Musica al Palazzo di P.L. Nervi

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Politecnico di Torino

II FacoltĂ di architettura Architettura per il progetto Studente: Stella Cinzia Relatore: Camorali Francesca



indice 0 introduzione

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1 italia ’61

8 da ieri a oggi

Torino vi chiama l’assegnazione dell’evento una nuova parte di città il sito

2 il parco delle meraviglie gli spazi dell’evento il palavela i padiglioni delle regioni il circarama disney la monorotaia

3 il palazzo del Lavoro

la tecnica come arma l’ingegnere architetto e costruttore una vita di grandi costruzioni

5 il palazzo del Lavoro

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7 verso una nuova funzione

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8 casa della musica

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necessità di uso quale? lo spazio e il volume o...Palazzo della musica cos’è? esempi

9 contesto

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10 progetto

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analisi urbana

4 pier luigi Nervi

le componenti tecnologiche colonne e copertura_ “funghi” solaio isostatico vetrate e frangisole altre curiosità

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il cantiere l’esposizione interna ipotesi di riuso

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prima della costruzione il concorso vincitori e vinti

6 il palazzo del Lavoro

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una possibilità

11 bibliografia 48

e sitografia

Musica al Palazzo di Pier Luigi Nervi Ipotesi di riuso


introduzione

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Questo lavoro nasce dalla curiosità verso una figura molto importante nella storia dell’architettura italiana, e non solo, del XX secolo, che spesso, nei più importanti libri di architettura contemporanea non viene neppure citato, e se ciò accade lo si fa in riferimento alla collaborazione con Gio Ponti, per la realizzazione del grattacielo Pirelli a Milano, dimenticando quelli che in verità sono i capolavori di Pier Luigi Nervi. Curiosità scaturita dalla visita casuale alla mostra itinerante intitolata Pier Luigi Nervi, Architettura come sfida tenutasi presso il museo di arte contemporanea MAXXI di Roma nel 2011. Nella crescita di questo interesse ha avuto notevole importanza la partecipazione al Workshop RPI-PoliTo tenutosi presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, nel Settembre 2012. All’interno di questa esperienza ho avuto la possibilità di iniziare a comprendere più a fondo l’opera di Nervi, con particolare attenzione al Palazzo del Lavoro di Torino, anche se non sono mancate le occasioni per discutere e conoscere altre opere dell’ingegnere-architetto, in particolare quelle torinesi. Con quest’ultimo lavoro ho voluto mettermi alla prova con la progettazione di uno spazio “scatola”, che dalla cerimonia di chiusura dei festeggiamenti del centenario dell’Unità italiana non ha più trovato una vera collocazione funzionale nella città. Ripercorrendone la storia è possibile vedere come molti siano stati i tentativi, dal primo progetto dello stesso Nervi a quello più recente della realizzazione di un centro commerciale, che molto ha fatto e che ancora farà discutere. Il Palazzo del Lavoro nasce all’interno di un progetto urbanistico molto ampio, e si presenta come un’enorme spazio vuoto solcato soltanto da 16 colonne in calce-

struzzo armato alte 25 metri che sorreggono una copertura di 25.000 metri quadrati. Uno spazio che, per chi come me ha avuto la possibilità di varcare, lascia, a dispetto delle condizioni in cui si trova esternamente, con i bianchi frangisole ormai interamente color ruggine, a bocca aperta. Il primo pensiero che ho avuto entrandovi è stato quello di essere immersa in uno spazio completamente isolato acusticamente e visivamente dall’esterno: non mi pareva di essere a Torino, o meglio in un’ambiente che su due lati è affiancato da grandi assi veicolari di accesso alla città. Quindi, questo lavoro nasce forse, proprio da quella sensazione sopra descritta, o forse dalla volontà di mettermi in gioco con uno spazio così grande, che nei suoi 50 anni di vita, non ha trovato chi abbia saputo scriverne una nuova pagina, di una storia che pare si sia fermata a pochi mesi dalla sua creazione e che in occasione degli ultimi eventi torinesi, è stata completamente nascosta con un “impacchettamento” tricolore. Proprio dall’analisi di tutti i tentativi di rifunzionalizzazione compiuti nei 50 anni di vita dell’edificio, nasce la mia idea di un riuso attraverso l’inserimento di una casa della musica, intesa, non come mero spazio destinato all’esecuzione di opere e concerti, ma come spazio destinato alla collettività e alla socialità. Questo mio intento si risolve sul piano progettuale attraverso la creazione di un piano interrato, definito da 16 volumi nati dalla specchiatura a terra della copertura e di altezza crescente, che contengono le diverse funzioni di una casa della musica e che definiscono, anche grazie agli elementi vetrati di connessione, una “piazza” coperta verde. 7


Italia ‘61

torino vi chiama

l’assegnazione dell’evento una nuova parte di città il sito

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l’assegnazione dell’evento LA LEGGE DELLA REPUBBLICA ITALIANA 30 DICEMBRE 1959, N. 1235 AFFERMA:«La camera dei deputati ed il senatodella Repubblica hanno approvato; IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PRUMULGA LA SEGUENTE LEGGE: ART. 1. «È istituito sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica, un comitato nazionale per la celebrazione del primo Centenario dell’Unità d’Italia, con il compito di preparare e di organizzare la Mostra Storica, la Mostra delle regioni, l’Esposizione internazionale del Lavoro, che avranno luogo in Torino nell’anno 1961, ed altre manifestazioni celebrative sul piano nazionale, secondo un programma da approvarsi dal presidente del Consiglio dei Ministri. Il comitato ha sede in Torino ed è fornito di personalità giuridica di diritto pubblico»1. Così Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica, il 7 novembre 1959 concedette il suo alto patronato all’iniziativa di celebrare il centenario dell’unità italiana nella città che fu la prima capitale e che nel ’61 era in piena trasformazione e per questo simbolo del “miracolo economico” italiano: Torino. Già nell’autunno 1956, la città, guidata dal suo primo cittadino, Avv. Amedeo Peyron, accompagnato dall’On Quarello, iniziò i preparativi, incaricando di elaborare una prima bozza di studio per l’organizzazione dell’evento. Due principi, sin da subito, apparirono inderogabili: puntare su “opere durature e utilizzabili in avvenire” e raccomandare il completamento di altre opere pubbliche in programma, varandone di nuove per l’occasione. L’immediato interesse dimostrato nasceva dalla volontà di

Manifesto dell’esposizione internazionale del lavoro tenutasi al palazzo del Lavoro di P.L. Nervi nel 1961. Manifesto “Torino VI Chiama”, celebrazione centenario unità italiana. Manifesto della mostra delle Regioni. dall’alto

dimostrarsi competitivi nel confronto con altre città italiane, come Roma, Firenze e Milano, che nell’immaginario collettivo apparivano avvantaggiate, poiché già fortemente sviluppate sul piano turistico, al contrario di Torino “abituata più a vedere operai che turisti”2. La proclamazione a capitale delle celebrazioni del centenario dall’unità italiana, fece si che le operazioni organizzative fossero immediatamente intensificate. Si partì formando un’assemblea generale convocata dal Sindaco, cui parteciparono gli esponenti di tutte le élites cittadine. Si costituì così, una Giunta provvisoria, trasformata poi in un “Comitato generale”, con circa duecento membri, presieduto da Peyron. Il 1° marzo 1958 tale comitato presentò

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Italia ‘61, Guida ufficiale dell’evento di Italia ‘61, 1961, Torino, p.91 2 Pace Sergio, Italia ’61 a Torino quando l’Italia immaginava il futuro, Abitare 474, 2007, p. 97

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Pier Luigi Nervi, Gianni Agnelli, e il presidente della repubblica Giovanni Gronchi in visita a Italia ‘61. Walt Disney a Torino in occasione di Italia ‘61, tra la folla acclamante. Pubblico al Circarama Disney finanziato da Fiat. nella pagina successiva, dall’alto

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Pace Sergio, Chiorino Cristiana, Michela Rosso, Italia ‘61: la nazione in scena, Torino, Allemandi & C., Torino, 2005, p. 11

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un piano di massima, che prevedeva d’articolare le celebrazioni in tre esposizioni principali: la “Mostra Storica”, la “Mostra delle Regioni ”e la “Mostra del Lavoro ” poi divenuta ”Esposizione internazionale del Lavoro”, grazie al consenso che si ottenne dal Bureau International des Expositions di Ginevra; e in diciotto manifestazioni collaterali, il tutto unito sotto lo slogan di “Torino chiama Italia”. Il 22 luglio 1958 il comitato comunicò il programma, il bilancio preventivo e una bozza di statuto. Il programma prevedeva che le celebrazioni si sarebbero svolte tra il 1° luglio e 31 ottobre, in un’estate che sarebbe stata tra le più travolgenti per la città di Torino, quella del 1961. Tra il 1959 e il 1960, il compito di definire l’intero quadro delle celebrazioni fu assunto da una sorta di triade. In primo luogo, il “comitato nazionale per la celebrazione del primo centenario dell’Unità d’Italia” nato dalla trasformazione del primo “Comitato”, nel luglio 1958, e legittimato dal Parlamento nel finire del 1959, con lo stanziamento di un contributo

straordinario. Presieduto dall’economista Giuseppe Pella, sostituito da Peyron nel febbraio 1959, permetteva la continuità tra le autorità municipale e quelle nazionali e rappresenta la garanzia politica della gestione di tutta l’impresa. In secondo luogo, il “Comitato Torino ’61”, nato della trasformazione del “Comitato Torinese”, nell’ottobre 1960, presieduto dal chirurgo Achille Mario Dogliotti, ebbe responsabilità molto ampie, dalla ricettività alberghiera alla predisposizione di studi pilota per lo sviluppo economico di Torino e della regione, oltre all’organizzazione di tutte le manifestazioni e soprattutto la gestione finanziaria dell’intera operazione anche per conto del Comitato nazionale. Infine, la società per azioni “Torino ‘61”,con il contributo di Fiat, Unione Industriale, Ceat, Olivetti, Sip, Stet, Assicurazioni Torino, Italgas e Pininfarina, alla quale andò il compito della raccolta delle risorse economiche. Un ruolo essenziale in queste geografie, tra l’agosto1958 e il febbraio 1960, assunse la “Commissione tecnico-edilizia”, cui aspettava il compito di scegliere e gestire l’area sede delle celebrazioni, alla confluenza del Sangone nel Po, con l’intesa di un rilevamento del comune dopo il 1961, per conservarla a uso di parco pubblico, come previsto dal piano regolatore del 1956-1959. L’importanza di quest’organo è chiarita dal passaggio da “Commissione tecnico-edilizia del Comitato torinese” a “Commissione tecnico-edilizia del Comitato nazionale” il 29 agosto 1960. La vicepresidenza fu affidata a Vittorio Bonadè Bottino, consigliere d’amministrazione e direttore del Servizio Costruzioni edilizie e impianti della Fiat. L’ingegnere, poco propenso alla ribalta ma erede della migliore scuola politecnica torinese, divenne


con questo ruolo protagonista anche nella vicenda di Italia ’61. Nonostante sia ricordato come attore invisibile, partecipò al coordinamento di tutti i lavori che portarono alla costruzione della sede principale delle manifestazioni: un enorme parco urbano, alla periferia meridionale della città lungo il Po, il cui piano fu redatto da Nello Renacco. L’intervento di Vittorio Bonadè Bottino, definì l’ingresso della Fiat al comando di molta parte d’Italia ’61, infatti “Bonadè Bottino vuol dire Fiat. E la Fiat è il più singolare, ma forse il più rilevante tra i molti attori invisibili di Italia ‘61”3. Ufficialmente la più grande industria d’Italia occupava una posizione piuttosto defilata. Il vicepresidente Vittorio Valletta rimase estraneo alle manifestazioni, solo sporadicamente ritratto accanto a qualche autorità o celebrità, in visita, non tanto all’Esposizione, quanto agli stabilimenti di Mirafiori, “black city del lavoro e dei conflitti contrapposta alla white city del divertimento e della meraviglia”4. Soltanto Giovanni Agnelli si ritagliò un ruolo più visibile, quale presidente del “Comitato ordinatore dell’Esposizione internazionale del Lavoro”. La scelta della Fiat, di restare in disparte, se non fosse per l’allestimento di quello che sembra poco più di un divertimento per bambini, il Circarama Disney, e per la partecipazione all’Esposizione internazionale del Lavoro, quasi obbligatoria, potrebbe sembrare alquanto stravagante, con una manifestazione di richiamo internazionale che si svolge a Torino e che potrebbe essere il mezzo per esaltare l’innovazione tecnologica della più grande industria italiana. In realtà l’operazione della Fiat è lo specchio di una strategia raffinata: conquistare un ruolo di primo piano in un evento spet-

tacolare e il consenso dei lavoratori torinesi, attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Il Circarama ne è lo strumento, e la più chiara espressione di questo, risiede nella seguente affermazione: «a noi importa in prima linea il nome Disney-Circarama, gran richiamo; e per la Fiat basta dire che è iniziativa ed offerta Fiat». Quin-

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Pace Sergio, Chiorino Cristiana, Michela Rosso, Italia ‘61: la nazione in scena, Torino, Allemandi & C., Torino, 2005

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ACSF, Diari Direzione stampa e propaganda, VI, n.6, 6 marzo 1961, p.3

Regina Elisabetta II d’Inghilterra in visita a Italia ‘61, evento di rilievo internazionale.

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di la visibilità mediatica diventa il metro con cui valutare il successo della partecipazione all’iniziativa. Ecco dunque che molti dei reali protagonisti delle vicende di Italia ’61, come la Fiat, svaniscono nei cataloghi o nei filmati televisivi. Non importa che sul palco delle autorità compaiano Agnelli e Valletta. “Molto meglio invitare a Torino il papà dei grandi classici per bambini, fagli fare un giro tra gli operai delle officine di Mirafiori e dare all’evento una strepitosa pubblicità, che velatamente esalti il forte ruolo locale, nazionale e internazionale della Fiat”5.

La nascita di una nuova parte di città La costruzione del comprensorio espositivo di Italia ’61 si presentò come la prima occasione per fare grande architettura e mettere in moto il cantiere tecnicamente più innovativo e complesso del dopoguerra. Come già detto, l’anello di congiunzione tra i luoghi di decisione politica e la costruzione del comprensorio, era rappresentato dalla commissione consultiva tecnico-edilizia che sovraintendeva a tutte le gare di appalto, che gestì i contratti con le imprese e coordinò le direzioni dei lavori degli edifici principali. Quest’organo ebbe anche un ruolo fondamentale nella scelta dell’area d’intervento: il quartiere Millefonti, o meglio la porta sud della città di Torino. La scelta nacque da una concezione urbanistica datata e inadeguata, quella della costruzione della città per parti, che portò a concentrate tutti gli sforzi su un’area limitata e periferica della città. Il quartiere era da anni al centro degli interessi dell’amministrazione torinese. Quest’atteggiamento si può dedurre dall’analisi dei piani regolatori o di ampliamento, che dalla fine dell’800 a oggi hanno configurato la città e hanno condotto all’attuale morfologia dell’area di Italia ’61. La Carta Topografica del Territorio di Torino, che riporta le indicazioni del Piano Unico Regolatore del 1887 mostra come in quegli anni l’urbanizzazione, con andamento ortogonale a via Nizza, arrivasse solo fino alla Barriera di Nizza, attuale corso Bramante, e come lo stacco tra città e ambito agricolo fosse molto netto. Il successivo piano del 1906 assecondò lo sviluppo urbano che coinvolse l’area delle Molinette, arrivando alla strada Vicinale del Giardino, attuale Corso Caduti del Lavoro. Si trattava di un’urbanizzazione


strutturata, perpendicolarmente all’attuale via Nizza, secondo isolati regolari. Nel Piano Regolatore del 1913, il tessuto urbano si estendeva, fino ad arrivare al comune di Moncalieri, contrastando l’orografia dei luoghi dominata dalla presenza di bealere, elementi tipici dell’ambiente rurale. Nello stesso PRG è possibile vedere la destinazione a parco urbano di sei aree di ampia estensione, tra cui quella compresa tra le Molinette, le rive del Po, fino ai confini della città con il comune di Moncalieri. Le varianti ai piani regolatori, approvate nel 1926, favorirono l’estensione del tessuto urbano, attraverso il densificarsi dell’abitato, con allineamento su via Nizza. Nel successivo Piano Regolatore, del 1959, anno in cui si iniziarono i preparativi per le celebrazioni del centenario, si riporta con forza nell’immaginario della città, l’idea già introdotta nel 1913 della creazione di un parco, che era rimasta fino ad allora incompiuta. Nel piano del 1962 compare il tracciato di Corso Unità d’Italia, si va così definendo l’attuale forma dell’area. Ma sarà solo con il Piano Regolatore approvato nel 1995, che spunteranno le architetture sopravvissute alle manifestazioni di Italia ’61. Il sito Trovare la corretta destinazione d’uso all’area, poi destinata a Italia ’61, risultò essere molto difficoltoso, sin dal primo sviluppo della città in quella direzione, forse perché area periferica della città o, forse a seguito delle decisioni prese con il PRG del 1913 e rimaste incompiute sino al 1959. Ciò nonostante, nei primi anni Trenta, iniziarono i primi movimenti che portarono

all’allestimento di spazi destinati a ospitare l’ente moda e le mostre internazionali del tessile. Il parco che veniva a nascere fu bombardato nel 1946. L’anno successivo, 1947, il terreno fu concesso in uso trentennale dalla Città alla società Torino Esposizioni, che grazie all’appoggio del settore industriale torinese, in particolare della Fiat, gestì con trionfo le manifestazioni del Salone dell’Automobile, della Tecnica e dell’Aereonautica, che divenne nel 1955 Salone Mercato Internazionale dell’Automobile, della Tecnica e dell’aeronautica, e inoltre si occupò del Salone Mercato Internazionale dell’Abbigliamento. Il continuo interesse verso la città, in quegli anni ”Torino è moda, è buon gusto”6, porta con sé la necessità di conferire nuovi spazi sia per il Salone Mercato Internazionale dell’Abbigliamento, sia per lo sviluppo di altre manifestazioni scientifiche, industriali, culturali e artistiche. In occasione del decimo anniversario della fondazione della società, la Torino Esposizioni incaricò il Prof. Arch. Annibale e il Prof. Ing. Giorgio Rigotti della proget-

L’area di Italia ‘61 con in sfondo la città di Torino. In basso a sinistra il palazzo del Lavoro, a seguire il palavela e sulle sponde del Po i padiglioni della Mostra delle regioni.

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Pace Sergio, Chiorino Cristiana, Michela Rosso, Italia ‘61: la nazione in scena, Torino, Allemandi & C., Torino, 2005

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Associazione Amici Italia ‘61 8 Ibidem

nella pagina successiva,dall’alto

Panoramica di Italia’61 oggi. Panoramica di Italia ‘61 durante le celebrazioni del centenario dell’Unità nazionale. Progetto di Nello Renacco per il parco Italia ‘61, nei disegni di Pier Luigi Nervi.

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tazione di un nuovo edificio per le mostre da realizzarsi nell’area di Millefonti, che “grazie all’opera di un preparatissimo team di ingegneri e tecnici venne bonificata e completamente trasformata e su di essa sorsero le costruzioni e le strutture di quello che allora era il Comprensorio delle Mostre di Italia’61”7. Grandi costruzioni che resero il sito un luogo sperimentale di grandi strutture in cemento armato, progettate da nomi locali e non, come: Vittorio Bonadè Bottino, Rodolfo Biscaretti di Ruffa, Pier Luigi Nervi e Riccardo Morandi, e molti altri. Tant’è la popolazione era solita parlare di un miracolo riferendosi alla zona, “E avvenne il miracolo! In pochi mesi la zona che era come una delle baraccopoli di Torino, un gerbido di sterpaglie e sporcizia, si trasformò in un parco delle meraviglie.”8 L’allestimento del parco di Italia ’61 ha inizio nel 1959 con l’assegnazione a Nello Renacco di redigere un piano urbanistico, che fu continuamente messo in discussio-

ne, anche quando la maggioranza degli appalti era già stata bandita. Il piano prevedeva quattro ingressi di cui i principali a nord e a sud del tratto di Corso Polonia, l’asse attorno al quale si sviluppo il comprensorio. All’Esposizione internazionale del Lavoro fu riservato il lembo a sud per non schiacciare tutte le prospettive visive dell’area espositiva. All’esterno venne collocato un laghetto artificiale che separava il Palazzo del Lavoro dallo spazio destinato alla Mostra del Lavoro, l’attuale PalaVela. Il complesso della Mostra delle Regioni, strutturato in elementi articolati e composti per moduli, fu disposto invece in chiave anti monumentale nella zona tra Corso Polonia e il Po. All’estremo del lembo nord di questa zona e in prossimità della stazione di arrivo per una funivia che avrebbe portato al Parco Europa sulla collina di Cavoretto, dove era previsto un teatro all’aperto, mai realizzato. In posizione baricentrica furono collocati i Servizi generali. Un insieme di


laghi interrompeva le vaste zone erbose e rappresenta l’elemento di cucitura tra le zone est e ovest di Corso Polonia. Il collegamento tra i vari padiglioni venne affidato a una monorotaia aerea a sistema Alweg, che si estendeva su un impalcato filiforme e sopraelevato, sostenuto da plinti in cemento armato dislocati in campate di venti metri, da un servizio di trenini elettrici e da un servizio di taxi con autovetture appositamente carrozzate dalla Fiat.

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il parco delle meraviglie

gli spazi dell’evento palavela padiglioni delle regioni circarama disney monorotaia

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Provenendo dal centro città, era possibile percorrere il lungofiume fino ad un primo edificio, progettato da Domenico Morelli e Felice Bardelli: era la stazione dell’avveniristica monorotaie area a sistema Algew, lungo la quale si poteva ammirare l’intera area espositiva e che nel 2005-2006, è stata trasformata in foresteria per famiglie non torinesi di bambini ammalati di tumore (Casa Ugi). Secondo le testimonianze, il breve viaggio colmava di meraviglia il visitatore, grazie allo spettacolo di edifici che raccontavano, a un’Italia in parte ancora premoderna, una modernizzazione ormai compiuta, coincidente con la crescita del settore industriale. Verso il Po, dopo la stazione di partenza della funivia per Cavoretto, apparivano i padiglioni destinati alla “Mostra delle Regioni”, ancora di Renacco. Al loro interno, sotto la direzione artistica dello scrittore e regista Mario Soldati, trovavano posto esposizioni volte a ricordare i conflitti tra identità locali e nazionale, con allestimenti curati da alcuni tra i più grandi architetti italiani, tra cui Carlo Scarpa. Verso la città dopo il padiglione dei Servizi generali, progettato da Sergio Nicola, Aldo Rizzotti e Augusto Romano, e la spettacolare fontana luminosa di Giuseppe Varaldo e Gian Pio Zuccotti, la monorotaia passava accanto al Palazzo delle Mostre, costruito dall’impresa Guerrini su disegno degli architetti Annibale e Giorgio Rigotti con il contributo decisivo dell’ingegner Franco Levi e la collaborazione di Nicolas Esquillan. Sede della mostra “Moda Stile Costume” nel 1961, con l’esuberante allestimento di Augusto Cavallari Murat, Roberto Gabetti, Aimaro Isola e Giorgio Ranieri, l’edificio presto meritò l’aereo soprannome di ”Palazzo a Vela”, poiché costituito da una volta unica, poggiata su tre soli supporti, e chiuso da

una magnifica vetrata. Dopo aver sfiorato altri padiglioni tra cui il Circarama Disney voluto da Fiat, la monorotaia terminava la sua corsa contro la facciata settentrionale del colossale Palazzo del Lavoro, progettato e costruito da Pier Luigi Nervi, in associazione con i figli Antonio e Mario e con Gino Covre, luogo principale di attrazione e cuore simbolo della manifestazione, poiché destinato ad ospitare quell’”Esposizione Internazionale del Lavoro” che –con l’allestimento di Gio Ponti- intendeva celebrare non soltanto il passato e il presente ma anche il futuro di una Torino Ville industrielle ritenuta eterna.

Panoramica di Italia ‘61 durante le celebrazioni del centenario dell’Unità nazionale.

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Cartolina del 1961, stampata in occasione di Italia ‘61, raffigurante la stazione di arrivo della monorotaia Alweg e del lago. In secondo piano il palazzo del Mostre, attuale Palavela, con le grandi vetrate.andate perdute in seguito del progetto di Gae Aulenti

Cartolina del 1961, stampata in occasione di Italia ‘61, raffigurante il Palazzo del Lavoro, sede della Mostra internazionale del Lavoro, in cui, come si vede dalle molte bandiere, molti paesi del mondo esibirono le proprie capacitĂ tecnologiche.

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nella pagina successiva,dall’alto

Il progetto dei Rigotti per il Palavela; la cupola priva delle vetrate, in occasione del intervento di rifunzionalizzazione; il progetto di Gae Aulenti; la nuova veste, da Torino 2006. sotto e a lato

Cartoline del 1961, le vetrate e il grande parco giochi

Palavela La scelta piuttosto ambigua, di creare due contenitori fuori scala così ravvicinati, come il Palazzo delle Mostre e il vicino Palazzo del Lavoro, fu alla base di una continua indecisione sulle possibili funzioni da insediarvi. Solo all’inizio del 1961, il Comitato Torino ‘61, aggrappandosi ad

uno dei leitmotiv della retorica torinese, decise di collocarvi la mostra Moda Stile Costume. Collocato al margine nord dell’area espositiva, il Palazzo delle Mostre risale alla decisione della società per azioni Torino Esposizioni di estendere lo spazio per il “Salone mercato dell’abbigliamento”, collocato, fino ad allora nei Padiglioni B e C di Torino Esposizione, realizzati da P.L. Nervi. Il fine ultimo della commissione appaltante era quello di dar luce ad un edificio che potesse contenere esposizioni per oggetti di piccole e grandi dimensioni, fiere - mercato, un lago per la motonautica, spettacoli coreografici sul ghiaccio, il circo equestre, gare di tennis, incontri di pugilato, il concorso ippico internazionale e quant’altro. Perciò alla superficie utilizzabile, senza installazioni fisse, doveva corrispondere un volume adeguato che potesse essere usato in tutta la sua vastità o comunque che potesse essere modellato e plasmato per ogni occasione in maniera diversa, secondo le esigenze. Il Palazzo delle Mostre, detto Palazzo a Vela o Palavela, proprio per la sua forma 20


fu progettato dagli architetti Annibale e Giorgio Rigotti e sin da subito suscitò attenzione e stupore per la sua forma inusuale e per le dimensioni L’edificio, con base esagonale inscritta in un cerchio di 130 metri di diametro, è costituito da una struttura in cemento armato “a vela” realizzata su tre archi accostati, ruotati tra loro di 120 gradi ed ancorati a terra su tre dei sei vertici dell’esagono. Lo spazio interno, con una superficie di 15.000 metri quadrati, era delimitato dalle enormi vetrate laterali e dalla intersezione delle tre volte in copertura. Oggi il palavela si presenta sotto una nuova veste, in seguito all’intervento di riqualificazione, diretta dall’architetto Gae Aulenti, in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino 2006. Il progetto ha suscitato critiche nell’ambiente torinese, sin dal principio in quanto nella nuova struttura sono scomparse le caratteristiche vetrate e quindi secondo molti, l’edificio è stato sventrato della sua essenza poiché, sotto la volta, è stato realizzato un edificio indipendente dalla forma più tradizionale, impedendo la vista della copertura unica. Il nuovo edificio è composto da

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Padiglioni delle regione

Tre Mini Cooper sfrecciano sulla copertura del Palavela. In altre occasioni il comprensorio di Italia ‘61, cosi’ futurista e spettacolare, e’ stato utilizzato come location per diverse opere cinematografiche. Immagini tratte dal film “The italian job“, diretto da Peter Collinson nel 1969

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due corpi accostati e collegati da una copertura spaziale reticolare collocata a quote differenti, ed è stato pensato per ospitare le gare di pattinaggio sul ghiaccio, funzione che mantiene ancora oggi.

La mostra delle regioni si sviluppava in 19 padiglioni e un grande Padiglione Unitario, collocati in posizione tale da ricreare la sagoma della penisola italiana. I padiglioni nascono con l’intento di riassumere il cammino percorso dall’Italia negli ultimi cento anni alla ricerca di una vera unità. Esprimevano forse più di tutte le altre mostre di Italia ‘61 lo spirito che si voleva dare alle celebrazioni torinesi. Nel 1961 la civiltà dell’Italia moderna, nonostante quello che si voleva dimostrare, non era ancora una civiltà unitaria.
La Mostra delle Regioni tenne conto di questo fatto. Gli organizzatori attribuirono ad ogni regione un tema determinato affinché ognuna sottolineasse in questa sintesi visiva le sue peculiarità, e le sue caratteristiche.
La zona che venne assegnata alla Mostra delle Regioni, di ben 150 mila metri quadrati, un terzo dell’intero comprensorio delle mostre, era la zona con le maggiori risorse panoramiche poiché attigua al Po e arricchita da alberi. Ma era la zona più irregolare, occupata da sterpaglie, spesso invasa dalle acque, quindi i padiglioni vennero progettati in modo da poter superare con rapidità le difficoltà ambientali e offrire una cornice che non soffocasse in alcun modo il quadro simbolico che vi si doveva rinchiudere. Furono perciò concepiti dei padiglioni di linea estremamente sobria: tutto ferro, acciaio, poco cemento, molto vetro. Padiglioni luminosissimi ed estremamente funzionali, che vennero realizzati in poco più di 6 mesi. Oggi, ospitano il Centro Internazionale Di Formazione Dell’Organizzazione Internazionale Del Lavoro, così si


colonna destra

rispettarono le iniziali volontà che ritenevano fosse “necessario trovare per il complesso delle regioni una soluzione globale; non destinare cioè i singoli padiglioni a scopi diversi ed eterogenei, magari concedendoli ad associazioni varie od ai migliori offerenti”.

