basti dire che in pochi anni è alla terza generazione e che ha dato vita ad una nuova scienza: la bionica) ha sollecitato un canovaccio, diciamo tecnico artistico, anche perché‚
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GF non stima troppo l’alone di mistero, in ogni modo sempre meno fitto, entro cui ancora tanti amano avvolgere i fatti artistici. Ritiene, a torto o a ragione, che una maggiore misurabilità delle operazioni sul piano tecnico si trasmetta anche nella lettura artistica ingenuità? utopia? vedremo ... intanto cerchiamo d’intendere il suo canovaccio e la sua binarietà che, come traslucido biologico, lo accompagna. Le sue prime esperienze, dopo il click con la macchina, vertono sul doppio quadrato (non un semplice rettangolo attenzione!) forma univoca, mono-tona che permette senza equivoci la direzionalità del tracciato su cui verranno giustapposti gli elementi, a doppio quadrato, costituenti e significanti l’esperienza. Orizzontale-verticale (da non confondere con la perpendicolare) e i moti su queste due direzioni il pezzo assume così una precisa lettura progressiva (oltre, s’intende, quella immediata e totale comune alla pittura) ...se il doppio quadrato - l’apparente rettangolo - è posto orizzontalmente la lettura va effettuata da sinistra a destra, come normale scrittura o musica, se invece l’elemento è verticale la lettura deve avvenire verso il basso di qui il ritorno e così via. Una specie di tessitura in cui anche l’ordito partecipa con i suoi moti verticali all’opposto va e vieni della trama. Le superfici limitari dipendono dalle dimensioni del doppio quadrato di cui sono multiple precise mentre l’alternarsi delle assenze-presenze degli elementi dipende dalla progettata programmazione. Dalla interazione di queste misure nascono ovviamente infinite varietà di scelte, di esperienze e sempre in quegli umori entro cui l’arte appare il minimo grumo di vita nasce da un codice entro cui cresce come gomitolo invischiandoci le più superficiali vibrazioni socioculturali. Dopo il click iniziale la ricerca si è dilatata nella OP con i fili di nylon e i vetri rigati, la cinetica ed una maggiore attenzione coloristica ma è sempre dentro la gabbia binaria ed il doppio quadrato che bisogna ricostruire i percorsi di GF così come di fronte ad una macchina il competente sa risalire la catena di operazioni fino ai primi segni per poi ridiscenderne arricchito dalla conoscenza del processo di crescita e tornare davanti al pezzo ora ben decodificato. Per la presenza di GF stiamo ricevendo originali e precisi umori sulla direzionalità, se non sbaglio non è frequente in pittura, quella logica binaria mentre resta in sospeso l’eventuale contributo alla grossa faccenda se una maggiore misurabilità delle operazioni che strutturano l’opera d’arte non debba anche risuonare dentro il giudizio di valore ormai così equivoco nella sua gratuita universalità.
Corrado Marsan, Chiavacci alla FG “La Nazione”, 7 giugno 1967 (…) Per quel che riguarda la metodologia espressiva di Chiavacci, abbiamo già avuto modo di notare – più volte – come nelle sue “composizioni” (l’apparente serialità di certi segni e di certi “oggetti” non deve trarre in inganno: quello che conta, qui, è seguire l’interazione tra le strutture mobili, sottese da precisi scarti tonali, talora addirittura provocati dalla rotazione orizzontale e verticale dell’intero pannello), rigorose e suggestive registrazioni di componenti logico-matematiche, sia possibile cogliere la presenza di uno spazio interno che si apre dietro la facciata dell’immagine vera e propria, dove le sovrastrutture e gli aggregati logici e sintattici collegano le opposte facce del problema (da un lato la costante luce-materia-colore, dall’altra la costante segno-movimento) in una sempre nuova dimensione e dislocazione delle partiture cromatiche, dischiuse in un complesso
sistema di linee-forze. Siamo davanti, in altre parole, all’esito di una ricerca estetico-contenutistica condotta con estrema perizia e intelligenza sia sul fronte dei materiali vari usati dall’artista (legno, vetro, vernice, plastica ecc…), sia su quello dei valori referenziali e psicologici degli “elementi” costitutivi prescelti: ne deriva una singolare registrazione di fatti e di avvenimenti che tendono a dislocarsi in una spericolata operazione atta a verificare e rilanciare, di seguito, una precisa e puntuale (anche se non totalmente ravvisabile, a prima vista) mediazione tra “uomo” e “natura”. Sì che il dato più interessante e significativo dell’attuale ricerca espressiva del Chiavacci, ci è offerto proprio dalla simultaneità degli accoppiamenti-sdoppiamenti delle sue “immagini”, tentate e ritentate col consapevole proposito di raggiungere un nuovo spazio estetico in continua metamorfosi.
Giovanni Battista Bassi, Gianfranco Chiavacci “Il Tremisse Pistoiese”, a. X, n. 2, agosto 1985 In stagioni di scadenze - di decennali o di centenari o di altri tipi di datazioni - potremmo essere in grado di aprire queste note su Gianfranco Chiavacci richiamandoci alla ultra ventennale ricerca, così come egli stesso premette: “questo scritto sintetizza in forma espositiva il punto di arrivo dell’approfondimento teorico e della sistematizzazione da me condotti sui risultati conseguiti nel mio lavoro di ricerca sperimentale, la cui prima impostazione risale al 1965”. Entrando nel laboratorio di Via di Valdibrana, non immediatamente, ma attraverso un percorso fatto insieme con Chiavacci, occorre un tempo graduato per comprendere il processo metodologico occorsogli alla definizione del campo operativo; e, quindi, il soffermarsi su gli elaborati abbisogna di una serie di informazioni affinché le componenti contribuenti alla formazione dell’elaborato stesso diventino affabili. L’abitudine a reagire con immediatezza di fronte al lavoro di uno specialista nel campo delle arti visive, con l’opera di Chiavacci subisce una inversione di atteggiamento. Anche attraverso una recente esperienza, verificata nello studio di Fernando Melani (in cui l’abbandono al momento lirico è stato ripercorso e provato), confrontandone le vicinanze elettive, si è invece, qui, con Chiavacci, dovuto tenere un disabituato, o perlomeno diverso comportamento se si voleva penetrare la complessità globale della ricerca senza essere ‘condizionati’ da modi e maniere consuetudinarie. Chiavacci ci ha imposto, senza forzature egemoni, ma con chiarezza logica, ad attenzioni che sono non soltanto di sua pertinenza: anzi la penetrazione di ogni opera visiva lo richiede necessariamente sempre. Ma è, si ripete, la abitudinaria celerità del nostro tempo che troppo spesso ci induce a atteggiamenti rapidi di introspezione: a detrimento della comprensione.
Anzi, sotto questo aspetto, dopo aver assistito recentemente ad una lezione (avvenuta in tre giornate diverse) intorno ad un’unica opera pittorica di Leonardo fatta da un critico d’arte di professione; e in cui vennero scandagliati una serie di elementi analitici tali da far meditare intorno, appunto, alla qualità dell’indagine; quanto vado a tentare di chiarire intorno all’operazione realizzativa del Chiavacci, in ultima analisi, non differisce sia che il prodotto appartenga a esperienze del passato o a esperienze dell’attualità. Infatti, è Chiavacci stesso che “per tentare una spiegazione” al proprio operato ci dice: “non si tratta nel mio caso di ricercati parallelismi verbali. La strutturazione del mio lavoro è nata al di fuori di modelli. Se poi certe soluzioni richiamano concetti di altre discipline, non posso che rallegrarmene. Il lavoro di Chiavacci iniziò intorno agli anni ‘57-’58. Ma il consolidamento della sua ricerca avvenne nel 1964, allorché un apparente campo operativo semplice, quasi scontato, assunse nel tempo avvenire, invece, sostanziale punto di riferimento continuo; e quel che più conta, proficuo di testimonianze “oggettivate” assai probanti. La binarietà, termine prelevato dal Chiavacci per riuscire a dare in sintesi un’appropriatezza linguistica, è divenuta la disciplina operativa personalizzata; all’interno della quale con innegabile coerenza egli si è mosso. Partendo dal dato primario spaziale delle ascisse cartesiane, alto basso, verticale, orizzontale, quindi della bidimensionalità, ha chiarito “che non si può avere spazio da elaborare al di sotto delle due dimensioni”.
