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LA ROCCA
La Dottrina Nella Storia
UN FATTO REALE E NON UN SIMBOLO NESSUNA “TERRA” E NESSUN “OVUNQUE”
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Diceva il celebre teologo protestante svizzero Karl Barth: “possiamo essere protestanti o cattolici, ortodossi o riformati, di destra o di sinistra. Ma, se vogliamo che la nostra fede abbia fondamento, dobbiamo aver visto e udito gli angeli presso il sepolcro spalancato e vuoto”. Il fondamento della fede è la risurrezione di Cristo. Non a caso san Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, scrive senza infingimenti: “se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (15, 17). Andrebbe ricordato oggi più che mai ai tanti pastori che su questo aspetto decisivo della fede glissano e tendono a relegarlo nel mito. Una tendenza iniziata, ovviamente, subito dopo il Concilio Vaticano II. È famosa la domanda che il celebre giornale francese Le Monde pose a prestigiosi esponenti della fede cristiana nella Pasqua del 1976: che effetto avrebbe per la sua fede un ipotetico ritrovamento delle ossa di Gesù di Nazareth? Allucinanti, almeno dal punto di vista dell’autentica fede, le risposte degli intervistati, alcuni anche cattolici. Quasi tutti asserirono che per la loro fede nulla sarebbe cambiato, ma che anzi sarebbe stata rafforzata proprio perché non fondata su elementi umani! Solo il grande filosofo cattolico Jean Guitton rispose giustamente e logicamente: “Se avvenisse davvero un ritrovamento di questo tipo, lascerei scritto nel mio testamento: «Ho ingannato e mi sono ingannato».”. È bene dunque ricordarlo, visto che perfino negli alti vertici del Vaticano si farnetica sul fatto che la Risurrezione di Cristo sarebbe il segno che il suo “messaggio” non è morto, che ciò che è accaduto a Gerusalemme all’alba del giorno dopo il sabato è un fatto storico, non un simbolo. Una risurrezione materiale, non una pia illusione né, tanto meno, la sopravvivenza di un messaggio.
Nella società post cristiana la domenica di Pasqua è una mattina qualunque. Nessuno pensa più che quel fatto storico avvenuto il 9 aprile dell’anno 30, nella più remota provincia dell’Impero romano, abbia una qualunque attinenza con la propria vita. Lo si vede anche dal recupero, davanti al dramma della morte, del frasario e della prassi pagana e pre cristiana. Basti pensare al sempre più usato “la terra ti sia lieve”, con cui si salutano i cari defunti. Ebbene, l’origine di questa frase è da ricercare nell’immagine del peso della terra sul corpo del defunto, che dà a chi ne piange la perdita un senso di angoscia e di oppressione. La locuzione si trova citata letteralmente in Marziale, Epigrammata, IX, 29. Come ricorda l’insospettabile Wikipedia (che di tutto può essere tacciata tranne che di simpatie filo cattoliche), la locuzione è oggi impiegata da coloro che, per varie motivazioni, desiderano porgere al defunto (o più che altro ai suoi congiunti) un ultimo omaggio “laico”, spogliato da ogni connotazione religiosa. Ma anche restando al solo piano logico (e non di fede) è chiaro che l’espressione non ha senso: se la morte è la fine di tutto la terra non può essere lieve, visto che la persona non esiste più. L’unica risposta reale alla morte è l’altrettanto reale risurrezione di Cristo. Non c’è alternativa: o c’è Dio e la morte è vinta oppure non c’è nulla e non ha senso augurare una “terra lieve”. Stesso discorso per l’altra espressione, oggi molto di moda, di dire al defunto “ovunque tu sia”. O Cristo è risuscitato e la morte è vinta oppure il defunto non è più da nessuna parte. Al di là di Gesù, ci piaccia o no, non c’è nessun ovunque dove poter essere…