Panoramica dei padiglioni realizzati per la mostra delle regioni; Cartolina 1961, dal padiglione Puglia; le hostess dei padiglioni aspettano l’inizio della manifestazione colonna sinistra

Padiglioni di Veneto e Friuli;Cartolina 1961, dal padiglione Puglia; le barche all’esposizione, simbolo di innovazione tecnologica

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Il Circarama è il cinematografo su schermo circolare di 360°, inventato e brevettato da Walt Disney con
originalissimo sistema di ripresa e di proiezione. Nel Circarama gli
spettatori, completamente circondati dalle riprese in movimento,
hanno la sensazione di partecipare all’azione.
Il primo Circarama fu presentato da Walt Disney nel 1955 a
Disneyland; quindi all’Esposizione Internazionale di Bruxelles nel
1958 ed all’Esposizione Americana di Mosca nel 1959. Da allora il
sistema è stato perfezionato e così come la Fiat lo ha
presentato a Torino ed è stato una novità assoluta. Per esso la Fiat ha costruito un apposito padiglione smontabile e trasportabile in acciaio, alluminio e plastica. Nel suo insieme il padiglione si sviluppava su un area di 1500 mq. Il cilindro Circarama aveva un diametro di 32 metri, e un altezza di 12. Lo schermo circolare aveva uno sviluppo di 90 metri per un’altezza di 7. Le riprese proiettate spaziavano dalle Alpi alla Sicilia e alla Sardegna cogliendo aspetti significativi del Paese, ma la necessità di contenere la lunghezza del film ha imposto di sacrificare stupende riprese di tante grandi belle città. La struttura venne smontata poco dopo la fine dell’evento di Italia’61, dopo essere riuscito nell’intento della Fiat di stupire il pubblico e soprattutto i suoi dipendenti.

Il Circarama finanziato dalla Fiat, collocato tra Palavela e Palazzo del Lavoro; la folla entusiasta in coda per una delle maggiori attrazioni; la folla all’interno del Circamara per osservare l’Italia a tutto tondo.

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Circarama Disney Una attrazione di enorme successo di “Italia 61” nel campo degli spettacoli e dei divertimenti è stata quella del Circarama Disney offerto dalla FIAT al pubblico convenuto da ogni parte a Torino per il centenario.


Monorotaia Alweg Tra le tante attrazioni che trovarono spazio a Italia ‘61, la monorotaia è forse quella che, più di altre, divenne la vera icona dell’esposizione, la figura simbolo dell’intera manifestazione. Destinata a colpire l’immaginazione di grandi e piccini che vedevano sfilare, nel 1961, quello strano e modernissimo treno sopra le loro teste. Il tracciato della ferrovia monorotaia del tipo a sella si estendeva per circa 1800 metri su un viadotto, di forma rettangolare, in cemento armato sopraelevato, sostenuto da piloni tronchi conici anch’essi in cemento armato. Il viadotto aveva il compito di sostegno, di guida e di alimentazione elettrica del convoglio. Le due stazioni, poste all’inizio ed alla fine del tracciato, erano costituite da piattaforme sopraelevate che permettevano ai passeggeri l’accesso alla monorotaia. Il tracciato era tutto in

linea retta all’infuori di un tratto dove, con un’ampia curva, attraversava un laghetto artificiale. La Monorotaia di Torino fu posta in disuso pochi mesi dopo il termine della manifestazione. Rimase per anni in disuso all’interno della Stazione Nord e qualche anno dopo venne smantellata. A testimonianza di questo innovativo sistema di trasporto è rimasto un breve tratto di viadotto, sopra il laghetto, e una delle due stazioni visibile da corso Unità d’Italia, che oggi prende il nome di casa Ugi,e nasce come strumento di assistenza delle famiglie di bambini malati.

Locandina del 1961. La stazione nord di arrivo della Monorotaia in cui per anni vennero conservati i vagoni, poi andati perduti, oggi divenuta Casa Ugi. Stazione sud collocata difronte alla Mostra Internazionale del Lavoro

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Altre attrazioni...

Cartoline del 1961, stampate in occasione di Italia ‘61. Hostess in posa difronte alla monorotaia, con in sfondo il Palavela. I fiori e le serre di Flor ‘61, sulle sponde del Po. La fontana Luminosa, lasciata dopo l’evento per lunghi anni in stato di abbandon, venne riqualificata nel 2005. Il lago artificiale, e la monorotaia

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Oltre agli spazi e padiglioni maggiori, vi erano anche altre attrazioni ed eventi che seppero attirare molti visitatori. Si può ricordare l’ovovia, mezzo di trasporto innovativo che permetteva il collegamento con il parco Europa, collocato sulla collina di Cavoretto, e di “sorvolare“ il Po. Altri mezzi di collegamento erano i bus a due piani e le molte Ape, messe a disposizione dalla Fiat. Oppure la fontana luminosa, collocata sul percorso che collegava il Palazzo delle Mostre alla Mostra internazionale del Lavoro. Non per ultimo, l’importante su l’evento collaterale di Flor’ 61, grande esposizione floristica.


Cartolina del 1961, stampata in occasione di Italia ‘61. Panoramica del parco Italia ‘61 e del nuovo quartiere di Millefonti. In primo piano i fiori dell’evento di Flor’ 61.

Cartolina del 1961, stampata in occasione di Italia ‘61. Le capsule dell’ovovia che conduceva alla collina di Cavoretto e che permetteva uno sguardo ad ampio raggio sulla città, che in quegli anni era in pieno sviluppo. Dismessa e smontata dopo l’evento, fa subito la stessa sorte della monorotaia. Andata perduta

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il palazzo del Lavoro

prima della costruzione il concorso vincitori e vinti

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Il centro della manifestazione, come già detto più volte, era rappresentato dal palazzo che ospitò l’Esposizione Internazionale del Lavoro: il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi. Il Concorso Il 4 luglio 1959 il Comitato di Italia ‘61 bandisce un appalto-concorso per la realizzazione del Palazzo del Lavoro, il più grande degli edifici previsti a Torino per l’esposizione celebrativa del centenario dell’unità d’Italia9. Per la realizzazione del centro delle manifestazioni “il Comitato Generale per la Celebrazione Nazionale del Centenario dell’Unità d’Italia con sede in Torino, indice un appalto concorso tra imprese idonee, previamente ed insindacabilmente invitate per la costruzione nella zona a monte di Corso Polonia, di un padiglione di circa 25.000 metri quadrati che successivamente sarebbe stati trasformato in Centro Nazionale per l’Istruzione Professionale.”10

Inoltre si definiva che la struttura sarebbe dovuta “[...] essere improntata a criteri di decorosa presentazione, tenendo presente la situazione ambientale della località, sia nel dare valore architettonico alle strutture esterne e interne, sia nel proporzionare i volumi d’insieme. Inoltre le strutture, oltre all’evidente funzione statica, hanno per opere del genere una fondamentale ed essenziale funzione architettonica e il risultato estetico dell’opera stessa è poi strettamente affidato anche alla qualità ed accuratezza esecutiva. Senza trascurare però un’impostazione progettuale improntata a criteri oculatamente economici.”11 Esprimere dunque un elevato livello tecnologico e costruttivo, offrire una flessibilità distributiva adeguata alle funzioni espositive, predisporre un successivo riutilizzo, e soprattutto, quello che si sarebbe dimostrato il più rilevante, ultimare l’edificio entro la fine del 1960, cioè in un periodo di soli diciotto mesi, erano i requisiti richiesti dal Comitato. Immagine del modellino di appalto concorso del Palazzo del Lavoro, progettato da Pier Luigi Nervi e dal figlio Antonio, con l’assistenza ingegneristica di Gino Covre

Sansoni Daniele, Italia 61: il palazzo del lavoro di Pier Luigi Nervi, in “Architettura”, n. 595” 2005, pp. 316-319 10 AA. VV., Bando di concorso per la costruzione del Palazzo del Lavoro, indetto dal Comitato Nazionale del Centenario dell’Unità d’Italia, Torino 1959 11 Ibidem 9

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L’appalto concorso venne regolato dalle seguenti norme: - Art.1 Oggetto del presente appalto concorso è la progettazione totale e l’esecuzione delle opere strutturali principali per consentire l’opera finita entro i limiti stabiliti dalle norme progettate, esecutive e amministrative di cui al presente bando (allegato al Capitolo Speciale). - Art.2 La costruzione è prevista su un ‘area di proprietà del Comune di Torino, a darsi in concessione temporanea all’Ente promotore delle manifestazioni per il 1961, con le condizioni e modalità che verranno in prosieguo determinate. La progettazione del nuovo padiglione dovrà essere improntata a criteri di decorosa presentazione in relazione alla particolare destinazione, dovrà tenere poi conto della situazione ambientale della località sia nel dare valore architettonico alle strutture esterne ed interne, sia nel proporzionare i volumi d’insieme. Si osserva ancora in merito che le strutture, oltre alla normale funzione statica, hanno per opere del genere una fondamentale ed essenziale funzione architettonica ed il risultato estetico dell’opera stessa è poi strettamente affidato anche alla qualità ed accuratezza esecutiva. Quanto sopra non esclude un’impostazione progettuale improntata a criteri oculatamente economici che avranno evidentemente il loro peso nella scelta deliberativa da parte del Committente. - Art.3 Nella progettazione si dovrà particolarmente tenere conto che il nuovo padiglione dovrà rispondere alle caratteristiche di cui appresso. Si premette che il padiglione è destinato, in un primo tempo, a ricevere l’Esposizione Internazionale del Lavoro, offrendo le maggiori disponibilità possibili di aree per esposizione ed in un secondo tempo, a Centro Nazionale per l’Istruzione Professionale, con possibilità di formazione di aule e servizi funzionali per un centro del genere. Le tavole di progettazione allegate al seguente bando prevedono appunto la realizzazione di queste diverse destinazioni nel tempo, evidenziando con opportuni tagli e demolizioni la trasformazione necessaria per adattare le strutture (progettate per le esigenze di cui al primo tempo) alle necessità della destinazione finale dell’opera. Per il nuovo padiglione è stata scelta una pianta a forma quadrata con i lati convessi verso l’esterno al fine di presentare una superfìcie coperta maggiore di quella che si otterrebbe con un edifìcio circolare dello stesso diametro: è prevista un disponibilità complessiva di aree sviluppate (escluse scale e cortili) per circa 47.000 mq circa, compreso il sottopiano. La scelta della pianta di cui al presente appalto-concorso non viene imposta come condizione esclusiva, bensì preferenziale, ogni concorrente potrà proporre azioni, purché in nuova pianta risulti simmetrica rispetto a due assi principali tra loro ortogonali di cui uno parallelo a C.so Polonia[…]. Più dettagliatamente le caratteristiche funzionali dì cui dovrà rispondere iI progetto sull’indicazione dei disegni allegati al presente bando, sono quelle appresso Indicate: a) Il padiglione sorgerà sull’area compresa tra corso Polonia e via Ventimiglia, coprirà una superficie di circa 25.000 metri quadrati sarà dotato di quattro ingressi principali, ingressi dotati da scala mobile e pedonale; avrà una possibilità diretta di accesso per gli automezzi, sia per il sottopiano, sia 30


per il piano a quota +3.00m, possibilmente con accesso da via Ventimiglia. b) Per l’Esposizione Internazionale del Lavoro occorrerà che i diversi locali siano disponibili con continuità di superficie, interrotta il meno possibile dai servizi. Oltre alle zone destinate alle esposizione da ripartirsi sui diversi piani interni, si dovrà tenere conto delle seguenti sistemazioni complementari: un albergo diurno, comprendente sale di toeletta separate per uomini e donne e servizi vari; uffici per circa 300 m2, distribuiti in sei locali, con un servizio indipendente di una latrina e di uno spogliatoio; una sala conferenze, con capacità di 250persone, attigua agli uffici e con ingresso indipendente; una sei di box per la sistemazione di una rivendita tabacchi, giornali, fiori, telefoni pubblici, poste e telegrafi, uffici trasporti, un locale per la banca, un altro per l’Ente Turismo, oltre a due altri locali a disposizione di circa 30 metri quadrati l’uno; soggiorno, caffè e bar dovranno essere situati al primo piano a quota +6.00m, troveranno sede verso l’esterno; e gruppi di latrine a cui particolare attenzione dovrà essere posta nella progettazione in relazione alla frequenza giornaliera dei visitatori: nelle giornate di punta si potranno anche superare le 50.000 unità in dieci ore consecutive. c) Per il Centro Nazionale per l’Istruzione Professionale occorre disporre di aule scolastiche, ampi laboratori, sale riunione. Tutti i servizi dovranno essere previsti per la contemporanea presenza di 500 persone tra allievi, insegnanti o personale di servizio. - Art.4 Faranno parte integrante del bando di appalto-concorso oltre il già citato Capitolato Speciale d’Appalto: a) La planimetria a scala 1:500 rappresentante la posizione planimetrica del nuovo padiglione in rapporto alle reti stradali circostanti b) Una planimetria a scala 1:1000 nella quale sono riportati, in relazione alla posizione del nuovo padiglione, le principali quote del terreno attuale, quello del fondo scorrevole delle fognature esistenti c) Due disegni In scala 1:500 schematizzanti le principali caratteristiche del nuovo padiglione meglio descritto nel Capitolato speciale d’oneri. previsti per la contemporanea presenza di 500 persone tra allievi, insegnanti o personale di servizio. - Art.5 Il presente appalto-concorso prevede a carico del concorrente lo studio completo del progetto nei suoi sviluppi planimetrici ed architettonici, sia quanto attinente all’Esposizione del Lavoro, come per il Centro Professionale . Il progetto dovrà essere esecutivo per quanto riguarda le strutture e comprendere i seguenti allegati: - Una relazione che Illustri completamente l’opera nelle sue modalità esecutive e dia ragione alla soluzione adottata - Piante, sezioni e prospetti nel rapporto 1:100 - Sezioni longitudinali o trasversali nel rapporto 1:100 con particolari più interessanti nel rapporto 1:50 - Particolari costruttivi nel rapporto l:50o 1:20 31


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- Lo studio statico completo delle strutture portanti, almeno nelle sue parti interessanti gli elementi che caratterizzano il progetto stesso, corredato dai calcoli di stabilità d’impostazione. - Uno studio con precisazione dei modi (suoerfici assorbenti, forme più adatte alle coperture, ecc) affinché la sonorità del grande salone sia accettabile o non si abbiano occhi o concentramenti sonori - Un plastico del nuovo padiglione, nel rapporto 1:200, sezionabile in due sezioni, una secondo un asse principale e l’altra secondo una spezzata comprendente anche le scale, il tetto dovrà essere possibilmente rimovibile per esaminare dall’alto l’insieme delle sistemazioni interne - Il computo metrico particolareggiato delle varie categorie di lavoro per l’esecuzione dell’opera [....]. Nei prezzi unitari indicati s’intendono sempre comprese le opere forniture e tutti gli oneri precisati nel Capitolato Speciale allegato al seguente bando. Tutti I disegni saranno quotati ed eseguiti soltanto in bianco e nero. [...] Il progetto sarà firmato da ingegneri e architetti laureati, regolarmente iscritti all’albo professionale. I calcoli di stabilità saranno redatti e firmati da un ingegnere specializzato in opere in cemento armato e carpenterie metalliche. - Le opere in questione sono appaltate a prezzo unico e comprendono tutti i lavori occorrenti per dare il manufatto compiuto, compreso ogni opera od impianto complementari e necessari per il compimento del lavoro programmato a carico dell’impresa ed ogni particolare costruttivo e funzionale, anche se non espressamente citato per rendere le opere compiute usufruibili, tecnicamente ed esteticamente complete in ogni loro parte, sempre secondo i limiti previsti dal Capitolato Speciale. Art.6 II progetto e l’offerta dovranno pervenire alla sede del Comitato all’indirizzo che sarà indicato nella lettera di invito, entro le ore 20.00 del 20 Settembre 1959. Il plastico dovrà pervenire entro la stessa data con pacco a parte. Art.7 I progetti presentati in tempo utile saranno sottoposti all’esame dell’apposita Commissione della Stazione Appaltante. In tale esame sarà tenuto conto del merito tecnico, funzionale ed architettonico di progetto, nonché della relativa offerta di carattere economico, con l’avvertenza, tuttavia, che la migliore offerta economica non potrà da sola, costituire prevalente elemento dì giudizio nei riguardi architettonici, tecnici ed esecutivi. L’aggiudicazione dell’appalto concorso sarà decisa dalla Stazione Appaltante a suo giudizio esclusivo ed insindacabile. Nel caso in cui nessuno dei progetti presentati sia ritenuto meritevole di approvazione, non si farà luogo all’aggiudicazione e la gara risulterà senza effetto. Art.8 Ogni ulteriore sviluppo dei dettagli necessari all’esecuzione dell’opera sarà a carico dell’impresa aggiudicatane dell’appalto-concorso. Art.9 L’aggiudicazione definitiva dell’opera all’impresa presentatrice del progetto prescelto è subordinata all’approvazione del progetto da parte degli enti competenti ed aventi causa, mentre il regolare contratto sarà stipulato tra l’impresa e l’ente costituiti a termine del provvedimento legislativo.


Il bando di concorso per il nuovo padiglione viene redatto su quelle che erano le indicazione dettate da un precedente progetto di Ludovico Quaroni. Di qui la scelta di una pianta a forma quadrata, che risultasse simmetrica rispetto a due assi principali tra loro ortogonali, di cui uno parallelo a corso Polonia. Più dettagliatamente le richieste sulle caratteristiche funzionali alle quali il progetto doveva rispondere, indicavano una struttura di 25.000 metri quadrati, insediata sull’area compresa tra via Ventimiglia e corso Polonia, dotata di quattro ingressi principali, provvisti di scala mobile e pedonale, con possibilità di accesso diretto per gli automezzi, possibilmente con accesso da via Ventimiglia. Vincitori e vinti Il termine per la consegna degli elaborati e del relativo plastico, come visibile nel bando, venne fissata per il 20 settembre 1959, dunque meno di tre mesi erano concessi per concepire e calcolare il sistema strut-

turale, redigere il progetto esecutivo e il computo metrico estimativo, preventivare la tempistica dei lavori e formulare l’offerta economica. Come dichiarò lo stesso Nervi, i requisiti imposti dal bando “costituivano un insieme di così diverse, se non contrastanti esigenze, che per diversi giorni sembrò quasi impossibile trovare uno schema che le risolvesse tutte”12. Questa frase giustifica correttamente il fatto che solo cinque delle ditte e imprese invitate, associate ai più illustri progettisti torinesi, risposero al concorso: - Nervi & Batoli - Ing Guerrini & C. - Ing Guffanti, Borini, Padana S.p.A. - Ing E. Recchi & Soc. Savigliano - Soc. Dalmine, Ilva e Terni Nell’insieme i progetti presentati aderiscono alla retorica base delle celebrazioni quella del macchinismo, di cui l’espressione delle strutture è componente essenziale:” tutti puntano su quel riscatto espressivo della struttura che determina un’osmosi tra ingegneria e architettura, facendo con-

Immagini modellino di appalto-concorso del Palazzo del Lavoro: modello dell’intero edificio stralcio del modello visto in copertura

12 Nervi Pier Luigi, L’Esposizione per il Centenario dell’Unità D’Italia a Torino. Il palazzo del Lavoro, in “L’architetturacronache e storie”, n. 70, 1961

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Disegni di appalto-concorso definitivi presentati da Pier Luigi Nervi: Prospetto est, su Corso Polonia, attuale Corso Unità d’Italia Sezione passante sull’asse di simmetria dell’edificio

I progetti vincitori del concorso per il Palazzo del Lavoro a Torino, in “Casabella-continuità”, n. 235, 1960, pp.33-42 13

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vergere tecnica e fantasia spaziale nella creazione di fabbricati inediti per dimensioni e forme.”13 Il 20 ottobre 1959 una giuria presieduta da Vittorio Bonadè Bottino, all’unanimità designò come vincitrice la soluzione della società Nervi & Bartoli, che presentò un progetto sviluppato principalmente da Pier Luigi Nervi e dal figlio Antonio, architetto, con la consulenza dell’ingegnere Gino Covre per la parte inerente le strutture metalliche, mentre lo studio dell’allestimento interno fu affidato a Gio Ponti e Giancarlo Pozzi. La commissione indicò ai successivi quattro posti i progetti degli architetti Sergio Nicola e Aldo Rizzotti affiancati alla Soc. Dalmine, Ilva e Terni (secondo posto), architetti Carlo Mollino e Carlo Bordogna

con l’ingegnere Sergio Musumeci per la Guerrini (terzo posto), architetto Gino Levi Montalcini con gli ingegneri Aristide Antoldi e Angelo Frisa per la Recchi (quarto posto) e infine l’ingegnere Riccardo Moranti con gli architetti Aimaro Isola e Roberto Gabetti con la Soc. Dalmine, Ilva e Terni (quinto posto). Le proposte fatte per il concorso (Moranti-Gabetti-lsola e Mollino-Bordogna-Musmeci) prevedevano un asse unico di sviluppo con campate uniche a coprire l’ambiente e per questa motivazione furono scartate. Il progetto Nicola-Rizzotti venne bocciato per la complessità esecutiva nell’usare reticolari in acciaio realizzate con elementi tubolari che avrebbero oltretutto richiesto un costo notevole. Il quarto progetto venne bocciato per motivi estetici, economici


e sui tempi di progetto. In ultima analisi il progetto di Nervi risultò degno di vincere la competizione, in quanto “la soluzione di Nervi convinse per la semplicità, la leggibilità strutturale rispetto alle altre proposte più articolate, che instaurano un rapporto maggiormente integrato con il terreno mediante la realizzazione di pieni e vuoti, e concretizza con un’enfatizzazione manieristica della struttura, un simbolo di esattezza tipologica e coerenza costruttiva.”14 Per tutte queste motivazioni gli vennero perdonate alcune manchevolezze, rispetto alle richieste del bando in particolare, in due punti. Infatti si distaccò dalle richieste del bando, che prevedeva la realizzazione della copertura con un’unica campata lasciando completamente libero il pianterreno e inoltre venne meno ciò che all’art.3 veniva indicato su un ipotetico riuso in cui l’edificio sarebbe stato utilizzato come Istituto Professionale e il bando faceva richiesta esplicita di spazi per aule e locali tecnici. Su quest’ultimo punto il progetto di Nervi era particolarmente debole e gli effetti sono ancora oggi visibili. Per contro il progetto rispondeva ai requisiti economici, ma soprattutto garantiva la realizzazione dell’intero edificio in tempi strettissimi. Quest’ultimo fattore fu sicuramente determinante nella scelta del progetto vincitore. Lo stesso Nervi giustificò queste scelte affermando che “Il progetto risolve, in una compiuta sintesi espressiva, la duplice esigenza posta dal bando. La struttura ad elementi separatamente realizzabili, non solo assicura una rapida esecuzione, ma è coerente con l’espressione di ordinata chiarezza dello spazio interno e con l’accettabile fattore economico.[…] La composizione offre una pacata stesura all’esterno ed una viva sorpresa a chi, entrando, percepisce lo spazio interno nella

sua felice ispirazione naturalistica.” Ovviamente non tutti i progettisti accettarono di buon grado il giudizio della commissione come si può leggere dallo scambio di lettere avvenuto tra Carlo Mollino e Giò Ponti, nonostante ciò al Commissione si dichiarò “unanime nel riconoscerlo come il solo progetto che manifesti valori positivi per tutti i requisiti richiesti dal bando di concorso e cioè: funzionalità, organismo strutturale, espressione stilistica, economia e rapidità di realizzazione. Pertanto, la Commissione lo ritiene pienamente idoneo.”15 Un infuriato Mollino accusò il progetto di Nervi di non rispettare le richieste del bando di concorso nei due punti già evidenziati e lamentandosi di quante grandi occasioni gli architetti torinesi avessero perso nel cedere i progetti a “forestieri”. Mollino fece ricorso e iniziò una battaglia legale chiedendo un risarcimento per danni morali (la perdita di rispetto dei suoi alunni per non aver vinto il concorso) e materiali per aver annullato molti contratti già stipulati con ditte di costruzione. Nel frattempo l’opera iniziata nel febbraio 1960 vedeva già la preparazione delle casseforme. Il Palazzo del Lavoro fu unico per dimensione e forma ma a stupire furono soprattutto i tempi di esecuzione rapidissimi: in 10 mesi furono innalzati i pilastri, realizzate le coperture, gettati i solai e i tamponamenti. L’undicesimo mese già 1.000metri quadrati di superficie si trovavano coperti da 16 immensi ombrelli fungiformi.

Chiorino Cristiana, “Cantiere Italia ‘61”. La Ville industrielle costruisce i suoi simboli, in “Rassegna di architettuta e urbanistica” 15 I progetti vincitori del concorso per il Palazzo del Lavoro a Torino, in “Casabella-continuità”, n. 14

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pier luigi nervi

la tecnica come arma l’ingegnere architetto e costruttore una vita di grandi costruzioni

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L’ingegnere, architetto e costruttore “Un grande ingegno italiano la cui opera assurge ad architettura”16, così Gio Ponti definì Pier Luigi Nervi, uno tra i più peculiari interpreti “dell’arte del costruire” nel XX secolo. Nato nell’ultimo decennio dell’Ottocento, la sua formazione è fortemente impregnata dello storicismo ottocentesco, dove si inizia a respirare l’aria del Futurismo, ciò nonostante ha saputo inventare nuove forme architettoniche grazie alle nuove soluzioni costruttive, derivanti dall’intuizione delle grandi potenzialità del cemento armato. Oltre al grande talento nell’ambito costruttivo, nota è anche la sua capacità divulgativa attraverso l’insegnamento universitario, le conferenze, gli scritti (Scienza o arte del costruire? del 1945 e Costruire correttamente del 1955) e non per ultime le sue realizzazioni. Nonostante quest’ultima capacità, e che oggi sia considerato indubbiamente uno dei più grandi protagonisti della storia dell’architettura e dell’ingegneria del Novecento, a livello nazionale il suo destino critico risultò essere molto curioso. Infatti, beneficiario in vita di una popolarità straordinaria e duratura, alimentata particolarmente dalla critica internazionale che lo collocava tra i grandi progettisti della sua epoca, la sua opera cade subito dopo la sua morte e la chiusura dello studio Nervi, nel disinteresse generale, non solo dal punto di vista critico, ma anche da quello della conservazione delle opere, per citarne alcune, si può fare riferimento alcuni casi torinesi, che collaborarono all’accrescimento della sua fama: i Saloni B e C di Torino Esposizioni (rispettivamente 1947 e 1950) e il Palazzo del Lavoro (1959), ma molti altri possono essere riscontrati in tutta Italia.

