Perchè chiamarlo Fernando?

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Perchè chiamarlo

Fernando? una storia nella STORIA

Raccontata da Maria Antonietta Manglaviti e Giancarlo Fallai



PERCHE’ CHIAMARLO FERNANDO? una storia nella STORIA raccontata da Maria Antonietta Manglaviti e Giancarlo Fallai


Prima edizione: gennaio 2013 Š edizione patata www.circodellepulci.it isbn 88-44-51-112-5


indice

Per introdurre… L’inizio della storia Venti di guerra Anno 1941 - I contenuti delle lettere Anno 1942 - I contenuti delle lettere Venti di guerra II La cartolina di Boccasile Anno 1943 (I parte) I contenuti delle lettere Anno 1943 (II parte) Anno 1943 (III parte) Maria e Francesco raggiungono Pietro A Bologna Anno 1943 (IV parte) L’8 Settembre Anno 1944 (I parte) Nasce Maria Antonietta Anno 1944 (II parte) La Liberazione Di Roma Anno 1944 (III parte) Ritorno a casa Maria Pietro e il Cinema Le foto Genealogia

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Ad Adriana Luca e Niccolò perché ricordino

Supplica a mia madre E’ difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile… P. P. Pasolini



PER INTRODURRE…

Quando mi è venuta l’idea di mettere per scritto la storia, o per meglio dire un pezzo di storia, dei miei genitori e anche di un frammento della mia, la prima cosa che ho fatto è stata di andare a recuperare i materiali, corrispondenza e foto, da me custoditi gelosamente e con cura com’è giusto che fosse tenuto conto dell’importanza che mamma e babbo avevano attribuito a quelle testimonianze della loro vita conservate così a lungo. Per vedere se si poteva fare ho cominciato a rileggere le loro lettere e a sfogliare gli album con le loro foto alla ricerca di un filo cronologico che mi restituisse i tempi e i luoghi delle loro vicende. Lo scopo era di stimolare la memoria di quella parte di vita che conoscevo dai loro racconti ascoltati da piccola e che tanto mi avevano affascinato. E da lì, come d’incanto, sono iniziati a riemergere molteplici avvenimenti perché la memoria è davvero tesoro e custode di tutto e quando ti lasci andare ai ricordi magari parti da uno solo ma poi accade che da quel singolo frammento ne scaturiscono altri: ricordi di luoghi, di momenti e sensazioni, e più vai avanti a ricordare più ne riemergono, alla rinfusa, sconnessi, sovente senza una logica, ma improvvisamente vividi, rivisitabili. Lettere, foto, racconti… gli archivi della memoria: come accendere la luce sui ricordi. Ed è a loro che mi sono affidata nel tentativo di andare avanti in questo mio progetto dove, non avendo la possibilità di chiedere più niente ai miei genitori, dovevo e soprattutto volevo cercare di mettere a posto i pezzi mancanti per sempre nel puzzle di una vita vissuta insieme, con un unico filo conduttore, l’amore che li aveva legati. Ecco la loro storia… 9


“Insomma: uno vuol sapere con certezza quand’è nato, non foss’altro per aver la data certa nella quale festeggiare il compleanno.”


L’INIZIO DELLA STORIA

“Ma perché sei nata a Roma?” Questa la domanda fattami casualmente da mio cognato Piero, fratello di mio marito, mentre ci accompagnava a ritirare le cartelle cliniche relative alla mia nascita; ed è la domanda che ha dato il via ad un progetto che stentava a manifestarsi così come lo sentivo. Eravamo nei giardini dell’Ospedale San Camillo di Roma diretti all’ufficio archivio dove era conservato ciò che cercavo. Al San Camillo sono andata l’anno scorso a cercare la cartella clinica della mia nascita e grazie ad una cortese impiegata sono riuscita a trovarla; c’erano divergenze sulla mia data di nascita, in quanto all’anagrafe risultavo essere nata il 7 febbraio 1944, mentre dalle cartelle veniva confermato quello che sosteneva la mamma, ossia che ero nata il 10 alla mezzanotte del giorno 9, come attestato dal certificato di battesimo che sono riuscita a procurarmi. Insomma: uno vuol sapere con certezza quand’è nato, non foss’altro per aver la data certa nella quale festeggiare il compleanno. Comunque, all’anagrafe questi sbagli succedono spesso ancora oggi e allora figuriamoci in un momento e in luogo come quelli in cui sono nata io, a fine guerra e in una Roma che era “città aperta”, con gli americani alle porte e i tedeschi che tenevano la popolazione sotto il pugno di ferro. Chiarito, dunque. Sono nata quando diceva mia madre, partorita al San Camillo in un tempo e in un luogo lontani da quelli che avrebbero potuto essere se non ci fosse stata la guerra, in circostanze raccontate da mia 11


madre che mi hanno incuriosita e mi hanno sempre procurato un senso di smarrimento. E’ proprio da quella mia ricerca e da quella domanda di mio cognato che è nata la voglia di raccontare una vicenda di cui non sono certo l’attrice principale ma alla quale in certo qual modo ho contribuito perché i suoi protagonisti, quelli veri, i miei genitori Pietro e Maria, la vissero e penarono per avermi messa al mondo in un’epoca che più trista e difficile non si può. Il punto infatti è proprio questo: perché io, calabra, figlia di genitori calabresi doc, nati e residenti a Reggio Calabria, sono nata a Roma? e cosa ci facevano i miei a Roma? vivevano forse lì? No: entrambi erano di Reggio e vivevano a Reggio dove si erano conosciuti e piaciuti… Ed allora voglio raccontare questa cosa. E’ un omaggio che sento di dovere ai miei genitori. Mia mamma era la quarta figlia di Clotilde e Paolo Romeo, preceduta da Francesco, Saveria e Giuseppe. Nacque quando mia nonna aveva 40 anni e mio nonno 50.

mia mamma

mio babbo

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Non era stato un matrimonio d’amore quello fra i miei nonni perché lui era vedovo con una bambina, Lucrezia, e lei, per quel tempo, era zitella. Aveva 27 anni. La necessità e l’affetto erano state due buone ragioni per suggellare quel matrimonio. Non era bella mia nonna ma era vispa, pronta e simpatica, con occhi penetranti e intelligenti. Sapeva leggere e scrivere, ma in quanto a cultura era pratica, poco riflessiva come forse mio nonno avrebbe desiderato. Mia mamma non era stata né cercata Giuseppe, Maria e Francesco né voluta ma accettata con quella tenerezza che due persone quasi anziane avevano riservato ad una bambina che avrebbe potuto accompagnarli nella loro vecchiaia. Le fu imposto il nome di Ester, ma la sua vecchia nonna, che non sapeva pronunciare questo nome, lo cambiò in Maria. Per questo all’anagrafe risultò Maria Ester. Mia nonna Clotilde veniva da Pentidattilo e per tale ragione, il mio coltissimo nonno Paolo la scherniva chiamandola “a’ Pintirattulota”. Mia nonna non si offendeva perché era forte e sicura di sé. Vantava origini nobili. Ed era vero! La sua bisnonna infatti, marchesa di Vernagallo1, era stata diseredata dalla famiglia. Innamoratasi di un ciabattino, aveva con lui fatto una “fuitina” che l’aveva costretta a sposarsi, dando origine ai non più nobili Romeo, che era anche il cognome di mio nonno. A Pentidattilo ave13


vano una casa nobiliare, attaccata all’umile chiesetta inerpicata sulle rocce, con grandi balconi e un atrio per le carrozze. Esiste ancora questo rudere e quando vado in Calabria non dimentico mai di andare a rivederlo. Dai balconi si vedeva il mare in lontananza e chi sa quali sogni destava nelle giovani signorine, prima Vernagallo e poi Romeo. Sogni d’amore e di passione. Quel mare invitava a immaginare terre lontane, di scoperta. Servì quel mare per la partenza dei fratelli di mia nonna verso le “Americhe” nel 1902 quando in Calabria non vivevi se non eri latifondista. I latifondi di famiglia erano stati venduti per amore. Il ciabattino non era stato infatti capace di mantenere la numerosa famiglia. Così aveva dovuto vendere i beni della moglie e, dopo la sua morte, i figli maschi erano stati costretti ad emigrare. Mia madre crebbe imitando i fratelli, bella e libera perché i miei nonni non avevano più la forza fisica per potersi occupare prima di una bambina e dopo di un’adolescente. Maria era adorata da tutti, fratelli, sorelle e parenti che non mancavano mai intorno alla tavola dei Romeo con la mia nonna sempre ospitale e nonno Paolo paziente, immerso in pensieri ben più alti. Lucrezia le confezionava vestiti alla moda e la vedeva bella come il sole. I fratelli la facevano partecipare alle feste, l’accompagnavano al mare in un contesto di modernità forse troppo sfrontata per quel tempo. Ben più conservatrice la famiglia di Pietro! I genitori, Maria Antonietta detta “’ntonuzza” e Luigi si erano voluti per amore. Lei aveva 19 anni, alta e altera. Era la maggiore di una famiglia di ferrovieri con ben 12 figli. Luigi, bello, alto, rosso di capelli, lavorava anche lui in Ferrovia, ma con un ruolo ed un grado elevati in quanto il suo aspetto fisico, così avvenente, lo aveva portato ad essere il macchinista della carrozza ferroviaria reale. Entrambi con gli occhi chiari, avevano generato quattro figli, tre maschi ed una femmina, tutti con gli occhi color del mare. Mia nonna era la donna più orgogliosa del mondo con quei tre figli maschi che la adoravano e con la figlia femmina con la quale condivideva idee e lavori di casa. Il marito le era così devoto da appagare ogni suo desiderio; ma i desideri di mia nonna erano solo rivolti ai figli perché studiassero, fossero ben vestiti, portassero con onore il cognome di persone oneste, leali, solidali, lavoratrici quali erano i genitori. 14


Pietro era il secondo maschio dopo Angelo e prima di Saveria e Carlo. Il più discolo, il più simpatico, quello, insomma, che dava maggiori grattacapi. Tutti e tre i fratelli e la sorella erano stati avviati allo studio di uno strumento musicale: mio zio Angelo suonava bene il violino, mia zia la fisarmonica, mio padre… bè, mi raccontava la nonna, prima il violino, poi la chitarra, ma giunti alla batteria decisero di desistere. Pietro era bravo nel gioco del pallone e nei tuffi in mare. Tutti lo accettavano con comprensione. Pietro e Maria si incontrarono sulla spiaggia dove mio padre, per farsi notare, faceva tuffi a non finire e Maria chiacchierava con le amiche mentre lo sguardo azzurro di mio padre le si cuciva addosso. Mia madre aveva 14 anni, mio padre 18. La mamma era veramente bella: un viso tondo, begli occhi neri, una bocca a cuore; le faceva da contorno una cascata di riccioli neri. Era precoce nelle forme, già a 14 anni procaci e provocanti, ma il cervello era ancora da bambina, dedita a giochi e spensieratezza. I corteggiatori erano numerosi: quando si presentavano ai genitori per chiedere la sua mano, lei si metteva a piangere, immaginandosi casalinga accasata. 15


Pensava nonno Paolo a rassicurarla e a darle tutto l’amore e l’affetto di cui aveva bisogno. Quando mio padre realizzò che quella signorina era compagna di scuola di sua sorella, iniziò ad ossessionare quest’ultima per avere notizie. Mia zia, paziente, rispondeva alle domande incalzanti di Pietro, abituata dalla madre ad assecondare i fratelli nelle loro richieste. Cominciò così il corteggiamento serrato con la compiacenza di mia madre, attratta soprattutto dagli occhi azzurri di Pietro. Arrivò quindi il fidanzamento ufficiale. Pietro pregò per due nottate intere i genitori perché andassero a casa di Maria, ordinò perfino una serenata per sua madre; finché, stressati e confusi, i nonni decisero di accontentare il figlio. Non erano contrari al fidanzamento ma reputavano Pietro troppo giovare e Maria troppo “libertina” per potere prendere questo impegno sul serio. Pur di accontentare il figlio si presentarono alla casa dei Romeo, timidi e impacciati, nell’unica giornata di pioggia estiva. Mio padre fu ammesso ufficialmente nella casa di mia madre e la favola poteva finire con “vissero felici e contenti” se i venti di guerra non avessero cominciato a farsi sentire.