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Per cui il riferimento agli elementi primari della geometria elementare fu da lui posto come “minimo”: sul quale impostare una sperimentazione che gradatamente ricercherà le mutazioni processuali per un allargamento di campo tale da non fermarsi a pure espressioni linguistiche ma che occupino, esse stesse, uno spazio riconducibile a misura. Quello che Chiavacci chiamerà “schema combinatorio”, sarà la struttura del programma che lo indurrà a dirigere le operazioni nel controllato spazio binario. Lo sviluppo di moto, attraverso la individuazione di multipli, conseguenti alla elaborazione dell’insieme dei passaggi, risulta controllata dalla cosiddetta “tabella dei livelli” che è il presupposto al concetto di sovrapponibilità. Ed infine uno schema sintetico complesso, dopo aver trascorso le componenti processuali con attenzione, ci rende conto graficamente dei risultati intorno alla elaborazione binaria della ricerca. Nelle “considerazioni aggiuntive” del richiamato documento del 1980 Chiavacci ci fa “penetrare più profondamente nei meccanismi che presiedono alla elaborazione binaria”. Tutto questo porta alla ricerca - in chiave cromatica - di un codice, attraverso il quale il colore non è prelevato in modo “autonomo” ma in conseguenza dello studio in termini elementari dell’azzurro, del giallo e del rosso: la qualità combinatoria dei medesimi ha origine, ancora, da miscelazioni secondo criteri “di controllabilità al fine di ottenere una scala cromatica costante in ogni sua zona e congruente alla elaborazione binaria dello spazio”. Potremo, allora, arrivare a stabilire una vera e propria “sintassi cromatica”, si domanda Chiavacci. Il campo della ricerca è ancora aperto: i presupposti analitici-scien-
tifici posti dallo stesso ricercatore sembrano ampliare sempre di più il campo a verifica della irrinunciabilità all’apporto individuale, all’intervento dello inconscio, alla marcatura dei segni secondo proprie specifiche tendenze. Chiavacci, in sospetto di evasore di campo, ci avverte che il colore non è un fatto sensibilistico, ma è una marcatura cromatica; serve per distinguere la funzione articolatoria. Leggendo le pagine dei “quadernetti della progettazione” si coglie il tentativo razionale di fare arte. Alla riflessione attenta di chi osserva, certamente non potranno sfuggire le risultanze di piacevolezza, di compiacimento cromatico, di combinazione geometrica, compositiva, di raffinata texture delle bande verticali riscontrate, per esempio, nell’elaborato del gennaio 1984 n.559. Per cui anche il percorso indicato da questo attento cultore dello sperimentalismo di laboratorio, si traduce in manifesti chiari nella loro indiscussa coerenza; ma che risultano altrettanto espliciti allorché si verifica che la ricerca, qui, è fondata; è percezione razionale di un processo. Il termine “misura” da Chiavacci è spesso riproposto: quasi a far intendere che la sua ricerca è da quella condizionata, come il vero “metro” delle proprie esperienze. Quale valore avrebbe trovare la mescolanza “giusta”, calata attraverso il contagoccia o addirittura attraverso una siringa graduata, del colore, se non avessimo lo spiraglio che ci indurrebbe a domandarci chi soppesa la gradazione, la giustezza infinitesimale della miscela? In questo senso la binarietà felice è, ancora una volta, determinismo paziente della mano dell’uomo, strumento trasmettitore di “input” imprevedibili, sempre e comunque.
Siliano Simoncini, L’altra faccia della luna (l’arte si fa come scienza) Pistoia, Luglio 1995, scritto in occasione della mostra Nello studio Opere recenti, maggio-giugno 1995, Pistoia Il critico F. Menna fa iniziare l’attivazione di processi analitici nell’ambito dell’esperienza artistica con il quadro “La Grande Jatte” di G. Seurat, rilevando come al pittore non interessi più che vi sia corrispondenza “tra interno ed esterno, tra il quadro e le apparenze fenomeniche, ma più semplicemente e coerentemente”, nel quadro, vi sia la relazione interna “delle unità di base”; ovvero, di quelle “unità elementari (linee verticali, orizzontali, diagonali, zone puntiformi di colore)” che Seurat ha ottenuto scomponendo la continuità stessa dello spazio. Siamo nel 1884, la strada al Cubismo è aperta e la consacrazione di un’arte che non rifiuta la scienza, ma addirittura si fa come scienza, è alla sua epifania. La gran mole di lavoro che Gianfranco Chiavacci durante il mese di maggio ha mostrato nel suo studio, intraprendendo una modalità espositiva che dovrebbe essere presa ad esempio, rientra a pieno titolo nell’ambito di questa concezione dell’arte. In effetti le sue opere, da diversi decenni, si generano secondo una prassi che affonda le radici nella trattazione teorica della Sintassi binaria, come la definisce Chiavacci che l’ha puntualmente teorizzata nel 1980 (si veda il testo
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“La binarietà e lo spazio bidimensionale - Analisi di una ricerca sperimentale in arte”). Tale processo ci rende subito consapevoli di come l’artista non sia interessato ad un’arte medianica o simbolica, né‚ possa sentirsi plasmato da un’impressione oppure farsi coinvolgere dall’imprimere di sé‚ l’esterno con la carica espressiva presente, per esempio, in gran parte delle opere di artisti moderni. Chiavacci appartiene all’altra faccia della luna, se mi è consentita la metafora, il suo mondo è un omologo un tempo percorso e tracciato da esperienze che si esprimono in maniera illuminante nella polarità Mondrian/Duchamp. Il rigore scientifico e l’empirismo alchemico; la Scienza e la sua Gran Madre evocate con ermetica spiritualità dal primo e con ironica saggezza dall’altro, credo siano i riferimenti dai quali ha preso a conformarsi “l’itinerario-evento” di una vita dedicata interamente all’arte. Un itinerario che Chiavacci ha messo a disposizione dei visitatori non soltanto per consentirne l’apprezzamento estetico e linguistico ma, con la più ampia disponibilità, per farne capire più a fondo la fenomenologia della pratica dell’arte, appunto.