Di fatto, nel 1960 Pier Luigi Nervi è l’ingegnere più famoso nel mondo, tant’è che anche una figura come Le Corbusier ne commentò il lavoro affermando che “veder Nervi collocare uno scheletro di calcestruzzo in una struttura è una magnifica lezione. Non vi mette mai nulla di volgare. Che eleganza! Non si definisce architetto, ma è migliore di quasi tutti noi”.17 Le sue ultime opere, destinate a ospitare le competizioni delle Olimpiadi di Roma, sono state pubblicate dalle più importanti riviste tecniche internazionali e gli sono valse la Royal Gold Medal, in quel momento il premio più prestigioso nel campo dell’architettura. Durante i giochi, trasmessi da 100 o più canali televisivi in Europa e negli Stati Uniti, la pensilina dello stadio Flaminio e le cupole del Palazzo e del Palazzetto dello sport fanno da quinta a eventi sportivi divenuti leggendari e vengono unitariamente riconosciute come capolavori. L’anno successivo un’altra grande realizzazione, uno dei suoi capolavori, se non proprio, il capolavoro di Pier Luigi Nervi, viene alla ribalta della scena italiana e non solo, si tratta del Palazzo del Lavoro, realizzato in occasione delle celebrazioni del centenario dell’unificazione italiana a Torino, nel 1961.Come già detto però, a parte qualche episodio, la grande opera di Pier Luigi Nervi riconosciuta e stimata a livello internazionale dopo i due grandi eventi sopra citati, è soggetta ad un fenomeno d’indifferenza che si è protratto sino ai primi anni del xx secolo, quando, improvvisamente, si è riaccesa l’attenzione per la sua figura e la sua produzione. Questa riscoperta nasce, in primis, dalla necessità di ridare vita e di riscoprire una nuova funzione per molte di quelle opere che oggi si trovano in condizioni di abbandono, prima fra tutte

Ponti Gio, Lo stile di Pier Luigi Nervi, in “Lo Stile nella casa e nell’arredamento”, Luglio-Agosto 1942, p.9 17 Le Corbusier, in Ernest O. Hauser, Un creatore del nostro tempo, aprile 1964, a riguardo della Sede dell’Unesco a Parigi 16

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Salvadori Mario, Foreword, in “P.L. Nervi Structures”, New York 1956, pp.V-VII 19 Ernest O. Hauser, Un creatore del nostro tempo, Selezione dal Reader’s Digest, aprile 1964 20 T. Iori, Pier Luigi Nervi: ingegnere, architetto, costruttore, in P.L. Nervi, gennaio 2009, p.21 18

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il Palazzo del Lavoro. Infatti negli ultimi anni i dibattiti sulle possibili nuove destinazioni d’uso sono state molteplici e hanno riscontrato grande interesse da parte delle critica. Questo ha permesso di riscoprire la figura di Pier Luigi Nervi, come “uno dei pochi che meritasse questo appellativo”18, quello di maestro-costruttore, in quanto capace di riassumere nella propria figura tre differenti cariche: quella dell’architetto che presenta un progetto basato sui desideri del committente; quella dell’ingegnere che lo analizza per verificarne la stabilità, processo che lo porta talvolta a introdurre modifiche fondamentali alla struttura; e, non ultima per importanza nella figura di Nervi, quella di impresario edile, con la sua piccola ditta a conduzione familiare, la Ingg. Nervi & Bartoli. In secondo canto, vista la forte necessità di ridare slancio al Made in Italy in un periodo di grande crisi, le opere di Nervi sono ottimi manifesti, simbolo “dell’abilità nell’inventare forme nuove e originali, senza cadere nel lezioso.”19 Infatti non sono frutto di alcuna imitazione o adesione a modelli internazionali, ma nascono da una lunga, intensa e difficile sperimentazione architettonica, statica e costruttiva che ha impegnato l’ingegnere per decenni, producendo una delle più efficaci espressioni della creatività italiana, che viene chiamata “Sistema Nervi: un insieme di soluzioni tecniche che definiscono un nuovo modo di costruire, economico e rapido”20. Questa definizione, formulata da Sergio Poretti e Tullia Iori, lascia intendere la capacità di Nervi nel controllo del cantiere e il suo grande ingegno. La prima è dimostrata dalla quasi completa assenza d’incidenti o infortuni nei cantieri e dal rispetto dei costi e dei tempi nel completare le proprie costruzioni. Mentre la seconda è testi-

moniata dagli innumerevoli brevetti, tra i quali si può citarne due, sicuramente i più importanti nel campo dell’ingegneria edile: un materiale il “ferrocemento” e un procedimento costruttivo, la “prefabbricazione strutturale”. Due creazioni brevettate prima della fine della seconda guerra mondiale e messe appunto nel periodo della ricostruzione post-bellica. Una vita di grandi costruzioni La storia di Pier Luigi Nervi è fin dall’inizio legata al cemento armato: nasce infatti nel 1891 a Sondrio, da genitori liguri, proprio un anno prima che François Hennebique, pioniere del cemento armato, depositasse il suo brevetto in Francia e in Italia. Una delle date cruciali nella vita di Nervi Ingegnere è il 1913, anno del conseguimento della laurea in ingegneria civile alla Scuola di applicazione di Bologna, e anno in cui viene catapultato nel mondo del lavoro. Ad accogliere e ad iniziare Nervi all’attività di ingegnere troviamo due dei suoi maestri universitari, che proprio in quegli anni tenevano a Bologna i primi corsi sulle costruzioni in cemento armato, alle quali ebbe, ancora, la possibilità di partecipare in veste di studente. Il primo, Silvio Canevazzi, pioniere dello studio della scienza delle costruzioni, insegnò a Nervi i principi del calcolo scientifico delle strutture in cemento armato, il secondo, Attilio Murgia, suo professore di architettura tecnica, che del brevetto Hennebique era concessionario per il centro Italia, con la propria SAC, Società Anonima per Costruzioni Cementizie, presso la quale Nervi iniziò il suo primo tirocinio. In questa prima fase di apprendimento al fianco di Murgia, durata fino al 1923, si trova difronte ad un metodo di lavoro molto


particolare. Infatti, oltre ad occuparsi della costruzione di serbatoi e viadotti, Murgia si applica nella sperimentazione delle fondazioni su pali Franki e soprattutto è, in modo particolare, della prefabbricazione, tecnologia che in quegli anni era agli albori. Inoltre gli anni di tirocinio sono anche una grande occasione per iniziare a tessere i primi rapporti con la clientela del cemento armato. La I guerra mondiale ben presto interruppe il suo tirocinio: infatti dal 1915 al 1918 Nervi prestò servizio al Genio Militare, come dirigibilista, dove si fece notare per una serie di invenzioni che culminarono nell’idea di un motore ad idrogeno per siluri, ciò nonostante l’interesse per il campo delle costruzioni restò sempre vivo, tant’è che agli anni della guerra si riferiscono brevetti sul “siderocemento”, termine appreso da Canevazzi, ma per indicare due composti differenti. Infatti se il maestro indicava il classico cemento, per Nervi si trattava un composto cementizio nel quale venivano inserisce scaglie di ferro, così da aumentare le prestazioni. Una volta congedato, riprende il lavoro nella Società e viene assegnato alla sede di Firenze, con sempre maggiori responsabilità. Le tante opere in cemento armato progettato e seguite come direttore dei lavori in questi anni consolidano una figura professionale matura e autonoma così che, nel 1923, in procinto di sposarsi, affronta il rischio di lasciare il lavoro da dipendente. Si trasferisce a Roma e fonda una società, la Ing. Nervi e Nebbiosi, con l’imprenditore e, al momento, unico finanziatore dell’attività, Rodolfo Nebbiosi. Finalmente libero di scegliere e ottimizzare le soluzioni compositive e costruttive, Nervi crea le sue prime originali coperture di grande luce: in particolare il Politeama

Bruno Banchini a Prato (1923-1925) e il teatro Augusteo a Napoli (1926-1929). Ma nel catalogo dei lavori della società compaiono anche magazzini, stabilimenti, serbatoi e tutte le possibili tipologie di edifici per l’industria e per il terziario nei quali più facilmente la tecnica del cemento armato trova campi di impiego in questa fase iniziale. Nel 1928 costruisce l’elegante palazzina a lungotevere Arnaldo da Brescia, su progetto dell’architetto

P.M. Bardi, Lo stile di Pier Luigi Nervi, in “Lo Stile nella casa e nell’arredamento”, 1942, p.9 21

La pensilina della tribuna e il dinamico intreccio delle scale divengono simbolo delle potenzialità figurative del cemento armato, in quegli anni ancora tutte da sperimentare IN USO

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Aviorimessa di Marsala (1939-1942) ABBANDONATA, anche se negli ultimi anni si è svolto un concorso per la rifunzionalizzazione

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Giuseppe Capponi, che diventerà la sua abitazione e il suo studio per il resto della vita. Cuore della casa è la scala elicoidale, che si avvolge continua, dall’atrio fino all’attico, in un moderno gioco dinamico e cromatico. Quindi avvia la progettazione dello Stadio di Firenze (1930-1933), la prima opera la cui popolarità varca i confini nazionali. “Dieci anni fa io ero in Russia, dentro lo stadio di Mosca, con alcuni architetti sovietici: osservavamo, da sotto le gradinate, la struttura del cemento armato, con i disegni in mano; poi uno degli ospiti disse: «Nulla di vicino allo stadio Berta di Firenze, quella pensilina! Chi è l’architetto?». Quella domanda mi fece piacere per Nervi. […] Nervi è uno degli uomini cui è affidata l’architettura di questa generazione, l’uomo più sensibile agli inviti del cemento armato, certamente l’ingegnere che ha assicurato al patrimonio tecnico di quel sistema costruttivo un plinto suo, inconfondibile.”21 Durante questo lungo cantiere condotto per lotti, Nervi scoglie i suoi rapporti con Nebbiosi e preferisce una nuova

configurazione societaria più autonoma, fondando nel 1932, la già citata Nervi & Bartoli. Lo stadio, come già la palazzina, provoca ammirate reazioni da parte della critica architettonica italiana e straniera, che legge nel disegno ardito della pensilina e nella curva avvolgente delle scale un gesto innovatore, capace di rivoluzionare il linguaggio stanco dell’eclettismo. Negli anni successivi, Nervi continuerà a lavorare senza sosta a molte strutture funzionali, ma riuscirà anche a coltivare il rapporto con i giovani architetti razionalisti, partecipando alle loro iniziative espositive e pubblicando sulle riveste d’avanguardia. Appartengono a questa fase i divertiti studi su tipologie avveniristiche (l’albergo galleggiante dotato di un dispositivo brevettato, che lo rende insensibile al moto ondoso; la palazzina girevole che segue il movimento del sole; il monumento alla bandiera; una torre alta 250 metri stabilizzata da un pesante pendolo interno, appeso alla sommità) e le partecipazione ai principali concorsi di architettura (su tutti quello del 1939 per il palazzo dell’acqua e della luce per l’E42). Ma sono anni difficili per un progettista e costruttore esperto di cemento armato. Infatti nel 1937, il materiale, accusato di non essere abbastanza “italico”, viene limitato nell’uso prima riservato ad alcune tipologie specifiche tipologie edilizie e poi, nel 1939 addirittura messo al bando. Tutto ciò perché l’Italia nel 1935 ha invaso l’Etiopia e la Società delle Nazioni ha imposto pesanti sanzioni: nessuno stato può rendere al nostro paese materiali potenzialmente utilizzabili dall’industria bellica, i metalli in particolare. Il regime ne approfitta per promuovere l’autarchia, ciò quella autosufficienza economica in realtà già intrinseca nell’orientamento corporativo avviato molti anni prima. In


questa fase critica la modesta produzione nazionale di acciaio deve essere destinata in esclusiva agli armamenti: il mondo delle costruzioni deve rinunciare al tondino d’armatura e di conseguenza al cemento armato. Le difficoltà stimolano l’ingegno e la sperimentazione di Nervi, che ha quasi cinquant’anni e con quattro figli piccoli è costretto a ricominciare da capo, iniziando una nuova vita progettuale e costruttiva (la seconda di tre come scritto da Sergio Poretti). L’occasione per rinnovare completamente la tecnica di costruzione in cemento armato di cui e divenuto uno specialista e inconsapevolmente offerta dalla giovane regia aeronautica militare, che per proteggere i suoi stormi in vista del conflitto deve dotarsi di numerose aviorimesse (e naturalmente può utilizzate anche i materiali anti-autarchici, quelli proibiti). Il nuovo tipo edilizio senza vincoli stilistici che deve poter essere ripetuto identico in più campi di volo, facilita Nervi nell’ideazione di soluzioni costruttive originali. La prima serie di due aviorimesse a struttura geodetica che realizza nell’aeroporto di Orvieto (19351938) è ancora in cemento armato gettato in opera. Le serie successive (le più famose collocate ancora a Orvieto, Orbetello e a Torre del Lago Puccini, e molte altre sparse in giro per l’Italia), pur praticamente uguali nella forma divengono nel 1939 un brevetto: quello della “prefabbricazione strutturale”. Tecnica che Nervi definisce come la scomposizione della struttura in pezzi il più possibile ripetibili, piccoli e quindi anche leggeri, in modo da poter essere facilmente sollevati e movimentati dagli operai. I pezzi vengono preconfezionati a terra, al riparo di tettoie che proteggono dalle intemperie e poi, provvisti di ferri di attesa sporgenti vengono collocati nella

loro posizione definitiva, sull’impalcatura e finalmente collegati attraverso il getto in opera, in un nodo eseguito con cemento ad alta resistenza. Alla fine dell’operazione di assemblaggio la struttura torna monolitica. È una tecnica semplice ma efficiente e si può applicate a ogni soluzione tipologica, meglio se con qualche asse di simme-

Interno di una aviorimessa della prima serie Aviorimessa di Orbetello concepita scomponendo la struttura degli archi in piccoli frammenti reticolari, realizzati in cemento armato a terra (1939-42) DEMOLITO

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Padiglione in ferrocemento realizzato alla Magliana, Roma (1945) ABBANDONATO

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tria, risparmiando tempo e materiale, soprattutto il costoso legname. Proprio nella progettazione delle aviorimesse Nervi si accorge anche che spesso le sue strutture sono impossibili da calcolare staticamente, ma non evita mai le forme complesse, se strutturalmente validissime. Al contrario chiede la collaborazione di Arturo Danosso, professore del Politecnico di Milano, per creare modelli in scala ridotta delle opere studiate, sui quali simulare i carichi e verificare il comportamento statico, sarà quello del modello, uno strumento prezioso, che Nervi non abbandonerà più fino alla fine della sua carriera. Ma ormai la guerra è scoppiata e il blocco delle costruzioni impedisce di sperimentare la “scomposizione” in altri tipi edilizi. Nervi continua però, ininterrottamente a ragionare sulle potenzialità ancora non sondate nel cemento armato e finisce per diventare anche una innovativa variante, che brevetta nel aprile 1943: il “ferrocento”. Non lo si può definire solo se prima non si conosce cemento armato ordinario come un materiale composto da molto conglomerato cementizio e poco acciaio, una trave

rettangolare, per esempio, è costituita per la maggior parte da conglomerato molto resistente a compressione, e armata con relativamente poche barre di acciaio, che la rendono capace di resistere bene anche a trazione. Nervi nel suo fenomeno invece ha proporzione consuete tra le componenti: prepara un pacchetto di reti da acciaio disposte l’una sull’altra e lo ricopre di conglomerato, spalmando con la cazzuola, da un lato fino a che l’impasto non satura il feltro e fuoriesce dall’altro lato, dove viene lasciato. La soletta che ottiene, di spessore molto sottile, in genere 3 cm, è resistentissima, elastica, flessibile e costa molto poco (soprattutto perchè non richiede cassaforma). Inoltre, Nervi dimostra che a parità di luce il suo materiale, grazie proprio al suo spessore ridotto, impiega molto meno acciaio, del cemento armato ordinario. Naturalmente, per essere utile alle costruzioni edilizie, il ferrocemento deve essere sagomato in forme opportune ( ondulato o pieghettato, per esempio) in modo da divenire “resistente per forma” (proprio come un sottile foglio di carta che, se “plis-


settato”, diviene capace di sostenere un peso). A settembre del 1943, quando dopo l’armistizio, i nazisti invadono Roma, Nervi chiude l’impresa per non essere costretto a collaborare e si ritira nella sua abitazione. Il figlio Vittorio racconta di come nascondesse, in rifugi ricavati dietro tramezzi velocemente alzati in cucina, giovani studenti perseguitati. Intanto sul balcone le solette di ferrocemento riposano e vengono verificate alla prova degli agenti atmosferici. A giugno del 1944 Roma viene liberata; alla fine di settembre Nervi pronto con un nuovo brevetto perfezionato con quanto ha imparato in questi tanti mesi di inattività coatta. Riapre l’impresa e realizza subito un piccolo magazzino nel suo terreno, alla Magliana: tutto in ferrocemento (compreso il tetto), spesso 3 cm, sagomato in onde per garantire la necessaria stabilità. Oggi il magazzino è ancora lì, sebbene impropriamente utilizzato e mai manutenuto, a testimoniare tutto il valore di quella invenzione. Per festeggiare la fine della guerra, a

maggio del 1945, Nervi pubblica anche un libro, al quale lavora da tempo, Scienza o arte del costruire?, che ripercorre brevemente l’esperienza costruttiva della vita precedente e con uno sguardo ottimista prefigura le risorse delle sue innovazioni. L’attività professionale riparte piano, quasi in sordina: prima l’applicazione molto positiva del ferrocemento alle barche (motovelieri, pescherecci, pontoni, il ketch Nennele che continuerà a costruire molti anni dopo, alcuni per la FAO). Poi a prototipi edilizi via via più impegnativi, continuamente sperimentando e perfezionando. Finché non arriva l’occasione di applicare il sistema a una grande opera: il cosiddetto Salone B a Torino Esposizione. La copertura è costruita in pochissimi mesi, tra il 1947 e la fine del 1948, grazie alla adozione congiunta della prefabbricazione strutturale e del ferrocemento con cui sono confezionati i pezzi leggeri in cui è stata scomposta la gigantesca struttura: in particolare i “conci d’onda” e i “tavelloni romboidali”, brevettati rispettivamente nel

Salone B di Torino Esposizioni (1947-48) Realizzato in 10 mesi grazie all’applicazione del “sistema Nervi”, adottato per la prima volta nella realizzazione di un grande edificio in questa occasione ABBANDONATO DAL 2007

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Lanificio Gatti IN USO come parcheggio Salone C di Torino Esposizioni ABBANDONATO dopo le Olimpiadi Torino 2006 Manifatturiera Tabacchi Tortona ABBANDONATO Trampolini stabilimento Kursaal ABBANDONATO

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1948 e nel 1950, che saranno alla base di tutte le realizzazioni successive. La sagomatura dei pezzi (onde o tavelloni che siano) si ottiene con una sequenza di operazioni che potremmo definire “generazionale”: una forma di terra o mattoni (definita “nonna”), lisciata a gesso, serve per confezionare un campione (detto “madre”) che, rovesciato, viene ripetutamente impiegato come controforma per prepara-

re tanti elementi “figlia”, identici alla “nonna”, con i quali assemblare la struttura. Lo spazio interno del Salone B ha una forma espressiva che i critici, soprattutto gli stranieri, non possono fare a meno di notare: stupefatti che in un paese distrutto dalla guerra e logorato da vent’anni di dittatura si possa assistere a imprese così ardite ed efficaci. Da questo momento sarà tutto un crescendo: la piscina dall’Accademia


di Ostia (1950), il Lanificio Gatti (1951), piccolo capolavoro basato sull’ennesima invenzione, il “solaio a nervature isostatiche”, la sala delle feste delle Terme di Chianciano (1952), il deposito dei tram a Torino (1954). Opere completate nella prima metà degli anni Cinquanta che passano quasi sempre in secondo piano quando

Deposito di sale, Cagliari (1955-58) ABBANDONATO

navale di Livorno (1949), la darsena “La Tebaide” a San Michele di Pagana (1949), la manifattura Tabacchi a Bologna (1949), il Salone C a completare i volumi espositivi torinesi (1950), i Magazzini del sale a Tortona (1950), il ristorante e il trampolino dello stabilimento balneare Kursaal

si confrontano con quelle più complesse e note del periodo subito successivo, che concentra la maggior parte dei suoi capolavori: la sede dell’Unesco a Parigi (19521958), la prima esperienza all’estero che lo consacra come il più prestigioso progettista italiano (cui si lega la collaborazione per il CNIT); le strutture del grattacielo Pirelli a Milano (1955-1960) studiate con Danusso; il Palazzetto e Palazzo dello Sport (1956-1959) a Roma; il viadotto di corso Francia (1959), sollevato su pilastri che cambiano forma sviluppandosi verso l’alto (altra invenzione staticamente ottimale, costruttivamente facilissima da ottenere, ma anche straordinariamente efficace dal punto di vista formale); lo stadio Flaminio (1956-1959), la prima occasione in cui il

Palazzetto dello sport, Roma (1956-57) Si tratta dell’espressione più matura della sperimentazione statica, costruttiva e architettonica e suggella il suo originale sistema di costruzione IN USO Cartiera Burgo (196064) Non avendo mai avuto la possibilità di costruire un ponte di grande luce, sceglie di sperimentare in questa occasione, per un impianto industriale una soluzione normalmente destinata alle infrastrutture viarie IN DISMISSIONE

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Cattedrale di St. Mary, San Francisco (1966) IN USO George Washington Bridge Bus Terminal, New York (1957-1963) Prima opera americana in cui Nervi decide di utilizzare una trama triangolare per risolvere copertura e muri perimetrali della stazione, in omaggio al vicino ponte di acciaio dai piloni reticolari, interpretandola però con il cemento armato a vista TRASFORMATO da Robert Davidson 2013

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figlio Antonio, laureatosi nel 1950 e che lo aiuta già da alcuni anni, viene ufficialmente presentato come co-progettista. Mentre si inaugurano i Giochi Olimpici, Nervi è già all’opera per realizzare il Palazzo del Lavoro a Torino (1959-1961), destinato ad accogliere la mostra più significativa per le celebrazione del centenario dell’Unità d’Italia, e la struttura sospesa della Cartiera Burgo a Mantova(1960-1964). Ad aiutare la messa a punto del “sistema Nervi” è apparentemente inarrestabile fermento costruttivo che conduce il paese, oltre le difficoltà della ricostruzione, verso il boom economico, l’Italia costruisce e Nervi anche se molto più noto e autorevole, non è affatto una personalità isolata. Negli stessi anni un folto gruppo di progettisti strutturali si afferma con echi a livello internazionale (tra tutti ricordiamo Riccardo Morandi, Sergio Musmeci e Silvano Zorzi) grazie all’impegnativo programma di opere pubbliche finanziate durante la presenza di Giovanni Gronchi (tra il 1956 e il 1964, si completa, per esempio, autostrada del Sole, rico-

nosciuta da subito come un capolavoro dell’ingegneria). A partire dagli anni 50, Nervi comincia a ricevere molti riconoscimenti: intanto gli viene conferita la prima laurea Honoris Causa, dall’Università di architettura di Buenos Aires (molte altre ne seguiranno). Nel 1954 appaiono le prime monografie, inizialmente sono in italiano, poi nelle lingue principali. Lo stesso ingegnere, nel 1955, pubblica in volume Costruire correttamente, per presentare personalmente le sue idee e i suoi lavori. All’inizio degli anni 60 ad accompagnare i successi del boom, oltre a centinaia di articoli apparsi su tutte le riviste più o meno specializzate in Italia e all’estero, anche nove monografie, mostre e onorificenze e l’ultimo dei suoi libri, “Nuove strutture”, edito nel 1963. Intanto nasce lo studio Nervi, che associa Pier Luigi e Antonio (e nel 1960 anche altri due figli, Mario e Vittorio, pur con ruoli diversi), in un laboratorio di progettazione nettamente separato dell’impresa di costruzione. In Italia però già a partire dal 1963, il boom economico lascia posto alla recessione. La crisi, che sembra in principio solo passeggiera, invece si inasprisce


e spinge il Paese negli “anni di piombo”. Mentre la Nervi & Bartoli risente subito delle difficoltà economiche, lo studio mette a frutto la notorietà conquistata e trova lavoro in tutto il mondo, collaborando con altri importanti architetti locali o disegnando in autonomia strutture che traducono in linguaggio internazionale i tesi tipici del sistema Nervi. La stazione degli autobus a New York (1961-1962), la cattedrale St Mary(1966-1971), le strutture per la torre della mostra a Montreal in Canada (1921966), o per l’Australia Tower a Sidney (1961-1967), l’ambasciata d’Italia a Brasilia (1969-1976), il Good Hope Center a Capetown in Sud Africa (1970-1978) sono solo una selezione nel corposo catalogo di realizzazioni intercontinentali cui si affiancano decine di progetti (tra cui nel 1969 anche quello del ponte sullo stretto di Messina, per il concorso ambiziosamente promosso dallo stato italiano). Naturalmente in questa nuova veste di progettista internazionale Nervi non può anche essere costruttore (la sua impresa è troppo piccola per competere con le grandi società straniere): le sue opere perdono così una componente essenziale, quella maestria e perizia della fattura che solitamente distinguono il pezzo esclusivo dalla produzione corrente. Ma è un passaggio obbligato: lo stilista da atelier, abituato a disegnare modelli di cui segue personalmente il confezionamento, passa a disegnare una linea, un marchio adatto al mercato globale, pur conservando originalità e riconoscibilità. È una griffe, quella di Nervi basata sulle cupole e sulle volte a tavelloni triangolari o romboidali, sui solai a nervature isostatiche, sui pilastri a sagoma variabile. Non solo ha successo in tutto il mondo ma contribuisce a consolidare la stima nei confronti dell’ingegneria

italiana e ad aprire nuovi mercati per le nostre imprese di costruzione. Appartiene a questa ultima fase anche l’opera più famosa, la sala delle udienze pontificie in Vaticano (1964-1671), nella quale Nervi può per l’ultima volta lavorare con i suoi operai e con la sua attrezzatura. Proprio in un contesto così carico di storia, torna ad interpretare il suo ruolo più riuscito, ma ormai anacronistico: insieme progettista, costruttore direttore dei lavori, insomma “architetto della fabbrica” della migliore tradizione costruttiva italiana.

Sala delle Udienze Papali Paolo VI Roma (1963-71) Un impresa unica, sia per la commissione sia per il progetto, in cui Nervi riprese le sue più brillanti innovazioni, migliorandole TRASFORMAZIONE DELLA COPERTURA nel 2008

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il palazzo del lavoro

componenti tecnologiche colonne e copertura_ “funghi� solaio isostatico vetrate e frangisole

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L’intuizione vincente di Nervi fu rinunciare a una copertura unitaria e puntare su una struttura modulare, composta da indipendenti unità. L’edificio si configura come un parallelepipedo, in cui ogni modulo costituisce un organismo strutturale autonomo, formato da un pilastro centrale che sorregge venti travi a mensola disposte a raggiera, sulle quali poggia il solaio di copertura. I campi quadrati di solaio sono indipendenti tra loro e sono separati anche visivamente da strisce di lucernai vetrati larghe due metri. “La struttura principale dell’edificio, composta da 16 grossi pilastri con sezione cruciforme fortemente rastremati e reggenti funghi metallici a nervature radiali, è completamente indipendente dalla struttura secondaria di sostegno dei piani inferiori, così i piloni sono liberi in tutta la loro altezza: sia i quattro centrali compresi nel grande invaso al centro dell’edificio, sia quelli perimetrali.”22 Il perimetro dell’edificio è risolto con ve-

trate continue, protette da brise-soleil. Questa soluzione oltre a permettere una costruzione per elementi semplici ripetitivi, consente di realizzare per primi i moduli più esterni e di cominciare così da subito le lavorazioni di montaggio e finitura delle vetrate perimetrali mentre, in contemporanea, vengono erette le strutture dei moduli interni, in modo tale da velocizzare e ottimizzare l’esecuzione. Anche la scelta di utilizzare una struttura mista in cemento armato e acciaio, aumentò la rapidità della costruzione. In sintesi gli elementi tecnologici e caratterizzanti, che vengono ripetuti in sequenza sono: - Colonne in calcestruzzo rastremate a base cruciforme con un “cappello” quadrato metallico a copertura - Una soletta nervata in ferrocemento al piano primo - Una serie di montanti che collegano la soletta alla copertura per sostenere il tamponamento vetrato e i frangisole.

22 P.L.NERVI, Dentro l’immane struttura, in “Domus”, n.374, 1961, p 1-7

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le componenti tecnologiche L’intuizione vincente di Nervi fu rinunciare a una copertura unitaria e puntare su una struttura modulare, composta da unità indipendenti. L’edificio si configura come un parallelepipedo, in cui ogni modulo costituisce un organismo strutturale autonomo, espressione di anni di sperimentazioni, che avevano portarono ai brevetti di un materiale il “ferrocemento” e un procedimento costruttivo, la “prefabbricazione strutturale”, che hanno garantito anche in questo caso il successo 51


Colonne e copertura, “ i funghi”

Chiorino Cristiana, “Cantiere Italia ‘61”. La Ville industrielle costruisce i suoi simboli, in “Rassegna di architettuta e urbanistica” 24 Nervi Pier Luigi, L’Esposizione per il Centenario dell’Unità D’Italia a Torino. Il palazzo del Lavoro, in “L’architetturacronache e storie”, n. 70, 1961 23

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“La struttura, nelle sue colossali dimensioni, ha rilevato la pratica attualità della colonna (una colonna formalmente nuova, alla Nervi): è una gigantesca struttura mista – in cemento ove verticale, in acciaio ove orizzontale – a unità indipendenti, e ciò ha significato per la costruzione in cemento una semplice serie di casseforme, e per il montaggio delle parti in acciaio, una gru. Otto giorni per alzare una intera colonna. Dieci per montare la copertura in acciaio. Le colonne sono sedici, alte venticinque metri, e portano ognuna un elemento di copertura di quaranta metri di lato: superficie totale coperta venticinquemila metri quadri.”23 La velocità di costruzione messa in evidenza, nasconde però, una grande complessità strutturale e tecnologica, che ha determinato la forma dei 16 pilastri che sostengono la copertura e che sono collocati su fondazioni su pali Franki. Si tratta di strutture di 25 metri, che proprio per questa grande altezza hanno richiesto uno sviluppo rastremato che sfruttasse a pieno le caratteristiche del materiale e per garantire un’ottimale resistenza alla spinta del vento. Per quest’ultimo motivo alla base si raggiungono tensioni inimmaginabili, risolte attribuendo ai piedi una sezione cruciforme con lato di 5 metri e alla sommità una forma circolare di diametro 2.5 metri. Pertanto, il volume risultante fu una superficie geometrica rigata che collegava una croce alla base e un cerchio alla sommità. Il primo problema che si dovette affrontare a livello costruttivo derivante dalla complessità formale del disegno, fu la realizzazione delle casseforme. Infatti queste dovevano essere di tipo auto-stabile e

auto-centrante, in grado di mantenere la forma e la posizione senza l’utilizzo di tiranti interni, che avrebbero causato difetti all’interno del calcestruzzo; doveva essere riutilizzabile per tutti i 16 pilastri; e doveva essere abbastanza robusta da contenere la spinta del conglomerato. La soluzione fu una cassaforma in doghe con ossatura esterna in profilati di ferro dal costo molto elevato ma riutilizzabile per tutti i pilastri. Essa fu divisa in sei tronchi di peso tale che la gru potesse sollevarli, e di volume tale che nella giornata si protesero gettare. Il legno veniva piallato ad ogni passaggio e lo stesso Nervi andava affermando che “al sedicesimo e ultimo pilastro la cassaforma era come nuova.”24 Il calcestruzzo veniva gettato in tre riprese e armato con barre dal diametro di 26 mm disposte lungo il perimetro, seguendo l’andamento della sezione. Staffe disposte ogni 30 cm legavano le armature verticali. Tra una ripresa e l’altra fu adottato l’accorgimento di lasciare un giunto (di dimensioni 2x2 cm) sufficiente a dividere un getto dal successivo ed assorbire quelle irregolarità di colore del conglomerato che erano inevitabili. Il tempo ipotizzato da Nervi per gettare i pilastri era di 7 giorni teorici, che divennero, in fase di lavorazione 10. L’efficienza costruttiva più che nelle tempistiche risiedeva nel fatto che mentre si gettava un pilastro, era già possibile montare la copertura di un altro. Copertura ad ombrello quadrato, così costituita per coprire una superficie di 1600 metri quadrati, avendo un lato di 38metri. La struttura metallica presentava la necessità di impostare un elemento orizzontale in acciaio su un piano di posa a corona circolare, e quella di lasciare in vista all’intradosso le nervature a sbalzo portanti. Si


Disegni di progetto di Pier Luigi Nervi. Particolare costruttivo della colonna, tratto da Tavola 41 del 29 gennaio 1960

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Disegni di progetto di Pier Luigi Nervi. Particolare costruttivo del capitello, tratto da Tavola 41 del 29 gennaio 1960

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Disegni di progetto di Pier Luigi Nervi. Particolare costruttivo delle travi di costegno della copertura e del cupolino, collocato tra i diversi elementi di copertura, tratto da Tavola 41 del 29 gennaio 1960

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ricorse perciò ad un elemento di raccordo centrale: un tamburo poliedrico diaframmato in acciaio, a sostegno delle mensole e con amarro realizzato attraverso un capitello troncoconico. Ai ferri dell’armatura dei pilastri venivano saldate le strutture metalliche (20 mensole ed altrettanti telai), che costituivano rispettivamente il capitello di raccordo e il soprastante tamburo di incastro delle 20 travi a sbalzo di ogni singolo elemento di copertura. E’ curioso come a primo impatto (forse per abitudine), Nervi pensò di realizzare anche la copertura in ferrocemento, ma venne scelto il ferro per la velocità di realizzazione, per il minor peso e il non trascurabile vantaggio di spostare la lavo-

Foto delle 16 colonne alte 25 metri con base cruciforme e sommità circolare, e dei loro relativi capitelli

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razione in officina, sgombrando quindi il cantiere. Le travi a “I”, ad anima piena con nervature di irrigidimento a vista, erano collegate da una trave perimetrale che fungeva da elemento di irrigidimento, vincolando l’intero sistema e con effetti di riequilibrio dei carichi tra le travi di aggetto diverso. Coperti con pannelli in lamierino d’acciaio, coibentati ed impermeabilizzati, i 16 quadrati della copertura venivano infine collegati da una trama di lucernari larghi due metri (costituiti da telai metallici sagomati a V rovescia). Attraverso la pendenza di ogni singolo ombrello l’acqua defluiva al centro per poi scorrere all’interno del pilastro in cemento armato.