Note 1) La Famiglia Vernagallo di origine pisana giunge a Palermo con Don Mariano che sposa Donna Giulia Cosenza nel 1504. I Vernagallo sono noti in quanto legati alla vicenda della Baronessa di Carini, Donna Laura Lanza che a soli 14 anni, il 21 dicembre 1543, andò sposa, per volere del padre, al barone di Carini. Leggenda narra che, ben presto, delusa dalla vita matrimoniale e dai continui abbandoni del marito impegnato nella cura della sua proprietà, la baronessa si innamorò di Ludovico Vernagallo diventandone l’amante. Scoperta dal marito e dal padre, Laura venne uccisa insieme a Ludovico. La stanza dell’assassinio, situata nell’ala ovest del castello, è crollata completamente e si narra che su una parete vi fosse l’impronta insanguinata della baronessa.

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VENTI DI GUERRA

Prima di iniziare è opportuno inquadrare l’epoca e il periodo della vicenda per farsi un’idea di dove e quando si svolsero quei fatti. L’Italia era entrata nel secondo conflitto mondiale il 10 giugno 1940 dichiarando guerra alla Francia e all’Inghilterra. Le cronache ci dicono che già alla fine del ’40 la popolazione si trovò di fronte al razionamento dei generi alimentari: a causa dell’economia di guerra, infatti, la distribuzione e la vendita dei generi di prima necessità venne regolata dallo Stato che organizzava la raccolta dei prodotti e la loro redistribuzione, secondo le necessità locali in base al numero e al tipo di residenti in ogni Comune. Il sistema suscitò numerose proteste per gli abusi compiuti e per la totale irregolarità nell’approvvigionamento dei generi razionati, sicché ai nefasti effetti dei bombardamenti alleati (iniziati sin da subito: il primo, su Torino, è dell’11 giugno 1940) e alle altre sciagure causate dalla guerra, si aggiungeva ora il carovita con i favoritismi, le ruberie e le inefficienze dell’apparato chiamato a gestire la cosa. La situazione peggiorò velocemente e fra l’inverno e la primavera del 1941 si manifestò una crisi dei generi di prima necessità. I disagi erano molti, in primis quelli legati agli approvvigionamenti di cibarie. Al mattino, di primissima ora, le donne facevano la fila dinanzi ai negozi di generi alimentari per ritirare con la tessera la razione di pane e pasta per ogni componente la famiglia. 17


Due volte la settimana, al martedì e al giovedì, anche gli uomini si mettevano ordinatamente in fila dinanzi alle rivendite di tabacchi. Erano razionate anche le sigarette per chi voleva comprarle a prezzo di monopolio: una lira e settanta centesimi per dieci nazionali, due lire per dieci macedonia, una e cinquanta per dieci moresche, una sola lira per dieci popolari. Ma c’era la borsa nera: si trovava di tutto, dalla farina bianca alle sigarette di qualità superiore. A prezzo duplicato naturalmente. A sera si faceva la fila anche per andare a distrarsi al cinema, il biglietto costava al massimo due lire per i primi posti. Anche i films rispettavano l’autarchia. Era ancora il tempo dei telefoni bianchi, ma vedendoli non ci si faceva più illusioni. Per acquistare i generi razionati occorreva avere la tessera annonaria da cui gli esercenti tagliavano i bollini giornalieri: chi non acquistava il pane il giorno fissato perdeva il diritto alla razione. Dal febbraio ’41 la quantità di cibo che si poteva acquistare con la tessera continuò a diminuire: nelle regioni settentrionali, si aveva diritto a soli 600 grammi di pasta al mese, un chilo di riso e 400 grammi di polenta. Il razionamento del pane venne messo in vigore dall’ottobre del ’41. In un simile contesto si può cercare di indovinare quali potevano essere gli stati d’animo e le emozioni di chi viveva i disagi di quel periodo. Si era in guerra e guerra voleva dire che gli uomini erano al fronte e a casa c’erano gli imboscati, i vecchi, i bambini e le donne: tantissime donne, perché anche allora come oggi queste erano più numerose degli uomini. Donne sole, in attesa dei mariti, dei fidanzati, degli amanti, donne che aspettavano notizie, lettere, magari telefonate. No, non c’erano i cellulari e mi sono sempre chiesta: ma quanti erano quelli che avevano il telefono in casa? Non molti, anche se quello era il tempo del cinema dei “telefoni bianchi” che aveva ammaliato il paese, un cinema che descriveva e fingeva un’Italia in pieno benessere sociale, con quegli apparecchi lattei diventati uno status symbol grazie ad una cinematografia fondata sull’emblematica frase mussoliniana (in realtà mutuata da… Lenin): “Il cinema è l’arma più forte!”. E la posta: come funzionava? Quanto tempo impiegavano le lettere ad arrivare a destinazione? Probabilmente con molto ritardo. 18


Il tuo amato era al fronte, la tua amata era a casa o sfollata, non sempre si poteva comunicare, anzi spesso era decisamente difficile. Si aspettava, non si poteva far altro, ci si aggrappava alla speranza e alle poche notizie che arrivavano, a quelle che riportavano i militari in licenza, a quello che si sapeva dai notiziari della radio, dai giornali e poi, via via che la guerra diventava più cruenta, dai bollettini di guerra con gli elenchi dei caduti. Per gli uomini al fronte era lo stesso: sete di notizie, l’ansia di sapere cosa succedeva a casa, come se la cavavano i cari in loro assenza, e i veicoli d’informazione erano gli stessi: lettere, telefonate, i racconti di quelli che tornavano dalla licenza. Era questo lo scenario: angosciante. I miei genitori hanno vissuto quell’epoca. Si arrangiavano per sopravvivere, per andare avanti, con un’unica speranza, quella di ritrovarsi un giorno, di potersi riabbracciare, di tornare ad amarsi e vivere insieme. Mi fermo qui, a questo 1941 di cui ho cercato di descrivere lo scenario, l’anno in cui inizia la loro storia. Per raccontarla, in buona parte mi sono affidata alle cose che avevo ereditato dai miei genitori: le lettere di mio padre a mia madre, le foto che si scambiavano e le cartoline di quell’epoca. Quando ho preso in mano le lettere scritte da mio padre l’idea era di utilizzarle per ricostruire tempi e luoghi della sua vicenda di “guerriero”. Non intendevo leggerle integralmente perché una sorta di rispetto e di pudore nei confronti del loro territorio privato mi tratteneva dal farlo. Mi sembrava di essere indiscreta, volevo limitarmi a prendere nota di date e località in cui erano state scritte e inviate quelle lettere, in modo da farmi un’idea del percorso che ne emergeva, con particolare riferimento ai cambiamenti di reparto e relativi spostamenti succedutisi nell’arco dei quasi tre anni (dal gennaio del ’41 all’agosto del ’43) che avevano tenuto lontano Pietro dalla sua Maria. Poi, via via che andavo avanti, mi rendevo conto di essere sempre più incuriosita, di volerne sapere di più. Le mie iniziali occhiate frettolose hanno cominciato a dilatarsi, affascinate dagli spunti che quegli scritti mi offrivano quasi ad ogni pagina. 19


Lettere quasi tutte molto lunghe, difficilmente meno di quattro pagine fitte, zeppe per lo piÚ di parole d’amore perchÊ quello era il tema portante, ma che a leggerle fino in fondo rivelavano anche aspetti della vicenda umana di Pietro, del teatro e del momento in cui si svolgeva, mostrandoci un Pietro non solo innamorato ma legato alla sua terra, ai suoi genitori, fratelli, cugini ed amici, lasciati a casa o sparsi in altri luoghi.

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Pietro a queste sue lettere dedica tempo e cure infiniti, quasi da esse voglia far trasparire i sentimenti che le ispirano. La precisione quasi maniacale con cui compila gli indirizzi sulle buste (per lo piÚ bianche ma a volte anche colorate di un vezzoso celestino), la sua grafia svolazzante, in corsivo ma anche in stampatello, compongono dei quadretti con i vocaboli inchiostrati in grassetto grazie all’uso ribadito e

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insistente della penna stilografica. Quanto ai testi si può dire che Pietro quasi fatichi a concluderli e a staccarsene come se li trovasse troppo corti e se ne sentisse insoddisfatto. Difatti, in molti casi, ne riempie gli spazi lasciati vacanti e addirittura i bordi, affastellandoli di saluti e ancora di frasi d’amore per la sua adorata Maria, con il leitmotiv infinito “Baci… Baci… Baci…” Succede spesso, inoltre, che mio padre utilizzi l’ultima pagina delle lettere indirizzate a Maria per chiedere di altri congiunti e avere loro notizie, esprimendo un desiderio di riceverne che è sintomatico dei profondi legami che lo tengono avvinto al suo mondo familiare, di cui sente e sentirà sempre di più la mancanza man mano che diventa più lunga la sua assenza da Reggio. Non a caso: dalla corrispondenza traspare infatti un sentimento di amore fraterno che lo lega ai suoi fratelli Carlo e Angelo (anch’esso ufficiale) sui quali sapeva di poter in ogni momento contare, pronti com’erano ad andare a trovarlo, a dargli il loro aiuto e a confortarlo nei tanti momenti di depressione di cui cadrà vittima. Una volta fatto il punto su quelle che sono le caratteristiche peculiari di questo epistolario, è arrivato il momento di andare a sceglierne i contenuti. Con una premessa: le lettere di Pietro, oltre che lunghe e accurate, sono tantissime. Il conteggio dice: in tutto 174. Prima di leggerle le ho ordinate per data, suddivise per mesi ed anni, con questi risultati: 72 lettere scritte nel 1941 (la prima dell’8 gennaio, l’ultima del 13 dicembre) 86 lettere scritte nel 1942 (la prima del 6 gennaio, l’ultima del 29 dicembre) 16 lettere scritte nel 1943 (la prima del 2 gennaio, l’ultima del 21 giugno) Non è un caso se riporto questa statistica, è grazie ad essa infatti che ho potuto ricostruire l’iter delle loro vicende e raccontare la storia di quei tre anni. Per questo, la parte che segue la chiamerò I Contenuti Delle Lettere e per comodità la suddividerò in capitoli, uno per anno. Con una avvertenza: quello che troverete scritto in corsivo, frasi, singole parole, punteggiatura inclusa, è tutta farina del sacco di mio padre. E ora, entriamo nel vivo… 22