I temini ricerca, sperimentalità, speculazione, simbiosi, cognitività, esperibilità ... sono ricorrenti quando si debba affrontare un esame di opere che in apparenza sembrerebbero essere il risultato di un procedimento asettico e impersonale; ma abbiamo parlato di un’arte che si fa come scienza, così come per vie del tutto diverse del resto, certi artisti concettuali hanno eletto l’altra ipotesi: ovvero un’arte che si fa come natura e dunque tanto il lessico quanto il metodo, in entrambi i casi, dalla traslazione passano alla parafrasi, intraprendendo così un percorso completamente autonomo. Percorso artistico che reclama minore superficialità di giudizio e la necessaria assunzione del presupposto teorico, altrimenti genericità e incomprensione prendono il sopravvento. Allora parlare di asetticità, di assenza dell’umano è insignificante, non solo ingiustificato. Io e con me, credo, tutti coloro che hanno visitato in maggio lo studio di Gianfranco, abbiamo vissuto un’esperienza esaltante: opere in ogni dove, quadri, oggetti, sculture, progetti, test, quaderni di ricerca “defaticanti”, il tutto aperto alla curiosità e al bisogno impellente di sapere come ogni lavoro “funzionasse” e quale fosse stata l’origine della selezione che aveva prodotto le “unità di base”, per poi verificare di persona la relazione assegnata a ciascuna di esse dall’artista. Ore, in quello studio, di arricchimento e di esperienza umana non certo abituali; dunque: quale distacco! Quale freddezza! L’accademia della modernità, nei casi migliori, come quella storica, mostrano soltanto abilità e mestiere, per cui è preclusa davvero ogni profonda relazione empatetica con l’opera. Ho presenti nella memoria materiali inerti che hanno preso a pulsare di energia, configurandosi sulla superficie e nello spazio come presenze di un’estetica non certo statutale ma piuttosto di tipo anagrammatico direi; allo spettatore infatti, in base agli indizi, è demandato il compito di rintracciare la famiglia, il genere, l’etimo, dell’organismo osservato, per poter così comprendere la qualificazione del sistema in funzione della sua esplicita autonomia. E ciò, è bene ricordarlo, si fa solamente di fronte alla ragione dell’arte. “Nello studio opere recenti”, così titolava l’invito alla mostra, e l’ultimo lavoro di Chiavacci mi consente di entrare più specificatamente nell’argomento. “I cieli - Le terre - Gli elementi”, un complesso di nove modulazioni tridimensionali irregolari:
tre tipologie di cielo scaturite dall’impasto di cenere e pigmenti, tre concrezioni terree amalgamate secondo la tolleranza consentita dal mezzo, tre dischi con lembo eccentrico sporgente realizzati in stoppa, fissata al supporto metallico dallo stesso pigmento che gli attribuisce la valenza semantica: l’acqueo, il vegetale, il minerale. Un’opera che nonostante la sua forte carica “espressiva” e motivazionale: basti, per giustificare il riferimento, la spiegazione che l’artista dà delle tre forme di terra, quella, per eccellenza, della resa estetica, fatta con terra argillosa del senese; quella della quotidianità, prelevata nel proprio giardino, e, per ultima, la terra delle origini, del sottobosco collinare, raccolta nel luogo dove Chiavacci è nato. Nonostante ciò, dicevo, l’opera va comunque letta in funzione di un significativo processo della base teorica, che inequivocabilmente fa da riferimento ad ogni esperienza dell’artista. Chiavacci, a mio avviso, sta vivendo una fase evolutiva di grande rilevanza; infatti, come egli stesso ci dice (vedi il testo “Itinerari”, maggio 1995), sente “la necessità di riaffermare” ma ha capito anche che è indispensabile “uscire dalla speculazione asettica (necessaria in una prima fase di assorbimento comportamentale)”, a quale scopo? “per riportare i sensi ora vigili e cognitivi in prossimità/contatto/interno del reale esper/ibile/ito”. Si tratta di quell’essere vigile e cognitivo della maturità, del momento in cui ogni scoria risulta veramente tale; così egli può essere meno “rigoroso” nei confronti della “teoria della binarietà” e definitivamente, secondo il mio giudizio, passare dalla parafrasi del sistema ereditato dalle scienze matematiche, alla creazione di un sistema che è solamente dell’arte, del linguaggio dell’arte. Ne è riprova quello che Chiavacci, con intelligenza e dubbio “razionale”, scrive nel suo ultimo testo “Nello studio opere recenti”; infatti vi si legge che quanto egli va facendo si rivela sì congruente con la ricerca binaria, ma anche che essa “prevede la propria messa in crisi e la propria negazione”. Ciò mette in luce la capacità dell’artista di aver saputo conservare risorse intatte per alimentare il flusso energetico teoria-prassi che da sempre ha caratterizzato esemplarmente la sua esperienza creativa e a noi permette di fruire delle benefiche influenze di una vicenda artistica che meriterebbe di essere ufficialmente più considerata, per la legittimità del valore.
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Repertorio degli scritti, opere fotografiche e altro a cura di Annamaria Iacuzzi
Scritti Per tentare una spiegazione, in Collaborazione differenziata (Chiavacci, Lupetti, Melani), catalogo della mostra (Galleria FLOG, 11-25 gennaio, Firenze), s.e., Firenze, 1965 Riflessioni su Melani, in Collaborazione differenziata (Chiavacci, Lupetti, Melani), catalogo della mostra (Galleria FLOG, 11-25 gennaio, Firenze), s.e., Firenze, 1965 Dichiarazione di Gianfranco Chiavacci, in Arti visive in Toscana, inserto a cura di Claudio Cioni, “Nac”, gennaio 1973 Intervento operativo in fotografia, presentato in fotocopia in occasione della serata Gianfranco Chiavacci, Diapositive movimento-colore, (Galleria Vannucci, 10 maggio 1975, Pistoia), dattiloscritto La binarietà e lo spazio bidimensionale. Analisi di una ricerca sperimentale in arte, Pistoia, dicembre 1980, stampato in proprio Fernando Melani - materia arte conoscenza, agosto-novembre 1985, dattiloscritto Pericoloso a sé e agli altri, in Comunicare oltre il recinto. Il complesso psichiatrico delle Ville Sbertoli a Pistoia, a cura di Gianfranco Chiavacci, Mariangela Falzin, Amedeo Galluppi, “La nuova città”, Quaderni della Fondazione Michelucci, IV serie, nn. 6/7, dicembre 1985 Gianfranco Chiavacci, Nota dell’artista, in Analisi e stile. Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Giorgio Ulivi, catalogo della mostra (Palazzo Comunale, ex Centro Marino Marini, 27 gennaio-11 febbraio, Pistoia), Comune di Pistoia, Pistoia, 1990 L’evoluzione della binarietà, opere 1979 – 1993, Pistoia, settembre 1993, dattiloscritto Rapidi appunti per sintetizzare il mio ultimo scritto “L’evoluzione della binarietà” e altro, Pistoia, 22 dicembre 1993, dattiloscritto Limiti, presentato in fotocopia in occasione della mostra personale (Opera Associazione Culturale per le Arti Visive, 16 maggio-5 luglio, Perugia), Perugia, 1994, dattiloscritto bifronte Nello studio Opere recenti, presentato in fotocopia in occasione della mostra personale (Studio di Gianfranco Chiavacci, 14 maggio-18 giugno, Pistoia), Pistoia, aprile 1995, stampato in proprio Ho detto dire, Nello studio opere recenti, presentato in fotocopia in occasione