Solaio isostatico Il secondo problema da affrontare era quello del solaio perimetrale, che copriva circa 500 m per una larghezza di 10 metri. Anche qui fu usata una cassaforma cementizia, collocata su di un ponte che, a disarmo avvenuto, si abbassava, per poi essere rimesso in posizione per il nuovo solaio. Uno dei vantaggi di tale procedimento era quello di lasciare la struttura perfettamente finita (teoricamente non vi era più la necessità di intonaco, anche se nella realtà fu data una mano di tinta a calce). Come in molti suoi lavori Nervi fece uso del ferrocemento, lo stesso che avrebbe voluto utilizzare in copertura. Il ferrocemento è un materiale duttile, flessibile, elastico e molto leggero composto di numerosi strati sottili di maglia d’acciaio costituita da fili di ferro da 0,5 a 1,5 mm di diametro, spaziati di 1 mm e spruzzati da malta cementizia, con spessore totale e di poco superiore all’anima metallica. Il ferrocemento, in virtù della sua superiore resistenza ad elasticità, presenta notevoli vantaggi: può essere adoperato in lastre e solette sottili per

sorreggere grandi pesi e può essere usato per ottenere qualsiasi forma. Nervi utilizzò le proprietà del materiale per sagomare i solai in relazione alle forze statiche e secondo le linee principali di sforzo. L’utilizzo di solai isostatici non era una novità, ma frutto di lunghi sperimenti che avevano già visto il culmine nella realizzazione del lanificio Gatti a Roma nel 1951.

Dopo le colonne, si tratta sicuramente dell’elemento più caratteristico del Palazzo del Lavoro. Il solaio perimetrale, un tempo pienamente visibile,e primo elemento di stupore, oggi è completamente coperto da tubazioni e controsoffitto

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Orditura del solaio isostatico perimetrale, largo 10 metri e sostenuto da 4 pilastri, due con base circolare e due con base quadrata, che sostengono anche lo sbalzo esterno e il tamponamento in frangisole.

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Vetrate e frangisole L’ultimo elemento realizzato furono le immense vetrate di 20 metri di altezza. L’analisi di queste vetrate risulta particolarmente importante perché ci si è trovati a valutarne la funzionalità nell’ottica di un progetto di riqualificazione. Anche nel prospetto si ebbe la necessità di progettare una facciata modulare, rapida da montare e realizzabile in officina. Il risultato fu una vetrata “strutturale” appoggiata e controventata da grossi fusi verticali. La facciata risulta composta da 32 fusi per lato avente interasse di 5. Tutte le facciate tranne quella Nord (verso il Palavela) sono dotate da brise-soleil in alluminio dal 2° piano fuori terra. I fusi sono gusci in lamiera d’acciaio con spessore 4 mm, irrigidito internamente con elementi dello stesso materiale a formarne lo scheletro. L’elemento fu realizzato in officina in due parti simmetriche e poi saldato. Il peso dell’elemento è di 2000 kg e assolve la funzione di controventatura per

contrastare i carichi dovuti al vento sulla facciata. La loro stessa forma è stata progettata per ottimizzare questo risultato: non per opporre poca resistenza al vento come si crede (trascurabile rispetto a quella opposta dalle vetrate) ma per avere un’inerzia maggiore ove serve, ovvero in mezzeria. Interessanti sono le connessioni in sommità e alla base. Essendo la copertura completamente indipendente e metallica, si doveva progettare la vetrata in modo che assorbisse gli spostamenti anche rilevanti della struttura. La connessione superiore consiste in una coppia di bielle che consentono lo scorrimento verticale e bloccano quello orizzontale. Alla base il fuso è quindi appoggiato sulle mensole che sporgono dalla soletta e che sorreggono l’intero peso dei fusi, bilanciato da quello del primo solaio. Un giunto cardano evita che momenti vengano trasmessi sul calcestruzzo della mensola. Il peso della vetrata non grava sui fusi ma poggia bensì su una serie di pilastrini che scaricano il peso sul solaio. Questi hanno

Immagini relative al tamponamento esterno dell’edificio e all’ancoraggio sia alla base che in sommità

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Immagini relative al tamponamento esterno dell’edificio. L’immagine più suggestiva è certamente quella, dell’intersezione delle facciate, deve il gioco prospettico crea l’illusione di trovarsi al di sotto della prua di una nave

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le dimensioni di 7x10 cm con spessore di 10 mm e staticamente sfruttano lo stesso principio dei fusi: poggiano sul solaio ma sono completamente svincolati in sommità per assorbire i cedimenti della copertura per eventuali carichi accidentali. Il fuso e il relativo pilastrino giungevano in cantiere già saldati fra loro e poi montati. Venivano poi saldati i traversi, i telai metallici e infine montati i vetri (cristalli singoli da 8 mm realizzati nella succursale di Pisa della Saint Gobain). Come si legge dal carteggio di Mollino, i brise-soleil furono poi montati in un secondo tempo, in posizione fissa su appositi perni saldati ai fusi.


Particolare prospetto, tratto da tavola di concorso n째 16 del 29 febbraio 1960. Nella tavola sono anche riportatati i materiali utilizzati

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Dettaglio del frangisole e dell’ancoraggio inferiore. Tratti rispettivamente dai disegni della ditta Badoni, incaricata della realizzazione e trasporto in cantiere, n° 5450 del 4 maggio 1960 e 5365 del 22 febbraio 1960.

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Alcune curiosità tecnologiche Come detto più volte, il Palazzo del lavoro si compone degli elementi sopra descritti, però alcune curiosità non sono descritte. Partendo dal basso, cioè dalle fondazioni, troviamo alcuni elementi interessanti. Infatti, durante dei lavori di scavo interni al Palazzo è stato rinvenuto un plinto, la cui presenza è stata giustificata non da un errore eseguito in fase di costruzione, ma bensì dalla precisa volontà di Nervi, di realizzare plinti di “scorta”, cioè utilizzabili se necessari in una eventuale operazione di rifunzionalizzazione. Pertanto si presume non sia l’unico, ma che sull’intera superficie di 25000 metri quadrati ce ne siano altri, distribuiti regolarmente. Altro elemento curioso sono le scalette a chiocciola collocate ai quattro angoli della struttura, che permettono l’accesso diret-

to e, attualmente, unico alla copertura. Proprio salendo in copertura si scoprono delle botole in asse alle colonne. Queste nascondono gli accessi a delle scalette di sicurezza che scendono all’interno dei giganteschi pilastri prefabbricati sino al livello seminterrato. La scala scende in un foro di circa 55 cm, dove sono anche collocati i pluviali di scarico dell’acqua piovana.

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Sezioni prospettiche del Palazzo del Lavoro realizzate dallo Studio Nervi Bartoli, rispettivamente nel ottobre 1959 (sopra) e nel gennaio 1960 (sotto)

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il palazzo del lavoro

ieri e oggi

il cantiere ipotesi di riuso condizioni attuali

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il cantiere Nonostante l’impressionabilità delle dimensioni (158 m di lato, 26 di altezza e 650.000 me di volume), il cantiere e la sua organizzazione rappresentavano l’aspetto più innovativo, garantendo la celerità dell’esecuzione. La direzione di cantiere era affidata all’impresa Nervi, mentre la direzione dei lavori era assicurata dal Servizio Costruzioni Edili e Impianti Fiat. Il piano fissava in dieci giorni la cadenza di disarmo di ogni pilastro, parallelamente le travi della copertura venivano realizzate in officina e trasportate in cantiere dalla ditta Badoni. Le date dell’organizzazione del cantiere mostravano che i lavori relativi a pilastri e copertura venivano realizzati con uno sfalsamento di un mese, ad ogni pilastro corrispondeva la realizzazione di un’unità di copertura. Nel programma di montaggio veniva data precedenza ai pilastri perimetrali per comprimere ulteriormente i tempi e proseguire contemporaneamente con la struttura di tamponamento verticale composta dai ritti perimetrali realizzati dalla Badoni. Il solaio nervato della balconata perimetrale venne realizzato con casseforme in ferrocemento mobili. Le vetrate furono montate alla fine dei lavori in cemento armato. Iniziato nel febbraio 1960, il Palazzo venne concluso alla fine di febbraio 1961. Il progetto Nervi fu il solo a consentire di esaltare la retorica della celerità di costruzione, valore che si apprestò a celebrare, oltre al Centenario dell’Unità nazionale, anche il progresso tecnico, quale strumento imprescindibile per il raggiungimento del miracolo economico. “Strabiliante esempio di controllo degli

strumenti progettuali e costruttivi di una struttura insolita, contenitore immenso per contenuti poco chiari, monumento al lavoro industriale, ma curiosamente anche a se stesso, in quanto risultato di un cantiere la cui organizzazione scientifica è stata la prima garanzia di successo, Palazzo del Lavoro, persino nel suo declino all’apparenza inesorabile, è metafora di una parte importante della storia italiana del secondo dopoguerra, con i suoi processi di modernizzazione e i suoi numerosi fenomeni di crescita senza sviluppo.” 24

Chiorino Cristiana, “Cantiere Italia ‘61”. La Ville industrielle costruisce i suoi simboli, in “Rassegna di architettuta e urbanistica” 24

Visita al Palazzo del Lavoro ancora in fase di costruzione. Immagine del gennaio 1961

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Indicazioni e studio delle tempistiche di getto e armatura di colonne e solai Unica immagine a colori del cantiere del Palazzo del Lavoro, intitolata “Nasce la Esposizione internazionale del Lavoro“

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Immagini del Palazzo del Lavoro in costruzione (da sinistra e dall’alto) 16 febbraio 1960 25000 metri quadrati di cantiere, con tutti i materiali necessari per il confezionamento degli elementi in cemento armato costituenti colonne e solai 23 marzo 1960, armatura della colonna e in primo piano casseforme del moduli in ferrocemento per il solaio isostatico. Sollevamento e posizionamento del capitello realizzato dalla ditta Badoni 21 maggio 1960, piano interrato e l’organizzazione sequenziale del cantiere

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Immagini del Palazzo del Lavoro in costruzione (da sinistra e dall’alto) 30 Giugno 1960, confezionamento solaio isostatico 30 Giugno 1960, in sequenza le colonne prendono forma 16 Luglio 1960, si è iniziata la fase di copertura delle colonne 25 Agosto 1960, la copertura dopo poco piĂš di un mese risulta essere quasi conclusa Si procede al montaggio dei frangisole

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Immagini del Palazzo del Lavoro (da sinistra e dall’alto) Settembre 1960, ultimazione delle vetrate e degli impianti Maggio 1961, tutto è pronto per accogliere i visitatori da tutto Italia e da tutto il mondo, restano da fare gli ultimi ritocchi all’esterno Vista dall’alto dei visitatori in ingresso alla Mostra internazionale del Lavoro Vista notturna, con la grande “scatola“ completamente illuminata Foto di rito pre-evento, allineati difronte alla Palazzo di Nervi le Ape messe a disposizione dalla Fiat come taxi

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L’interno dell’edificio, con la sua grande “piazza“ completamente libera, se non solcata dalle quattro colonne centrali

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P.L.NERVI, Dentro l’immane struttura, in “Domus”, n.374, 1961, p 1-7 25

Il progetto di Giò Ponti per l’allestimento interno crea una successione di visuali e non intralcia la vista dell’opera di Nervi Allestimento interno, dedicato alla Olivetti icona internazionale dello sviluppo tecnologico italiano

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L’esposizione interna La conclusione dei lavori di costruzione del grande contenitore, che si sarebbe dimostrato il maggiore attrattore di pubblico, durante le manifestazioni, coincise con l’inizio dei preparativi dell’esposizione interna. “La struttura rappresenta ciò che vi è di perpetuo in quanto spazio architettonico, l’allestimento dell’interno ciò che vi è di transitorio.”25 La presenza contemporanea di questi due elementi è stato il maggiore problema da affrontare nell’allestimento. Dal punto di vista dell’organizzazione funzionale interna il progetto presentato al concorso prefigurava la realizzazione di due livelli espositivi principali. Il piano terreno venne trattato come un grande salone di accoglienza mentre una galleria di 5,2 metri di altezza e profonda poco meno di 20 m, si snodava al secondo piano lungo tutto il perimetro dell’edificio. I locali tecnici ( magazzini, servizi e ben due sale di proiezione) trovavano posto in un piano cantinato, realizzato lungo

il lato nord. I collegamenti verticali tra salone e galleria furono assicurati da scale fisse e mobili, ubicate in corrispondenza dei pilastri perimetrali ma in posizione diversa dalle scale che vi sono oggi. Il compito di allestire gli interni della Mostra del Lavoro fu assegnato a Giò Ponti e Giancarlo Pozzi. Il tema proposto dal comitato organizzatore era :“L’uomo e il Lavoro. Cento anni di sviluppo tecnologico e sociale: conquiste e prospettive”. Quindi si trattava di un tema assai arduo, in primo luogo perché le scoperte scientifiche avvenute in quel secolo superavano in numero ed importanza tutte quelle avvenute nei secoli precedenti e in secondo luogo perché ci si doveva confrontare con la realizzazione di Nervi che rischiava di schiacciare con la sua mole tutto ciò che veniva realizzato al suo interno. Alla realizzazione della mostra parteciparono 19 Nazioni e 5 Organismi Internazionali che trovarono spazio in stand perimetrali. Gli stand furono realizzati in modo che la struttura di Nervi fosse pienamente percepibile: essi erano aperti verso l’alto per offrire la vista della copertura e disposti in modo da creare visuali in cui si vedessero i pilastri in tutta la loro altezza. La scelta dei materiali venne anch’essa dettata dalla maestosità dell’edificio realizzato da Nervi. L’alluminio venne utilizzato negli spazi perimetrali che accoglievano le nazioni straniere e si sviluppavano su due piani mentre lamelle inossidabili di acciaio vennero usate a rivestimento di una sorta di “castello” centrale della mostra, destinato all’Italia, dove si sarebbero rappresentati gli effetti sviluppati sulla società dal lavoro. Le strutture furono studiate da Giuseppe Verzone e Giancarlo Pozzi.


La mostra fu allestita in maniera grandiosa sia per i contenuti sia per la spettacolarità delle istallazioni. Le installazioni vennero smontate i giorni successivi il termine dei festeggiamenti e nessuno sa che fine abbiano fatto. Si dice che siano conservate nel piano interrato dell’edificio, ora irraggiungibile.

Preparazione dell’allestimento e immagini dell’allestimento concluso, prima dell’inizio dell’evento.

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Cartolina del 1961, stampata in occasione della cerimonia di chiusura dell’evento

AA.VV., Catalogo Italia ‘61 27 Pace Sergio, Chiorino Crtistiana, Michela Rosso, Italia ‘61: la nazione in scena, Torino, Allemandi & C., Torino, 2005 26

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Ipotesi di riuso, dal 1961 a oggi “Arrivederci nel 2011” era l’augurio finale che accompagnò le parole del sindaco Peyron. “Abbiamo insegnato a molti la strada di Torino, ci auguriamo non venga dimenticata, è stato un grande successo (...). Le celebrazioni del ‘61 non sono fine a se stesse. Nessuno ha mai pensato che si concludessero definitivamente il 31 ottobre: non è quindi il caso di fare un bilancio, ma piuttosto un programma. Più che al passato, bisogna pensare al futuro”26. Nonostante queste parole, pronunciate in occasione della sontuosa cerimonia per lo spegnimento delle luci sulle esposizioni di Italia ‘61, prospettassero un futuro alquanto programmato per le neonate architetture, la realtà fu invece assai meno rosea. “Percorrendo oggi corso Unità d’Italia si attraversa una pagina ormai sbiadita del

passato di Torino, dimenticata dalla memoria comune, nonostante il complesso di Italia ‘61 avesse rappresentato un vanto, non solo per Torino, ma per l’Italia stessa.”27 Al termine delle manifestazioni, la riconversione delle architetture, del parco e delle infrastrutture, non parve rappresentare una questione così urgente e cruciale. Tanto che, demoliti gli edifici effimeri, gli spazi cominciarono ad invecchiare, nell’assenza di una qualsiasi forma di progetto per l’area. Il disinteresse venne accompagnato dalla poca rispondenza funzionale alle esigenze di una città in espansione tant’è che i contenitori che riuscirono effettivamente, in conclusione dell’evento, a trovare una funzione furono pochi. L’occasione, che 40 anni dopo, permise di reinserire nel dibattito sulla trasformazione della città, l’area di Italia ’61 era in previsione di due appuntamenti significativi: le Olimpiadi Invernali Torino 2006 e il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia nel 2011. In tale occasione molti di essi trovarono una nuova funzione, così però non fu per il Palazzo del Lavoro. Tutti gli edifici erano stati progettati con l’idea base di realizzare “opere durature e utilizzabili in avvenire”. Infatti già da concorso, chi era stato invitato per la progettazione del Palazzo del Lavoro, doveva prevedere l’inserimento di una nuova funzione. A tal proposito la proposta di Pier Luigi Nervi di realizzare un centro sportivo, adibito alle attività dell’atletica leggera, ma anche del tennis, della pallavolo, del basket, del pugilato e della lotta, cioè di molte delle attività olimpiche, mai venne presa in considerazione. Il Palazzo, che si trovava sul suolo dato in accomodato gratuito all’Ente Fiere, non venne riscattato, anzi venne lasciato al


Progetto di rifunzionalizzazione proposto da Pier Luigi Nervi. Un centro sportivo

demanio per questioni economiche, in quanto si dovette fare i conti con le spese dovute alle celebrazioni. Problematiche economiche, che in seguito ad un eventuale riscatto avrebbero anche accompagnato la riqualificazione e il mantenimento di un volume così grande. Ciò nonostante, le proposte di una rifunzionalizzazione non mancarono. Così nel Novembre del 1961 si presero le prime decisioni per il riutilizzo dei singoli edifici, infatti l’area non venne mai trattata da un progetto unitario, e l’idea per il Palazzo del Lavoro fu quella di adibirlo a sede del Centro Internazionale di Assistenza Tecnica ai Paesi di Sviluppo. L’iniziativa era patrocinata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e l’intervento fu pianificato da Comune, Provincia e l’ente internazionale preposto, il BIT. L’operazione completata nel 1963 vide l’apertura del centro. Il Palazzo vide la realizzazione del-

la seconda balconata, attrezzata ad uffici, mentre il solaio isostatico venne rivestito da materiale isolante e controsoffittato, mentre le vetrate al pianterreno furono rese apribili. L’inserimento di questa nuova funzione lasciava comunque ancora molto spazio libero, così nel 1965 la struttura accolse la facoltà di economia. Nel 1967 vennero erogati i primi fondi per la realizzazione del museo del aeronautica, poi realizzato a Caselle. Un nuovo tentativo si ha nel 1977, quando si prevede un riuso come centro esposizioni e si stanziano 850 milioni di Lire per la realizzazione di biglietterie, recinzioni, spogliatoi, impianti e messa in sicurezza dell’edificio. Gli appalti sono formulati, i soldi spesi ma i lavori non sono mai giunti a termine. Tutti gli uffici, a parete le aule di economia, vennero abbandonati e l’edificio rimase nel degrado più assoluto. Il

Olmo C., Giammarco C., Bazzanella L., Introduzione in Studi e ricerche finalizzate all’attuazione del progetto Torino Science Center. Rapporto finale, Dipartimento di progettazione architettonica del Politecnico di Torino, febbraio 1999 28

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L’impacchettamento eseguito in occasione dei 150 anni dell’unità nazionale. Proiezione di Giuseppe Garibaldi, solo in mezzo al buio. Un’immagine splendida e malinconica allo stesso tempo, proprio come il Palazzo del Lavoro oggi.

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progetto di Assistenza Tecnica scomparve insieme all’idea che lo aveva creato. L’ipotesi successiva era legata all’iniziativa in materia culturale della Provincia di Torino che, nel corso della legislatura 1995-1999, e riguardava il progetto Cultura Materiale il cui terzo filone si intitolava II laboratorio del futuro: ricerca scientifica e tecnologia d’avanguardia nel territorio provinciale, e prevedeva la realizzazione di una vetrina della ricerca scientifica e tecnologica nell’area torinese. Questa prima indicazione progettuale si evolse nell’ipotesi di creare uno Science Center, ottenendo il riconoscimento e il finanziamento del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica. Il Torino Science Center sarebbe dovuto diventare centro stabile di divulgazione tecnico-scientifica, dove imparare a pensare scientificamente senza commemorare un passato che nessuno nega, ma piuttosto coltivando la curiosità verso una realtà in continuo mutamento. Un’operazione promossa come evento-immagine della Provincia, per costruire il baricentro di una serie d’iniziative di divulgazione della scienza e della tecnica già esistenti da lungo tempo nell’area metropolitana, ma

anche per dare una sede adeguata ad un mediatore tra il pubblico non specializzato e i molti centri di ricerca scientifica e tecnologica esistenti a Torino e in Piemonte28. La volontà venne testimoniata dalla ricerca svolta dal Dipartimento di Progettazione del Politecnico sulle diverse possibilità che la struttura offre. Le ricerche, condotte dal Prof. Aimaro Isola si conclusero con un nulla di fatto e con un giudizio pessimistico sulle possibilità di riuso del Palazzo. II 26 Luglio l’Ansa pubblicò la notizia: “Mu-


Articolo de La Stampa del 30 maggio 2008, quando l’idea del centro commerciale al Palazzo del Lavoro iniziava a prendere forma

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Chiamparino Sergio, Ecco cosa succederà a Torino dopo le Olimpiadi, in www.chiamparino.it, 15 maggio 2005 29

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sei. Uno Science Centre a Palazzo Nervi” realizzato in collaborazione dalla Provincia e dalla Regione, esso diverrebbe parte di una rete internazionale e fungerà da unione fra il campo della ricerca e l’industria.” L’inaugurazione è prevista per il 2004 ma comunque non oltre le Olimpiadi del 2006. Nel 1999 Torino si aggiudica a Seul la sede di Giochi Olimpici Invernali 2006 muovendo la città in una prospettiva di rinnovamento e di adeguamento alle esigenze del futuro evento mondiale. L’avvicinarsi dell’evento olimpico e la mancanza di un’idea adeguata di rifunzionalizzazione conduce, nel 2003, alla proposta di dover “impacchettare” l’edificio per risolvere in breve tempo e con esigua spesa l’imbarazzo che esso avrebbe procurato, vista la vicinanza al palavela, che proprio in questa occasione ritrovò una funzione per mano di Gae Aulenti. L’idea dell’impacchettamento e della scorciatoia artistica venne fortemente criticata da architetti e studenti, ma a fronte dei problemi giuridici, (il palazzo era, in prima proprietà di un Ente Fiere, poi diviso tra Comune e Demanio), il sindaco Chiamparino affermò che “al momento l’idea di “farne un pacco” era l’unica possibile, perché l’edificio non apparteneva alla città. In attesa di riuscire ad acquisirlo dal demanio, si potevano solo avanzare delle proposte, tenendo presente che esisteva il rischio di entrare in conflitto con il diritto d’autore.”29 Nel 2004 l’idea portata avanti dal Politecnico della realizzazione di un Science Centre presso il Palazzo Nervi viene definitivamente abbandonata. La Stampa intitola “Lo Science Centre diventerà realtà” ma si scopre che l’area prevista è quella del Parco Colonnetti all’estrema periferia Sud della città nelle vicinanze del Sangone e non più il capolavoro di Nervi. Nello

stesso anno si trova traccia di una proposta formulata dai Consiglieri Massimo Giaretto e Carmelo Vaciria di utilizzare il Palazzo del Lavoro come parcheggio per il vicino Palaghiaccio. Al 2005 risale la proposta di localizzare all’interno dell’edificio il Museo Egizio, in seguito alla constatazione della non rispondenza fisica dell’attuale sede, Palazzo dell’Accademia delle Scienze, in rapporto alla sua rilevanza a livello internazionale. La scelta venne condizionata dalla sua importanza rispetto agli altri musei torinesi. Il Museo Egizio inserito nel Palazzo del Lavoro avrebbe rappresentato un notevole fulcro di interessi e avrebbe potuto esercitare funzioni di piacevole e facile lettura da una parte e altamente specializzata dall’altra. Anche questa proposta venne abbandonata. Sul finire del 2005, l’unica cosa che restò da farsi fu un “impacchettamento”, per un edificio, appartenente alla storia della città, che non avendo ancora 50 anni di vita non meritava di essere tutelato. Le Olimpiadi del 2006 passarono con un semplice impacchettamento, e i cinque anni che condussero alle celebrazioni dei 150 anni di Unità nazionale, non portarono altro che ad un nuovo impacchettamento tricolore, e una nuova proposta di realizzazione di un centro commerciale. La Stampa del 30 maggio 2008 intitolava “Harrods alla torinese” presentando una serie di grandi catene commerciali disposte ad acquisire il Palazzo, fra tutti spiccava il nome degli spagnoli di El Corte Ingles. Nel luglio 2009, le trattative con la società Pentagramma, controllata da Fintecna e dalla torinese Gefim, che nel 2005 aveva acquisito il Palazzo, passarono in mano agli olandesi di Foruminvest, società immobiliare che aveva già realizzato una


Il manifesto del Comitato SalvaItaliaSessantuno che contestò il progetto di ristrutturazione del Palazzo del Lavoro di Pierluigi Nervi Articolo de La Stampa del 26 giugno 2012.

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Rappresentazioni tridimensionali dello Studio Rolla, per il progetto del centro commerciale e della riqualificazione del parco di Italia ‘61.

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quarantina di centri commerciali in Belgio, Francia, Italia e nei Pesi Bassi. Le trattative, oltre alla ristrutturazione del prestigioso edificio, ambivano anche alla valorizzazione del verde pubblico, “aree oggi vietate ai torinesi da cancellate arrugginite”, e a realizzare circa 31 mila mq di parcheggi che, uniti agli esistenti, avrebbero dotato l’edificio di circa 10 mila posti auto. Il progetto, sfruttando l’immenso spazio del Palazzo del Lavoro, avrebbe creato al centro della galleria commerciale che si sarebbe sviluppata su due piani una sorta di piazza collegata con l’esterno da quattro strade che avrebbero portato verso i quattro punti cardinali. L’ingresso sarebbe stato su via Ventimiglia e nelle rispetto delle direttive del Comune la superficie complessiva destinata alle attività commerciali sarebbe stata di circa 28 mila mq, utilizzati per realizzare 105 negozi cosiddetti di vicinato, 14 medie strutture di vendita e 16 pubblici esercizi. Il sogno dei nuovi finanziatori era inaugurare il nuovo Palazzo del Lavoro il 6 aprile 2011, esattamente 50 anni dopo l’inaugu-


razione di Italia ’61. Un sogno che rimase tale. Infatti poco dopo a presentazione del progetto dello studio Rolla, l’inizio delle procedure di cantierizzazione vennero bloccate dal ricorso di 8Gallery, il centro commerciale del Lingotto, situato a pochi passi, presentato a maggio 2010 contro la variante urbanistica, che modificava le destinazioni d’uso dell’area. La risposta del Tar arrivò il 15 giugno 2012 e la Stampa titolava ”il nuovo palazzo del Lavoro fermato dal Tar” in quanto non ritenuta valida la variante parziale al piano regolatore eseguita dal Comune di Torino. Una sentenza che ha buttato al vento anni di finanziamenti ma allo stesso tempo ha esaudito il desiderio di molti cittadini, che negli anni avevano espresso il loro parere negativo e creato il comitato SalvaItalia61, “non disposto a barattare un’idea non ben definita e molto discutibile di riqualificazio-

ne che pregiudichi la qualità del nostro territorio, della nostra vita, di quella dei nostri figli.” Comitato che spesso si è presentato con lo slogan “ NO al centro commerciale, SI al verde pubblico”. Oggi 20 febbraio 2013, continua il dibattito sul centro commerciale e il Palazzo continua a mostrarsi, nella sua posizione di porta sud della città, impacchettato nel tricolore che non rende giustizia alla struttura, che grazie alla perizia di Nervi, non può nemmeno fregiarsi di una morte decorosa ad opera degli agenti atmosferici e pare debba stare, eterna, ad attendere che il mondo umano si accorga di una sua creatura dimenticata.