ANNO 1941 I CONTENUTI DELLE LETTERE

All’epoca mia madre Maria (nata il 22/11/22) ha 19 anni, il babbo, Pietro (nato il 7/9/18), ne ha 23, e i due sono fidanzati da poco. A Reggio Calabria Maria vive con i suoi i genitori, la mamma Clotilde e il padre Paolo, suo fratello Francesco (detto Ciccio) e la sorella Saveria (o Saverina) che è del ’14 ed è già sposata con Franco, reduce dalla campagna d’Africa, che manda avanti la famiglia avendo una certa disponibilità economica. L’altro fratello, Giuseppe (detto Peppe o Pepi), vive a Napoli dove è ufficiale. A Reggio Calabria vive anche la sorellastra Lucrezia, figlia di primo letto del padre rimasto vedovo. Vi abitano anche i genitori di Pietro, Luigi e Maria Antonietta, i suoi fratelli Angelo e Carlo e la sorella Saveria. Pietro, diplomato perito industriale, iscritto alla facoltà di Scienze Marittime a Napoli (studi non conclusi) agli inizi del 41 è inviato a Lecce e poi al Corso AUC a Fano. E’ dunque l’inverno del ’41 quando Pietro si ritrova separato da Maria e comincia a scriverle. L’epistolario di mio padre è un palinsesto monotematico. Ad ogni pagina Pietro declina un frasario tutto incentrato sui sentimenti e sui ricordi che lo legano a Maria. Non manca niente: in ciascun rigo espressioni di amore sempiterno, di passione assoluta, di desiderio allo spasimo, il tutto descritto con accenti melodrammatici tesi a sottolineare le sue pene d’amore e non privi di

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sprazzi poetici (ovunque vedo la tua immagine…). Un vero e proprio campionario di amour passion intriso di nostalgia e di un senso di mancanza che si manifestano ad ogni capoverso, con tutta una serie di rimandi ai loro trascorsi insieme a Reggio dove si erano conosciuti prima della partenza per il corso che porterà Pietro a Lecce. Le prime lettere sono da subito rivelatrici della preoccupazione di Pietro per la lontananza dell’amata: la sua inquietudine per il pensiero/dubbio che Maria si stia dando alla pazza gioia durante un soggiorno che lei trascorre a Gioia Tauro, è esemplificata da un monito che Pietro non può fare a meno di rivolgerle: “voglio che tu ti diverta nei limiti del possibile senza far parlare la gente”. Nelle lettere successive troviamo ancora lamentele di Pietro sul fatto che lei non gli abbia mai scritto quando era a Gioia Tauro. A apriti cielo! quando poi Pietro riceverà una lettera di Maria a metà febbraio dove lei lo rimprovera a sua volta di non darle sue notizie e di essere costretta ad andare a casa dei suoi genitori per averne. Colpa dei ritardi postali si giustificherà lui per poi passare ad incalzarla che la lettera di Maria è brevissima e soprattutto del fatto che si concluda con uno striminzito sappi che anch’io ti voglio un POCO bene. L’affermazione mette Pietro in agitazione: ma come POCO? quando lui non fa che pensare a lei e ad agire di conseguenza. In effetti Pietro le scrive continuamente, a volte anche due lettere lo stesso giorno, mentre si può ritenere che Maria non fosse altrettanto solerte e puntuale nello scrivere malgrado le ripetute raccomandazioni del suo innamorato profondamente angosciato dai silenzi di lei. Sembrerebbe emergere una Maria dall’indole un po’ frivola che fa penare il suo Pietro, preoccupato, forse con una qualche ragione, del suo saltabeccare da un posto all’altro (da Reggio a Gioia Tauro) ed è per questo che la subissa di lettere troppo spesso lasciate senza risposta. Non lasciamoci ingannare dai tremori sospettosi di un Pietro che si deprime per la penuria di notizie, dimentico, come tutti gli innamorati gelosi, che Maria è una giovane donna di 19 anni tesa ad esprimere tutti i suoi istinti di giovane donna, bella, forse anche un po’ sfrontata. Perché poi, 24


quando sarà il momento, Maria avrà tutto il modo di dimostrargli la sua forza, il suo coraggio e la sua determinazione e in definitiva il suo amore. Comunque sia quei dissidi si placheranno quando entrambi capiranno che le lettere sono in costante ritardo, forse anche perché sottoposte al vaglio della censura:

ante...

retro...

L’effetto nostalgia pervade ogni scritto di mio padre che nel suo itinerario epistolare non rifugge da memorie anche più intime, rammentando ad esempio la prima volta in cui aveva visto Maria in costume, ed esclama: com’eri bella!... una sirena... ti guardai e così è nato il mio vero amore. Su un versante anche più spinto Pietro si rivela capace di slanci dannunziani, come nel caso in cui, pensando a quando la rivedrà, le scrive: stringimi baciami fammi tutto quello che vuoi perché ne hai diritto essendo tutto tuo, anch’io farò lo stesso perché sono assetato di baci e di carezze. Ho avuto anche modo di reperire alcune cose scritte nel periodo che va dal gennaio all’aprile del ’41, interessanti in quanto ci riconsegnano titoli di canzonette in voga all’epoca1 capaci di suscitare in Pietro romantici ricordi: sono seduto al caffè, con la radio che trasmette canzoni e anche quella famosa che tu cantavi: “Dimenticar”; poi ancora un ricordo evocato dall’ascolto sempre della radio che suona “La donzelletta vien della campagna” sentita canticchiare da Maria mentre facevano una gita in campagna. Troviamo anche un accenno ad una visita ai sepolcri fatta con i commilitoni che gliene fa venire in mente una insieme a lei a Reggio; tristi entrambe, ma questa ancor di più, e il passaggio di un treno diventa occasione per una invettiva: maledetto treno! che corre veloce e non lo porta dalla sua Maria che non vede ormai da quasi cinque mesi. 25


Arrivato a Lecce solo da pochi giorni, già nella lettera dell’8 gennaio le prospettava la possibilità di essere trasferito a Sapri in un battaglione costiero: se sapessi quanto giro per avvicinarmi a te, le scrive e, poi, a distanza di appena un giorno, ho fatto capovolgere la situazione circa il mio trasferimento a Sapri, dicendole che il Colonnello l’ha segnalato per un trasferimento a Bari. Non succederà niente di tutto questo: Pietro con altri calabresi verrà inviato a Fano e, dieci giorni dopo, darà a Maria un segno tangibile della sua presenza nella cittadina marchigiana inviandole una foto cartolina in cui è vestito da “marmittone”. A fine febbraio Pietro inizia a parlarle di una probabile licenza per Pasqua, licenza che a metà marzo le annuncia come certa e dunque comincia a contare i giorni che li separano. Fatica sprecata: il 2 aprile scrive sconsolato delle licenze che sono state sospese e della gran delusione, dramma, peggio ancora, strazio, con cui la notizia è stata accolta in caserma da tutti quelli che ci contavano (alla Messa mentre suonava l’organo tutti noi piangevamo). Mio padre parla molto poco del suo tempo di naja, forse in quanto relegato in caserma, e nelle sue lettere troviamo pochi e brevi accenni alle punture che lo costringono a letto (gli daranno il febbrone) e sintetici ragguagli sull’ addestramento e sulle attività militari che lo impegnano. Alla cerimonia del Giuramento cui ha assistito tutta la popolazione di Fano dedica a malapena una riga limitandosi a dire che c’era anche il padre e che è stato molto contento di rivederlo. E’ abbastanza singolare che Pietro si limiti a un resoconto così minimale su una cerimonia di tal fatta, sicuramente importante e coinvolgente per tutti quelli che hanno fatto il 26


soldato e che doveva esserlo anche di più in un periodo come quello dove il giuramento militare assumeva una valenza particolare in quanto atto solenne con cui il militare consacrava tutte le sue energie alla difesa della Patria in guerra2. Pietro diventa un po’ meno laconico solo se può farsi bello agli occhi di Maria, ossia quando può raccontarle di essersi messo in luce rispetto ai suoi compagni di corso - mi sto facendo onore nei salti a pesce… se tu vedessi che tuffi… sono stato scelto di scorta alla bandiera perché tra i più lesti - e di non temer rivali nelle esercitazioni specie in ginnastica: sono il beniamino del mio superiore, le scrive, però ora è fuori combattimento per dolori al ginocchio che lo fanno soffrire; in precedenza ne aveva avuti ai piedi per gli scarponi che erano allacciati troppo stretti. Se parla di sé è perché gli preme apparire un uomo migliore e crede di esserlo diventato: sono tornato ad andare a Messa mentre a Reggio non andavo più in chiesa, non bestemmio più, ho imparato anche a pregare, la vita militare fa cambiare radicalmente rendendo un individuo uomo e ragionevole. Un frasario scarno, quanto per contro è debordante e infiorettato quello che usa per esprimere i suoi sentimenti nei confronti dell’amata, i rim-

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pianti che lei gli suscita, le sofferenze indicibili per la sua lontananza. I pensieri sono tutti per la sua Maria, scrive quasi solo di questo, dell’amore che prova per lei. Si fa fatica a trovare spunti che riguardino la sua persona, quasi fosse dimentico di sé. Le dice ad esempio che si è fatto crescere i baffi, non per vantarmi ma mi stavano bene, ma che in seguito li ha tagliati ricordando le tue parole. Non c’è nessuna descrizione di Fano, definita solo con un epiteto: posto lurido, dove gli uomini vestono come gagà e le donne per vestirsi si privano del cibo. Comunque sia, tanto per chiarire, non gli fanno un baffo. Concetto ribadito in un’altra lettera, quando le confida: i miei compagni si sono messi a ridere quando gli ho detto di non portarmi in cattivi luoghi. Potrebbe mai tradire la sua fidanzata, una che gli ha appena scritto di essere in pena vedendo le amiche con i fidanzati? La ringrazia per avergli scritto questa cosa, perché così gli ha fatto comprendere che anche lei lo pensa e questo lo conforta, gliela fa sentir vicina. Uno stato d’animo esemplificato da una frase che troviamo in una sua lettera dei primi di aprile: da quando sono a Fano non so cosa significhi divertimento. A proposito di svaghi ricordo che a mio padre piaceva il gioco del calcio e in una sua lettera di aprile possiamo capire quanto rimpianga il fatto di non poter più giocare al pallone che in caserma c’è ma non è consentito; di questo suo interesse troviamo traccia in un’altra lettera di questo periodo dove Pietro chiede a Maria notizie di un suo amico di Reggio: fammi sapere se gioca ancora nel G.U.F. Il 22 aprile Pietro ha avuto i gradi di Caporale ma questo non gli è stato affatto di conforto, tant’è che confessa: faccio il lavativo, mi sento ormai seccato, e non solo, perché, se non fosse stato per lei, avrebbe chiesto di andare in Africa. 28