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della mostra personale (Studio di Gianfranco Chiavacci, 14 maggio-18 giugno, Pistoia), Pistoia, maggio 1995, dattiloscritto bifronte Itinerari, presentato in fotocopia in occasione della mostra personale (Studio di Gianfranco Chiavacci, 14 maggio-18 giugno, Pistoia), Pistoia, maggio 1995, dattiloscritto bifronte Combinatoria delle 121 chiavi di lettura di classe K=2 di Nello studio & Progetto Fenoma Umano, settemiladuecentosessanta chiavi di opere virtuali, presentato in occasione della mostra personale (Studio di Gianfranco Chiavacci, maggio-giugno, Pistoia), Pistoia, giugno-agosto 1997, stampato in proprio in un unico esemplare Nello studio & Progetto Fenoma Umano, presentazione della mostra personale (Studio di Gianfranco Chiavacci, maggio-giugno, Pistoia), Pistoia, 1997, stampato in proprio Trenta Fenomi, testo teorico/didascalico inerente l’opera 1566 “Trenta Fenomi”, Pistoia, marzo 1997, stampato in proprio La tavolozza di Zola, desunta da Al Paradiso delle Signore (Au Bonheur des Dames), Pistoia, ottobre 1997, dattiloscritto stampato in proprio Opera 4300 di Fernando Melani, Pistoia, giugno 2003, dattiloscritto Opera all’azzurro, Pistoia dicembre 2003, presentato in fotocopia in occasione della mostra (Sonde, Palazzo Fabroni, 17 gennaio-14 marzo 2004, Pistoia), dattiloscritto
Ricerca fotografica – oscillazioni pendolo luminoso (opera 1508), iniziato febbraio 1971, raccoglitore di fotografie eseguite col pendolo luminoso rotazioni 0 (opera 1516), agosto 1971, raccoglitore di fotografie eseguite col pendolo luminoso rotazioni 1 (opera 1509), luglio 1972, raccoglitore di fotografie eseguite col pendolo luminoso rotazioni 2 (opera 1510), settembre 1972, raccoglitore di fotografie eseguite col pendolo luminoso Senza titolo (opera 1556), 1972-1978, album di fotoprovini fare fotografia (opera 1512), 1972-1973, album di esperienze fotografiche contenente i testi teorici La memoria statica e La luce a fuoco, esemplare unico Senza titolo (opera 1555), 1973, album di fotoprovini, esemplare unico alberi (opera 1539), 1974, album fotografico, esemplare unico promemoria per una fotografia totale (opera 1517), febbraio 1974, album manoscritto promemoria per una fotografiatotale (opera 1519), febbraio 1974, libro manoscritto fotofotografie (opera 1540), 1974-1975, album di fotografie, esemplare unico proposta autoritratto (opera 1520), 1974/1975, foglio di carta fotosensibile in un contenitore, esemplare unico fotoprovini (opera 1551), 1974-1976, album fotografico, esemplare unico Senza titolo (opera 1557), 1976, album di fotoprovini fare fotografia, (opera 1562), 1977, 3/3, testi, tavole teoriche e fotografie su “Fare fotografia” Fare fotografia, Pistoia, 1977, dattiloscritto Schreber (opera 1568), 1977, libro fotografico, esemplare unico che cos’e’ un autoritratto fotografico? (opera 1544), 1978, album di fotografie, esemplare unico dia (opera 1522), 1978, contenitore con quattro diapositive costruite, esemplare unico itinerari, anche tracce (opera 1558), 22 settembre 1978, album di fotografie di Chiavacci a lavoro per l’opera “20 passi” Le false finestre di Pistoia (opera 1549), 1978, album di provini sulle false finestre con un testo critico Senza titolo 27-09-1978 (opera 1554), 1978, album di fotoprovini, esemplare unico 28-09-78 (opera 1550), 1978, foto documentarie del progetto GF 360, esemplare unico Senza titolo (opera 1552), 1978, album di fotoprovini, esemplare unico xeroes (opera 1553), 1978, xerocopia su cartoncino bifronte mb1 (opera 1560), 1978, diapositiva tra due fogli di carta fotografica, visibile dai due lati, esemplare unico rotazioni
GF 360 (opera 1530), 1978-1979, album di autoritratti fotografici, esemplare unico La cornice dorata (opera 1515), 1978-1979, album con foto autoritratti, esemplare unico rotazione, (opera 1532), 1978-1979, album di autoritratti fotografici, esemplare unico autoritratti, (opera 1539/1), 1979, album di auto-ritratti fotografici, esemplare unico bookes (opera 1538), 1979, album desunto dall’opera fotografica “ProduzioneRiproduzione-Produzione”, 1977-1979, esemplare unico cameroscura, 25. 2. 1979 (opera 1537), 1979, album di fotografie scattate con la camera oscura, esemplare unico corpo virtuale (opera 1526), aprile 1979, opera fotografica, esemplare unico positivo negativo (opera 1527), aprile 1979, album autoritratto negativo/positivo, esemplare unico progetto per una grande famiglia (opera 1525), aprile 1979, foto originali, esemplare unico Senza titolo (opera 1535), 1979, album fotografico di autoritratti, esemplare unico Senza titolo (opera 1536), 1979, libro in cartone con telai di diapositive solo (opera 1523), 25 gennaio 1979, libro fotografico, esemplare unico le tele (opera 1534), dicembre 1980, scritto teorico sulla genesi dell’opera fotografica, “Le tele” n. 0494 2 progetto per una grande famiglia (opera 1528), 1980, album contenente fotografie, loro ritagli a grandezza naturale e composizione nello studio in varie situazioni foto libro (opera 1518), 1981, album di fotografie, esemplare unico foto libro 2 (opera 1533), dicembre 1982, album di materiali di camera oscura, esemplare unico sulla scultura di un’immagine d’infanzia (opera 1531), 1982-1983, album di fotografie a colori con elaborazioni cromatiche dell’opera “Scultura di un’immagine d’infanzia”, esemplare unico Elaborazione-(Sistemazione) Materica, Simbolica, Mnemonica di un evento (definitivo e foto), Giacca tagliata, 1.1.1990 (opera 0798), 1990, progetto ed elementi dell’opera non realizzata, con scritto ricordo sul padre L’antenato nel cielo di maggio 1992 (opera 1205), 5 ottobre 1993, busta con materiale fotografico Senza titolo (opera 1564), 1993-1999, album di manipolazioni fotografiche gf lo studio (opera 1563), 27 gennaio 1995, fotografie dello studio con le opere, esemplare unico
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Libri d’artista / a / m / m, ph 1.2, Pistoia, marzo-aprile 1988, libro di elaborazioni combinatorie, stampato in proprio, esemplare unico l’esercizio della memoria, Pistoia, 29 marzo 1993, 16.40, taccuino di esperienze e riflessioni sulla memoria, esemplare unico La improbabile difficile pericolosa nascita del quadrato, Pistoia, dicembre 1997, libro-opera sulla combinatoria formazione di un quadrato, vari esemplari La nascita della parola, Pistoia, 25 ottobre 1997, stampato in proprio, esemplare unico connessioni deconnesse, Pistoia, dicembre 1998 ,libro di elaborazioni grafiche complesse, esemplare unico ph 1.0 ladtemor (opera 1232), Pistoia, febbraio-marzo 1998, libro di elaborazioni combinatorie, esemplare unico ph 1.1 sei ladtemor per iniziati (opera 1231), Pistoia, febbraio-marzo 1998, libro di elaborazioni combinatorie, esemplare unico d a m m, opera 1233, Pistoia, febbraio-marzo 1998, libro di elaborazioni combinatorie, 2°esemplare p.h. 1.3 combidamm, (opera 1234), Pistoia, marzo-aprile 1998, libro di elaborazioni combinatorie, esemplare unico quarang, (opera 1235), Pistoia, giugno 1998, libro di elaborazioni sul quadrangolo, esemplare unico i libri del ritaglio 1, (opera 1236), Pistoia, marzo 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 2, (opera 1237), Pistoia, marzo 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 3, (opera 1235), Pistoia 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 4, (opera 1239), Pistoia, 4 novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 5, (opera 1240), Pistoia, novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 6, (opera 1241), Pistoia, novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 7, (opera 1242), Pistoia, novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 8, Costellazioni, (opera 1243), Pistoia, novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 9, (opera 1244), Pistoia, novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 10, Profili in rima, (opera 1245), Pistoia, novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 11, Sequenze tricosèmiche e risultanze monocromosèmiche, d