Le attuali condizioni del Palazzo del Lavoro, in completo stato di abbandono sia esternamente che internamente

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verso una nuova funzione

necessitĂ di uso

lo spazio e il volume

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Quale? Italia ‘61 costituisce una realtà che può diventare un nodo vitale nel tessuto urbano, significativo per i modi e i tempi in cui è nato, ma anche per la sua posizione attuale: in prossimità delle direttrici stradali di grande collegamento regionale e, contemporaneamente, al centro di un quartiere densamente abitato e in trasformazione, grazie alla prossimità del Lingotto. Italia ‘61 e in particolare il Palazzo del Lavoro, potrebbero rappresentare il luogo dove l’identità recente di Torino, di città che ha saputo superare l’appellativo di città-fabbrica, possa svilupparsi ulteriormente e trovare la sua massima espressione. In tale chiave di lettura, la rilevante volumetria della struttura, una scatola di 160 metri per 160, recepita come fuori scala, e i peculiari caratteri tipologici, da limiti e ostacoli possono divenire elementi qualificanti espressione di una nuova occasione di utilizzo, o meglio di riuso. Il riuso in questo caso non è una necessità economica o uno strumento per aumentare il valore del bene, ma è l’unica possibilità per garantire la sopravvivenza di un simbolo che potrebbe solo accrescere la sua presenza, se accettato dalla comunità come spazio della collettività e della socialità. Lo studio della storia dell’edificio offre alcuni spunti sulle possibili destinazioni. Partendo dall’idea fondamentale che la sua funzione originaria (grosso contenitore per esposizioni) l’abbia ormai persa al termine dell’Esposizione Italia 61, ci rimangono le indicazioni della Scuola Professionale e di spazi liberi per le esposizioni. Quindi e necessaria una funzione e una nuova organizzazione degli spazi che ispirandosi alla precedenti non ripeta gli stessi errori. Si richiedi quindi una funzione che

sia adeguata alle dimensioni dell’edificio, che non crei quindi spazi inutilizzati; che si integri con la vita del quartiere che fin ora è rimasto escluso dal grosso edificio e dalla sua area di pertinenza; e infine che abbia la necessaria visibilità per rilanciare l’edificio e sfruttare al meglio la posizione strategica che occupa, come porta a sud della città. Oltre ad una funzione adatta e necessario un intervento che sappia esaltare al massimo il pregio del opera di Nervi. Seguendo tutte queste indicazione l’idea di una casa della musica, intesa come spazio della collettività, pare rispondere bene, mentre la forma progettuale cercherà di risolvere i problemi più pratici delle necessità di occupare il volume senza impedire la visibilità dei 16 funghi, per cui è riconosciuto il Palazzo. Nell’ipotizzare questa nuova funzione, oltre a dover fare i conti con l’immane superficie da coprire, si è anche tenuto conto delle dimensioni delle sale da musica già presenti in città. Seguendo un’ordine dimensionale troviamo l’auditorim Gianni Agnelli da 1901 posti, collocato al Lingotto, il Teatro Regio da 1592 posti ed infine l’auditorium Rai “Arturo Toscanini“ da 1.587 posti, questi ultimi collocati nel centro città. Questi tre sono gli edicifi destinati alla musica più grandi, sul piano dimensionale, della città. Ad accomunarli, oltre alla capienza, troviamo una predispozizione per la musica classica.

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memoria

riuso

colletivitĂ

verde sostenibilitĂ architettura

passato

comunitĂ storia simbolo

socialitĂ presente rigenerazione urbana 86

scatola


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confronto dimensionale Il problema con cui maggiormente ci si trovava a confronto è quello dimensionale. Solamente le misure dell’ambiente bastano a confermarlo: 160 metri per 160 trasformano l’edificio da una scala architettonica ad una scala quasi urbana. Ecco alcuni dati: 11000 metri quadri di superfice 25000 metri cubi di volume 160 m di lato 25 m di altezza 16 colonne

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piazza vittorio

colosseo

palazzo del lavoro

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casa della musica

o...Palazzo della Musica cos’è? esempi

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Cos’è una casa della musica? Dare una definizione di casa della musica non è così semplice. Infatti non esiste una definizione esatta, ma solo molti esempi di edifici destinati alla musica, che permettono di spiegare quello che è e quello che non è. Iniziamo dalla semplice analisi del nome. “Per casa s’intende una qualunque struttura utilizzata dall’uomo per ripararsi dagli agenti atmosferici e generalmente ospita uno o più famiglie e talvolta anche animali.” Questa definizione se coniugata con il concetto di musica può essere utile per dare una prima spiegazione del concetto di casa della musica, quale struttura utilizzata dell’uomo per l’ascolto e la produzione di musica, e per ospitare la collettività, intesa come estensione del concetto di famiglia. Un’altra via che si può seguire per determinare cosa sia questa nuova tipologia di “infrastruttura della collettività” è quella storica. Semplicemente, la casa della musica può essere intesa come ultimo grado di un’evoluzione iniziata nell’antica Grecia con teatri ed anfiteatri, sino alle più recenti Concert Hall, intese come sale da concerto, in cui si può assistere ad eventi, nei modi e nei tempi definiti dell’esecuzione musicale. Dove quindi lo spazio si costituisce solo degli elementi necessari alla performance, dall’auditorium stesso agli spazi per le prove, e all’amministrazione, dove quindi l’accesso è limitato. Questi stessi spazi hanno ragione di esistere solo se esiste un pubblico disponibile ad ascoltare musica e come tali devono rispondere a delle esigenze progettuali derivanti da volontà fruitive differenti nel tempo, che viaggiano dunque parallela91


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mente ai cambiamenti sociali ed economici di un’intera società. È proprio in queste ultime affermazioni, si basa la “nascita” della casa della musica, intesa come evoluzione del concetto di Concert Hall Amplificazione e apertura alla comunità, sono le parole chiave, che portano con se la necessità di inserire nuovi spazi da destinarsi all’educazione, al tempo libero, allo svago, quali ad esempio sale destinate a workshop, sale prove e di registrazione aperte a tutti, ristoranti, caffetterie, bookshop, spazi per la lettura e l’ascolto di audiovisivi, spazi espositivi e tutti quegli spazi che possono divenire occasione di incontro e socialità. Si tratta quindi di nuovi luoghi che non hanno più margini precisi, sono sistemi che variano nel tempo rendendosi autonomi rispetto da un programma mirato all’ascolto. Si basano sul concetto di provvisorietà e reversibilità, da non confondere con la reversibilità acustica legata alla polifunzionalità che demarca la nuova concezione progettuale per gli auditorium. Alla polifunzionalità si affianca il bisogno di addizionare, alle polivalenti sale per l’ascolto, nuovi spazi ricettivi per i nuovi poli musicali. Quindi questi nuovi spazi, che siano casa o parco della musica, poca differenza fa, non nascono solo per la musica, ma fanno parte di un progetto più vasto a scala urbana legato ad un più moderno concetto di macro-territorialità. In conclusione vorrei dare una mia definizione di casa della musica intesa come “una struttura veramente pubblica e democratica” che nasce all’interno di un progetto di un auditorium multifunzionale in grado di ospitare vari tipi di musica e come luogo della collettività, dove si ascolta e si produce musica, in grado di vivere intensamente tutto l’anno e dove

attività culturali e ricreative si integrano e sovrappongono. Si tratta quindi di uno spazio civico di informazione e interazione sociale, un’istituzione dedicata alla collettività e allo socialità, oltre che alla musica, che in riferimento alla rifunzionalizzazione del Palazzo del Lavoro deve soddisfare le esigenze del quartiere in cui è inserito, ma allo stesso tempo quelle della città che vi transita e tener conto che in questa situazione una nuova funzione è la necessità primaria per la conservazione di un simbolo della storia architettonica torinese.

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Esempi Per capire cos’è e come si compone una casa della musica mi sono servita di 13 esempi, elencati a fianco, che a colpo d’occhio sembrerebbero posti secondo un ordine casuale, ma così non è. Infatti, l’analisi dei singoli esempi parte da quelli, che a parer mio sono i più significativi e rappresentativi, quali la Casa da Musica di Porto e il Muziekgebouw di Amsterdam, sino a due esempi di concert hall, conosciute internazionalmente come simboli delle città in cui si collocano, e come antenati del concetto di casa della musica, quali Disney Concert Hall di Los Angeles e l’Opera House di Sydney. Altri sono stati scelti, come ad esempio la casa della musica dello studio Geza, quale esempio di rifunzionalizzazione, anche se su una scala molto più ridotta e nell’ambito di una piccola cittadina, oppure il Taichung Metropolitan Opera House per le grandi dimensioni e per l’inserimento nella città, o il Grand Canal Square Theatre and commercial development, in quanto esempio di piazza cittadina. Ho deciso di inserire anche esempi che sono solo progetti di concorso, quale l’auditorium di Padova, in quanto, insieme al Parco della musica di Roma, la casa della musica di Cervignano, e il Parco della musica e della cultura di Firenze è espressione della ricerca di spazi pubblici, destinati alla collettività, che molte città italiana stanno intraprendendo. Ed infine ho analizzato la Concert House Danish, in quanto nata sull’idea di creare un nuovo potenziale per il quartiere in cui viene inserita.

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CASA DA MÙSICA

1

MUZIEKGEBOUW

2

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA

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TAICHUNG METROPOLITAN OPERA HOUSE

4

CASA DELLA MUSICA,

5

CONCERT HOUSE DANISH,

6

GRAND CANAL SQUARE THEATRE AND COMMERCIAL DEVELOPMENT,

7

GUANGZHOU OPERA HOUSE,

8

AUDITORIUM PER PADOVA,

9

PARCO DELLA MUSICA E DELLA CULTURA,

10

studio OMA - Rem Koolhaas Porto, Portogallo studio 3XN Amsterdam, Olanda Renzo Piano Roma, Italia

Toyo Ito & Associate Taichung, Taiwan studio Geza Cervignano, Italia

Jean Nouvel Copenaghen, Danimarca Daniel Libenskid Dublino, Irlanda

Zaha Hadid Guangzhou, China studio UN Padova, Italia

ABDR Architetti Associati Firenze, Italia

11

Snøhetta Oslo, Norvegia

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Frank O. Gehry Los Angeles, USA

13

NEW OSLO OPERA HOUSE, DISNEY MUSIC CONCERT HALL, TEATRO DELL’OPERA, Jørn Utson Sidney, Australia


CASA DA MUSICA OMA, Rem Koolhaas Porto, Portogallo 1999-2005

Committente: Porto 2001

non solo musica “OMA ha concepito la Casa da Musica di Porto come un edificio solitario che si erge su una piazza dalle dimensioni più intime, circondata da tre grandi blocchi urbani” “l’edificio rileva il suo contenuto alla città… ma allo stesso tempo la città viene messa in mostra al pubblico dell’edificio” “un percorso continuo collega tutte le zone aperte al pubblico e gli spazi di risulta per mezzo di scale, piattaforme ed ascensori; l’edificio si trasforma così in un’avventura architettonica” 95


La scalinata in calcestruzzo e acciaio di accesso alla casa da musica e un manifesto della città di Porto e del Portogallo, ricco di nuove architetture

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La Casa della Musica di Porto firmata dall’architetto olandese Rem Koolhaas, vincitore del concorso di progettazione nel 1999 nasce all’interno di un ampio programma d’interventi urbanistici che hanno interessato la città portoghese divenuta, nel 2001, capitale europee della cultura. “Non una cerniera tra la vecchia e la nuova Porto, ma un incontro positivo tra due modelli di città.” Questa frase esprime bene il carattere del progetto, un preciso punto di riferimento, topografico e culturale nella vita della città. Non solo uno spazio funzionale e ricreativo, ma un luogo di socialità in rapporto dialettico con il contesto urbano, un elemento di connessione tra il passato e il presente. Dall’alto, si vede l’eterogenea urbanistica di Porto che si spinge dal mare, attraverso la città vecchia, solcata dal Douro, fino alla semidecrepitezza dell’area che circonda l’edificio. Un cimitero, abitazioni dozzinali, una pioggia di negozi ed edifici

derelitti compongono una grana grossolana e imperfetta. Contro tutto questo, la Casa della Musica emerge sia per la sua elaborata ma disadorna guaina bianca sia per il collocamento in una piazza di travertino rossastro rialzata ai margini come un tappeto sgualcito. Così da sembrare un alieno alle prese con un vibrante terreno di gioco o, forse un incompleto modello di studio, uno dei cento esperimenti di progetto visibili nello studio OMA. Se si torna alla vista dal piano strada, si resta perplessi, dal fatto che la Casa non colpisce in modo brutale e sconveniente, anzi si presenta inserita nel contesto con naturalezza, da qualunque angolo ci si avvicini si vede una delle facce mescolarsi con la prospettiva esistente. L’edificio situato su un’area di 22 mila metri quadrati, di fronte alla rotonda di Boavista trova una collocazione un poco discosta dall’anello della rotonda che lo fa risaltare ancor di più. Con questa scelta gli architetti hanno dato visi-


bilità e valore simbolico alla struttura che oggi è la nuova sede dell’Orchestra di Porto. “Parte stretto per poi allargarsi ed è scavato da più lati”, così si può descrivere con poche parole questa composizione, che può essere stata concepita solo come oggetto tridimensionale, poiché non vi è, quasi, spazio che si ripeta, e i livelli dei pavimenti procedono a zigzag da stanza a stanza. Non vi è nulla che appaia ostentato, ma tutto è convenientemente funzionale. Il lato nord della costruzione è densamente stratificato di spazi a uso tecnico, mentre il lato opposto risulta completamente vuoto. Qui si rimane stupiti dallo svettante atrio d’ingresso. Pensando a questo meteorite, e a ciò che si è detto sino a qui, è difficile immaginarvi all’interno un auditorium dalla classica forma a parallelepipedo, che idealmente contrasta con la complessità formale dell’intero edificio, ma che garantisce ancora l’acustica migliore. La scelta dello studio OMA

nasce a seguito di un vorticoso giro di visite alle migliori “concert-hall” del mondo: “il parallelepipedo è lo spazio migliore per la sala da concerti.” Nonostante questa affermazione non bisogna lasciarsi ingannare, infatti questa scatola è zeppa di aperture, fori e interruzioni. Così, piuttosto che un auditorium classico, tagliato fuori da altre possibilità di utilizzo, dalla luce del giorno, dalla luce notturna e dalla città stessa che lo circonda, lo spazio principale della Casa risulta un entità realmente porosa e aperta allo scambio, che si schiude a innumerevoli possibilità. Frutto di una scelta radicale, quelle due pareti a prima vista assenti non sono infatti altro che massicce, solide lastre di vetro corrugato, che raggiungono un‘altezza di 5 metri in un solo pannello. La superficie ondulata rappresenta la soluzione escogitata per poter utilizzate il vetro come materiale acustico: le ondulazioni deflettono il suono in modi variegati quanto basta per migliorare sensibilmente il timbro duro e secco che il vetro è solito produrre. Con quest’opera, OMA si è interrogato molto su come innovare e trasgredire la tipologia architettonica della “Concert Hall”, mantenendone però la forma classica a parallelepipedo consentendo, così alla luce solare di entrare in un ambiente dove la sensazione tipica è quella di una notte perpetua. La novità è consistita “nell’aprire le tende dopo essere rimasti seduti al buio per secoli.” Inoltre si è ridefinita la relazione tra interno e l’esterno; tra chi è fuori e chi è dentro. “L’edificio rivela i suoi contenuti alla città senza essere didattico. E allo stesso tempo la città si presenta allo spazio interno in modo mai apparso prima.” Dopo aver letto molte affermazioni di Rem Koolhaas sulla coesione tra interno ed esterno scoprire che la genesi della Casa da Musica precede di anni la realizzazione dell’edificio è sorprendente. Essa risale, stando a numerosi aneddoti, al progetto della cosiddetta “Casa Y2K”: abitazione destinata a un cliente che pare non volesse avere a che fare con la famiglia pur vivendo sotto lo stesso tetto. Viene così pensata una struttura fondata su una solida massa oblunga nella quale venivano ricavati numerosi spazi vuoti e isolati. La Y2K non si è mai concretizzata, almeno fino a quando OMA non ha iniziato a creare idee per una sala concerti a Porto: secondo lo stesso Koolhaas, è stato proprio moltiplicando per cinque la scala dell’abitazione e sostituendo spazi domestici come le camere e il ripostiglio con sale da concerti, che si è ottenuto il DNA della Casa da Musica.

Il rapporto-contrasto con la città storica di Porto. La copertura e il rivestimento del meteorite sono interrotti solo dalle grandi finestre e da una terrazza rivestita con motivo a scacchiera

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Nuovo-vecchio è il rapporto che sta alla base dell’edificio: il rivestimento con azulejos a confronto con il vetro ondulato e il cemento

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Quello creato dalla fucina che è OMA, non è un edificio che si rivolge soltanto ad un pubblico di melomani, bensì alla città nella sua interezza: forma solitaria e isolata, punteggiata da ampie finestre. All’ingresso, un’ampia e ripida scalinata costruita in calcestruzzo e rifinita in alluminio ner-

vato, conduce ad una grande porta scorrevole, inserita in una nicchia della struttura. Proseguendo all’interno del “labirintico meteorite”, oltre all’auditorium maggiore, da 1300 posti, con le pareti in legno decorato con motivi dorati, le finestre in vetro ondulato e tende semi-oscuranti tessute a mano da volontari, e un auditorium minore da 350 posti, improntato a una maggior flessibilità, poiché non ha posti a sedere fissi e il palco è mobile, con un percorso continuo di scale e passerelle sono collegati i vari servizi accessori tra cui il foyer, i ristoranti e i bar. L’interno viene quindi esplorato man mano dal pubblico attraverso questa “Promenade” che può ospitare contemporaneamente più performance. L’edificio ospita anche numerose sale prove, studi di registrazione, un’area dedicata alle attività didattiche, spazi per i solisti, spogliatoi per i membri dell’Orchestra Filarmonica di Porto e per gli artisti ospiti, un’area per la musica cibernetica e una per la produzione multimediale, uno “spazio in cui i genitori possono lasciare i bambini quando vanno ai concerti”. Tra gli elementi più caratterizzanti e peculiari troviamo sicuramente la zona vip, rivestita di azulejos, per i quali tutto il Portogallo è famoso, dipinte a mano con scene pastorali, e la terrazza, ricavata da un’incisione nella copertura e rivestita da eleganti piastrelle bianche e nere. Sottoterra è stato collocato il parcheggio, in grado di contenere fino a 600 veicoli. L’involucro sfaccettato dell’edificio, con spessore di 40 cm, costituisce l’elemento primario che garantisce stabilità ed equilibrio: il suo sistema strutturale lo sostiene e lo vincola in senso longitudinale, agendo come un diaframma interno d’irrigidimento. OMA ricorre a nuove applicazioni e nuovi materiali, senza dimenticare la tradizione portoghese. Infatti l’uso di una particolare miscela di calcestruzzo, di un vetro ondulato che appare come una cortina, si accompagna alle antiche piastrelle, reperite in loco. Al designer Maarten van Severen si deve il blocco unico di sedute regolabili della sala principale, in velluto di lana grigio-argento, dotate di LED nei braccioli, per creare uno scintillante campo luminoso. L’architetto d’interni Petra Blaisse ha ideato le undici tende in rete da pesca, velluto e voile incolori e la finitura in foglia d’oro per le pareti dell’auditorium. Gli effetti combinati della sperimentazione, dagli scopi strettamente funzionali, applicata ad ogni livello e in ogni area, danno vita ad un’unica espressione articolata, altamente coesa: una nuova visione del variegato spazio urbano contemporaneo.


MUZIEKGEBOUW AAN ‘T lJ studio 3XN Amsterdam, Olanda 2005

Committente: Municipalità di Amsterdam

il palazzo della musica “Amsterdam Muziekgebouw è uno dei primi progetti internazionali di 3NX, e abbiamo cercato di esporre l’approccio per cui siamo conosciuti in Danimarca: soluzioni su misura, con il cliente e l’utente finale al centro.” 99


Il muziekgebouw fulcro della nuova Amsterdam

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Il “Palazzo della musica” di Amsterdam, posizionato sulla punta del molo Oosterlijke Handelskade, a pochi passi dal cuore della città, è un microcosmo aperto 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, a disposizione degli amanti della musica, come di tutti i cittadini di Amsterdam che l’hanno ormai eletto uno dei luoghi di ritrovo più amati della città. Il Muziekgebouw è un nodo cruciale per il progetto di conversione del porto di Amsterdam. Situato in una penisola che ospitava depositi portuali, l’auditorium è l’edificio conclusivo di un ampio progetto di ristrutturazione del porto ad est della città ed era l’ultima parte rimasta da edificare dopo il completamento del piano di West 8 per l’isola di Sporenburg e Borneo. Il nuovo fronte sul fiume IJ si estende per oltre due chilometri ed è destinato prevalentemente a edifici per uffici. Il piano della municipalità comprendeva l’indicazione sull’altezza delle costruzioni, sull’uso dei materiali e prescrizioni specifiche per gli ultimi tre edifici: lo scalo portuale per le navi passeggeri, un hotel di lusso e infine l’auditorium. Quest’ultimo progetto, comincia a prendere corpo nel 1997, quando lo studio 3XN vince il concorso internazionale per costruire quello che diverrà il fiore all’occhiello dell’intera operazione, un edificio pubblico inteso come attrattore per il recupero dell’area e allo stesso tempo sede di due ormai

note istituzioni olandesi quali Ljsbreker per la musica moderna e BIMhuis per il jazz. L’opera supera immediatamente, per desiderio congiunto dei committenti e di 3XN, l’idea tradizionale dell’auditorium per diventare, nelle parole dei progettisti, una costruzione “veramente pubblica e democratica” con punti di attrazione quali la caffetteria, il centro di documentazione, le sale per esposizioni temporanee e le sale per l’ascolto di audiovisivi, indipendenti rispetto alle attività proposte dalle due istituzioni musicali per cui è nata. L’idea iniziale di Kim Herforth Nielsen e del suo team era quella di costruire la sala concerti destinata alla musica moderna, all’interno di un cubo di vetro, sormontato da una grande copertura, all’interno della quale dovevano essere alloggiati gli uffici e una delle più grandi biblioteche della musica al mondo, il tutto incastonato in uno zoccolo che, per precisa indicazione del piano urbanistico di Rem Koolhaas, doveva creare un elemento unificante tra l’auditorium, l’hotel e il terminal. Il parallelepipedo era inoltre secato da un altro elemento, una sala più piccola quella destinata alla musica jazz, considerato come indipendente dal Muziekgebouw. Ma in corso d’opera, soprattutto per ragioni finanziarie, la grande copertura è stata ridimensionata ed è diventata una tettoia illuminata, secondo


l’interpretazione dell’architetto una sorta di grande lampada urbana. La struttura dell’edificio è apparentemente semplice: consiste in un corpo di cemento armato che si appoggia sulla piattaforma del molo, avvolto da pareti in vetro e protetto da una copertura piatta profondamente sporgente sul lato verso canale lJ, che dà origine a una grande tettoia dove si possono riparare i visitatori che si soffermano all’aperto e si godono la vista dei quartieri settentrionali di Amsterdam. Le vetrate lasciano intravvedere il massiccio parallelepipedo di cemento della sala da concerti, lievemente inclinato verso lo sbalzo della tettoia, e infine lo zoccolo rivestito in terracotta che contiene tutti i servizi, i camerini e il garage. La sala da concerti può ospitare fino a

1000 persone ed è una tipica struttura “box in the box”, l’elemento di cemento è attentamente staccato dalla struttura interna, interamente in legno, per diminuire al minimo la trasmissione di vibrazioni. Sul fianco dell’edificio opposto alla stazione ferroviaria, accanto alla quale sorge il Muziekgebouw, una grande struttura a ponte sovrasta lo scalone esterno, che conduce ai piani superiori e permette, a chi si trova al suo interno, di avere un diverso panorama, questa volta orientato verso il centro storico della città. Il foyer, gli ampi corridoi e la sala d’ingresso, sono spesso usati per mostre di arte contemporanea inerenti alla musica o per programmi educativi e terminano in una vasta piazza sull’acqua, coperta dalla tettoia. Attraverso la vetrata, questo ampio spiazzo è il punto focale dell’intero progetto, il luogo dove la città stessa diventa una quinta teatrale, in opposizione alla confortante intimità della sala da concerti. Per leggere i dettagli e la particolare sintassi del progetto, bisogna considerare innanzitutto la funzione specifica di questo auditorium dedicato prevalentemente alla musica contemporanea. L’interesse di 3XN è stato quello di fondere il chiaro carattere portuale della struttura con la volontà di creare un luogo adatto ad ospitare l’atmosfera sperimentale della avanguardia musicale. La particolare posizione dell’Muziekgebouw è enfatizzata dall’architettura, che rende la grande costruzione un corpo apparentemente leggero, fluttuante tra il cielo e il mare del vasto canale che al contempo separa e unisce Amsterdam più antica della zona di moderna espansione urbana settentrionale. Trasparenza e giochi di luce sono i concetti chiave dell’estetica dell’edificio: l’esterno in vetro enfatizza i riflessi di cielo e mare e la luce che inonda letteralmente le diverse parti e funzioni, svelando o nascondendo grazie alla movimentazione di pareti, ambienti e scale interne, quanto appartiene alla fruizione pubblica e quanto ad un accessibilità più limitata. La cura riservata alla composizione architettonica continua nell’eleganza e semplicità dei dettagli e delle scelte dei materiali per gli arredi e rivestimenti, che esprimono anche quella sperimentalità di cui si è parlato sopra. Il legno non trattato dei pavimenti dei foyer, tipico dei ponti delle navi, associato alle pareti murarie in cemento grezzo scalda e tempera la freddezza del vetro della facciata, aiutando anche la diffusione acustica, mentre le travi di acciaio a vista della copertura, alle quali sono

Dall’esterno all’interno uno spazio aperto alla città, 24h su 24, per permettere la socialità e la conoscenza

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Il muziekgebouw nasce all’interno di un progetto di riqualificazione urbana, come possibilità di creare nuovi spazzi collettivi. Una grande tettoia metallica protegge uno spazio vetrato, che rivela, un intreccio di scale che conducono a un grande auditorium e agli spazi pubblici, quali una caffetteria, una biblioteche musicale e molto altro

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appese le scalinate e il foyer, sono ispirate direttamente alla semplicità dei magazzini portuali. L’auditorium principale è ricavato in un blocco di pannelli di calcestruzzo bianco. Le pareti della sala offrono uno stupefacente esempio dell’opera dei light designer che hanno incorporato ai rivestimenti un sistema di luci cangianti che trasformano la sala in una grande installazione luminosa. Oltre alla platea, il pubblico può occupare tre livelli di balconate, la sua scansione è riconoscibile anche all’esterno del blocco, grazie al disegno delle lastre di rivestimento affacciate sul foyer. La seconda sala da concerto destinata in modo particolare al Jazz si trova nella parte superiore dell’edificio ed è accessibile da un secondo foyer che funge anche da caratteristica caffetteria. La sala, dall’atmosfera calda e ovattata, può ospitare fino a 300 persone e riserva al pubblico la sorpresa di poter godere, qualora venga aperto un inusuale sipario che si trova dietro al palco, di una vista spettacolare su Amsterdam, grazie alla parete di fondo aperta in un’enorme vetrata. In sintonia con il carattere industriale, l’auditorium è concepito come una macchina sofisticata. La sala può aumentare fino al doppio il suo volume in considerazione delle necessità acustiche e può modificare la conformazione da completamente piatta (per eventi senza palcoscenico) fino a formare la tipica gradinata. Anche in questo caso la semplicità del disegno contrasta con un dispositivo spettacolare che consente alla sala di illuminarsi con gradazioni di colore diverse. Il rovesciamento del minimalismo attraverso l’uso sorprendente dei materiali, o l’inserimento di elementi inaspettati, è la firma degli architetti danesi e sembra essere sempre più spesso, seguendo l’esempio di Herzog & de Meuron, l’orientamento vincente dell’architettura d’inizio secolo. Il progetto del Muziekgebouw ha ricevuto molti premi e riconoscimenti di prestigio: il Ducht Building Award, l’ULI AWARD Europe, il LEAF Award, il Dedalo-Minosse Special Price e molti altri ancora. Ma il riconoscimento più importante è stato senza dubbio l’immediata famigliarità con cui gli spazi sono stai accolti e fruiti dai cittadini e dai turisti, diventando una delle attrazioni principali della città.


AUDITORIUM PARCO DELLA MUSCIA Renzo Piano Building Workshops Roma, Italia 1994-2002 Committente: Comune di Roma

gli scarabei musicali “L’architettura è l’arte di dare rifugio alle attività dell’uomo: abitare, lavorare, curarsi, insegnare e, naturalmente, stare insieme. È quindi anche l’arte di costruire la città e i suoi spazi, come le strade, le piazze, i ponti, i giardini. E, dentro la città, i luoghi di incontro. Quei luoghi che danno alla città la sua funzione sociale e culturale” 103


Tre auditorium e un grande spazio polifunzionale per la città di Roma, progettati da Renzo Piano. Tre volumi di dimensione crescente che ricordano sia nella forma, che nel rivestimento in piombo preossidato, tre grandi scarabei.