A metà maggio annuncia di essere stato promosso ma senza avere quella soddisfazione che meritavo e che all’ultimo stavo per essere fregato per un capriccio dei miei superiori, e questo benché il mio capo plotone mi avesse presentato all’esame con un voto lusinghiero, ma le domande sono risultate difficili e imbarazzanti. Le ragioni di questo “imbarazzo” mi vennero chiarite da mia madre: mio padre aveva l’anulare della mano destra curvo dalla nascita, sensibilmente disallineato rispetto alle altre dita, il che rendeva in qualche modo goffo il suo saluto militare. La cosa in sede di esame era stata rilevata e aveva assunto tale importanza al punto di abbassargli il voto finale. Uomo orgoglioso qual è, Pietro fa capire quanto gli sia costato quest’esito inferiore alle aspettative e agli sforzi fatti per essere sempre all’altezza. Comunque sia conclude la lettera dicendole di nutrire tante aspettative per il 28 giugno quando tornerà a Reggio in licenza e potrà finalmente riabbracciarla. Due giorni dopo scrive di essere in procinto di sostenere un altro esame per il quale ha avuto un voto d’ammissione molto alto, 17, ma è in grande apprensione perché lo considera un numero di malaugurio (disgrazia!), avvalorato dal fatto che anche all’esame precedente era stato ammesso proprio con 17. Tuttavia anche quest’esame (armi e tiro) viene superato brillantemente e si premura di dargliene notizia:

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Ora che è graduato gli viene assegnato un servizio di picchetto alla caserma. Confessa di essere molto preoccupato perché sarà dura, è un compito arduo; compito comunque svolto al meglio, come le comunica in una lettera successiva: il picchetto è andato bene, una nottata senza dormire. Le dà anche la notizia che sono in atto i preparativi della partenza per il campo e la popolazione e le autorità con musica ci accompagneranno. Eccolo adesso a Fabriano che definisce: Fabriano come paese non c’è niente di bello, un cinema e basta, ma aspetta con ansia il 28 giugno per tornare a essere l’uomo più felice al mondo. Tre giorni dopo racconta di una domenica passata in camerata dove regna il silenzio: tutti riposano ma lui scrive: Fra 27 giorni sarò a Reggio per abbracciarti e baciarti a sazietà. L’allegria si affaccia di nuovo. Qui le signorine si mettono in mostra imbellendosi più che mai… però non c’è niente da fare… sono solamente ombre vaganti, in cerca di preda. Nella mia vita esisti tu sola. Il 6 giugno Pietro invia a Maria una lettera dove si comincia ad intuire come le situazioni stiano cambiando: in tutto questo tempo di vita militare ho appreso delle notizie molto brutte. Ed aggiunge: Mi fa molto piacere che sei cambiata… ora non farai più la capricciosa anzi son sicuro che man mano passa il tempo il tuo caratterino si foggerà e diventerà come quello di una donna piena di comprensione. Non voglio che tu ti offenda sentendo 30


questo… ho voluto soltanto complimentarmi della metamorfosi che stai subendo durante questo periodo di assenza. Poi ormai non c’è bisogno di fare i capriccetti perché da parte mia sono certo di non mancare. Frasi che più che di complimento sanno di censura ai comportamenti dell’amata e che avrebbero probabilmente bisogno del controcanto delle lettere di Maria che purtroppo non ci sono pervenute. La lettera finisce con Pietro che, quasi a volersi far perdonare, riporta in modo creativo - dopo i baci a milioni che la chiudono - tutta una serie di espressioni amorose per non far dimenticare il suo grande amore. Le durezze e le fatiche del campo a Fabriano sono testimoniate dal fatto che corre un intervallo inusitato, ben 10 giorni, rispetto alla lettera precedente e Pietro se ne scusa. Ha ricevuto da Maria una sua foto, per la quale la ringrazia e si complimenta: sei venuta molto bella, però non capisco il motivo perché non volevi spedirmela; e quel però - come accade spesso - è foriero di resipiscenze per Pietro che nelle righe successive si lamenta di una di

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lei insinuazione sul mio preteso volontario soggiorno sia pure di pochissimi giorni a Fano, e le scrive piccato non credo opportuno neanche confutarla. Non sappiamo come Maria sia venuta a conoscenza di questa assenza di Pietro dal campo, ma è probabile che lei gli abbia scritto qualcosa tipo “sarà anche dura al campo, però intanto vai a spassartela a Fabriano”. Baruffe di innamorati. Fatto sta che la corrispondenza si è diradata e passano altri 9 giorni prima che Pietro comunichi senza alcuna enfasi il suo ormai prossimo arrivo a casa.

uno scorcio di Noci

Il flusso epistolare si interrompe per un lungo periodo: c’è infatti uno scarto di oltre 2 mesi prima di ritrovare una nuova lettera Siamo ad inizio Agosto quando Pietro riprende in mano la penna per comunicare che è finalmente giunto al reggimento che si trova in un paesetto distante da Lecce parecchi chilometri. Il paesetto è Noci. 32


Lui intanto scrive: Da domani incomincio a fare il comandante però sin d’ora so che i soldati avranno in me un comandante che è un fratello. Qui niente mi svaga tranne la tua fotografia che guardo e riguardo senza mai stancarmene e che non può fare a meno di pensare ai momenti deliziosi passati insieme Ortona (ovviamente oggi) quando mai ero sazio dei tuoi baci, dei tuoi sguardi… occhi di ladra. Ancora ricordi in una nuova lettera (21 agosto) dove rammenta il Lido: quando ti vidi ballare con tuo fratello… che meraviglia!... se fossi stato al posto suo chissà quante cose belle ti avrei detto… e invece quando ebbi la fortuna di esserci, niente sono riuscito a dirti di bello… e hai risposto sono troppo piccola; bastarono queste poche parole per smontarmi. Cercai invano di passare al contrattacco e fredda mi dicesti: venite per l’atro ballo. A fine settembre Pietro viene inviato a Ortona e per una volta parla bene della località che lo accoglie: Vedessi che luogo incantevole è questo, un paese di villeggiatura situato in un modo incantevole. Inutile dire che vorrebbe e quanto vorrebbe che lei fosse lì con lui. Ad Ortona Pietro passa pochi giorni, il 2 ottobre infatti è di nuovo a Lecce da dove invia a Maria la cartolina dove dice di sentirsi come uno sbandato alla ricerca di sistemazione in una modesta pensione che non riesce a trovare. A metà ottobre Pietro comincia a essere seriamente preoccupato: Se aspetto ancora per ricevere tua posta viene a finire che il collo si allunga quanto quello della giraffa. Prima di partire mi avevi promesso che ogni giorno mi scrivevi, vedo benissimo che la tua promessa non l’hai mantenuta anzi ti ostini a non Lecce 33


scrivere… nemmeno mio fratello che si trova in Africa (Angelo) ritarda tanto nello scrivere. E’ una letteraccia, così almeno deve averla giudicata Maria, e Pietro si scusa nella successiva: Perdonami se ti scrissi quella letteraccia; sono tanto addolorato… se si potessero fermare le lettere per la strada le correrei dietro, intanto è inutile; accetta le mie scuse. Nella stessa lettera le dice che va al cinema, all’Apollo, dove proiettano “La donna che fa per me” e il titolo gli fa pensare a Maria. Da una lettera dei primi di Novembre si capirà che Maria era stata per un po’ di tempo in campagna ospite della nonna a Pentidattilo, dove lui in un primo momento aveva sperato di poterla raggiungere grazie ad una licenza premio per ottenere la quale aveva brigato tanto Pentidattilo senza che gli fosse concessa. 34


Quella delle mancate licenze di Pietro deve essere una cosa che non va giù a Maria e lei deve averglielo fatto notare. Pietro, tutte le volte che gli succede, oltre a lagnarsene e a imprecare contro il fato crudele, ha un atteggiamento quasi di scusa nei confronti dell’amata per non essere riuscito ad ottenere ciò per cui si è sempre dato tanto da fare (aver tanto brigato inutilmente), cercando di mettersi in luce con i superiori e lavorando più di ogni altro in modo da dimostrarsi meritevole. L’impressione è che a Maria queste giustificazioni non bastino e che in definitiva lo ritenga incapace di farsi rispettare; d’altronde è pur vero che Pietro in alcune lettere ha una sorta di fatalismo nel vedere qualche collega partire in licenza per Reggio al suo posto. La cosa può aver infastidito Maria al punto di rinfacciarglielo. Illazioni, poiché manca una controprova dalla corrispondenza di Maria, e però posso affermare che, conoscendo il “caratterino” di mia madre, probabilmente ho colto nel segno. C’è di che parlare a proposito della lettera successiva del 20 novembre. Si avverte la sensazione di qualcosa che cambia nel loro rapporto: Sono certo che il tuo amore non è concepito come una volta e cioè amarsi solo con lo spirito, con il cuore senza trascendere a quelle cose che per te sono le più brutte; io ti ho insegnato tante cose, eri pura lo riconosco però non potevi rimanere così senza che nessuno avesse la prevalenza sugli altri di poter baciare le tue labbra, di abbracciare il tuo corpo, insomma di farti provare qualche sensazione, qualche piacere delizioso. In questa stessa lettera si trova un accenno al bombardamento di Brindisi4: Pietro era di servizio e figurati quanto sia stato il mio lavoro, scrive a Maria, Credo che ascolti i bollettini, no?; e c’è pure una postilla: Sono in pensiero per mio fratello dato che oggi ha avuto inizio una grande battaglia5. Il 23 dello stesso mese dice di non sapere ancora quale sarà la sua destinazione anche se tutti parlano di un piccolo paese della Calabria (forse Melito) e lui ne sarebbe naturalmente felicissimo perché sarebbero più vicini e lei potrebbe andare a trovarlo. Ripete comunque di stare tranquilla perché il comando antiuomo che gli è stato affidato lo mette abbastanza al sicuro dal rischio di trovarsi in prima linea. Purtroppo non avrà la licenza natalizia in cui sperava. Alla sua amata augura di divertirsi in sua assenza, però non quel divertimento eccessivo ma quel divertimento che si usa da noi. 35


Con questa lettera del 13 dicembre si chiude questo primo anno per quel che riguarda il “privato” dei miei genitori come ho potuto ricostruirlo. Ma nel mondo “pubblico” in quello stesso anno erano successe molte altre cose delle quali riepilogo le più significative:

ANNO 1941 FEBBRAIO MARZO

MAGGIO GIUGNO

SETTEMBRE NOVEMBRE

Viene approvato un Decreto legge che indurisce le pene per chi ascolta emittenti radiofoniche straniere. L’esercito italiano è all’attacco sul fronte greco-albanese. Dopo dure battaglie l’offensiva viene respinta. Le truppe dell’Asse, sotto il comando unico del generale Rommel, iniziano una controffensiva che porta alla riconquista della Cirenaica. La flotta italiana subisce una pesante sconfitta ad opera della squadra navale inglese a capo Matapan, sulla costa greca del Peloponneso. In Africa orientale i contingenti italiani concentrati sul massiccio dell’Amba Alagi si arrendono agli inglesi. La Germania attacca l’Unione Sovietica ( 22/6). Mussolini ne è informato poche ore prima dell’inizio delle operazioni. Viene decisa la costituzione di un Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir), da inviare a combattere al fianco dei tedeschi sul fronte orientale. Viene vietata la produzione di qualsiasi genere di pasticceria. Per la popolazione italiana viene stabilita una razione giornaliera di pane di 200 grammi a testa. Viene introdotta la tessera per la vendita di tessuti e viene vietata la circolazione di veicoli a benzina. In Nord Africa gli inglesi rompono l’assedio a Tobruk e le truppe dell’Asse sono costrette alla ritirata. 36


DICEMBRE

E’ il 7 dicembre e un violento attacco del Giappone distrugge la base della marina americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Gli Stati Uniti dichiarano guerra al Giappone, entrando ufficialmente nel conflitto contro le potenze dell’Asse. Italia e Germania dichiarano guerra agli Usa

Nel 1941 nascono: Joan Baez 9 gennaio 1941 Bernardo Bertolucci 16 marzo 1941 Bob Dylan 24 maggio 1941 Riccardo Muti 28 luglio 1941 Umberto Bossi (purtroppo) 19 settembre 1941 Franco Nero 23 novembre 1941 Laura Antonelli 28 novembre 1941 Nel 1941 muoiono: James Joyce 2 febbraio 1882 - 13 gennaio 1941 Virginia Woolf 25 gennaio 1882 - 28 marzo 1941 Rabindranath Tagore 6 maggio 1861 - 7 agosto 1941

Note: 1) In quegli anni s’impone il cosidetto swing italiano, grazie ad interpreti quali Alberto Rabagliati, Natalino Otto e il Trio Lescano, con motivetti giocosi e di gran successo - spesso lanciati dal cinema - che riuscivano a far passare la musica nord-americana malgrado la censura fascista (rammentiamo alcuni titoli: Ba-ba-baciami piccina, Ma le gambe, Quel motivetto che mi piace tanto, Un sassolino nella scarpa, Pinguino innamorato, Maramao perché sei morto, Crapa pelada).

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2) Fra i materiali conservati dai miei c’è un fascicolo sul Giuramento cui partecipò mio padre le cui pagine troverete riprodotte in APPENDICE. Val la pena darvi un’occhiata per comprendere quanto rilevante fosse considerata all’epoca una cerimonia sulla quale, come risulta evidente, si concentravano l’attenzione e gli sforzi di tutto l’apparato militare. 3) Pentidattilo (anche detto Pentedattilo), sito a mt. 250 s.l.m., si trova ai piedi di una enorme roccia modellata dal tempo e dagli eventi atmosferici a forma di una mano aperta con le dita verso l’alto ed è da questa che prende il nome (Pente-dactylos, in greco cinque dita). Oggi purtroppo il paese è quasi completamente abbandonato e pieno di macerie, resta comunque un sito di incredibile bellezza e meritorio di essere visitato (un “villaggio da presepe” è stato definito). Al centro di quel che resta di Pentidattilo rimane ancora la Chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo. Per avere un’idea di Pentidattilo cercando su internet (Google) Pentidattilo - Video Dailymotion, si trova un video che dà delle emozioni. (www. dailymotion.com); altri filmati del paese sono reperibili anche su youtube.com 4) Nel mese di novembre Brindisi subì una serie di tremendi bombardamenti. Le incursioni furono praticamente continue e il più potente e distruttivo degli attacchi, quello della notte tra il 7 e l’8 novembre, durò più di 5 ore: un attacco condotto da una formazione di bimotori inglesi provenienti da Malta con l’obiettivo di smantellare le fortificazioni del porto e la base navale del castello svevo. In realtà furono colpite e distrutte solo le abitazioni civili e le chiese, edifici simbolo prescelti proprio per fiaccare il morale della popolazione; al contrario furono stranamente risparmiati i tanti obiettivi militari presenti in zona, come i due castelli e le tante batterie militari presenti lungo la costa. 5) Sono i giorni in cui gli inglesi rompono l’assedio a Tobruk e le truppe dell’Asse sono costrette alla ritirata.

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ANNO 1942 I CONTENUTI DELLE LETTERE

Siamo a Lecce e Pietro scrive e scrive. Come per l’anno precedente volevo fare una sorta di compendio delle lettere di mio padre. Al di là del suo inesausto parlar d’amore intendevo estrarne i temi salienti, la sua gelosia sollecitata dalla lontananza, le licenze sperate, negate e ottenute, i racconti della sua vita militare, gli avvenimenti pubblici che l’avevano attraversata, i luoghi e i posti che erano stati teatro delle sue vicende. E però il materiale con cui mi son trovata a raffrontarmi man mano che andavo avanti diventava così rigonfio e incalzante da rendermi conto che le cose che via via mi ero appuntata avevano tutte un senso, una valenza, e soprattutto un filo logico che le accomunava e che non potevo fare a meno di approfondire. Non potevo e non volevo tralasciar niente, quasi lo trovassi ingiusto e neghittoso nei confronti di mio padre che alla sua cronaca sentimentale aveva dedicato tanto tempo e tutto se stesso. Così la mia scelta è stata quella di procedere in un racconto quasi puntuale, mese per mese se non lettera per lettera, della vicenda umana dei miei genitori che da quelle pagine prendeva vita. Quella ricerca era diventata una scoperta, una rivelazione e non volevo perdermela. La prima lettera scritta nel 1942 da Lecce è del 6 gennaio:

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Maria vita mia Pensa quanto è stato doloroso averti dovuto lasciare senza poter dire che immensamente ti amo. Una stretta al cuore, un sopraffiato mi venne allorquando il treno si mosse dalla stazione per portarti lontana da me senza poterti abbracciare per l’ultima volta. Come è crudele la sorte… pensare i momenti deliziosi vicino a te è un supplizio, mi sento come uno che per la prima volta lascia la cosa più cara per non vederla mai più. E se ciò fosse vero come farei? era meglio la morte Maria, si senza di te è meglio che non viva sento quanto sia necessaria la tua presenza… mai dimenticherò il tuo bel viso che è pieno di grazia. Maria vita mia dimmi ancora che solo io sono stato il solo fortunato ad averti conquistato e che solo mi hai amato e voluto bene... a tredici anni non concepivi cosa fosse amore perché nessuno poteva pretendere da te che a tale età potevi amare; lo comprendo anch’io che una ragazzina a tredici anni può avere una simpatia per un giovanotto però è solo simpatia non amore, è vero Maria? Dimmi che solo io ho saputo farti capire che l’amore è sublime, grande, immenso. Arrivato a Lecce come ero infelice! Mi sembrava di essere arrivato non so dove, pensavo che da un momento all’altro avrei potuto vederti e con questa speranza arrivai a casa dove trovai squallore. Sembravo un pazzo, non riuscivo a trovare conforto quando pensavo di essere lontano da te. E’ impossibile davvero rimanere senza di te: io stesso mi sono meravigliato sorpreso di questo, mi credi Maria? Non so se questo periodo di crisi mi durerà molto mi voglio augurare di no perché se ciò avvenisse impazzirei. Maria cara sii sempre vicina a me col pensiero io non mi distoglierò mai voglio essere matto per te e ne sono felice. Amore mio tu cosa fai? mantieni la promessa? mi scrivi subito e a lungo? e Gioia Tauro come ti sembra? Come desidererei essere colà vicino a te per amarti farti sentire qualche piacere, qualche gioia di questo nostro amore immenso che reciprocamente si è… impossessato di noi facendoci felici e nello stesso tempo infelici…

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La lettera successiva, stizzita e molto breve, è di appena 3 giorni appresso: Sono passati venti giorni da quando mi trovo a Lecce e ancora non ho avuto il piacere di leggere una tua lettera… sono tanti gli affari che ti costringono a non dedicare 5 minuti a me? Oppure altri impegni ti fanno dimenticare i doveri di una fidanzata? In testa, per una volta, c’è solo un Maria e non gli abituali “mia adorata, mia cara, mia diletta” ecc. Successivamente Maria deve avergli risposto per le rime e Pietro abbassa la cresta; l’atteggiamento è quello di chi si sente colpevole: Lecce 21-1-1942

Maria cara Ti ringrazio di avermi scritto come desideravo. Non credo però che passeranno anni per attendermi… sei stata sincera molto sincera nel palesare i tuoi pensieri. E’ vero: tante volte ho promesso e non ho mantenuto, hai ragione su questo non dissento affatto. Non credere però che se avessi le possibilità non avrei fatto da tempo il passo più bello che tanto agogno di sposarti. Tu pensi chissà cosa di me: forse immagini che sono di poche parole che prometto mari e monti e poi non mantengo. Su questo punto di vista hai ragione… aspetto il momento propizio per prendere la rivincita. Hai detto che la sincerità è nemica dell’amore; io sono del parere contrario perché se io volevo sapere tutto di te, anche il passato, lo facevo per il troppo amore, per

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il troppo bene che ti voglio e la nostalgia che mi invade giornalmente è per il fatto che penso sempre a te e non riesco più a distogliermi, neanche un solo minuto. Se avessi saputo che un altro uomo ti avrebbe fatto battere il cuore (no all’età di 13 anni), per me sarebbe stato un martirio perché avrei pensato che tutto il tuo bene si sarebbe diviso in due, quindi, pensando che invece di tutto il tuo bene ne avessi avuto una metà, per me avrebbe significato una tortura. Perciò ti amo tanto Maria perché sento che io solo ho avuto la fortuna di possederti e che nessuno ha osato l’inosabile. Vedo che i miei rivali mi guardano male e chissà quanto pregano per vederci infelici. Scusami Maria cara se sono così poco preciso nel dire le mie idee, spero che la tua intelligenza sappia valersi per risolvere tutti i miei affluenti pensieri. Saluti e baci a tutti di casa tua, a te abbracci cari e baciami tuo Pietro