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(opera 1248), Pistoia, novembre 1998, libro di esperienze artistiche, esemplare unico i libri del ritaglio 12, Prelievi di materiale cromatico asciutto del mio tavolo di lavoro, Pistoia, gennaio 2000, libro di esperienze artistiche, esemplare unico parole + combiparole, Pistoia, 1998, stampato in proprio, testo unico Anagrammi notevoli incontrati nel mio vagabondare, Pistoia, 1999, opera sperimentale, testo unico macchina combinatoria 99, lo studiolo, Pistoia, novembre 1999 Versos.doc ovvero il moltoscrivere, Pistoia, maggio 1999, opera sperimentale, stampato in proprio Versos 1, seconda versione, Pistoia, 1999, opera sperimentale, stampato in proprio libroccluso, (opera 1694), Pistoia, gennaio 2000 1 uno, libro d’artista, Pistoia, iniziato estate 1992 2 due, libro d’artista, Pistoia, iniziato dicembre 1992 3 tre, libro d’artista, Pistoia, iniziato gennaio 1997 ne, libro d’artista, Pistoia, iniziato 21 gennaio 2000, non concluso l’arte, libro d’artista, Pistoia, iniziato 11 aprile 1998, non concluso l’arte, libro d’artista, Pistoia, iniziato nel 2000 ca, cartoncini radunati in raccoglitore ad anelli, non concluso
Mail art Mail art n. 1-Il tempo degli Etruschi, 1984, 1 esemplare, inviata a Mail art/ Omaggio agli etruschi, Semproniano (Grosseto) Mail art n. 2-Probabili utensili di homo sapiens sapiens, agosto 1984, 1 esemplare, inviata all’Universida Autonoma di Santo Domingo ed esposta alla mostra Por la paz, Mostra International Universidad Autonoma, Santo Domingo Mail art n. 3-Viareggio, 1.3.1985, 8 esemplari, inviati il 4.3.1985 a 7 destinatari Mail art n. 4-Marcel Proust o della fotografia, 3.3.1985, 15 esemplari, inviati a 14 destinatari Mail art n. 5-Una immagine da “Le false finestre di Pistoia”, 29 marzo 1986, 11 esemplari, inviati il 1.4.1986 a 10 destinatari Elezioni europee propaganda indiretta (opera 792/1), giugno 1989, 20 esemplari, inviati a 19 destinatari, (opera fotografica poi confluita in opera in fotocopie/libro, quindi inviata a 19 destinatari) Mail art n. 6-La Venere di Viareggio, 20 ottobre 1989, 50 esemplari, inviata a 48 destinatari Mail art n. 7-Trentasei lune per trentasei amici, Pistoia-dicembre 1991, 36 esemplari, inviati a 35 destinatari (uno di questi è lo stesso Chiavacci) Mail art n. 8-Un’immagine da Carlo Michelstaedter-La Persuasione e la Retorica1910, 17.4.1993, 23 esemplari, inviati a 22 destinatari Mail art n.9-Titoli di libri contigui in successione alfabetica estratti dallo schedario della mia biblioteca in un giorno di aprile del millenovecentonovantatre, gennaio 1994, 30 esemplari, inviata a 29 destinatari
ILLIBRO 30, 1998
Mail art n.10-Gianfranco e la sua MAILART, marzo 1995, 20 esemplari, inviata a 19 destinatari Mail art n.11-La “condivisione di elementi della coppia” è indicata in chiaro nella catena parentale,
gennaio 1998, 36 esemplari, inviata a 35 destinatari
Catene parentali utilizzate per Mail art n. 11, gennaio 1998, stampato in proprio
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Principali esposizioni Collaborazione differenziata. Chiavacci, Lupetti, Melani, a cura della sezione culturale Flog, Galleria FLOG, 11-25 gennaio 1965, Firenze Piccolo formato, Galleria Numero, 2-17 gennaio 1966, Firenze Mostra estate 1966 Internazionale, Galleria Numero, 16 luglio-9 settembre 1966, Firenze Mostra piccolo formato, Galleria Numero, 5-20 gennaio 1967, Firenze Gianfranco Chiavacci, personale, Galleria Numero, 18 febbraio-3 marzo 1967, Firenze Gianfranco Chiavacci, personale, Galleria FG, 1-16 giugno 1967, Pistoia Affiches a Bologna, Galleria Quarantadue, giugno 1968, Bologna Mostra provinciale degli artisti pistoiesi, Museo Civico, Sala Ghibellina, 18-30 giugno 1968, Pistoia Mostra mercato d’arte contemporanea, a cura della Galleria Numero, Palazzo Strozzi, novembre-dicembre 1968, Firenze Confronto 69, Galleria d’arte contemporanea Sincron, 1 aprile 1969, Brescia 11 giorni di arte collettiva a Pejo ‘69, a cura del Centro Operativo Sincron, 24 agosto-3 settembre 1969, Pejo (Trento) 1.a Rassegna Biennale Regionale Arte Figurativa Fortezza Vecchia, Palazzo del Portuale, 19 ottobre-5 novembre 1969, Livorno 2° Incontro Post Pejo, Galleria d’arte contemporanea Sincron, 28 marzo-7 aprile 1970, Brescia Fuoco e Schiuma, a cura del Centro Operativo Sincron, 18-20 settembre 1970, S. Angelo Lodigiano (Milano) Incontro Sincron Rimini 1971, a cura del Centro Operativo Sincron, Palazzo del Podestà, 3-16 aprile 1971, Rimini Ti.Zero uno. Operazioni estetiche e strutture sperimentali, Ti.Zero centro sperimentale di ricerca estetica, giugno 1971, Torino Multipli Sincron 250, Prototipi, Serigrafie, Ti.Zero centro sperimentale di ricerca estetica, 14 dicembre 1971-15 gennaio 1972, Torino Ricerche plastico-visuali, Ti.Zero centro sperimentale di ricerca estetica, 18 gennaio-19 febbraio 1972, Torino Gianfranco Chiavacci. Binarietà, personale, Ti.Zero centro sperimentale di ricerca estetica, 8-26 maggio 1973, Torino A Pistoia anche. (Barni, Buscioni, Chiavacci, Coccoli, Donatella, Ghidini, Landini, Meani, Simoncini, Ulivi), La Porta Vecchia galleria d’arte contemporanea, 1022 novembre 1973, Pistoia Diapositive movimento-colore. Rotazioni Traslazioni Sfuocature, serata personale dedicata alla ricerca fotografica, Galleria Vannucci, 10 maggio 1975, Pistoia Grafica / Atto primario. Una verifica 1970/1980. Biagi, Chiavacci, Giovannelli, Simoncini, Tesi, Ulivi, organizzata dal bollettino d’arte “grapho”, Municipio, Sala consiliare, 26 marzo-6 aprile 1980, Montecatini Terme (Pistoia)