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Nel 1994 il Comune di Roma bandisce un grande concorso internazionale a inviti per la costruzione di un nuovo Auditorium, che funzionerà come un centro polifunzionale, in quanto realizzato per ospitare eventi musicali e culturali di varie tipologie. Però solo, nel 1997, si aprì il più grande cantiere pubblico italiano di quegli anni, che scosso da varie traversie, portò dopo cinque anni all’inaugurazione di due delle tre sale previste e di una parte dello spazio urbano inerente il nuovo complesso. Il

sito è straordinario, per quanto occupi un’area residuale e lasciata per anni in condizioni di abbandono: collocato tra la collina dei Parioli, e circondato da importanti opere architettoniche quali il villaggio Olimpico del 1960, il palazzetto dello Sport di Pier Luigi Nervi, lo Stadio Flaminio, lambito dall’elegante viadotto, anch’esso di Nervi, che sfocia nel monumentale, mussoliniano Ponte Flaminio. Una situazione attraente, ma sicuramente molto difficile per innestarvi tre sale da musica di diverse dimensioni, disposte a semicerchio attorno a un anfiteatro, una fascia commerciale e un grande parco pubblico. Durante gli scavi per la realizzazione del nuovo Auditorium sono affiorati alcuni reperti di età romana. Dopo quattro mesi di approfondite ricerche, svolte in collaborazione con l’università “La Sapienza”, sono emersi i muri perimetrali di una villa romana che risale al periodo compreso fra il VI secolo a.C. e il II secolo d.C., probabilmente una delle grandi residenze fuori porta di età repubblicana. La villa era sepolta sotto alcuni metri di sedimenti alluvionali e testimoniava una sovrapposizione secolare di elementi storico-archeologici. Il ritrovamento fu talmente significativo, che si decise di avviare subito il restauro della villa, inserendola progettualmente all’interno del Parco della Musica, permettendone la visione dalle vetrate del foyer. Naturalmente il progetto è stato modificato: l’inserimento dei resti della villa romana nel progetto ha prodotto una nuova configurazione spaziale e funzionale del complesso, con la modificazione dell’originario orientamento delle sale e l’apertura di uno spazio compresso tra la sala grande e la media per l’esposizione dei ritrovamenti archeologici. Il progetto di Piano prevede tre sale autonome di varie dimensioni, che ricordano la forma di uno scarabeo e sono disposte radialmente attorno a una grande piazza utilizzabile per eventi all’aperto. Le tre sale, di differente ampiezza e diversa destinazione funzionale, sono in grado di coprire tutte le esigenze musicali richieste. La sala Santa Cecilia, così chiamata in onore della patrona della musica, con 2756 posti a sedere, è posta in una posizione tale da creare un grande impatto visivo, così da esaltarne le dimensioni. Infatti, si tratta della sala di dimensioni maggiori ma anche di quella che fu acusticamente più difficile da gestire. Destinata ai concerti sinfonici per grande orchestra e coro, è caratterizzata dalla vastità del palco e dall’innovativa soluzione per la copertura del soffitto, formato


da ventisei gusci in legno di ciliegio americano, ciascuno con una superficie media di 180 metri quadrati. L’intera sala assume funzione di vera e propria cassa armonica. Attorno al palco, compresa la parte posteriore, si sviluppa una galleria con ulteriori posti a sedere, forse non favoriti acusticamente. La sala Sinopoli, in onore al direttore d’orchestra Giuseppe Sinopoli, con 1133 posti, è la mediana per dimensioni e per collocazione ed è caratterizzata da una maggiore flessibilità acustica, adattabile ai più svariati tipi di musica anche in virtù delle diverse posizioni assumibili dall’orchestra rispetto al pubblico. L’interno si presenta in modo esteticamente più sobrio, con pareti e controsoffitto perpendicolari. Una galleria si estende su tre dei quattro lati della sala. E non per ultima, la sala Petrassi, la più piccola delle sale da concerto dell’Auditorium di Roma è stata intitolata al maestro Goffredo Petrassi, dopo la sua morte nel 2003. All’epoca dell’inaugurazione era ancora nominata genericamente Sala Settecento dal numero di posti a sedere. Il repertorio a cui si dedica la sala minore è principalmente costituito da musica lirica, musica jazz, ma grazie alla possibilità di mutare sia la posizione di seduta del pubblico sia la posizione delle sorgenti sonore, grazie alla realizzazione dell’apposita fossa d’orchestra, oltre alle pareti laterali del palco semoventi, è destinata ai generi

musicali più nuovi e contemporanei, comprese le pièce teatrali e il cinema. La copertura delle sale è realizzata con travi in legno lamellare che consentono di raggiungere grande interdistanza tra i pilastri che reggono la copertura. Il legno presenta molti vantaggi: è un materiale durevole, non richiede manutenzione, poiché il suo contenuto di umidità può essere mantenuto a bassi livelli, e offrendo buone proprietà d’isolamento termico. La struttura primaria è costituita da coppie di travi in legno lamellare, collegate tra loro da giunti in acciaio nei punti dove il tetto cambia inclinazione. La struttura secondaria è formata da archi di legno lamellare, a sezione gradualmente ridotta. L’uso di un materiale tradizionale come il legno accompagna l’utilizzo, per il manto di copertura, di scaglie di piombo preossidato, lavorate semi-artigianalmente, che contribuiscono ad incrementare la sensazione di trovarsi difronte a tre grandi scarabei, con la loro forte corazza. L’acustica naturale delle sale è ottimizzata dal progettista Helmut Muller che ha isolato le tre distinte “casse armoniche” sospendendole ingegnosamente sul terreno, in modo che le vibrazioni esterne non potessero raggiungerle. Oltre alle tre sale da concerto, la struttura comprende molti altri spazi. Primo fra tutti il Teatro Studio, che, con i suoi 350 posti e il rivestimento in le-

Tre “scarabei“ posizionati attorno ad uno spazio semicircolare: la cavea con doppia funzione, quella di anfiteatro all’aperto e quella di piazza. Un luogo pieno di storia, dalla villa di età romana agli edifici realizzati in occasione delle Olimpiadi del 1960, tra cui il palazzetto dello sport e il viadotto di Pier Luigi Nervi

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Tre sale destinate a diversi tipi di musica. Sala Santa Cecilia (immagine sopra), sala Sinopoli, sala Petrassi sono gli spazi della musica del parco.

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gno, si presenta come lo spazio che può adattarsi a qualsiasi tipo di attività, dai concerti alle sfilate. In un “Parco”, che nasce al servizio della musica, non possono mancare importanti spazi, semplicemente più tecnici, che consentono di suonare sempre in condizioni acustiche ottimali, come le sale prove e le sale di registrazione. Altri elementi importanti sono il foyer che si sviluppa su un percorso anulare di oltre 150 metri, e può essere paragonato per la varietà di funzioni a un ampio spazio urbano, luogo di incontro da cui intraprendere la visita dell’Auditorium e delle sue aree espositive, o accedere alle sale da concerto per assistere agli eventi in programma; un bar; un bar-caffetteria con accesso anche dalla strada; un ristorante e una grande libreria. Inoltre il complesso ospita anche gli uffici della Fondazione Musica per Roma, che, gestisce la struttura, e dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, che, al Parco

della Musica, ha trasferito il suo intero fondo bibliotecario e archivistico, con l’apertura di una delle maggiori bibliomediateche in Italia e che ha aperto anche la nuova sede del suo museo degli strumenti musicali, che conserva ed espone la collezione di sua proprietà. Forse, l’elemento più caratteristico resta La Cavea, intitolata al Maestro Luciano Berio, che rappresenta il focus del progetto: la sua doppia funzione, di teatro all’aperto e di piazza, la rende il fulcro della nuova centralità dell’intero complesso rispetto al sistema urbano. La Cavea è diventata con il tempo un punto d’incontro, luogo sempre più inserito nel contesto urbano e ha assunto una vera e propria funzione di piazza.


TAICHUNG METROPOLITAN OPERA HOUSE Toyo Ito & Associates Taichung, Taiwan 2009 - 2013

Committente: Municipalità di Taichung e Repubblica Cinese

la caverna sonora “L’architettura invece usa quasi sempre gli angoli retti e quando non lo fa, usa le forme circolari facendo uso di una geometria elementare, di una geometria spontanea, ingenua potremmo dire. Per quanto mi riguarda, ritengo che la vita degli uomini sia stata influenzata dal mondo della natura. Più mi avvicino alla complessità del sistema naturale, più spontaneamente cerco di usare una geometria che esprima una architettura vicina al mondo della natura. Trovo questo pensiero particolarmente eccitante.” 107


Toyo Ito vince il concorso per la costruzione di un edificio destinato alla musica a Taichung. Il progetto ha richiesto molti anni di studio che hanno portato alla creazione di un complesso modello

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Il complesso che comprende teatri e attività commerciali, sarà un polo internazionale per le arti dello spettacolo. Il progetto ha vinto il primo premio al concorso internazionale del 2005, dove al secondo e al terzo posto si sono classificati rispettivamente gli studi Zaha Hadid Architects e Claus en Kaan Architecten. Attualmente in costruzione, ha richiesto tre anni e mezzo di lavoro per giungere alla definizione dei disegni esecutivi, esposti in occasione della 12. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. Il sito scelto si trova all’interno di un quartiere in fase di recupero che è destinato a divenire il cuore pulsante di Taichung, una delle principali città del centro di Taiwan. Il progetto, come da concorso, comprende tre teatri di 2009, 800 e 200 posti a

sedere, oltre ad aree commerciali, un ristorante ed un parco, il tutto su una superficie di 58 mila metri quadrati. L’intero progetto si basa su un sistema strutturale imperniato sul concetto di “griglia emergente”. Si tratta di una rete di tubi che procede ininterrotta in orizzontale e in verticale, che ha richiesto un lungo periodo di studio per essere applicato. La “griglia emergente” non è una struttura fissa, ma presenta piani flessibili capaci di adattarsi a condizioni diverse a seconda dei programmi. Lo spazio interno, che si viene a creare, ricorda una successione articolata di grotte, tant’è che Ito lo soprannominò “caverna sonora”. Quest’idea di caverna si espande con la sua rete anche sul parco esterno, creando un’armonia unificante tra il teatro e l’ambiente circostante come i marciapiedi, l’acqua e il verde. Il sistema strutturale contribuisce nel dare fluidità allo spazio, suggerendo che le arti teatrali dialogano con lo spazio, associando l’utilizzo del corpo, della musica, dell’arte e della performance. Lo spazio accoglie i visitatori come una struttura aperta e un antro in cui i visitatori sono avvolti da esperienze sensoriali acustiche. Tale spazio collega le varie funzioni ospitate dall’edificio. Dal parco si accede alla struttura ed il verde continua idealmente all’ultimo piano dell’edificio, dove ha sede un grande giardino. L’esterno si presenta come un network di verde ed acqua, attorniato da un insediamento urbano ad alta densità. L’accesso principale al teatro è posto al termine di un asse verde, che collega il New City Council e altri edifici di governo. Ma la struttura ha più di un prospetto, per cui i visitatori possono accedere al network labirintico da diversi


lati. Le facciate in gran parte sono trattate come sezioni ed i flussi verticali sono esposti in facciata, contrapposti ad aree tamponate e cosparse di piccole aperture. Il processo progettuale e la ricerca di nuove soluzioni spaziali sono predominanti e rappresentano l’attuale fase di pensiero di Ito. La genialità applicata alla struttura è stata accompagnata da un attento studio del rapporto edificio-ambiente, che ha condotto all’utilizzo di sistemi innovativi, difficili da applicare ad un edificio di queste dimensioni e forma. Il riciclo delle acque piovane e delle acque reflue è la prima delle strategie bioclimatiche applicate all’edificio. Infatti l’acqua piovana che cade sulla superficie del tetto, di grandi dimensioni, sarà raccolta e filtrata per l’irrigazione della vegetazione, mentre le acque reflue della struttura saranno mandate in un bacino di depurazione, e poi riutilizzate come un approvvigionamento di acqua intermedio per esempio a fini di servire servizi igienici. Segue l’uso di materiali eco-compatibili, infatti la maggior parte di essi sono riciclabili, contribuendo in tal modo alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Non per ultimo, si è regolato l’ambiente circostante per ottimizzare il risparmio energetico. Infatti è fondamentale organizzare l’ambiente esterno aumentando il verde, creando spazi di ombra, e utilizzando il calore latente di evaporazione dell’acqua. Il Taichung Metropolitan Opera House sarà un opera innovativa sotto molti punti di vista. Pensando solo alla struttura, dalle impressionanti forme curve, diventa difficile immaginare che sarà la sede del Gran Teatro da 2009 posti, della Playhouse da 800 posti, della Black Box da 200 posti, che costituisce un ambiente intimo, adatto per un piccolo teatro, creato su basi sperimentali. Questi tre grandi ambienti sono collegati tra loro da altri ambienti tra cui, oltre al foyer e al ristorante, vari laboratori d’ar-

La casa della musica Taichung metropolitan opera house ad opera di Toyo Ito, come visibile nell’immagine sopra è ancora in costruzione. Ma è possibile capire la complessità della struttura, dalle immagini del modellino (a fianco) esposto in occasione della Biennale di architettura di Venezia del 2010. Volumi che si intersecano e si sottraggono in successione creando però lo spazio per un grande auditorium e per molti spazi con finalità sociale, dove la collettività può esprimersi

te, un “mercato dell’arte”, sale conferenze, gallerie e non per ultimo un giardino in copertura. 109


CASA DELLA MUSICA GEZA Cervignano del Friuli, Italia 2010-2011

Committente: Municipalità di Cervignano del Friuli

da muto a musicale “Una nuova funzione per un vecchio fabbricato: un’autorimessa per autobus. Rappresenta allo stesso tempo un tema progettuale e tecnologico, ma anche il valore poetico dell’intervento” “Un nuovo edificio nasce all’interno di quello esistente contenendo in sé tutte le soluzioni strutturali e tecnologiche necessarie. Esso non tocca la vecchia struttura, che rimane visibile e acquista valore dal nuovo confronto” 110


Nel centro di Cervignano del Friuli, un edificio in mattoni, adibito in passato a rimessa per autobus e da tempo abbandonato, viene identificato dallo studio Gri e Zucchi Associati, in seguito ad un incarico affidatogli dalla committenza comunale, come l’opportunità adatta per la nascita di uno spazio comunitario, che sin da subito risulti famigliare ai cittadini e che possa essere quindi essere utilizzato a fondo. Nasce così un progetto di riuso, restauro e ristrutturazione. Ma, poiché restaurare non significa ripristinare un passato che non ha più senso di esistere, al corpo edilizio, nonostante fosse parte della storia industriale del luogo, non poteva essere restituito la funzione originale. Quindi viene affidata la nuova funzione di “Casa della musica”, che oggi ospita, su una superficie di 750 metri quadrati, spazi di aggregazione pubblica e ristoro, spazi per le prove e l’insegnamento della musica, per esposizioni, per spettacoli e conferenze, oltre a uno studio di registrazione. L’edificio preesistente, un capannone-deposito a pianta quadrangolare e copertura a due falde, vie-

ne profondamente rinnovato per accogliere attività culturali e performative: il progetto individua un articolato meccanismo di trasformazione, che coniuga le parziali conferme nella struttura, nei materiali, nella forma dell’edificio con significative integrazioni e nuove configurazioni. Si conferma l’ingombro planimetrico, si mantengono i pilastri in muratura dislocati sul perimetro e alcuni interni, parti del paramento murario esterno in mattoni a vista, in

Una casa della musica per una piccola cittadina friulana, come occasione per creare uno spazio della collettività e ridare vita ad un edificio storico

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Cinque nuovi volumi si innestano nella preesistenza avanzando la facciata e distaccandosi da essa per materiale e colore.

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particolare nella facciata cieca verso sud. L’intervento di recupero diviene quindi un’opportunità per sfruttare un linguaggio contemporaneo per la creazione di uno spazio polifunzionale. L’intervento s’inserisce all’interno dell’edificato originario, sconvolgendone la morfologia, con l’utilizzo di elementi contemporanei che permettono all’architettura di colmare il forte gap creatosi con il tessuto urbano. Il progetto prevede la realizzazione di due piani all’interno dell’edificio originario, che non presentava solai intermedi tra la pavimentazione e la copertura. La struttura in mattoni è stata conservata e riutilizzata per il sostegno della copertura, mentre una nuova struttura indipendente in cemento armato ha reso possibile la configurazione del nuovo spazio interno, garantendo le necessarie prestazioni acustiche. Tale struttura è costituita al piano terra, pavimentato in calcestruzzo levigato finito al quarzo, da quattro sale separate, insonorizzate ed attrezzate per prove e registrazioni musicali, che si configurano come blocchi volumetrici autonomi, e che modulano lo spazio e lo contrassegnano con vivaci

variazioni cromatiche. Il profondo corridoio distributivo diviene così uno spazio articolato, utilizzabile anche come luogo espositivo per la favorevole luce naturale omogenea, che proviene dall’adiacente parete a nord, ma soprattutto come il luogo centrale d’incontro e relazione fra le persone, dove è possibile godere anche di una caffetteria. Mentre al primo piano, pavimentato in parquet industriale di rovere, lo spazio multifunzionale per registrazioni, concerti e conferenze è l’elemento conclusivo del percorso: la sala, fornita dei necessari accorgimenti acustici, mostra l’andamento a falde della copertura, con la mediazione di una rete stirata in acciaio zincato che riveste l’intradosso. Si accede al primo piano attraverso uno spazio a doppia altezza, con la parete sud e il soffitto in cartongesso a moduli sfalsati: l’elegante scala si appoggia alla parete in cemento a vista, con parapetto in lamiera; una passerella con parapetto in acciaio e vetro conduce alla sala concerto, con 100 sedute. “Un nuovo edificio nasce all’interno di quello esistente, contenendo in sé tutte le soluzioni strutturali e tecnologiche necessarie.


Esso non tocca la vecchia struttura, che rimane visibile e acquista valore dal nuovo confronto.” Infatti l’intervento inserisce le nuove funzioni integrandosi alla struttura preesistente, introducendo nello stesso tempo un’effettiva trasformazione architettonica, nella forma e nell’uso degli spazi. Il prospetto verso nord, quello rivolto alla città, assume un importante accento, nel processo di connessione fra persistenze materiche e nuovo intervento: le ampie vetrate a bassa emissività forniscono luce naturale agli spazi interni del piano terreno e del primo piano, lasciando scorgere la polivalenza funzionale e la pluralità degli ambienti a varie colorazioni; le vetrate, che ricordano cinque bow-window, sono inquadrate in una cornice di rilevante valore architettonico, che occupa completamente l’interasse fra i pilastri in muratura e sporge dal filo di facciata, rivestita in lamiera d’acciaio nero e che è mitigata dallo sfondo della muratura storica. Il tetto a falde, con manto in coppi di recupero e con travi in legno, è stato ricostruito e disposto con una pendenza leggermente maggiore, in modo

da consentire l’inserimento del solaio per il primo piano ed è quindi più alto di quello originario. La struttura in mattoni sorregge il manto di copertura, inquadra l’ingresso, posto su uno dei lati corti e sottolineato da un elemento in calcestruzzo a sbalzo, richiama la memoria costruttiva del paese, dialoga senza mimetismi con un interno in calcestruzzo sempre monolitico e sempre faccia a vista. “Una nuova funzione, luogo della musica, per un vecchio e muto fabbricato, una autorimessa per autobus abbandonata, rappresenta allo stesso tempo un tema progettuale e tecnologico, ma anche il valore poetico dell’intervento”. Per quanto riguarda l’aspetto energetico, gli impianti sono stati dimensionati in accordo con l’amministrazione comunale, la cui era quella di seguire un principio di “sostenibilità integrata” in grado di connettere tra loro le diverse realtà pubbliche: a Cervignano tutti gli edifici pubblici sono controllati secondo un Progetto integrato e un Programma unico in quanto la domanda di energia di ogni singolo edificio pubblico, in orari e per giorni diversi, potrebbe condizionare le risposte degli altri fabbricati. Da qui la scelta di sperimentare l’idea di una sostenibilità integrata che guardi alla città e ai suoi diversi servizi come a un unico corpo. Questo progetto dello studio GEZA, che sa saputo integrare l’esistente con una nuova funzione in stile contemporaneo, viene alla ribalta nel 2011 in seguito alla candidatura al premio Van Der Rohe.

Il colore diventa la trama, il filo conduttore che definisce gli spazi. Colori vivi definiscono le sale di registrazione, quelle di prova e la cafetteria

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KONCERTHUSET

Jean Nouvel Copenaghen, Danimarca 2002-2009

Committente: Danmarks Radio

misterioso, mutevole e musicale “l’architettura è come la musica, che ci fa muovere e ci delizia.” “Sarà un volume, un parallelepipedo misterioso che cambia sotto la luce del giorno e della notte, il cui interno si può solo immaginare. Di notte il volume prenderà vita con immagini, colori e luci, espressione di una intensa vita interiore.” “L’interno è un mondo a sé.[…] Si tratta di un mondo di contrasti e di sorprese, un labirinto, un paesaggio interiore.” 114


Un edificio per la musica, che dimostra le consonanze tra architettura e musica. La Concert House Danish Radio è un paradigma del pensiero progettuale di Jean Nouvel, vincitore del premio Pritzker proprio a seguito di questa realizzazione, in cui si rendono evidenti le interrelazioni fra le diverse componenti dell’edificio, i rapporti fra i vari gradi di realtà dell’architettura: ciò che appare all’esterno, ciò che si incontra nel viaggio di scoperta all’interno del volume architettonico, ciò che si immagina, ciò che si dimostra realtà. Stati d’interpretazione che si sommano e definiscono un luogo d’architettura, mutevole come la luce, risonante come uno strumento musicale, molteplice come i punti di vista dell’osservazione e dell’esperienza. In un settore periferico di Copenaghen in via di sviluppo, che mostra un paesaggio urbano standardizzato, formato da insediamenti residenziali, commerciali e per uffici, e con la presenza di reti ferroviarie, il progetto inserisce un’attrezzatura urbana d’alta qualità, con sale per concerti pubblici e prove e gli uffici di produzione della Radio Danese. “Costruire nei quartieri emergenti è un rischio che si è spesso dimostrato fatale negli ultimi anni, quando non ci sono aree edificate su cui fondare il nostro lavoro, quando non siamo in grado di valutare il potenziale futuro di un quartiere, dobbiamo capovolgere la domanda: quali sono le qualità possiamo portare a questo in futuro? Siamo in grado di rispondere positivamente ad una incertezza utilizzando il suo attributo più positivo, cioè, mistero. Mistero non è mai lontano dalla seduzione, quando l’ambiente circostante è troppo neutro dobbiamo creare una transizione, una distanza tra loro, e noi, non come un rifugio in noi stessi, ma come un mezzo per creare le condizioni che permettano un a determinato territorio di fiorire. In altre parole, abbiamo bisogno di portare valore al contesto, qualunque essa sia. Per questo dobbiamo stabilire una presenza, un’identità. Propongo di materializzare il contesto con la creazione di uno straordinario edificio urbano nel rispetto della disposizione prevista del sito.” Da queste affermazioni è chiara la soluzione architettonica scelta da Jean Nouvel. In questo luogo in divenire, s’indirizza ad affermare “a priori una presenza, un’identità”: il progetto servirà a “materializzare il territorio”, l’intervento architettonico si porrà ad una scala superiore, fornendo un’attrezzatura urbana che costituisce la qualità, attraverso la sua eccezionalità. L’architettura della

Concert House agisce secondo parametri complessi, che indagano la consistenza materiale e

Una scatola blu nella città di Copenaghen

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Tre sale destinate a diversi tipi di musica. Sala Santa Cecilia (immagine sopra), sala Sinopoli, sala Petrassi sono gli spazi della musica del parco

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visiva della costruzione, innervando relazioni fra realtà e figurazione: elementi costanti del ragionamento progettuale, per definire linee che lo stesso Jean Nouvel attribuisce a nuclei di valutazioni e di scelte che inglobano i termini del “mistero” e della “seduzione” in architettura. Termini senza tempo, espressioni di una modernità che attraversa le epoche al di là degli stilemi e delle conformazioni, dell’ordinamento per schemi del pensiero progettuale. L’edificio s’inserisce in questo paesaggio urbano in trasformazione come un punto fermo e calibrato. “Sarà un volume, un parallelepipedo misterioso che cambia sotto la luce del giorno e della notte il cui interno si può solo immaginare. Di notte il volume prenderà vita con immagini, colori e luci, espressione di una intensa vita interiore”. Si tratta quindi, in altre parole, di un parallelepipedo colorato, la cui densità materica si sfuma attraverso un diaframma a doppia pelle. Uno schermo di materia e trasparenza, il rivestimento esterno simile ad un prezioso tessuto che trasmette in filigrana sagome e luci, la parete interna in vetro con l’evidenza delle controventature quasi incastonate come decorazioni: la tecnologia diviene espressione figurativa, essenza dell’architettura che deve lasciar trasparire un interno vitale, differenziato e complesso, un mondo da raggiungere e di cui sorprendersi ancora, immedesimandosi in un percorso di conoscenza che si viene a suggerire. Luce che varia durante il giorno e luce artificiale renderanno percepibile in misura diversa questo universo interno, nascosto e reale, anticipato dalla permeabilità visiva del perimetro geometrico della Concert House. E, dall’interno, dal foyer disposto come una piazza coperta, si avrà una visione sfumata della città: la permeabilità opera in modo biunivoco e fa parte della ricerca di un pieno senso urbano da riprodurre in un edificio che non corrisponde soltanto ad una collocazione funzionale di sale per musica, ma aspira ad esser considerato una porzione vera di città, con i suoi colori, i materiali, le luci differenti che si colgono all’interno, un ambiente complesso che simboleggia la città. Infatti, “l’interno è un mondo a sé, complesso e diversificato Una strada interna fiancheggiata da negozi segue il percorso del canale urbano. Un ristorante e un bar sono dominati da una piazza coperta, un grande volume vuoto rivestito con scaglie di legno, che ricordano la “pelle” dei rettili. Si tratta di un mondo di contrasti e di sorprese, un labirinto, un paesaggio interiore. Da

un lato, il mondo dei musicisti, con cortili, terrazze esterne, e vegetazione, dall’altro, il mondo pubblico con gli spazi di collegamento tra le diverse sale di spettacolo (foyer), il ristorante, e la strada. La figurazione supera l’astrazione, l’effimero completa il permanente. Le facciate sono filtri diafani dalle opinioni lontane della città, il canale e l’architettura circostante. Di notte, le facciate fungono da schermi per la proiezione d’immagini. L’architettura si afferma attraverso i dettagli - porte, illuminazione, soffitti e scale - una testimonianza di rispetto per i visitatori dell’edificio e per gli artisti. Ogni luogo diventa una scoperta, ogni dettaglio un’invenzione: lezioni apprese da una particolare architettura che non dobbiamo dimenticare. L’architettura è come la musica, che ci fa muovere e ci delizia.” Le pareti in calcestruzzo a vista suggeriscono


volumi edilizi “abitati”, l’evidenza dei corpi scale simula la presenza di sculture urbane, le serpentine luminose al soffitto tracciano geometrie spezzate e concitate, pannelli colorati si assestano sulle pareti interne, la segnaletica appare articolata per un luogo in cui gli itinerari possibili si assommano. La finitura delle pareti interne ed esterne in calcestruzzo a vista ribadisce l’espressività tecnologica: la superficie è segnata da rilievi e linee, componendo un tracciato di graffiti d’ordine casuale. La specializzazione funzionale dell’edificio, luogo per la musica, propone una compresenza di sale con proprie caratteristiche: la grande sala per concerti da 1800 posti, la sala per musica da camera e piccoli complessi orchestrali dotata di 550 posti, la piccola sala per “musica ritmica” con 350 posti, la sala per musica corale con 350 posti. Differenti condizioni acustiche e differenti configurazioni architettoniche. La grande sala da concerto è come un’imponente conchiglia che si situa una decina di metri al di sopra del piano terreno, e la cui sagoma di copertura risalta attraverso la trasparenza dello schermo perimetrale dell’edificio. Il legno domina su pavimenti e pareti, componendo elementi curvilinei come onde; i settori del pubblico si assestano su più livelli, orientandosi sul palcoscenico per l’orchestra posizionato al centro della sala, quasi fossero pendici a terrazze di un “vigneto” musicale, secondo l’espressione metaforica dello stesso Jean Nouvel. Il foyer principale attornia la grande sala da concerto, dal piano su cui incombe, quasi fosse sospeso, l’intradosso della sala fino a raggiungere i livelli più elevati per accedere a tutti i settori per il pubblico. Le altre sale sono situate al livello inferiore dell’edificio. La sala per piccoli complessi orchestrali è rettangolare, pareti e pavimento dai toni chiari, la pedana per i musicisti a semicerchio con minimo rilievo rispetto al resto della sala: alle pareti, ritratti di 39 personaggi del mondo musicale, solisti e compositori, appaiono riprodotti in bianco e nero, “stampati” con tecniche vettoriali sui pannelli in legno. La sala per “musica ritmica” è flessibile nell’utilizzo, non vi sono suddivisioni prefissate, pubblico e musicisti sono allo stesso livello, sul pavimento in legno di rovere: l’ambiente è spartano, le pareti nere alternano pannelli di differenti dimensioni, opachi e lucidi, le aperture finestrate offrono fonti improvvise di luce. La sala per cori, d’uso flessibile, è dominata dalle gradazioni delle tonalità del rosso dei pannelli alle pareti. Il settore degli uffici per la produzione e documentazione

dell’attività della Radio Danese è composto di spazi di grandi dimensione situati nel lato nord della Concert House e occupano una superficie di 2700 mq, su un totale di 25000 mq di superficie utile dell’intero complesso. 117


GRAND CANAL SQUARE THEATRE AND COMMERCIAL DEVELOPMENT Daniel Libeskind Dublino, Irlanda 2004-2010

Committente: Ramford Limited, Chartered Land

luogo d’incontri, d’affari e di musica “Un grande edificio, proprio come la grande letteratura o la grande musica, può raccontare la storia dell’animo umano.” “[…]non volevo soltanto creare qualcosa che riflettesse l’energia e la vitalità di Dublino, ma volevo dare vita a una presenza di elevata potenza culturale della città.” 118


Il Grand Canal Square Theatre and Commercial Development, noto anche come Bord Gáis Energy Theatre and Grand Canal Commercial Development, è un nuovo centro culturale e commerciale sorto nel cuore di Docklands, a Dublino, in Irlanda. Progettata da Daniel Libeskind nel 2004, a seguito di un concorso internazionale, è stato inaugurato a marzo 2010 nella parte del teatro e ancora in costruzione nei 375 mila metri quadrati destinati ad uffici e spazi commerciali. L’obbiettivo di questa nuova struttura è quello di essere un importante luogo di cultura in quell’area della città, espressa attraverso volumi assai dinamici, concepiti per dare origine a un dialogo pubblico, fluido e trasparente, con i dintorni culturali, commerciali e residenziali. Il Grand Canal Theatre con i suoi 2000 posti e 148.000 metri quadrati è al centro dello sviluppo Grand Canal Harbour, un movimento per rivitalizzare la zona portuale della vecchia Dublino, che oggi rappresenta il punto di riferimento dell’intero contesto e una calamita per cittadini e turisti. La sua struttura architettonica si basa su un insieme di più “palchi”: quello del teatro stesso, quello della piazza e quello dei diversi atri che si affacciano sulla piazza stessa. Il teatro diventa così la principale facciata della grande piazza pubblica, su cui si affacciano anche un hotel a 5 stelle, residence da un lato e uffici dall’altro. La piazza funge da grande atrio all’aperto per il teatro, diventando anch’essa palcoscenico d’incontri tra i cittadini. Dalla terrazza sul teatro, si gode di una vista spettacolare su tutto il porto di Dublino. Il teatro è integrato nel centro commerciale, che presenta due edifici gemelli a loro volta integrati negli adiacenti spazi residenziali, culturali e pubblici. Al centro commerciale si accede attraverso tre ingressi: uno dal Grand Canal Square, l’altro da Misery Hill e l’ultimo da Cardiff Lane. Il progetto nel suo complesso costituisce un interessante tempo di connessione tra il molo Liffey e Grand Canal Square. La galleria e l’atrio, che si affaccia sulla piazza, creare grandi spazi interni pubblici, che completa lo spazio aperto pubblico di fronte al porto. Oltre alla piazza antistante, il teatro è affiancato da due edifici galleria che forniscono spazi espositivi e allo stesso tempo ambienti per uffici e negozi, e da cortili con caffetterie e ristoranti, che fungono anche da ingressi aggiuntivi e da collegamenti per le attività del teatro e per l’attività della vita dei cittadini negli edifici Galleria. 119


“L’insieme architettonico si costituiscencome un’icona che rispecchia la gioia e il dramma presenti insieme, emblematicamente, nella città di Dublino. Il progetto del Grand Canal Square intende arricchire lo sviluppo della struttura urbana del Grand Canal Harbour attraverso un esaltante punto di riferimento pubblico, come fosse un polo d’attrazione per i suoi cittadini, che hanno così la possibilità di fare shopping, divertirsi, ma anche vivere e lavorare 24 ore su 24, 7 giorni la settimana.” La piazza, enorme, con un tetto aperto, si ispira a piazza Unità d’Italia di Trieste e piazza San Marco a Venezia e presenta una passerella di colore rosso tutta illuminata, oltre che aiuole verdi poligonali sempre illuminate, con vista sulla baia di Dublino. Si tratta della più grande piazza pavimentata di tutta la capitale irlandese. “Dublino” afferma ancora Libeskind” è sempre stata una delle mie città preferite da visitare. Mentre stavo progettando il nuovo Grand Canal Square Theatre, non volevo soltanto creare qualcosa che riflettesse l’energia e la vitalità di Dublino, ma volevo dare vita a una presenza di elevata potenza culturale della città. Davvero credo che il progetto diventerà una destinazione mitica nel Grand Canal Harbour.”