In questo periodo Pietro scrive un giorno sì e uno no, e sono tutte missive inviate per espresso: vi troviamo notizie sull’addestramento che impartisce alle reclute (servizio delicato, lo definisce) e ancora scuse sincere per le cose scritte in un momento di rabbia. D’altra parte quando lei non gli dà sue notizie lui si sente abbandonato e terribilmente infelice ed è per questo che sta facendo di tutto per essere 42


trasferito, per cercare di avvicinarsi. Lei non deve pensare che lui sia contento di stare a Lecce, tutt’altro, perché niente mi attira, niente può farmi svagare e infatti basta pensare che da quando si trova lì non l’ha mai tradita perché sentirebbe di farle il più grande torto. A fine gennaio nell’ultima lettera di questo mese lo troviamo alle prese con alcuni interrogativi: Lecce 26-1-1942

Maria mia cara, E’ vero che l’amore più bello è quello taciuto? E’ vero dunque che mi ami tanto, e che per non sembrare ridicola non me l’hai detto? Perché non mi confessi quello che senti nel cuore? Sei stranissima nel tuo modo di agire ed appunto per questo mi sono tanto innamorato. Vedevo in te quella donna che sapeva fingere, soffrire, amare e non vedevo quella donna vezzosa piena di arie che credono tutti gli uomini come esseri inferiori e di nessuna importanza. Sei stata molto diversa da tutte queste e per quanto hai cercato di dimostrarti superiore non ci sei riuscita perché la passione ti ha avvinta e mi hai amato. Ti capivo Maria, ti studiavo in ogni momento perciò sono stato costante perché ero sicuro che presto o tardi saresti stata mia e solamente mia. Come vedi mia cara ci sono riuscito; adesso ti amo, ti amo tanto e mai sarò sazio di amarti. Ricordi quanti giorni deliziosi abbiamo passato insieme? I bagni, le passeggiate notturne, quella indimenticabile… Ricordi ancora quando ti sei marinata la scuola? Tutti ricordi belli che sono stati il prologo del nostro grande amore. Mai potevo pensare a questi tempi: mi sembrava che andando più avanti tutto fosse più bello, purtroppo è stata una grande delusione. Ricorda anche tu quei tempi, mia cara e ricordali con rammarico perché sono stati quei tempi in cui abbiamo avuto agio di conoscere i nostri difetti e pregi e che ora abbiamo la fortuna di non biasimarci. Ti amo tanto, baci Pietro

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La lettera seguente, non particolarmente significativa per gli eventi, coglie invece lo stato d’animo altalenante di Pietro che passa dalla possessività all’altruismo, i due lati dell’amore che traspaiono sempre dalle sue lettere. Lecce 7-2-1942

Maria mia cara Come prima cosa voglio scusarmi se ti scrivo con un po’ di ritardo; la causa o per meglio dire, la ragione di questo ritardo, non attribuibile a trascuratezza o dimenticanza, bensì alla mia influenza che mi ha tenuto legato al letto per quattro giorni, cioè fin dalla sera che sono arrivato a Lecce. Adesso sto bene, tanto bene ed ho ripreso servizio e mi sento in vena come una volta. Amore mio, nel breve che rimasi a letto non ho fatto altro che pensare a te, alla mia permanenza breve a Reggio, al tuo modo di agire, al tuo bel viso, ai tuoi occhi, infine al tuo magnifico corpo. Credimi, Maria, ero molto più ammalato d’amore che di influenza, se avessi sentito una tua parola in quel momento, se avessi ascoltato la tua voce, sarei diventato come prima, cioè non mi sarei abbattuto da sembrare sul serio

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ammalato. Maria cara, siamo indispensabili l’uno all’altra. E’ un ossessione stare lontani, sembro esagerato, no? Eppure è così. A quest’ora, mentre scrivo, sei dalla signora Mimma che balli… sembra di vederti in mezzo alla sala nelle braccia del cavaliere che ha la fortuna di condurti alla danza a ritmo sincopato di uno slow… chissà quante parole ti dice… chissà quanti complimenti ti fa in questo momento, sono esattamente le ore 19,20. Vorrei essere io per danzare e dirti tante di quelle belle parole amorose per farti assaporare il vero grande amore che nutro per te. Ti amo tanto, Maria, sei l’unico mio bene, sei tutto per me. Non riesco mai a capire cosa abbiamo fatto di male per soffrire tanto, e pensare che non siamo invidiosi ed egoisti… e se fossimo tali? E’ meglio non parlarne. Credimi, amore mio, ho bisogno dei tuoi baci, ho bisogno del tuo amore benché in questa mia ultima licenza sei stata glaciale, questo non è rimprovero che ti voglio fare, è semplicemente constatazione che ho fatto in poche ore. In questo momento la radio trasmette “Dormi bambina”, mi sono dovuto fermare perché ricordavo quando la cantavi tu. Adesso nella mia camera sono solo perché i miei colleghi sono andati in congedo, figurati che squallore, sono diventato quasi misantropo e da cinque giorni non esco e leggo. Sai cosa sto leggendo adesso? Il fantasma dell’altra. Adesso mi ritiro a casa. Ogni cinque balli, pensami!

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Altro esordio da incorniciare in una lettera del 22 febbraio: Aspettavo con tanta ansia una tua specie oggi che era domenica, invece il mio attendente mi dice: anche oggi niente signor tenente. Se ne lagna e le dice di averla sognata: Eri più bella del solito però mi guardavi in un modo strano rispondendo quasi seccata alle mie domande… sembravi un’altra pensavi altrove senza quasi curarti di quello che dicevo… meno male che mi sono svegliato. Decisamente qualcosa non va se E’ passato un anno e due mesi da quando mi trovo sotto le armi e posso dire e affermare che mai ho dimenticato o meglio trascurato i doveri di fidanzato.

Da quel che abbiamo letto si può pensare che Maria abbia manifestato a più riprese qualche sospetto sugli ozi Leccesi di Pietro, subodorando tradimenti da parte di lui così pronto a farle le bucce ogni volta che lei si diverte. Deve avergli anche rimproverato di parlarle troppo poco della sua vita militare, quasi a conferma dei suoi sospetti che lui in fondo non se la passi poi così male. E allora stavolta Pietro gliela descrive: Mi alzo prestissimo corro in caserma ed esco con la truppa a fare le istruzioni, sapessi che lavoro con le reclute, c’è da impazzire… la sera rientro tardi e ho il tempo di cenare e andare a letto, sapessi come desidero dormire.. A distanza di pochi giorni un’altra lettera inizia con una frase che è tut46


ta un programma: Maria carissima, non voglio assolutamente che tu vada dove mi hai detto: sai che sono nemico sapere queste cose e perciò mi fa meraviglia come me l’hai scritta. Se poi ci vuoi andare fai come credi.

Non ci è dato sapere di che luogo si tratti, ma forse dal tenore del seguito si può pensare che Maria si stata invitata in qualche magione principesca e la cosa non va giù a Pietro che le dice: anche noi un giorno avremo una bella casetta piena di belle cose… un vero nido da sposini… io sono molto conoscitore di case bene attrezzate, intendiamoci non attrezzate nel modo principesco, bensì ornate del necessario per ospitare dei giovani sposi. Il 24 aprile Pietro viene trasferito a Taranto: Tu pensi che il posto dove mi trovo adesso è un paradiso, in realtà si trova relegato a 5 km dalla città in aperta campagna ed è solo come un cane. Recarsi a Taranto è proibito e questo deve tranquillizzarla: adesso puoi essere sicura perché di donne non se ne vedono nemmeno col binocolo. E’ il più ragazzo di tutti, i soldati e gli 47


altri ufficiali sono più anziani di lui e sposati con moglie figli, per questo mi chiamano il figlio della lupa, figurati. Alla partenza da Lecce lo hanno festeggiato, il suo comandante ha fatto un bel discorso e lui non ha potuto fare a meno di piangere. Ora è lontano dalla civiltà, lontano da tutti, i soldati hanno la barba lunga, i baffi, gli dispiace seccarla con queste lamentele ma non esagera, anzi ha sminuito nel parlargliene. Due giorni dopo il suo scontento è alle stelle: E’ la terza lettera che ti scrivo da questo lurido posto; così le descrive le sue giornate: si alza alle 9, controlla la truppa, gioca col cane, spara con la pistola, pranza alle 12, pomeriggi disastrosi, noia e malinconia. Notti interrotte da un sinistro rumore (meno male che non sono un fifone). Non fa che rileggere le lettere di Maria, soprattutto quelle dove lei gli parla del passato. A maggio l’argomento cruciale è sempre più il loro matrimonio: dopo una lunga lettera tutta imperniata sui sentimenti che nutre per la sua adorata e nella quale si comprende che la vita militare in quella campagna desolata lo sta deprimendo sempre di più, nelle successive Pietro parla dei problemi che dovranno affrontare, soprattutto di quelli economici, che la famiglia di lei non è in grado di sostenere e dunque lui deve risparmiare. Poi ancora delle difficoltà che incontrerebbero e delle dicerie della gente se si sposassero senza un posto, senza niente… e, no, le promette, le cose si faranno per bene. Maria non è affatto convinta e anzi deve essersi offesa per ciò che Pietro le ha scritto in merito alle spese matrimoniali. Le parole di lui sono state interpretate come scuse puerili e Pietro cerca di giustificarsi dicendole lo so che tu non hai bisogno della mia elemosina. Il 16 maggio Pietro scrive una lettera lunga e accorata: ne riproduco qui sotto la prima pagina che spiega molto meglio di come potrei riassumerle le perplessità di Pietro su quanto gli ha scritto Maria. Siamo a metà del ’42, la guerra ha cominciato a investire il territorio italiano. Pietro ha appreso dai giornali delle incursioni su Messina: mi figuro che nottate di veglia state passando.