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Por la paz, mostra internazionale di Mail Art, a cura del Centro Operativo Sincron, Università di Santo Domingo, ottobre 1984, Santo Domingo Dell’ arte e della vita, generazioni a confronto, Ex Cinema Nuovo Giglio, 5-30 luglio 1984, Pistoia IV Omaggio agli Etruschi, Mostra internazionale di Mail Art, Galleria Sincron, 27 aprile 1985, Brescia Labirinti. Analisi e stile. Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Giorgio Ulivi, a cura di Siliano Simoncini, Palazzo Comunale, ex Centro Marino Marini, 27 gennaio-11 febbraio 1990, Pistoia Gianfranco Chiavacci. Limiti, personale, a cura di Bruno Corà, Opera Associazione culturale per le arti visive, 16 maggio-5 luglio 1994, Perugia Nello studio Opere recenti, personale, Studio di Gianfranco Chiavacci, 14 maggio-18 giugno 1995, Pistoia Fernando Melani (e gli amici di Fernando Melani): R. Barni, V. Berti, S. Beragnoli, M. Biagi, A. Boetti, U. Buscioni, E. Castellani, G. Chiari, G. Chiavacci, L. Fabro, D. Giuntoli, L. Landini, M. Nigro, G. Paolini, M. Pistoletto, R. Ranaldi, G. Ruffi, S. Simoncini, G. Ulivi, Galleria Vannucci, 12 aprile-31 maggio 1996, Pistoia Nello studio & Progetto Fenoma Umano, personale, Studio di Gianfranco Chiavacci, 31 maggio-30 giugno 1997, Pistoia Proiezioni d’Arte. Alleruzzo, Biagi, Chiavacci, Dami, Mei, Papotto, Ulivi, a cura di Marco Bazzini, Palazzo Fabroni Arti Visive Contemporanee, Fortezza di Santa Barbara, 19 settembre-19 ottobre 1997, Pistoia Abitanti / Arte in relazione, a cura di Marco Bazzini, Bruno Corà, Mauro Panzera, Palazzo Fabroni Arti Visive Contemporanee, 14 ottobre-16 dicembre 2001, Pistoia Fiamma Vigo e “Numero”. Una vita per l’arte, Archivio di Stato, 7 ottobre-20 dicembre 2003, Firenze Preziose carte. Un viaggio nei libri d’artista, a cura di Paolo Tesi, Museo Civico Pinacoteca Crociani, Salone di Palazzo Ricci, 13 dicembre 2003-21 marzo 2004, Montepulciano (Siena) Gianfranco Chiavacci, Personale, Galleria Vannucci, 20 dicembre 2003-31 gennaio 2004, Pistoia Sonde / 10 anni con gli artisti a Palazzo Fabroni, a cura di Bruno Corà e Mauro Panzera, Palazzo Fabroni Arti Visive Contemporanee, 17 gennaio-14 febbraio 2004, Pistoia Gianfranco Chiavacci, Personale, a cura della Galleria Vannucci, Arcadia, 30 aprile-13 maggio 2005, Pistoia Quasi Pagine. libro d’artista libro oggetto libro ambiente, a cura di Paolo Tesi, Biblioteca San Giorgio, 23 aprile-16 giugno 2007, Pistoia Gianfranco Chiavacci, personale, a cura di Aldo Iori, Centro di Documentazione sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese, Palazzo comunale e Palazzo Azzolini, 23 novembre 2007-3 febbraio 2008, Pistoia
Bibliografia critica Fernando Melani, Franco Chiavacci elaborato dal Melani, in Collaborazione differenziata (Chiavacci, Lupetti, Melani), catalogo della mostra (Galleria FLOG, gennaio 1965, Firenze), Firenze 1965 Carlo Lupetti, Lupetti a Chiavacci, in Collaborazione differenziata (Chiavacci, Lupetti, Melani), catalogo della mostra (Galleria FLOG, gennaio 1965, Firenze), Firenze 1965 Fernando Melani, Presentazione, in Gianfranco Chiavacci, Personale, pieghevole della mostra (Galleria Numero, 18 febbraio-3 marzo, Firenze), Pistoia 1967; poi ripubblicato in occasione dell’esposizione alla Galleria FG, Pistoia 1967 e con il titolo Della binarietà in Gianfranco Chiavacci, nel catalogo della mostra Gianfranco Chiavacci. Binarietà, Personale, al Ti.zero centro sperimentale di ricerca estetica, Torino 1973 Corrado Marsan, Chiavacci alla FG, “La Nazione”, 7 giugno 1967 Claudio Popovich, Linguaggio e artificio, “Quartiere”, n. 29/30, a. X, Trapani 30 aprile 1967 Claudio Popovich, La situazione fiorentina, in IV Edizione Premio Nazionale di Pittura Masaccio, catalogo della mostra (24 giugno-24 luglio, San Giovanni Valdarno), San Giovanni Valdarno 1968 Fernando Melani, Sintetismi attorno a Gianfranco Chiavacci, dattiloscritto composto in occasione della serata Gianfranco Chiavacci, Diapositive movimento-colore, (Galleria Vannucci, 10 maggio 1975, Pistoia), maggio 1975 Fernando Melani, Notazioni un po’ più circoscritte a Gianfranco per facilitare ! la lettura di quanto stiamo…, dattiloscritto composto in occasione della serata Gianfranco Chiavacci, Diapositive movimento-colore, (Galleria Vannucci, 10 maggio 1975, Pistoia), datato 10.5.1975 Grafica/Atto primario. Una verifica 1970/1980. Biagi, Chiavacci, Giovannelli, Simoncini, Tesi, Ulivi, catalogo della mostra (Municipio, Sala consiliare, 26 marzo-6 aprile, Montecatini Terme), Tipo-Lito Vannini, Buggiano (Pistoia) 1980 Dell’arte e della vita, generazioni a confronto, a cura di Andrea Del Guercio, catalogo della mostra (Ex Cinema Nuovo Giglio, 5-30 luglio 1984, Pistoia), Tipografia del Comune, Pistoia 1984 Giovanni Battista Bassi, Gianfranco Chiavacci, “Il Tremisse Pistoiese”, a. X, n. 2, agosto 1985 Labirinti. Analisi e stile. Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Giorgio Ulivi, a cura di Siliano Simoncini, catalogo della mostra (Palazzo Comunale, ex Centro Marino Marini, 27 gennaio-11 febbraio, Pistoia), Comune di Pistoia 1990 Incontro con l’artista: Gianfranco Chiavacci. Registrazione del 16 maggio 1994 depositata presso l’Accademia di Belle Arti ‘Pietro Vannucci’ di Perugia Siliano Simoncini, L’altra faccia della luna (l’arte si fa come scienza), Pistoia, Luglio 1995
Proiezioni d’Arte. Alleruzzo, Biagi, Chiavacci, Dami, Mei, Papotto, Ulivi, a cura di Marco Bazzini, catalogo della mostra (Fortezza di Santa Barbara, 19 settembre-19 ottobre, Pistoia), Palazzo Fabroni Arti Visive Contemporanee, Pistoia 1997 Paolo Tesi, Indagine sull’arte. Viaggio in tre mostre, “La Repubblica”, 11 ottobre 1997 Bruno Corà, Nella porta di fronte, in Abitanti, catalogo della mostra (Palazzo Fabroni, 13 ottobre-16 dicembre, Pistoia), Gli Ori, Pistoia 2001 Fiamma Vigo e ‘Numero’. Una vita per l’arte, a cura di Maria Grazia Messina, Rosalia Manno Tolu, catalogo della mostra (Archivio di Stato, 7 ottobre-20 dicembre 2003, Firenze), Centro Di, Firenze 2003 Lorenzo Maffucci, La poesia della logica binaria nelle forme colorate di Chiavacci, “La Nazione”, 19 dicembre 2003 Preziose carte. Un viaggio nei libri d’artista, a cura di Paolo Tesi, catalogo della mostra (Museo Civico Pinacoteca Crociani, 13 dicembre 2003-21 marzo 2004, Montepulciano), Protagon Editori Toscani, Siena 2003 Lorenzo Maffucci, Arte e industria si rincontrano: Chiavacci da “Arcadia”, “La Nazione”, 30 aprile 2005 Anna Agostini, Conversazione con Gianfranco Chiavacci, “Bollettino Centro di Documentazione sull’Arte moderna e contemporanea pistoiese”, n. 1, 2006 Quasi Pagine libro d’artista libro oggetto libro ambiente, a cura di Paolo Tesi, catalogo della mostra (Biblioteca San Giorgio, 23 aprile-16 giugno, Pistoia), Settegiorni editore, Pistoia 2007 Annamaria Iacuzzi, Cultura artistica a Pistoia dal dopoguerra, in Arte del Novecento a Pistoia, a cura di Carlo Sisi, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2007 Gianfranco Chiavacci, a cura di Aldo Iori, catalogo della mostra (Palazzo comunale e Palazzo Azzolini, 23 novembre 2007-3 febbraio 2008, Pistoia), Settegiorni editore, Pistoia