Il Grand Canal Square Theatre si basa sull’idea di una sovrapposizione di palchi: quello del teatro stesso, quello della piazza e quello dei diversi atri che si affacciano sulla piazza stessa

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GUANGZHOU OPERA HOUSE Zaha Hadid Guangzhou, Cina 2003-2011

Committente: Municipalità di Guangzhou e Repubblica Cinese

due sassi musicali “La sua forma unica a due massi valorizza la funzione urbana della struttura con il suo libero accesso al lungofiume dialogando al tempo stesso con la nuova città in sviluppo.” “Il progetto è stato sviluppato partendo dallo studio del paesaggio naturale circostante, dall’affascinante interazione tra architettura e natura, dai principi di erosione, geologia e topografia.” 121


A Guangzhou, due sassi si affacciano sul fiume e nascondono il nuovo centro musicale della città

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A Guangzhou, sulla riva del Fiume Pearl, il tanto atteso teatro dell’Opera di Zaha Hadid ritaglia un sorprendente profilo negli ex magazzini del porto di questa frenetica città cinese. Il teatro dell’Opera sorge nel cuore del complesso culturale, che comprende anche la Canton Tower dello studio Information Based Architecture, e si presenta come l’elemento di congiunzione, che unifica gli adiacenti edifici culturali con le torri della finanza internazionale nella città. La Guangzhou Opera House si presenta “come due sassi di fiume levigati dallo scorrere dell’acqua, e si trova in perfetta armonia con il paesaggio fluviale circostante. La sua forma esalta la relazione tra città e fronte riva. Inoltre la struttura crea comunicazione tra gli edifici culturali adiacenti e le torri della finanza internazionale nel nuovo distretto di Zhujiang”. “Il progetto è stato sviluppato partendo dallo studio del paesaggio naturale circostante, dall’affascinante interazione tra architettura e natura, dai principi di erosione, geologia e topografia. Linee avvolgenti definiscono spazi e zone all’interno del Teatro dell’Opera, creando accattivanti percorsi interni ed esterni all’edificio, che ricordano i canyon creati dalla potenza fluviale nelle valli locali. Inoltre questi itinerari permettono alla luce naturale di giungere fino alle funzioni più remote dell’edificio. La complessità del paesaggio circostante è ‘omaggiata’ anche attraverso l’insieme di transizioni uniformi tra elementi architettonici eterogenei, alcuni dei

quali in gesso modellato e rinforzato con fibra di vetro”. La struttura di 7.000 metri quadrati, costata 77 milioni di euro, è suddivisa in due corpi principali, che fanno da collegamento a due teatri d’opera adiacenti e ai siti museali, che costituiscono questa parte della città di recente costruzione, e da volumetrie minori create da quelli che la stessa Zaha Hadid definisce come “canyon”. Una volta entrati in un grande spazio di collegamento, una sorta di piazza interna, ci si può dirigere verso il primo blocco, quello di maggiori dimensioni, dove troviamo, dopo alla grande lobby d’ingresso, l’auditorium del Teatro dell’Opera da 1.800 posti, realizzato con le più avanzate tecnologie acustiche, e sulla parte anteriore tutti gli spazi destinati alla preparazione delle performance, dai camerini, passando per sale prove, agli uffici. Se invece si sceglie il blocco minore, ci si trova nuovamente in una lobby che da accesso al grande ristorante e alla sala minore, da 400 posti, collocata al secondo piano, progettata per performance art, opera e concerti a tutto tondo.


Negli spazi esclusi dai due blocchi, e di minore grandezza è possibile servirsi di una caffetteria, di un gift-bookshop e di sale conferenze. Il design, come già raccontato dalle parole dell’architetta, si è evoluto dai concetti di un paesaggio naturale e da un suggestivo gioco tra architettura e natura, che coinvolge l’involucro esterno, in certo qual modo muto e pietroso nelle sue sfumature di grigio argenteo, mentre gli interni appartengono decisamente all’altra estremità dello spettro. Le pareti della sala principale sono fragorose fasce dorate punteggiate da luci sparse. I corridoi sono una spettacolare composizione di vetrate a tasselli triangolari e fluttuanti fasce di calcestruzzo. Liu Xiaolu, portavoce dell’opera di Guangzhou, ha dichiarato al New York Times: “La scena culturale, fino a poco fa relativamente ristretta, qui è cambiata rapidamente. Prima c’erano solo Pechino e Shanghai. I più importanti spettacoli internazionali, di lirica o di musica pop, ci passavano sopra la testa e andavano dritti a Hong Kong. È

che ci mancava proprio il posto per ospitarli. Non avevamo nemmeno un palcoscenico abbastanza grande da contenere tutti i cigni del Lago dei cigni. Adesso è il momento di Guangzhou”. L’edificio è stato aperto per alcune manifestazioni: nei primi due mesi il teatro ha allestito tre opere complete, tutte molto attese, e la prima è stata la Turandot di Puccini. Uno dei tenori della compagnia di canto di quest’opera ha confermato ai giornali la qualità della sala. “La sala di per sé è grande, e tuttavia dà una sensazione di intimità. Va anche detto che l’acustica è fantastica: non troppo secca e non troppo squillante”. L’edificio segna la scelta di Guangzhou come sede dei Giochi asiatici, e i milioni di dollari investiti nei preparativi, compreso un nuovo museo cittadino e un quartiere dall’aspetto interamente nuovo, sottolineano l’ambizione della città non solo di intercettare turisti e denaro dai suoi vicini del delta del Fiume Pearl, Hong Kong e Shenzhen, ma di diventare essa stessa una città asiatica di prima importanza.

Un grande complesso solcato da canyon che definiscono due volumi e permettono alla luce di raggiungere anche gli spazi più remoti. La luce è l’elemento conduttore

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AUDITORIUM DELLA CITTA’ DI PADOVA Studio Un, Van Berkel Padova, Italia 2006, progetto di concorso Committente: Municipalità di Padova

ventaglio sonoro “il desiderio di progettare un edificio in rapporto con la musica è una costante.” “ci sembra opportuno comunicare attraverso l’architettura che si tratta di un edificio in cui vive la musica e dove vivrà la comunità.” 124


Il progetto di un Auditorium multifunzionale in grado di ospitare vari tipi di musica e il centro culturale e sociale di riferimento per l’intera città di Padova e per il territorio del nord-est nasce per volere della Municipalità padovana nel 2006 con un concorso internazionale di tipo ristretto a cui hanno avuto accesso 10 studi. La finalità del concorso era quella di realizzare un progetto che doveva prevedere la realizzazione di due sale concerti, una da 1.300 posti ed una da 350 posti utilizzabili anche per ospitare congressi ed eventi culturali. Si richiedeva quindi un luogo della collettività, dove si ascolta e si produce musica, in grado di vivere intensamente tutto l’anno e dove attività culturali e ricreative si integrano e sovrappongono. L’area d’intervento è quella situata nel cuore del cluster monumentale dei Giardini dell’Arena, e il suo paesaggio, ai margini del centro storico e adiacente al Canale Piovego, che collega Padova con Venezia, suggerisce le forme e i caratteri ai progetti. Ad essere attratti dal luogo e dal tipo di intervento sono molti progettisti, tra i più celebri troviamo David Chipperfield, Odile Decq – Benoit Cornette, Arata Isozaki Associati e lo studio UN di Ben Van Berkel. Ad essere dichiarato vincitore è stato il progetto di uno dei soli due studi italiani finalisti: quello dello studio Cecchetto e associati che nonostante siano passati ormai sei anni, ancora attende di poter realizzare il sogno, tanto sperato, di un auditorium, e soprattutto di uno spazio per la collettività e per la città di Padova. Dei dieci progetti finalisti a parer mio quello dello studio UN, escluso per i troppo alti costi di realizzazione, risulta quello con la maggiore contestualizzazione, infatti con la sua forma a ventaglio stabilisce coerenza visiva con l’ambiente circostante. All’incrocio tra via Trieste e via Gozzi, il complesso si dispone ad angolo retto e propone ardita sovrapposizione a sbalzo su uno degli edifici vincolati, questa scelta progettuale permetta di affermare la presenza dell’auditorium anche sul fronte nord e di armonizzare la scala delle preesistenze storiche con il tessuto urbano più recente. Per i due edifici vincolati è ipotizzato un restauro dii tipo conservativo: il primo verso est, pur mantenendola sua identità è completamente “inglobato” nel progetto, il secondo rimane invece totalmente indipendente anche in termini funzionali. A sud-ovest il complesso propone la rotazione del volume della sala principale, ponendola in allineamento con la Cappella degli Scrovegni. L’angolazione tra

i due volumi e la concentrazione del complesso sull’angolo a nord permette di lasciare un ampio spazio aperto verso il parco: un landscape artificiale interamente percorribile plasmato secondo una serie di curve sinuose che organizzano l’entrata secondaria dell’auditorium con l’ingresso alla mediateca, al centro educativo e al teatro all’aperto. Nel complesso si possono riconoscere tre settori principali: il Backstage Tecnico all’anglo nord-est, il Programma Istituzionale lungo i fronti sud, est

Progetto dello studio UN partecipante al concorso internazionale per l’auditorium di Padova. Ha visto la partecipazione dei più importanti studi di architettura

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e nord dell’Auditorium e il Programma di Sevizi al Pubblico attorno a un ampio foyer centrale. Quest’ultimo si trova in corrispondenza del punto di incontro tra le geometrie del landscape e quelle del volume che accoglie i due auditoria ed è caratterizzato da un grande lucernario, dalla grande scala che porta al foyer della sala piccola e da uno dei grandi pilastri che formano il grande arco di sostegno delle coperture. Il foyer della sala principale è distribuito verticalmente su tre livelli con accesso diretto a tutti i settori, interconnessi da ascensori e da una scala a sviluppo spiraliforme, la cui curvatura genera la geometria dei pieni dei vuoti, favorendo connessioni visive dinamiche della persone del foyer e riproponendo l’esperienza teatrale di sguardi e movimenti. La sala principale è concepita come una struttura alveare di palchi in due ordini di balconi aggettanti: i palchi centrali sono orientati in posizione frontale rispetto alla scena, i palchi laterali secondo la linea di angolazione visiva, disposizione che consente di avere una distanza massima di 32 metri dal palcoscenico, proporzione che favorisce il massimo coinvolgimento della spettatore. Il soffitto al di sopra del palcoscenico è concepito come uno schermo riflettente inclinato, dotato di elementi fonoassorbenti triangolari rotanti con tre diversi tipi di superficie, aventi lato lungo 60 centimetri. Grazie a questi elementi rotanti si ottiene il sistema di acustica variabile, con regolazione di diversi tempi di riverbero. Le sale da concerto presentano una struttura di cemento armato che segue l’andamento architettonico curvo degli ambienti interni e che sostiene la copertura, interamente realizzata in travature reticolari. Progetto di concorso per l’auditorium di Padova, un serpente che si affaccia al fiume inglobando un edificio preesistente. Due grandi finestre continue ad occhi nascondono una spazio solcato da scalinate che conducono ai due auditorium.

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PARCO DELLA MUSICA E DALLA CULTURA ABDR Architetti Associati Firenze, Italia 2008 – 2011

Committente: Presidenza del Consiglio dei Ministri

tradizione, cultura e musica “L’insieme degli spazi e dei luoghi espressamente dedicati alla musica descrive un luogo di grande valore urbano e paesaggistico, un sistema di terrazze e di spazi aperti schiettamente “toscano”, destinato a raccordarsi sul piano urbanistico, architettonico e visivo con l’immediato intorno costruito e con l’intera città di Firenze.” 127


Il nuovo centro della musica e cultura di Firenze, la città madre della cultura italiana. Il progetto nasce per dare maggiore spazio pubblico ai cittadini e connettere due parti di città, storicamente sconnesse

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Sorge dietro alla stazione Leopolda, l’importante opera chiamata Parco della Musica e della Cultura di Firenze. Il progetto, nato per rendere omaggio all’anniversario dei 150 anni d’Unità d’Italia, riporta in auge il capoluogo toscano come protagonista dell’arte e della cultura italiana. Il progetto dello studio ABDR dimostra la valenza “monumentale” dell’Auditorium, che si inserisce nella città e costruisce un solidificato paesaggio urbano, infatti l’ intervento è chiamato a dare risposta a un programma funzionale e simbolico complesso, applicato a una parte della città, finora marginale, chiamata oggi ad ospitare importanti e prestigiose istituzioni pubbliche. L’area del “Nuovo Auditorium”, posta lungo la linea di faglia che separa la Firenze verde da quella di pietra, gioca infatti un delicato ruolo di integrazione tra le diverse parti della città. Alla scala urbana il progetto è stato pensato per aumentare la dotazione di spazio pubblico ed operare un’efficace riconnessione tra la città ed il parco delle Cascine. Questo ambizioso obiettivo è perseguito attraverso la realizzazione di un vasto sistema di aree aperte e percorribili a piedi, che mette a sistema le nuove volumetrie dei due auditorium e della cavea all’aperto. Il sistema del palco artificiale costituito dalle coperture praticabili dell’edificio si raccorda a quello naturale delle Cascine attraverso un piano inclinato pedonale che a sudovest attraversa il fosso Macinante. L’insieme degli spazi e dei luoghi espressamente dedicati alla

musica descrive un luogo di grande valore urbano e paesaggistico, un sistema di terrazze e di spazi aperti schiettamente “toscano”, destinato a raccordarsi sul piano urbanistico, architettonico e visivo con l’immediato intorno costruito e con l’intera città di Firenze. Alla scala del contesto locale il nuovo progetto è pensato per realizzare un ampio complesso culturale di livello europeo, il parco della Musica e della Cultura appunto, all’interno del quale sono inseriti i volumi imponenti degli auditorium e dei servizi connessi con le importanti preesistenze sino a costituire una nuova centralità urbana dedicata alle attività culturali e musicali. Alla scala architettonica il progetto è pensato per assicurare le migliori dotazioni di un polo musicale di primaria importanza, attraverso un’offerta prestazionale di estrema rilevanza e di assoluta eccellenza sul piano della musica lirica, concertistica, da camera e rock, in un complesso polifunzionale e flessibile sul piano delle sue molteplici potenzialità. Il principio progettuale è ispirato a una chiarezza


architettonica: una sorta di ampio basamento, una zoccolatura inclinata dove sono inserite le due grandi sale da musica e l’enigmatico volume della torre delle scene. Un progetto imponente stemperato dall’esistenza di una fitta rete di percorsi interni ed esterni dimensionati a misura d’uomo. L’architettura si arricchisce di valori funzionali per ospitare grandi sale da concerto e per opera lirica, in cui il dato dell’ingegneria acustica proceda di pari passo con gli aspetti espressivi dell’architettura, articolando gli spazi accessori in sale di prova, laboratori scenici, l’intero campo dell’invenzione teatrale. Si snoda un percorso urbano, individuando una meta in sé, una sequenza ordinata di spazi pubblici. Il complesso architettonico delinea volumi e percorsi, coniugando masse costruite, rampe, terrazze, scalinate, spazi conchiusi e scorci visuali. Il dato prioritario è l’evidenza dei volumi e delle geometrie che delineano sagome variamente opache, accompagnate da scale: sul basamento della piazza pubblica lastricata si eleva il volume inclinato, tanto da entra sotto terra, ed opaco che segna la grande sala per l’opera lirica, con 1800 sedute , una rilevante massa con andamento contrapposto alle scalinate adiacenti. Sulla copertura della sala, sfruttando l’inclinazione, si dispone la “cavea”, una sorta di anfiteatro, per gli spettacoli all’aperto e per una fruizione allargata: la sequenza a gradoni di piena matericità rivestiti in gres porcellanato di tono grigio, per 2000 spettatori, confluisce come onde di pietra verso il volume a parallelepipedo della torre scenica correlata alla sala per la lirica, che permette veloci cambi di scenografia sia in verticale che in orizzontale. Il volume è nettamente separato, e si pone come il limite superiore del complesso, con una configurazione autonoma. I volumi della torre scenica, alta 24 metri, e della sala si differenziano: le pareti della torre propongono un involucro esterno ad elementi in laterizio di colore grigio, che costituiscono tessitura a variabile grado di permeabilità visiva, con funzione anche di frangisole fissi; le pareti esterne della grande sala sono rivestite con lastre in Kerlite, con toni di grigio più luminosi. Il volume a parallelepipedo della sala per concerti da 1100 posti, a minore evidenza visiva, è anch’esso rivestito all’esterno in Kerlite. All’interno, gli spazi ad alta frequentazione di pubblico, il foyer e gli spazi distributivi, sono pavimentati in gres porcellanato; nelle sale, per esigenze acustiche, pareti e controsoffitti presentano pannelli in multistrato di legno e pavimenti in legno. 129


NEW OSLO OPERA HOUSE Snøhetta Oslo, Norvegia 2004-2007

Committente:Ministero degli Affari della Chiesa e della Cultura

bianco come ghiaccio “L’immagine delle lastre di ghiaccio congelate nel bianco del Marmo di Carrara conferisce all’opera una particolare suggestione che si arricchisce anche di rimandi a una certa tradizione mediterranea del Nordico Moderno.” 130


L’intervento di Snøhetta a Oslo si configura come la prima componente della trasformazione avviata nell’area di Bjørvika, inizio di un cambiamento cha inizia la sua corsa dall’area portuale sino alla parte più moderna di Oslo. L’Opera House costituisce un complesso architettonico di notevole consistenza, con una superficie lorda di 38.500 metri quadri, la sala teatrale principale di 1360 posti, 400 per l’auditorium minore, per un impegno finanziario di 500 milioni di euro. Il progetto evidenzia una precisa scelta d’ordine culturale: in un medesimo luogo si uniscono la produzione e lo spettacolo, gli obiettivi di promozione culturale e il consolidamento di tendenze, un insieme di significati simbolici che trovano espressione nella localizzazione e nell’architettura. Fronteggiare il mare in quanto luogo d’apertura al mondo; costruire un paesaggio urbano con la propria presenza. Teatro, musica, balletto, spettacolo e produzione diretta degli eventi delle arti si accostano in un edificio che non disdegna d’essere un “monumento” propositivo.

Il progetto, vincitore di un concorso internazionale nel 2004, si fonda su tre componenti diverse, che i progettisti si sono posti come “vincoli” sin da principio e che hanno portato alla combinazione perfetta nel progetto definitivo: la facciata verso il mare detta “The Wave Wall”, l’edificio di per se “The Factory”, e la piazza su mare, “The Carpet”. La facciata verso il mare è la linea di demarcazione tra la terra e l’acqua, un vera e propria soglia

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Uno spazio per la musica, affacciato sull’acqua. Un immane scoglio, che nasconde e allo stesso tempo lascia trasparire

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simbolica, realizzata con una grande parete vetrata, che lascia trasparire, libera la vista in entrambi i sensi, ma allo stesso tempo vuole porsi come linea di divisione tra terra e mare, Norvegia e mondo, arte e vita di tutti i giorni. Questa è la soglia oltre a cui il pubblico incontra il mondo “privato” dell’arte. L’edifico fondato sin dal primo abbozzo sull’idea di flessibilità e funzionalità. Nato da una forte pianificazione razionale, che ha permesso di creare un’ottima spartizione degli spazi. L’idea di tappeto nasce dalle condizioni del concorso che presentava l’Opera House come un architettura di alta qualità che deve dovrebbe essere monumentale nella sua espressione. Monumentalità che si è legittimata attraverso il concetto di solidarietà, comunanza e sul piano pratico: accesso facile e aperto a tutti. “Per ottenere una monumentalità sulla base di questi concetti abbiamo voluto rendere l’opera accessibile, nel senso più ampio possibile, il che stabilisce un tappeto di superfici orizzontali e inclinate dalla cima ai piedi dell’edificio. A questo tappeto è stata data una forma articolata, con riferimento al paesaggio urbano. L’edificio dell’Opera House si configura come un insieme di luoghi, interni ed esterni. Il progetto suddivide le funzioni e collega in un unico complesso due strutture architettoniche. Gli aspetti “pubblici” del teatro si muovono all’interno di un’architettura prismatica, circondata da uno spazio esterno percorribile a tutti i livelli, una rampa che dalla copertura scende alla piazza sul mare. Una compatta e chiusa struttura quadrangolare, con una corte

interna, ospita invece la “macchina” nascosta del teatro, ciò che avviene “dietro le quinte”, dalle sale di prova ai laboratori, con i compiti differenti che animano una macchina complessa con seicento addetti, ramificati in 50 specializzazioni professionali. Il progetto rende visibile l’assemblaggio delle due entità di pari valore, in cui l’architettura per gli eventi del teatro si affianca all’architettura della produzione, costruendo una multipolarità. Il nucleo del foyer e del teatro assume rilevanza colloquiale e monumentale nello stesso tempo, nella definizione dei materiali e degli spazi: l’ampio luogo di pubblica fruizione è contrassegnato dalla parete obliqua interna in legno di quercia bianca americana, ondulata e segmentata da listelli con funzione decorativa. L’uso dello stesso legno si prolunga nella scala di accesso agli ordini superiori, nelle pareti dei corridoi, con il medesimo aspetto segmentato, e nella sala teatrale dalla classica pianta a ferro di cavallo, le cui pareti e balconate in legno ridondano di variazioni cromatiche e venature. Nello spazio del foyer, alla parete lignea ondulata fa eco la concatenazione dei bianchi pilastri strutturali obliqui, la grande altezza dell’ambiente si rispecchia nella parete vetrata verso la città e il limite dell’acqua: l’obiettivo è lo scambio visivo e la massima trasparenza, rendendo minimi nella vetrata continua i profili strutturali in acciaio. Il pavimento della piazza pubblica e delle rampe, che attorniano l’edificio, conferma un’idea di continuità con la “magnificenza civile”: la tessitura delle lastre in marmo bianco italiano, in finitura liscia e bocciardata, compone un disegno d’ampio respiro. Allo stesso modo, i rivestimenti in lastre di alluminio alle pareti esterne del complesso per la produzione teatrale


offrono variazioni luminose, nel tessuto di concavità e convessità punzonate nel materiale. L’Opera di Oslo è uno dei tre progetti nel progetto europeo “ECO-cultura”, che si concentra sull’efficienza energetica negli edifici culturali. Il proramma del concorso poneva particolare accento sulla necessità di un aumento del risparmio energetico. Così l’Opera House è costruita con materiali e tecniche sostenibili. Le strutture portanti sono una combinazione di elementi in calcestruzzo gettato in situ ed elementi in calcestruzzo prefabbricato e acciaio strutturale. “Abbiamo cercato di ridurre il numero di materiali - e trattamenti superficiali - al minimo. Questi materiali costituiscono gli elementi visibili dell’architettura: pietra, vetro, alluminio e legno (rovere)” Il roofscape di marmo forma un grande spazio pubblico nel paesaggio della città e sul fiordo. Il volto pubblico del Opera House si affaccia a ovest e nord - mentre allo stesso tempo, il profilo dell’edificio risulta da una grande distanza dal fiordo a sud. Visto dal castello di Akershus e dalla città griglia dell’edificio crea una relazione tra il fiordo e la collina Ekerberg ad est. Visto dalla stazione centrale cattura l’attenzione. L’edificio collega città al fiordo su cui si affaccia e su cui è nata.

Lo spazio si configura come un insieme di luoghi interni ed esterni. Due auditorium, 1360 e 400 posti definiscono gli spazi interno, lasciando comunque la possibilità ad attività collettive.

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DISNEY MUSIC CONCERT HALL Frank O. Gehry Los Angeles, California, USA 1987-2003

Committente: Lilian Disney, in dono alla città di Los Angeles

vele spiegate a suon di musica “realizzare un edificio che inviti la gente a entrare, il cui body-Language offra un messaggio di benvenuto” “come una barca a vela con il vento in poppa” “la Walt Disney Concert Hall rappresenta un trionfo personale per l’architetto, ma anche una convincente dimostrazione che ora, Los Angeles ha davvero un centro” 134


Nel dicembre del 1987 venne insediata una commissione di 10 membri con il compito di sovrintendere ad un concorso internazionale ad inviti per la realizzazione della Walt Disney Concert Hall anche se, poi, il progetto di Frank O. Gerhy venne scelto dalla stessa Lilian Disney, vedova di Walt Disney, l’inventore del business dei cartoni animati, quando decise di donare alla città di Los Angeles e alla sua filarmonica un edificio che fosse degno del grande successo che l’orchestra stava ottenendo a livello internazionale negli anni ’80. Purtroppo problemi finanziari e di progettazione hanno fatto si che l’opera fosse realizzata in ben sedici anni. Tuttavia, fin dalla presentazione del progetto la costruzione è stata considerata un monumento imprescindibile dell’architettura del futuro e il manifesto della nuova corrente del Decostruttivismo. Una rosa in fiore o una nave con le vele spiegate dal vento di poppa sono le somiglianze che suscitano le multiformi linee esteriori della sala per concerti. La più accreditata sembra essere la seconda, dato che è stato lo stesso architetto a suggerirla. Certo è che il gioco delle similitudini spinto dalle forme particolari delle coperture nasconde un’opera di alto valore tecnico e concettuale. In anzi tutto la sistemazione trasversale

rispetto al reticolo della maglia urbana ne fa di per se un punto di riferimento inconfondibile all’interno del quartiere nella downtown di Los Angeles sulla Bunker Hill. Il progetto, dopo anni e anni di lavoro e rinvii, trovò la sua forma intorno al concetto di una platea concepita come una sorta di barca situata all’interno della scatola ortogonale.
I tecnici dell’acustica desideravano tuttavia che la sala fosse più stretta, mentre gli architetti avevano bisogno di una maggiore larghezza per inserire più posti a sedere in ogni fila. Si dovette così cercare un compromesso: l’obiettivo era ottenere la maggior densità possibile nel rispetto della sicurezza e della comodità, e ottimizzare l’esposizione a suono diretto e riflesso su tutti i lati del palcoscenico. Così, il numero venne limitato a 2.265, circa 900 in meno rispetto a quelli del Chandler Pavilion, uno dei tre padiglioni della Los Angeles Music Center, a cui Disney Music Hall si affianca. Per consentire di sfruttare al meglio gli spazi, i diversi settori vennero divisi e ulteriormente inclinati: mentre, per migliorare l’acustica e contribuire alle qualità dinamiche dello spazio, le pareti interne furono leggermente flesse verso l’esterno. La profondità delle balconate fu contenuta di modo da non impedire al suono riflesso di raggiungere i posti sottostanti. Legno di abete americano a venatura regolare che conferisce calore alla sala e genera un senso di intimità fu applicato in un sottile strato sopra l’intonaco di pareti e soffitti. Fu proprio il soffitto a dimostrarsi la parte più difficoltosa del progetto. Esso riprende le forme delle pareti incurvate, e il rivestimento in legno d’abete s’into-

Alcuni parlano di vele altri di rose. Ma non si tratto altro che della massima espressione del concetto di Concert Hall, che in questo caso diviene anche simbolo della città di Los Angeles

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na con le ricche tonalità del pavimento in quercia rossa dell’auditorium e col cedro giallo d’Alaska del palcoscenico, con i suoi montanti idraulici e la camera di risonanza sottostante. Le fasce arcuate simili a vele rigonfie sono sagomate e posizionate con grande precisione per ottimizzare la riflessione del suono. Inoltre la ‘barca’ venne sezionata per far posto sul retro a una finestra alta dieci metri, e a inserire una coppia di lucernari in ciascun angolo. La luce naturale definisce così il perimetro della stanza e offre un legame visivo col mondo esterno nei giorni delle prove e nelle matinée. Con un’altezza di oltre quindici metri e un soffitto a spirale con illuminazione zenitale, questo spazio segna uno dei punti più alti della creatività scultorea di Gehry. La copertura esterna fu fissata a una distanza di un metro e mezzo dal lato nord dell’auditorium, in modo da mantenere un’omogeneità nella separazione tra le superfici esterne e interne: mentre le due scalinate che uniscono il piano strada coi giardini e con l’anfiteatro, inserite in questi spazi interstiziali, rivelano la struttura che sostiene le vele. Gli uffici dell’orchestra furono riconfigurati a formare un blocco rivestito di pietra calcarea che si estende lungo il lato meridionale. In questo modo, Gehry metteva a disposizione dei musicisti, che sarebbero stati impegnati in centocinquanta concerti all’anno e avrebbero quindi trascorso probabilmente più tempo qui che a casa, un ampio

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spazio verde, una biblioteca, un salone e una sala prove nell’ala occidentale aperta sul giardino. Sul tetto, un altro minuscolo ambiente, utilizzabile per eventi di limitate dimensioni e concerti di musica da camera, è infilato tra le tribune dell’anfiteatro. Dal complesso del parcheggio, infine, è stato ricavato Redcat, un teatro con 266 posti a sedere e uno spazio espositivo di trecento metri quadrati. Vi si accede dall’angolo a sud ovest, cosa che consente al California Institute of the Arts, fondato da Walt Disney, l’opportunità di installare i lavori sperimentali dei suoi studenti nel cuore di questo nuovo spazio per le arti.