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VENTI DI GUERRA II

Le cronache ci dicono che il 24 maggio intorno alle ore 02,00 oltre duecento quadrimotori della RAF devastarono Reggio e Messina; al termine delle incursioni che dureranno incessantemente per circa quarantotto ore si contarono 52 morti e centinaia di feriti tra la popolazione. Eppure dalle lettere che Pietro e Maria si scambiano appare lo scorrere di una vita normale: si va al cinema, si va in spiaggia a fare i bagni (Pietro si premura di sapere da Maria se ha fissato i bagni), ci si sposa (Maria è stata invitata alle nozze della sig.ra Lazzaro e Pietro si immagina com’è vestita la sua amata). Sembra quasi non si abbia sentore di quel che sta succedendo. Purtuttavia Pietro, anche se non in prima linea, in qualità di Ufficiale ne avrà avute di notizie su come stanno andando le cose e avrà certamente capito che lo sforzo bellico dell’Italia sta incontrando seri problemi sui vari fronti, balcanico e africano in primis. Vien da chiedersi come mai non si trovino accenni di sorta nelle sue lettere e probabilmente c’è da pensare che certi silenzi fossero in qualche modo imposti dalla censura cui era sottoposta la corrispondenza nell’intento di non lasciar trapelare nulla che potesse minare il morale della popolazione. Ma c’era anche un’altra ragione confidatami da mia madre: lei della guerra proprio non voleva saperne, era come se non la toccasse e ne rifuggisse; di questo suo rifiuto mio padre era a conoscenza, per questo, sensibile e devoto com’era nei confronti dell’amata, per non darle dispiacere evitava di 50


parlare di certe cose e non solo nelle lettere che le scriveva ma anche nei rari momenti che riuscivano a stare insieme grazie alle licenze. Arriviamo a Giugno e la corrispondenza attraversa il mese senza che ancora si possa dedurre alcunché di quel che succede al di fuori della loro storia d’amore. Pietro nelle molte e lunghe lettere che continua a inviarle non fa che parlare a Maria dei sentimenti che prova per lei, dei sogni che fa di averla vicina, delle fotografie ricevute che non si stanca mai di guardare e di commentare, estasiato com’è dalla bellezza delle sue pose. Si capisce però che agli inizi del mese Pietro ha ottenuto una licenza che gli ha permesso di passare una settimana a Reggio insieme a Maria. C’è anche un accenno a una loro visita al Municipio e si può intuire che la licenza abbia loro permesso di spiegarsi, che i dissapori si siano acquetati e che insomma questo matrimonio s’ha da fare e si farà. E’ Luglio e la mancanza di lettere da parte di Maria fa disperare Pietro che se ne lamenta e non esita a dichiararsi arrabbiato per il fatto che lei non riesca a trovare cinque minuti da dedicare a scrivere al suo fidanzato.

Luglio 1942 - Pietro con lo zio Mico, suo padre e il fratello minore Carlo

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Ma poi gli giunge la notizia che Maria è in procinto di partire per Bologna e Pietro si dichiara contentissimo di questa sua decisione ed è certo che lei si divertirà, però le raccomanda di stare attenta ai bolognesi. La lettera seguente val la pena leggerla così com’è per le notizie che vi sono

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riportate: la felicità per la visita che gli hanno fatto il padre e il fratello, il portagioielli e il quadro che per loro tramite può inviare a Lucrezia (so che sono cose da nulla, però accetta ugualmente), i primi tre giorni di arresti che Pietro ha dovuto scontare, consegnato in casa.

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Bovalino

A metà mese Maria si è recata a Bovalino per passarvi un breve soggiorno che lui le augura pieno di tranquillità e di riposo e dove se la immagina tanto abbronzata. Il soggiorno di Maria a Bovalino non è andato giù a Pietro e su questo ha rimuginato a lungo. La lettera seguente, tanto corta e stringata come mai gli è successo, testimonia a pieno il suo stato d’animo: C’è di che restare interdetti e si può ben immaginare che a Maria questa lettera sia poco piaciuta. Ma lo immagina e lo sa anche Pietro che, nella successiva, non può fare a meno di darle la spiegazione:

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Ai primi di agosto Pietro riceve una lettera da Maria dove lei gli dice che partirà per Bologna il giorno 9 o 10 e che al ritorno probabilmente potrà passare da Taranto. Trascorrono i giorni e a Pietro non giungono notizie; in seguito gli arriva una cartolina. L’inquietudine rende freddo Pietro che a metà agosto scrive: Cara Maria, sei molto presuntuosa, e adesso incomincio a credere che tutto ciò che mi hai detto nei riguardi di un probabile passaggio a Taranto non è vero: perché lo sto notando di cartolina in lettera, perciò confessamelo che l’hai detto soltanto senza però farlo. Il seguito si legge nell’originale del 13 Agosto, indirizzata presso signorina Mignani Wanda, via Pietromellara, interno stazione n° 1, Bologna:

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E’ una lettera gelo ed è così che la definisce Pietro nella successiva, perché capisce che quello che ha scritto le ha arrecato dolore.

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Maria è arrabbiata e ancora una volta il tono freddo di lui non le è affatto piaciuto. Pietro di rincalzo le manifesta la sua delusione per la pigrizia con cui lei si fa viva.

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Il 29 Agosto Pietro è a Caserta al Centro Addestramento della Settima Armata. Non abbiamo la lettera di risposta ma ci vengono in aiuto le reazioni e i commenti di Pietro che ci fanno capire qualcosa su ciò che lei può avergli scritto. Di certo Maria gli ha risposto per le rime, tipo “e va bene, lasciami, tanto…” e Pietro (impaurito) è costretto ad abbassare i toni e a spergiurare sulla FIDUCIA (in stampatello) che serba nei confronti della sua amata malgrado tutto. Leggiamo insieme: Caserta, 2-9-42

Maria carissima Tagli veramente crudo. Non sapevo che la mia produceva tanto effetto… sei stata veramente mordace in tutto il tuo scritto. Ti ringrazio dell’aiuto che vuoi darmi per questa impresa però posso dirti che mai ho avuto la minima intenzione di lasciarti o di essere lasciato. Forse per te è niente non continuare perché so che i pretendenti non mancano anzi aspettano con ansia questo momento mentre per me produce molto effetto dato che ti ho amato e ti amo con tutto l’ardore. A tuo fratello non farò vedere niente e tu non dirai niente perché sarebbe una cosa molto grave; e poi non c’è ragione perché noi continueremo ad amarci come prima e più di prima. Vuol dire che mai ti consiglierò e parlerò a tuo riguardo… SAI BENE QUANTO FIDUCIA HO… Se ti scrissi in quel modo credo che le ragioni non mancavano, lo stesso avresti fatto tu se qualcuno parlava al mio riguardo. Ti prego però di essere più riflessiva quando scrivi, capito? Mi fa piacere se al ritorno passi da Caserta per stare un po’ di tempo assieme e parlare a lungo. Non è il pensiero della giustificazione che non mi fa agire, perché ancora ho la schiettezza e il coraggio di saper parlare bensì e l’amore che nutro per te… Queste cose non li capisci. Non c’è bisogno proprio di parlare con tuo fratello e la colpa che vuoi darti conservala. Scrivimi sempre e presto per espresso, capito? Non vorrei farlo perché tu non l’hai fatto…(potevi mandarmi almeno un abbraccio). Baci e abbracci Pietro

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L’originale è riprodotto in parte. Il modo in cui è scritta la lettera, forma e contenuto, contribuisce a farci capire quello che sta passando Pietro. E’ un momento-no e lo certifica anche la sua scrittura. Le crisi di Pietro finiscono infatti per influire sul suo modo di esprimersi e sulla sua grafia.

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Di questi cambiamenti troviamo conferma nella lettera che segue, inviata per espresso il 3 Ottobre. Appare netta, pulita, inappuntabile come quelle dei momenti migliori, soprattutto leggibile, tant’è che non c’è bisogno di

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trascriverla. E’ passato addirittura un mese dalla precedente e le cose fra Pietro e Maria (che si sono finalmente incontrati e si sono spiegati) sono verosimilmente andate a posto.

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La lettera dell’11 novembre, riprodotta quasi integralmente, racconta come Pietro passa le sue giornate rileggendo tutte le lettere scritte da Maria. E è cosciente che suo fratello ha capito quanto si senta solo e triste. Angelo ne ha

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parlato ai suoi genitori mettendoli in grande agitazione malgrado le raccomandazioni che Pietro gli aveva fatto di non dir loro niente. Cerca comunque di rassicurare Maria sul suo stare e le dice di non preoccuparsi. A Taran-

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to stanno proiettando la pellicola Noi vivi, ma lui non andrà a vederla. A fine Ottobre Pietro scrive: Sono molto cambiato da quando mi son messo in testa di sposare e non penso ad altro che al matrimonio, all’avvenire e alla felicità che ci attende… Una volta non ero così, cercavo di vedere, di essere

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a contatto con la gente, parlare, divertirmi… Basta pensare che da quando sono qui (al campo, fuori Taranto) non ho avuto il desiderio di recarmi in città per vedere qualche cosa di nuovo… Ti posso assicurare che il film Noi vivi non l’ho visto e nemmeno Addio Kira che l’hanno dato subito dopo.

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Come vedi anche questa passione delle belle pellicole sta scomparendo. Le lettere di Novembre hanno un po’ tutte i medesimi toni accorati; Pietro soprattutto si duole perché si avvicina Natale ed è convinto che non gli spetterà nessuna licenza. Sull’argomento tornerà più volte, probabilmente

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assillato da Maria che vuole essere rassicurata sui loro progetti. Ai primi di Dicembre le scrive: Hai ragione; gli anni tuoi più belli li hai trascorsi veramente in un periodo brutto, però non sei ancora inclusa nella classe delle zitellone perché all’età di 20 anni sei ancora ragazza… Se Iddio vuole ci

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rivedremo a Pasqua, allora potremo passare quindici giorni felici, gli ultimi che passeremo da fidanzati perchĂŠ poi nell’altra licenza sarai mia moglie. Il 14 Dicembre c’è una lettera dai toni drammatici: ci fa capire che Maria e i suoi sono probabilmente in procinto di abbandonare Reggio a seguito del susseguirsi degli avvenimenti e dei pericoli che incombono sugli abitanti.

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D’altronde anche Pietro non se la passa bene vivendo come vive tra soldati, alberi e mitraglia. Dalla lettera del 28 dicembre apprendiamo che Pietro ha avuto un insperato permesso a Natale che gli ha consentito di rivedersi con Maria a Reggio. E’ una bella lettera e val la pena leggerla così com’è stata scritta.

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Si chiude l’anno 1942. Il mondo sta vivendo ore sempre più drammatiche… ANNO 1942 FEBBRAIO

MARZO APRILE MAGGIO

SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE

Sul fronte orientale s’irrobustisce la presenza del contingente italiano con la costituzione dell’Armata italiana in Russia (Armir). La razione giornaliera di pane è ulteriormente ridotta: 150 grammi. A Salisburgo Hitler e Mussolini pianificano un’importante offensiva in Nord Africa. 25, 26 e 30/5: Bombardamenti a Messina: vengono colpiti il porto e l’ospedale civile Principe di Piemonte 26/5: Le truppe del generale Rommel sfondano le linee nemiche e avanzano per oltre 500 chilometri, arrestandosi il 30 giugno all’altezza di El Alamein. 28/5: Le forze dell’Asse sono all’offensiva anche sul fronte russo in particolare in direzione del Caucaso. Con i contemporanei attacchi in Russia e in Nord Africa l’Asse raggiunge l’apogeo della sua potenza espansiva. In Europa, con l’eccezione del Regno Unito, il dominio diretto o indiretto di Hitler e Mussolini è praticamente totale. 31/5: Nuove incursioni della RAF a Messina, Siracusa, Trapani. L’avanzata tedesca in Russia porta gli eserciti a fronteggiarsi nei pressi di Stalingrado. In Nord Africa, da El Alamein prende avvio la controffensiva finale dell’esercito inglese. 19/11: Sul fronte orientale, inizia a Stalingrado la controffensiva dell’esercito sovietico. 22/11: L’esercito inglese giunge a riconquistare l’intera Cirenaica. Bombardamenti dell’aviazione alleata sulle città italiane. 72


DICEMBRE

11/12: Lungo il fiume Don, dove è schierata l’Armir, si scatena una poderosa offensiva sovietica.