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Immagini *Opera in mostra nelle Sale affrescate del Palazzo Comunale ** Opera in mostra nell’Atrio di Palazzo Azzolini In copertina: Gianfranco Chiavacci nello studio di via Val di Brana nel 1994 8 Gianfranco Chiavacci alla personale alla Galleria Numero di Firenze nel 1967 con l’opera 0075 19 0011, 1963, cm 46 x 62, carta. Proprietà dell’artista 21 0029/1, agosto 1964 / novembre 1969, cm 41 x 41, vinilico su legno. Proprietà dell’artista 22 0030, settembre 1964, cm 65 x 120, vinilico su legno. Proprietà dell’artista 23 0020 – Cubo, giugno 1964, cm 26 x 26 x 26, vinilico su legno, fili di nylon. Proprietà dell’artista 24 0075, 20 gennaio 1967, cm 90 x 90, vinilico su legno (579 elementi). Collezione Rolando Priami, Pistoia 27 0296 – La frase, marzo 1969, cm 50 x 84, smalto su legno. Proprietà dell’artista 28 0232, gennaio/giugno 1968, cm 50 x 70, colore a spruzzo su carta. Proprietà dell’artista 28 0409 – Scacchiera binaria, novembre 1972, cm 70 x 50, vinilico su cartone telato. Proprietà dell’artista 29 0358 – Curve binarie, 1971, cm 65 x 65, olio su tela su legno. Proprietà dell’artista 30 3009/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 31 0528-SF – La scalinata, 1981, altezza cm 41, fotografia su legno. Proprietà dell’artista 31 0527-SF – Il muro, 1981, altezza cm 41, fotografia su legno. Proprietà dell’artista 32 0522-SF – La mano il braccio il muro, 1982, altezza cm 34, legno, fotografia e tempera su tela. Proprietà dell’artista 33 0438, gennaio 1977, cm 50 x 100, acrilico su masonite. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 34 0445- A / B / C, novembre 1977, tre elementi cad. cm 30 x 30, vinilico su tela. Proprietà dell’artista 35 0512, 24 marzo 1982, cm 60 x 60, vinilico e segatura su tela. Giovanni Battista Bassi, Pistoia 36 0936 – Scultura di terra, marzo 1994, cm 59 x 58 x 22, terra, sabbia, vetro, gesso e segatura. Proprietà dell’artista 38 0808 – Uovo/uomo dell’elettrocene, ottobre 1990, cm 17 x 30 x 30, acrilico su corda. Proprietà dell’artista 39 0378, marzo 1971, cm 37 x 37, incisione pantografata su plexiglass. Proprietà dell’artista
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40 0504, 29 maggio 1981, cm 30 x 30, acrilico su tela estroflessa. Proprietà dell’artista 41 0486 – Quattro ipercellule binarie, giugno 1980, cm 35 x 35 x 35, vinilico su legno e cartone telato. Opera distrutta 41 0537, giugno 1982, cm 30 x 30 x 30, vernice su lamierino. Proprietà dell’artista 42 0604, ottobre 1985, altezza cm 32, acrilico su legno e carta. Proprietà dell’artista 42 0908 – Cuore binario, ottobre 1993, altezza cm 212, tecnica mista su rete di ferro. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 43 0626, 27 novembre 1985, cm 100 x 100 (chiusa) x 188 (aperta), filo vegetale, acrilico e legno. Proprietà dell’artista 43 0743 – Albero binario rosso, dicembre 1987, cm 40 x 17,5 x 38,5, vinilico, spago e legno. Proprietà dell’artista 44 0913, gennaio 1994, cm 59 x 33 x 37, vinilico e segatura su garze, tela e legno. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 44 1812, gennaio 2004, altezza cm 36, acrilico su legno e filo di ferro. Proprietà dell’artista 45 0821, novembre 1990. Immagini dal video realizzato alla mostra Limiti, Opera, Perugia,1994 46 1569, giugno 1999, cm 60 x 60, olio su tela, Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 47 1700, marzo 2000, cm 38 x 84, acrilico su legno. Proprietà dell’artista 48 1711, giugno 2000, cm 70 x 50, acrilico su cartoncino. Proprietà dell’artista 50 1204 – A/3*, settembre 1958, cm 25 x 28, olio su legno. Proprietà dell’artista 51 1573 – Dispersione B*, novembre 1960, cm 64x40, olio su masonite. Proprietà dell’artista 52 1574 – Dispersione 1 / Gatti e binari, 25 settembre 1960, cm 47 x 78, olio su legno. Proprietà dell’artista 53 0031*, 17 novembre 1964, cm 32 x 32, china e vinilico su legno, fili di cotone. Proprietà dell’artista 54 0013, 1965, cm 56 x 119, legno (684 elementi) su compensato. Collezione privata Pistoia 55 0041, 20 dicembre 1965, cm 42 x 84, Vetro rigato, colore vinilico su legno e carta. Proprietà dell’artista 56 0293 – Grande presenza azzurra*, marzo 1969, cm 90 x 90, vinilico su legno. Collezione privata, Pistoia 57 0294 – Grande presenza gialla*, marzo 1969, cm 90 x 90, vinilico su legno. Collezione privata, Pistoia 58 0297, marzo 1969, cm 60 x 72, vinilico su legno. Proprietà dell’artista 59 0325, agosto 1969, cm 47 x 81, tempera, smalto e incisione su legno. Proprietà dell’artista
60 0353 – Curve binarie, gennaio 1970, cm 74 x 51, olio su tela. Collezione privata, Pistoia 61 0440 – 1/ 2 / 3 / 4, 8 febbraio 1977, quattro elementi cad. cm 30 x 30, acrilico su tela. Proprietà dell’artista 62 0462, dicembre 1979, cm 30 x 50, vinilico su cartone telato. Proprietà dell’artista 63 0485 – Sei ipercellule binarie*, 21 giugno 1980, cm 60 x 34, tecnica mista. Proprietà dell’artista 64 0495*, 3 gennaio 1981, cm 60 x 60, acrilico su tela. Collezione Luigi Nanni, Pistoia 65 0510*, 27 febbraio 1982, cm 30 x 30 x 30 (cubo 15 x 15 x 15), vinilico su tela e su cartone. Proprietà dell’artista 66 0546, aprile 1983, cm 30 x 30, tecnica mista su tela. Proprietà dell’artista 67 0549*, 4 giugno 1983, cm 60 x 60, acrilico su tela e su cartone. Collezione Bruno Simi, Firenze 68 0559*, gennaio 1984, cm 60 x 60, tecnica mista su tela e legno. Collezione Sandra Chiavacci, Pistoia 69 0561*, gennaio 1984, altezza cm 180, acrilico su legno. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 70 0574*, ottobre 1984, cm 120 x 120, tecnica mista su legno. Proprietà dell’artista 71 0578*, 25 novembre 1984, cm 40 x 40 x 42, tecnica mista su legno. Proprietà dell’artista 72 0639, gennaio 1986, cm 54 x 48, carta, filo vegetale, acrilico e legno. Proprietà dell’artista 73 0646, marzo/dicembre 1986, altezza cm 150, acrilico su legno e ferro. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 74 0671*, 4 ottobre 1986, cm 60 x 60, filo vegetale, acrilico e tessuto. Collezione privata, Pistoia 75 0672* – Triangolo binario, novembre 1986, cm 90 x 82,5 x 75, legno. Proprietà dell’artista 76 0707, luglio 1987, cm 42,5 x 69,5, vinilico su legno e lamierino. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 77 0721*, 24 ottobre 1987, cm 50 x 45 ca., tecnica mista su legno e tela. Proprietà dell’artista 78 0724, ottobre 1987, cm 44 x 26, tecnica mista su legno e metallo. Proprietà dell’artista 79 0758 – I quattro ingressi del Bardo*, 20 gennaio 1988, cm 90 x 90, tecnica mista su legno e cartoni telati. Collezione Maurizia Mauro, Pistoia 80 0766*, ottobre 1988, cm 48 x 45, olio su legno. Collezione Teresa e Marcello Bucci, Pistoia 81 0768*, 7 novembre 1988, cm 70 x 90, olio su legno. Collezione Amedeo Galluppi, Firenze 82 0772*, luglio 1988, base cm 30 x 56, vinilico su corda e legno. Collezione privata, Pistoia
83 0776, 8 dicembre 1988, cm 50 x 74,5, olio su legno e tela. Proprietà dell’artista 84 0780 – Silesia*, marzo 1989, dimensioni variabili, tecnica mista su legno e silesia. Proprietà dell’artista 85 0781, aprile 1989, cm 60 x 44, tecnica mista. Proprietà dell’artista 86 0803*, 21 maggio 1990, cm 102 x 112, olio su legno. Collezione privata, Pistoia 87 0831*, aprile 1991, cm 116 x 152, olio su tela. Proprietà dell’artista 88 0832 – Grande tela blu, maggio 1991, cm 126 x 108, olio su tela. Proprietà dell’artista 89 0833*, giugno 1991, cm 120 x 120, acrilico su garze e filo di cotone. Proprietà dell’artista 90 0834, 7 settembre 1991, cm 80 x 96, olio su legno. Proprietà dell’artista 91 0835*, 20 settembre 1991, cm 70 x 50, acrilico su garza e cartone telato. Proprietà dell’artista 92 0836*, 20 settembre 1991, cm 70 x 50, acrilico su garza e cartone telato. Collezione privata, Pistoia 93 0844*, novembre 1991, cm 102 x 108, olio e acrilico su legno. Collezione privata, Pistoia 94 0848 – Scultura di carta, ottobre 1990, altezza cm 148, acrilico e vinilico su cartoncino. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 95 0880 – Il vegetale, 10 ottobre 1992, cm 50 x 60, acrilico e vinilico su legno e vegetale. Collezione privata, Pistoia 96 0883*, ottobre 1992, cm 102 x 57 x 17,5, vinilico, acrilico e segatura su tela. Proprietà dell’artista 97 0891*, dicembre 1992, cm 45 x 45, tecnica mista. Collezione Amedeo Galluppi, Firenze 98 0933, marzo 1994, cm 43 x 43 x 16, gesso e acrilico su legno. Proprietà dell’artista 99 0945 – Cassetto 2*, novembre 1994, cm 51 x 67, tecnica mista su garza e legno. Collezione privata, Pistoia 100 0947 – Cassetto 4, novembre 1994, cm 47 x 32, acrilico su legno e fibra vegetale. Collezione privata, Pistoia 101 0952 / 0960 - I cieli, le terre, gli elementi*, gennaio 1995, visione d’insieme, nove elementi cad. cm Ø 65, materiali vari. Proprietà dell’artista 102 0953 - I cieli, le terre, gli elementi / I cieli / B*, gennaio 1995, cm Ø 65, vinilico su tela, ferro, cenere, pietre blu. Proprietà dell’artista 103 0959 – I cieli, le terre, gli elementi / Le terre / La quotidianità*, gennaio 1995, cm Ø 65, terra del mio giardino. Proprietà dell’artista 104 0955 – I cieli, le terre, gli elementi / Gli elementi / La natura vegetale*, gennaio 1995, cm Ø 65, ferro, vinilico e stoppa. Proprietà dell’artista 105 0990*, settembre 1996, cm 58 x 58, acrilico su filo di cotone e stoffa. Proprietà dell’artista 106 0993, ottobre 1996, cm 70 x 70, acrilico su spago e tela. Proprietà dell’artista
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107 1124 – Fili tirati*, 23 aprile 1998, cm 90 x 90, vinilico e borotalco su juta. Proprietà dell’artista 108 1003 / 1032 – Progetto Fenoma Umano*, dicembre 1996 / gennaio 1997, dimensioni variabili, visione d’insieme, trenta elementi, tecnica mista su cartoncino. Proprietà dell’artista 109 1003 / 1032 – Progetto Fenoma Umano*, dicembre 1996 / gennaio 1997, dimensioni variabili, trenta elementi, tecnica mista su cartoncino, particolare. Proprietà dell’artista 110 1003 / 1032 – Progetto Fenoma Umano*, dicembre 1996 / gennaio 1997, dimensioni variabili, trenta elementi, tecnica mista su cartoncino, particolare. Proprietà dell’artista 111 1138, luglio 1998, cm 71 x 80, carta e acrilico su tela. Courtesy Galleria Vannucci, Pistoia 112 1460*, dicembre 1998, cm 60 x 60, fibre acriliche colorate e filo vegetale. Collezione Maria Stanghellini, Pistoia 113 1702*, aprile 2000, cm 60 x 60, olio su tela. Proprietà dell’artista 114 1735*, maggio 2001, cm 80 x 80, acrilico su tela, Collezione privata, Pistoia 115 1738*, giugno 2001, cm 60 x 60, acrilico su tela. Proprietà dell’artista 116 1749 – 1768 – Opera all’azzurro, aprile/dicembre 2002, venti elementi, cad cm 60 x 60, acrilico su tela. Proprietà dell’artista. Installazione a Palazzo Fabroni, mostra Sonde, 2004 117 1748 - Opera all’azzurro / Matrice, gennaio 2002, cm 60 x 60, acrilico su tela. Proprietà dell’artista 118 1763 – Opera all’azzurro, aprile/dicembre 2002, cm 60 x 60, acrilico su tela. Proprietà dell’artista 119 1767 – Opera all’azzurro, aprile/dicembre 2002, cm 60 x 60, acrilico su tela. Proprietà dell’artista 120 1742*, luglio 2001, cm 30 x 30 x 30, acrilico su cartone telato. Proprietà dell’artista 121 1774 – Cantata policromatica per 24 voci combinate, 26 febbraio 2003, cm 60 x 50, acrilico su cartone telato. Collezione privata, Pistoia 122 1820*, agosto 2004, cm 60 x 60, acrilico su tela. Proprietà dell’artista 123 1836*, gennaio 2005, cm 60 x 60, acrilico su spago, garza 70 x 100 compressa su tela. Proprietà dell’artista 124 1845 – Giallo*, febbraio 2005, cm 30 x 30, acrilico su spago e cartone telato. Proprietà dell’artista 125 1846 – Bianco*, febbraio 2005, cm 30 x 30, acrilico su spago e cartone telato. Proprietà dell’artista 126 1847 – Nero*, febbraio 2005, cm 30 x 30, acrilico su spago e cartone telato. Proprietà dell’artista 127 1890 – Il bit – Il bit solitario / Il bit abbandonato / Solitudine del bit / La morte del bit, 16 ottobre 2006, quattro elementi cad. cm 30 x 30, acrilico su tela. Proprietà dell’artista 128 6010/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà
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dell’artista 128 6014/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 129 4020/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 129 5001/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 130 3018/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 130 6503/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 131 5031/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 131 6001/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 132 5021/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 132 5022/RF**, 1973-74, cm 30 x 40, stampa su alluminio (2007). Proprietà dell’artista 133 0523-SF**, 1982, altezza cm 38, legno, fotografia e tempera su tela. Proprietà dell’artista 133 0524-SF**, 1982, altezza cm 40, gesso, fotografia e tempera su tela. Proprietà dell’artista 133 0525-SF**, 1982, altezza cm 36, tempera e segatura su gesso e legno. Proprietà dell’artista 133 0526-SF**, maggio 1982, altezza cm 52, cemento, legno, tempera e segatura su gesso. Proprietà dell’artista 133 0530-SF**, maggio 1982, altezza cm 55, legno, tempera e segatura su tela e gesso. Proprietà dell’artista 134 Gianfranco Chiavacci nello studio, 1996 137 Lo studio di Gianfranco Chiavacci a metà degli anni Novanta 139 Gianfranco Chiavacci con Fernando Melani in occasione della personale alla Galleria Numero,1967: alle spalle l’opera 0075 142 Gianfranco Chiavacci con Fernando Melani in occasione della serata Diapositive movimento-colore alla Galleria Vannucci, Pistoia, 1975 143 Gianfranco Chiavacci con Donatella Giuntoli durante l’allestimento della personale di Ranaldi a Palazzo Fabroni, Pistoia, 1994 144 Gianfranco Chiavacci con Renato Ranaldi alla mostra Limiti, Opera, Perugia, 1994 176 ILLIBRO 30, 1998. cm 15 x 36 x 26, collage, cartone, carte colorate, computer. Collezione privata, Pistoia 183 Gianfranco Chiavacci, 2007
183
Sommario
185
Per una spaziosità binaria di Aldo Iori
9
Opere
49
Dialogo per una biografia di Annamaria Iacuzzi
135
Scritti di Gianfranco Chiavacci Per tentare una spiegazione (1965) Gianfranco Chiavacci (1973) Fare fotografia (1977) La binarietà e lo spazio bidimensionale... (1980) Nota dell’artista (1989) Rapidi appunti... (1993) Limiti (1994) Nello studio Opere recenti (1995) Itinerari (1995) Nello studio & Progetto Fenoma Umano (1997) Valentino, l’Abisso, il Silenzio... (1997) Opera all’azzurro (2003)
145 146 147 149 157 158 159 160 164 165 165 166
Antologia critica Franco Chiavacci elaborato dal Melani (1965) di Fernando Melani Lupetti a Chiavacci (1965) di Carlo Lupetti Presentazione (1967) di Fernando Melani Chiavacci alla FG (1967) di Corrado Marsan Gianfranco Chiavacci (1985) di Giovanni Battista Bassi L’altra faccia della luna... (1995) di Siliano Simoncini
167 168 169 170 170 171
Repertorio degli scritti, opere fotografiche e altro Scritti Ricerca fotografica Libri d’artista Mail art Principali esposizioni Bibliografia critica Immagini
173 174 175 176 177 178 179
Finito di stampare nel mese di giugno 2013 presso la Tipografia per conto di Settegiorni Editore. Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione, anche parziale, di foto e testi.