Gran parte dei visitatori potrà lasciare l’automobile all’interno di uno dei sette livelli del parcheggio. Da qui, raggiungeranno l’ingresso per mezzo di scale mobili che portano anche al piano dei giardini, consentendo sia di raggiungere i luoghi delle rappresentazioni sia di esplorare l’edificio. Quando le porte-finestra situate sotto la tettoia d’acciaio sono aperte, è comunque possibile entrare a piedi dalla strada. Le colonne rivestite in abete americano che sostengono l’ingresso su due livelli sono trattate come alberi stilizzati, i cui rami tagliati fungono da alloggiamento per le luci. L’ambiente è illuminato da un lucernario attraverso il quale la luce raggiunge anche i vestiboli aggettanti dei tre livelli superiori. Sull’angolo nord-orientale, l’ingresso principale è raggiungibile salendo un’imponente scalinata che ricorda quella di Trinità dei Monti a Roma. Su entrambi i lati, le vele d’acciaio del rivestimento si stendono e s’inarcano a coprire l’anticamera dell’auditorio, anch’essa illuminata con luce naturale, che con la sua capienza di seicento persone può ospitare concerti diurni, conferenze, ricevimenti e attività didattiche. Per quanto l’ambiente non possa essere convenientemente insonorizzato, le sue superfici sono trattate come quelle dell’auditorium, con pareti rivestite d’abete e pavimento in quercia rossa. La simmetria e l’ordine geometrico architettonico contrastano con le curve e le volute della copertura eterna, volumi in movimento ripresi anche dall’intelaiatura della casse di risonanza. La dicotomia simmetria/asimmetria, spazi aperti/spazi chiusi, linee rette interne/ linee curve esterne si trova anche nei materiali: all’interno piani e setti nel pratico e antico calcestruzzo costituiscono le scheletro dell’opera, mentre all’esterno il rivestimento in elegante calcare francese e lucidissimi pannelli in acciaio inossidabile ne fanno un monumento avveniristico.


TEATRO DELL’OPERA Jørn Utzon Sidney, Austalia 1957-1973 Committente:

cattedrale della musica “una cattedrale mondana della musica...se si pensa ad una chiesa gotica si è più vicino a ciò a cui ho ambito… guardando una chiesa gotica non ci si stanca mai, non si finirà mai di osservarla… questo intreccio di luce e movimento… la rende una cosa vivente.”

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Simbolo di una città, di una nazione. Ma anche espressione del concetto di Concert Hall

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Il principale edifici per cui Utzon è conosciuto in tutto il mondo è la straordinaria Opera House progettata tra il 1957 e il 1966, portata poi a termina in forma modificato dopo le sue dimissioni. Non è questo il luogo per sbrogliare la complessità dei poco noti aspetti, privati e politici che portarono a tale triste situazione. Nei risultati per quanto riguarda l’architettura risultò alquanto diverso dalla probabile visione di Utzon; molti dettagli (dei quali forse egli stesso aveva un’idea poco precisa) furono in oltre gradualmente sviluppati da altri; e ancora, i gusci ebbero una maggior spinta verticale rispetto a quella prospettata nei disegni. Nonostante ciò l’immagine di queste bianche curve volanti alla fine di Bennelong Point, sporgenti verso il porto e richiamanti il profilo del ponte e le acuti curve delle vicine barche a vela, conserva un forte potere evocativo. Esse si innalzano da basse piattaforme, che si elevano ai loro punti più alti in prossimità del bordo dell’acqua. Sulle piattaforme sono collocati, secondo una geometria leggermente convergente, i due autori principali, mentre un piccolo spazio verso la terraferma ospita un ristorante. Le vele, interrompendosi e tagliandosi l’una con l’altra, elevandosi e scagliandosi nel cielo, sembrano trasmettere una forza visiva ugualmente percepibile nei loro profili in tensione e nelle loro superfici lisce e leggermente lavorate. L’idea originale degli interni si percepisce meglio in una sezione che mostra una sorta di moto a onda contraria di soffitti curvi all’disotto delle ampie coperture sovrastanti. Le torri di scena furono alla fine nascoste sotto il guscio

più alto, disturbando così alcuni puritani integralisti incapaci di godere dei contrasti e delle complessità tra l’interno e l’esterno. Come per ogni opera d’arte originale elencare possibili fonti o analogie è solo in parte utile. Il tema della piattaforma era comunque presente nella mente di Utzon, come risulta chiaro dai suoi progetti di case, ma in un contesto monumentale potrebbe esserci specificamente ispirato alle colline artificiali con gradini cerimoniali del monte Alban, l’antico sito messicano di cui l’architetto aveva fatto degli schizzi durante il suo viaggio. Quali che fossero le analogie storiche o naturali, essere erano assimilate in una nuova sintesi, un’idea che astraeva le onde e le vele del porto riferendosi contemporaneamente al fluire del suono. È singolare il fatto che questa espressione simbolica dei ritmi musicali rischiò in realtà porre problemi acustici. L’approccio generale di Utzon al progetto implicava una oscillazione tra astrazione metafora e pensiero strutturale. Per esempio, i montanti strombati delle finestre che avevano il compito di comporre le curvature variabili e di sostenere i carichi strutturali e quelli causati dal vento nelle ampie aperture, erano probabilmente riconducibili all’interesse dell’architetto del la struttura delle ali degli uccelli. Vi erano però altri livelli nel simbolismo dell’edificio. In un certo senso esso era una cattedrale moderna consacrata a un arte nazionale di importanza suprema. Uno storico scrisse


riguardo a questo concetto che esso: «…concentra i significati inconsci del suo contesto urbano nello stesso modo in cui Notre Dame, situata sulla Citè, fa per Parigi. Rende manofesto lo spirito della città…». Lo stesso Utzon si riferiva all’Opera House come a una sorta di cheisa. Infatti “se si pensa ad una chiesa gotica si è più vicino a ciò a cui ho ambito… guardando una chiesa gotica non ci si stanca mai, non si finirà mai di osservarla… questo intreccio di luce e movimento… la rende una cosa vivente.” In effetti Utzon tentò di progettare un sistema standardizzato di parti che potessero alla fine venire assemblate nel suo disegno dalla forma libera, in modo analogo a quello in cui gli architetti gotici avevano utilizzato sistemi ripetuti per raggiungere i loro sublimi e complessi effetti spaziali. A Sidney ciò necessitò infine sia di una modifica nella geometria dei gusci, in modo che si conformassero ad un profilo sferoidale sia di una notevole sperimentazione con cemento prefabbricato, nella quale l’ingegnere ove Arup giocò un ruolo decisivo. Al momento in cui Utzon rassegnò le dimissioni, molti dei dettagli dovevano ancora essere realizzati e l’Opera House sembrò per un certo periodo, poter diventare un’opera mastodontica di cui non si sapeva che fare. Venne in fine inaugurata nel 1973, quando era già divenuta un icona nazionale australiana. Molto prima di questa data l’Opera House di Sidney era diventata parte del folklore dell’architettura moderna. Infatti i progetto era stato pubblicato sulla rivista “spazio tempo architettura” e spose su Utzon il mantello della grande tradizione. L’Opera House venne presentata al fianco delle opere tarde di Le Corbusier e degli edifici monumentali di Kenzo Tange in Giappone, come segno di una nuova tendenza fondamentale in cui la fusione degli edifici con il loro contesto era considerato cruciale per la concezione spaziale emergente in un certo senso la scelta della pubblicazione, fu prematura in quanto non era ancora chiaro come sarebbe risultato il progetto di Utzon quando fosse stato ultimato; nonostante questo si tratto di un apprezzamento giudizioso nei confronti di una grande idea architettonica. Inoltre si trattava di un’idea, che nella sua combinazione di astratto e naturalistico, nelle sua fusione di semplice e complesso, nel suo arricchimento di idee strutturali e spaziali della precedente architettura moderna e nella trasformazione della monumentalità antica, incorporava alcune delle aspirazioni di una grande generazione. 139


contesto

analisi urbana

morfologia del costruito verde tracciati landmark vegetazione flussi e confini materiali numero piani dall’alto

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Per analisi urbana s’intende lo studio delle caratteristiche morfologiche dello spazio. È uno dei principali elementi su cui poggia il progetto urbanistico in quanto consente di descrivere lo spazio attraverso una scomposizione per layers, così da riordinare relazioni complesse in una serie di relazioni più semplici, che attraverso la successiva ricomposizione rivelano le relazioni che definiscono il territorio. Le analisi si possono distinguere in analisi dall’alto e analisi dal basso. Le prime, anche dette zenitali, sono una rielaborazione della rappresentazione cartografica del territorio. Parlano dello spazio, con la finalità di segnalare ricorrenze e regolarità, evidenziare le disposizioni, le concentrazioni, le relazioni tra le parti, e le correlazioni con l’orografia. Le seconde a differenza delle prime richiedono un immersione nello spazio così da poter rilevare (operazione intesa come pratica dello sguardo e del disegno) ciò che caratterizza lo spazio e che solo con uno sguardo dall’alto non può essere colto. Analisi urbana si occupa quindi di relazioni che intercorrono tra gli spazio e il costruito, ed è proprio dall’analisi delle opere che sono sorte o che comunque hanno subito importanti interventi in occasione degli ultimi eventi tenutesi a Torino, le olimpiadi invernali del 2006 e le celebrazioni dei 150 anni dall’Unità italiana nel 2011, è stupefacente e altrettanto incomprensibile capire come sia stato possibile “dimenticarsi” dell’edificio di Nervi, posto in prossimità di una delle maggiori arterie di accesso alla città e quindi cartolina della città stessa, che non ha saputo trovare una funzione a un così grande spazio, limitandosi ad un “impacchettamento” tricolore.

L’area interessata dall’analisi è quella che circonda il palazzo del Lavoro, che può facilmente essere localizzato nell’area di Italia ’61, posizionata alla estrema periferia sud di Torino, al confine con il comune di Moncalieri, e racchiuso tra corso Maroncelli a sud, corso Unità d’Italia a est, il Palavela a nord e via ventimiglia a ovest. “Se si prende la cartina di Torino il palazzo del Lavoro è il quadrato in basso a destra”.

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morfologia del costruito “La parola “morfologia” è stata utilizzata per indicare quasi sempre un livello di descrizione e progettazione ad una scala dimensionale e di complessità di relazioni più alta del singolo elemento edilizio e della sua forma in quanto progetto” (Vittorio Gregotti, 1995). Prima tra tutte le letture zenitali, vuole indagare le relazioni tra il costruito e gli spazzi liberi, cioè quelle parti di suolo su cui non incidono costruzioni. L’area analizzata, all’interno della quale si colloca il Palazzo del Lavoro, si inserisce al confine tra il comune di Torino e il comune di Moncalieri, ma tale limite non è definibile sul piano morfologico. Infatti il tessuto urbano, nella direzione nordsud si presenta lineare, mentre da ovest a est troviamo due “vuoti“ continui molto

importanti, individuabili nella presenza del sedime ferroviario e del fiume Po con i suoi argini. La presenza di quest’ultimo determina inoltre la divisione tra la parte piana della città e quella collinare e con essa una diversa morfologia. Infatti se la città a ovest del fiume segue un andamento regolare definito dalla linearità degli isolati, nella parte a est, non troviamo più un filo conduttore, ma vi sono edifici sparsi e di dimensioni ridotte. Inoltre tra l’ortogonalità tipica del tessuto urbano della città, si più leggere la presenza di edifici di grande volume (Lingotto, Oval, Palavela, Palazzo del Lavoro) e spazi altrettanto grandi ancora “vuoti“ (cantiere grattacielo Regione Piemonte).

vuoti pieni 142


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verde L’uso della vegetazione negli spazi urbani ha sempre avuto molteplici funzioni: simboliche, estetiche-ornamentali, produttive e di regolazione del microclima. Quindi si tratta di un layer molto importante per la lettura del territorio in relazione con il paesaggio,e fondamentale in un periodo in cui molto si parla di sviluppo sostenibile. L’analisi del verde, quale elemento utile al miglioramento della qualità della vita nelle città, è necessaria in quanto una valutazione attenta di alcune delle sue caratteristiche, permette di migliorane la funzione e di favorirne le modalità di gestione, oltre che consentirne una razionale pianificazione degli interventi di estensione. L’area analizzata vede una grande concentrazione di verde pubblico soprattutto lungo le sponde del fiume Po, dove troviamo:

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- Parco Millefonti immediatamente a ridosso del fiume - Parco delle Vallere definito dalla confluenza del Sangone nel Po - Parco Italia ‘61 con il Giardino Primo Levi, e Giardino del Corpo Italiano Liberazione - Parco del Valentino, con sviluppo verso la città - Parco Europa, sulla collina di Cavoretto. Un altro spazio, dove troviamo ampia vegetazione è quello del sedime ferroviario, che però, ovviamente, non può essere interessato da flussi di persone. Mentre il verde privato, di tipo condominiale o di infrastrutture, trova una disposizione omogenea, con intensificazione nella parte collinare della città, con sviluppo dalla sponda a est del Po.

verde privato

argini dei fiumi

verde pubblico

coltivazioni

sedime ferroviario

fiumi e lago


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tracciati “Le città tendono a crescere lungo dei tracciati o assi direttori che mantengono immutata la loro giacitura nel tempo” (teoria della persistenza). I tracciati sono elementi che condizionano lo sviluppo delle città, e la sua morfologia. Sono generalmente delle strade o dei segni derivanti dalla divisione proprietaria del suolo e sono stati classificati in categorie diverse da Le Corbusier, proprio per la loro importanza nell’ambito dello studio urbano delle città. Nell’area analizzata troviamo alcuni assi viari molto importanti quali, primo fra tutti corso Unità d’Italia, asse di collegamento tra il centro città e la tangenziale sud. Altri sono corso Piero Maroncelli, corso Cosenza con il sottopasso Lingotto, corso

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Moncalieri sulla sponda est del Po. Oltre ai corsi a maggiore percorrenza troviamo anche altre vie molto importanti sia sul piano storico che su quello del flusso, prima fra tutte via Nizza, percorsa dalla Linea 1 della metropolitana e collegamento diretto tra il centro e il Lingotto. Inoltre nell’area non mancano percorsi pedonali e piste ciclabili, soprattutto dove vi è una maggiore concentrazione di verde pubblico. Altre via con flusso importante sono via Ventimiglia, che costeggia il parco di Italia ‘61, via Vinovo e Via Vigliani. Altri assi di percorrenza sono le ferrovie, con la stazione del Lingotto e il fiume Po, che si presenta navigabile dal Parco Italia ‘61 ai Murazzi di Piazza Vittorio Veneto.

fiumi

sottopasso

percorsi pedonali

strade di distribuzione

piste ciclabili

assi secondari

rete ferroviaria

assi principalili


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landmark Il termine landmark si più tradurre come punto di riferimento. Infatti i landmark sono riferimenti percettivi utili a catalizzare l’attenzione e favorire la schematizzazione cognitiva, per questo, sono usati nella descrizione verbale di un percorso urbano. In funzione del ambito di incidenza si possono distinguere in landmark a breve raggio, cioè orientano la percezione solo in un ambito locale, oppure in landmark a ampio

MOI, ex-mercati generali Ex-Villaggio Olimpico 2006 Arco Olimpico Lingotto Museo dell’automobile Casa Ugi 148

raggio, in quanto orientano la percezione in un’area ampia. Nell’area è visibile un’alta concentrazione di elementi che possono assurgere a landmark alcuni su un ampio raggio, sia per una questione dimensionale, come l’arco olimpico o il futuro grattacielo della Regione Piemonte e sia per una questione storico-funzionale, come ad esempio il Lingotto o il Palavela.

.1 .2 .3 .4 .5 .6

Oval .7 Grattacielo Regione Piemonte .8 Fiume Po .9 Palavela .10 Lago Italia ‘61 .11 Palazzo del Lavoro .12 Confluenza Sangone Po .13 Rotonda Maroncelli .14


1 5 3

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2 4

7

8

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10

11

12

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vegetazione “Gli alberi presenti in città ci aiutano a vivere meglio. Sono un filtro naturale dell’atmosfera, dei rumori e dei raggi solari e interrompono la monotonia del paesaggio urbano.” Infatti neutralizzano parte dei gas tossici presenti nell’aria, dovuti a prodotti di combustione degli impianti di riscaldamento, fabbriche ed autoveicoli. Riducono i rumori delle autovetture, delle persone, della città, e con le loro chiome, ombreggiano producendo un abbassamento complessivo della temperatura estiva. La città, purtroppo, presenta condizioni poco favorevoli alla vita degli alberi: la luce del sole ridotta dallo smog, l’acqua piovana che porta con se’ sostanze acide, l’asfalto che limita l’aerazione del terreno e

lo sviluppo delle radici, le pavimentazioni impermeabili che impediscono all’acqua di filtrare, il terreno cittadino povero di humus e di ossigeno, attraversato da tubazioni e condutture, tutto ciò richiede che l’albero in città abbia molta resistenza per riuscire a sopravvivere. Per tutte queste ragioni, è importate conoscere e tutelare gli alberi all’interno di un progetto urbano. Nell’area del parco di Italia ‘61 gli alberi sono molti e di grandi dimensioni e sono stati inseriti contemporaneamente alla costruzione del palazzo del Lavoro e del palavela, quindi ormai appartengono all’immaginario collettivo. Se si pensa a questo spazio senza alberi, molto probabilmente lo si immagina come uno spazio poco vivibile.

acero .1 betulla .2 tiglio .3 abete grigio .4 150

platano .5 ippocastano .6 abete nostrano .7 bagolaro .8 tipi di albero


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flussi e barriere Il palazzo del Lavoro si trova posizionato a sud del centro della città, più precisamente, la dove la città di Torino continua nel comune di Moncalieri. Si presenta quindi come la porta sud della città, che dovrebbe ritornare a essere il manifesto della città. L’edificio si trova a circa 1 ora e 20 minuti a piedi dal centro della città e a circa 20 minuti dal più importante centro commerciale e polo fieristico della città il Lingotto. Si apre sulla città verso nord e ovest, mentre sugli altri due lati troviamo

due barriere molto importanti, quali corso Unità d’Italia e corso Maroncelli. Due assi viari che presentano un flusso continuo di veicoli in entrata e uscita dalla città e che dividono il palazzo del Lavoro dai vicini parchi fluviali e spezzano la continuità del parco di Italia ‘61. Oltre a questi due barriere difficili da abbattere, attualmente troviamo una seconda barriera, definita dalla presenza di una recinzione continua sul perimetro dell’edificio.

lingotto 20’ mole antoneliana, centro città 1° 20’ palavela 7’ castello del valentino 57’ tempi di percorrenza a piedi 152


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materiali I materiali sono gli elementi che caratterizzano l’architettura, ne definiscono forma e colore,e ne accordano il rapporto con ciò che la circonda. I materiali determinano il sistema costruttivo, la velocità di costruzione, la durata e la qualità di una costruzione. Pier Luigi Nervi per il palazzo del Lavoro ha combinato due materiali: calcestruzzo armato e acciaio. Il primo, sperimentato a lungo dall’ingegnere-architetto, lo troviamo nelle fondazioni, nelle pavimentazio-

ni interne ed esterne,e soprattutto nelle colonne rastremate a pianta cruciforme e sommità circolare. Mentre l’acciaio è l’elemento del capitello della colonna, delle venti travi di sostegno della copertura e della copertura stessa. In acciaio sono i frangisole, un tempo bianchi e i loro sostegni. Altri materiali sono il vetro delle vetrate che corrono sui quattro lati dell’edificio, nascoste dagli elementi di ombreggiamento, e il verde degli alberi, degli arbusti e dell’erba del parco circostante.

arbusto .1 piantoni di sostegno frangisole .2 colonna .3 capitello .4 154

pavimentazione interna .5 ali frangisole .6 vegetazione bassa .7 pavimentazione esterna .8 componenti materiali


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altezze La considerazione delle altezze degli edifici è importante, soprattutto per comprendere l’andamento delle ombre e quindi conoscere l’esposizione ai raggio solari. Ombre e araggiamente devono essere attentamente valutati. Il palazzo del Lavoro, con i suoi 25 metri di

altezza si colloca nella media delle altezze degli edifici vicini, che in maggioranza superano i sei piani nella parte verso la città , mentre sul fronte fiume, dove troviamo gli ex-padiglioni dell’esposizione delle regioni abbiamo solo edifici che non superano i due piani.

argini dei fiumi verde priv1-2 piani

piani

v3-5 piani

v10+ piani numero dei piani

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volumetrici

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memoria

colletivitĂ

riuso

verde sostenibilitĂ architettura

passato

progetto

una nuova possibilitĂ ? comunitĂ storia

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concept pianta secondo piano interrato simbolo pianta interrato pianta piano terra piantasocialitĂ piano primo sezione longitudinale presente sezione trasversale

rigenerazione urbana

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scatola


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CONCEPT

lo sviluppo del modulo

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PIANTA PIANO PRIMO 20 Caffetteria e terrazza panoramica 21 Esposizioni temponanee 22 Piazza centrale con vegetazione

23 Ingresso sotto solaio isostatico 24 Sale studio 25 Ristorante

26 Foyer e guardaroba 27 Spazio per esposizioni 28 Amministrazione 167


30

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bibliografia sitografia capitoli 1-7 Bibliografia - Nervi P.L., Scienza e arte del costruire. La Bussola, Roma, 1945. - Nervi P.L., Costruire correttamente, Hoepli, Milano, 1954. - Olmo C., Cantieri e disegni, Allemandi, Torino, 1992. - Aa.Vv., Esposizione internazionale del Lavoro 1861-1961. EIL Italia ‘61, catalogo della mostra, Torino. - Aa. Vv., Bando di concorso per la costruzione del Palazzo del lavoro indetto dal Comitato Nazionale del Centenario dell’Unità d’Italia, Torino, 1959. - A.a V.v., Italia ‘61, guida ufficiale dell’evento di Italia ‘61, Torino, 1961 -T. Iori, Pier Luigi Nervi, Motta Architettura, Milano, 2009. - T. Iori, S. Poretti, Pier Luigi Nervi. L’ambasciata d’Italia a Basilea, Electa, Milano 2008 - Carlo Olmo, Cristiana Chiorino (a cura di), Pier Luigi Nervi. L’architettura come

Musica al Palazzo di Pier Luigi Nervi Ipotesi di riuso

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sfida, Silvana Editoriale, Milano, 2010 - Chiorino, Cristina, Cantiere Italia ‘61. La ville industrielle costruisce i suoi simboli, Dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, XVII ciclo, Politecnico di Milano - Politecnico di Torino, relatore Carlo Olmo, 2005 - Pace, Sergio, Chiorino, Cristina, Rosso ,Michela, Italia ‘61: la nazione inscena. Identità e miti nelle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, Umberto Allemandi & C, Torino, 2005 - Sergi, Valentina, Bonichi, Elena Teresa, Torino: riqualificazione dell’area di Italia ‘61. Una nuova identità, tesi di laurea, rel. Paolo Mellano, Politecnico di Torino, 2008 Pier Luigi Nervi e Il Palazzo del Lavoro - Salvadori Mario, Foreword, in “P.L. Nervi Structures”, New York, 1956 - Ernest O. Hauser, Un creatore del nostro tempo, Selezione dal Reader’s Digest, aprile 1964 - La Stampa, 30.05.2008 - La Stampa, 26.06 2012 - Greco C. Pier Luigi Nervi e il ferrocemento, in Domus, n° 766, dicembre 1994 Nervi P.L., Dentro l’immane struttura, in


Domus, n° 374, gennaio 1961

capitolo 8

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Bibliografia e sitografia

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- Domus 881 2005 - The Plan 010 2005 - I maestri dell’architettura, OMA, Hachette 2012 - http://oma.eu - http://europaconcorsi.com/projects/16869Casa-Da-M-sica - http://www.tumblr.com/tagged/casa da musica?before=18 2. MUZIEKGEBOUW AAN ‘T lJ _ studio 3XN

- The Plan 017 2006 - I maestri dell’architettura, 3XN, Hachette 2012 - http://www.3xn.dk/en/ - /home/projects/ projects_year/97241_musikhuset_amsterdam- http://www.archdaily.com/38816/muziekgebouw-3xn/ - http://europaconcorsi.com/projects/17262-Center-For-Modern-Music 3. PARCO DELLA MUSICA_ Piano Building workshop

- Domus 849 2002 - Abitare 408 2001 - I maestri dell’architettura, Renzo Piano, Hachette 2009 -http://www.domusweb.it/it/architecture/inaugurato-l-auditorium-di-piano-a-roma/ -http://www.rpbw.com

Musica al Palazzo di Pier Luigi Nervi Ipotesi di riuso

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4. TAICHUNG METROPOLITAN OPERA HOUSE _ Ito

- Casabella 744, 2006 - A+U architecture and urbanism 133, 2008 - People meet in architecture, Biennale Architettura di Venezia 2010, Catalogo ufficiale, Marsilio - http://www.toyo-ito.co.jp - http://www.urukmag.it/urukmag/?p=271 - http://www.designboom.com/architecture/ toyo-ito-taichung-metropolitan-opera/ 5. CASA DELLA MUSICA _ studio GEZA

- The Plan 049, 2011 - Domus Agosto 2011 - http://www.domusweb.it/it/news/casa-della-musica/ - http://www.archilovers.com/p43059/Casa-della-Musica - http://europaconcorsi.com/projects/164068-Casa-della-Musica 6. KONCERTHUSET_ Nouvel

- The Plan 037, 2009 - http://europaconcorsi.com/projects/85877-Concert-House-Danish-Radio-Copenhagen - http://www.dr.dk/Koncerthuset/english/ the-best-modern-acoustics.htm - http://www.jeannouvel.com/english/preloader. html 7. GRAND CANAL SQUARE THEATRE AND COMMERCIAL DEVELOPMENT _ Libeskind - I maestri dell’architettura, Daniel Libeskind, Hachette 201 - http://www.archilovers.com/p27802/ Grand-Canal-Square-Theatre-and-Commercial-Development#images - http://www.archdaily.com/52814/grand-canal-theatre-daniel-libeskind/ - http://daniel-libeskind.com/projects/ bord-gáis-energy-theatre-and-grand-canal-commercial-development - http://europaconcorsi.com/projects/16719-Grand-Canal-Performing-Arts-Centre-And- Galleria

Musica al Palazzo di Pier Luigi Nervi Ipotesi di riuso

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8. GUANGZHOU OPERA HOUSE _ Hadid

- http://www.zaha-hadid.com/architecture/ guangzhou-opera-house/ - http://europaconcorsi.com/projects/163786-Guangzhou-Opera-House - http://www.domusweb.it/it/architecture/zahahadid-a-guangzhou/ 9. AUDITORIUM DI PADOVA_ studio UN

- http://www.unstudio.com/projects/auditorium-della-citta-di-padova - http://europaconcorsi.com/results/23761--Auditorium-della-Citt-di-Padova10. PARCO DELLA MUSICA E DELLA CULTURA DI FIRENZE_ABDR

- The Plan 056, marzo 2012, pag. 50-62 - http://www.abdr.it/site2010/ - http://europaconcorsi.com/projects/6324-Parco-Della-Musica-E-Della-Cultura-Di-Firenze-Nuovo-Auditorium 11. New Oslo Opera House_ Snøhetta

- The Plan 029, 2008 - http://www.archdaily.com/440/oslo-opera-house-snohetta/ - http://www.snoarc.no/#/projects/15/true/all/ image/880/ 12. DISNEY MUSIC CONCERT HALL_ Gerhy

- I maestri dell’architettura, Decostruttivismo, Hachette 2012 - http://www.foga.com - http://www.domusweb.it/it/architecture/un-teatro-per-los-angeles/ 13. TEATRO DELL’OPERA_ Utson - http://www.sydneyoperahouse.com/homepage.aspx - L’architettura moderna dal 1900, William j. r. Curtis, Phaidon edizioni, 2009


http://www.google.it/search?q=Edward+Gorey&oi=ddle&ct=edward_goreys_88th_birthday-1056005

In conclusione, non mi resta che ringraziare, la Professoressa Francesca Camorali per avermi seguita in questo lavoro, e il Prof. Marco Visconti, per avermi permesso di scoprire il Palazzo di Nervi, durante il workshop Rpi-Polito. Un enorme grazie alla mia famiglia, in particolare a mia mamma, che in questi primi tre anni, si è fatta un po’ architetto con me, a mio papà per le nozioni tecnologiche, a mio fratello, perchè senza di lui... Grazie anche a Francesca e Marianna, per avermi sopportata nei momenti di pazzia serali, e a tutti i miei compagni, vecchi e nuovi che mi hanno accompagnata sin qui. E infine grazie a tutti coloro che ho incontrato sin qui.

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