Nel 1942 nascono: Stephen Hawking 8 gennaio Cassius Clay 17 gennaio Dino Zoff 28 febbraio Aretha Franklin 25 marzo Barbra Streisand 24 aprile Vittorio Cecchi Gori 27 aprile Muammar Gheddafi 7 giugno Paul McCartney 18 giugno Harrison Ford 13 luglio Giancarlo Giannini 1 agosto Isabel Allende 2 agosto Francesco Tullio Altan 30 settembre Daniel Barenboim 15 novembre Martin Scorsese 17 novembre Nel 1942 muoiono: Carole Lombard 6 ottobre 1908 - 16 gennaio 1942 John Barrymore 14 febbraio 1882 - 29 maggio 1942

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LA CARTOLINA DI BOCCASILE

Italiano che strappa dente a John Bull1 (la cartolina reca il timbro 12 maggio)

Siamo giunti alla fine del 1941 e mi prendo una pausa per commentare un reperto che spicca per originalità fra i tanti pervenutimi che i miei genitori hanno conservato. Una cartolina che, a guardarla, suscitava in me qualche ricordo e che, una volta osservatala bene ed essendomi resa conto della firma che la corredava (boccasìle), ha avuto l’effetto di sollecitare la mia curiosità. Boccasìle… Sì, questo nome mi diceva qualcosa e l’illustrazione qui sopra, impressa sulla carta, così turgida e colorata, mi riportava alla mente qualcosa di già visto e attrattivo, per una affinità a cose apprezzate probabilmente nel mio passato di adolescente. Mi è bastato prendere visione di alcune delle sue illustrazioni per rendermi conto di quella mia fascinazione e gli esempi qui sotto credo non suscitino solo in me questo effetto. 74


versione censurata

versione senza veli 3

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Si tratta di immagini pubblicitarie che quelli della mia generazione sicuramente ricordano bene: disegni e nomi rimasti impressi nella nostra memoria (c’erano anche Chlorodont Campari Tricofilina Roberts e tanti altri) che risalgono agli anni ’50 e che entrarono a far parte dell’immaginario collettivo di un paese che si stava ricostruendo dopo la tragedia della guerra. Gino Boccasìle, pugliese (1901-1952), ne era l’autore riconosciuto e apprezzato, ma lo era già stato negli anni precedenti la guerra. La sua fama era iniziata molti anni prima, in pieno periodo fascista, ed era dovuta soprattutto ad una serie di illustrazioni a colori di figure femminili che Boccasìle aveva realizzato tra il 1937 e il 1938 per la rivista letteraria Le Grandi Firme. “Signorine grandi firme”, così erano chiamate le ragazze che campeggiavano sulle copertine della rivista: con il suo disegno sontuoso Boccasìle proponeva un tipo di donna florida e procace, solare e mediterranea, dalle forme esuberanti strette in abiti aderenti, petto generoso e gambe lunghissime svelate da gonne dagli spacchi vertiginosi (per l’epoca) che - anche se non mostravano inebrianti scorci di biancheria intima come le sue concorrenti americane3 - sapevano comunque far girare la testa. Un’immagine stuzzicante e dal forte richiamo erotico che gli Italiani mostrarono di apprezzare moltissimo decretando il successo della rivista.

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Ben presto però cominciarono a manifestarsi anche forti dissensi: quei disegni rappresentavano infatti una donna libera e troppo emancipata, una che se ne andava da sola per le strade cittadine, il che era ben distante dallo stereotipo italiano d’antan, quello della donna-angelo del focolare, della donna-madre di famiglia. Così Mondadori, malgrado il successo arriso alla rivista, si vide costretto a cessarne le pubblicazioni ed il motivo per cui ne venne decisa e ordinata la chiusura4 era per l’appunto il comportamento, non proprio ineccepibile per una donna del Ventennio, tenuto dalla provocante signorina disegnata da Boccasìle che, ogni settimana, sfoggiava un vitino da vespa, gonne con lo spacco e calze nere con la riga. Finita quell’esperienza con la chiusura della rivista, Boccasìle (che nel 1938 era stato tra i firmatari del Manifesto della razza in appoggio all’introduzione delle leggi razziali fasciste) venne designato dal Ministero della guerra “grafico propagandista del regime”, e la sua opera si orientò verso la propaganda bellica, dedicata ad esaltare i combattenti, le armi e le gesta italiane.

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Qualche esempio:

E’ di questi anni la cartolina inviata da Pietro a Maria, un disegno impresso nella carta quasi repulsivo nella sua indubbia bellezza con quei colori che vengono esaltati dallo sfondo cupo, dove si satireggia crudelmente la “perfida Albione” rappresentata da un grassone imparruccato (John Bull) cui cava i denti (senza anestesia) un fante italiano con la collaborazione di un soldato tedesco. Quest’artista pugliese cui ho voluto rendere omaggio fu l’interprete e lo specchio di un’epoca con lui è tramontata. Illustratore dal tratto sontuoso, eclettico e prolifico, radicale innovatore del lessico pubblicitario, ai pubblicitari di oggi ha insegnato la sintesi, l’essenzialità e l’impatto prima ancora che di queste cose se ne prendesse coscienza. Ne sanno qualcosa e gli dovettero moltissimo Pirelli, San Pellegrino, Sperlari e tutti gli altri grandi marchi dell’epoca, le tante località di villeggiatura (Viareggio, Forte dei Marmi, Cattolica, Sestrière, Castrocaro) per pubblicizzare le quali Boccasile creò dei poster bellissimi), la stessa Fiera di Milano reclamizzata dal suo magico pennello ed il cinema di cui fu impareggiabile cartellonista.

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Note: 1) John Bull (Gianni Toro) è la personificazione nazionale del Regno di Gran Bretagna, creata da John Arbuthnot nel 1712 e resa popolare nel Regno Unito dagli stampatori britannici e all’estero da molti illustratori e anche da scrittori come George Bernard Shaw. 1) Gli ultimi due manifesti creati per Paglieri, dove Boccasìle gioca con il nudo quando il nudo era proibito, ci dicono quanto il nostro fosse coraggioso e innovatore per l’epoca. Un vero precursore… 1) Boccasìle si ispirava alla iconografia delle pin-ups d’oltreoceano dei vari Vargas, Aslan, Finlay ecc. che malgrado l’autarchia doveva conoscere. 1) Pare che Mussolini leggesse la rivista e apprezzasse, da intenditore, la sua protagonista, ma un giorno, nel settembre del ‘38, disse “basta” e diede l’ordine di chiuderla.

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ANNO 1943 (I parte) I CONTENUTI DELLE LETTERE

Pietro inizia l’anno con due missive praticamente identiche. Racconta a Maria come ha passato l’ultimo giorno dell’anno andando a letto presto malgrado l’invito ricevuto dai colleghi dell’Aviazione di raggiungerli per brindare insieme a loro. Invito respinto perché troppa era la nostalgia di essere lontano da lei, per cui se ne era andato in camera e si era coricato. Vinto dal sonno, si era subito addormentato per poi però svegliarsi di soprassalto e vedere che l’orologio segnava esattamente mezzanotte meno tre minuti. Un segnale preciso che in quel momento tu mi pensavi, le dice, e di essersi pentito e rimproverato di non aver saputo aspettare. A metà gennaio Pietro è una volta di più alle prese con la depressione: da Maria non riceve notizie da giorni e le scrive di essere molto arrabbiato perché ciò mi fa pensare che sei molto trascurata e quindi poco interessamento nei miei riguardi. Prova invidia nel vedere il suo collega tutto allegro perché la sua fidanzata giornalmente gli scrive e non se ne dà pace perché oltretutto lui è più racchio di me. A Taranto fa un freddo da cani e Pietro ne ha subito le conseguenze. Le racconta infatti: me la sono vista brutta a causa del fuoco che era in camera mia, sentivo di non poter più respirare e mi alzai per uscire fuori a prendere aria, e caddi per terra. Sono stati i soldati a prendermi in braccio e a portarmi fuori dove soffiava un vento terribile. Al mattino forte febbre, raffreddore e tosse.

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foto del 29 gennaio

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Grazie all’aspirina si è rimesso e adesso sta bene. Maria gli scrive, ma non sono buone notizie: è angosciata per suo fratello Francesco reduce dalla campagna di Russia e rimpatriato a seguito delle ferite riportate a un piede. Pietro cerca di rincuorarla: Tuo fratello non è il tipo di esagerare la cosa, anzi è molto riservato, perciò se ha scritto che adesso sta bene ci dovete credere. A fine mese Pietro è costretto a tranquillizzare Maria: lei deve avergli manifestato un forte malcontento per le gite in città e lo sospetta ancora una volta di condurre vita libertina. Lui le scrive: Amore mio Maria, è possibile che dubiti ancora di me? La vita libertina non riesco a farla, sono diventato tanto serio, non penso che a te e null’altro. Niente ho fatto di male andando in città. Non piangere, perché gli affetti che tu dici di non avere sono tanto grandi e in special modo il mio. Quindi passa a raccontarle una cosa che gli è successa: L’altra sera, ascoltando la radio dei combattenti, ho sentito pronunciare il tuo nome e cognome e non puoi avere idea di che balzo al cuore… Giocavo a carte e da allora non ho capito più niente. Credevo che fosse una canzone dedicata a me, mentre era la fidanzata, o per meglio dire la Maria Romeo di un primo aviere che dedicava una canzone. Invidiai per un po’ questo compagno d’armi ma poi niente più perché pensai che anche lui è fortunato di avere la fidanzata che si chiama come la mia. Poi ancora rassicurazioni: Stai tranquilla per me e non pensare che possa fare quello che tu immagini perché non lo farò, penserò te amerò te e solo così mi passano i giorni. Pietro, come si vede, si macera per i silenzi di Maria, per le sue lettere così pigre e parche a differenza delle sue, ma qui ci sono anche altre ragioni, più concrete, che lo spingono a scriverle come le scrive. Le scopriamo nel seguito: Pietro è all’ospedale dove si è dovuto internare a causa di un ascesso gengivale causatogli dall’aver dovuto passare al freddo un’intera notte di veglia per un turno di picchetto che gli era toccato fare. Dice di soffrire molto anche se la mia fibra è forte e molto dura e non mi lascio abbattere. In ospedale verrà trattenuto due o tre giorni, poi probabilmente avrà sette giorni di riposo tramutabili in licenza, ma la cosa che più mi addolora è il dente che volevo foderare d’oro, per questo ha mobilitato i migliori dentisti di Taranto 82


per farmi mettere questo dente e lo farò mettere d’avorio come mi hai detto tu. Fatto sta che tutto il guadagno di tre mesi di distaccamento dovrò spenderlo di gran corsa e cioè £. 1000. Dovrà decidere in merito alla licenza se gli verrà concessa, ma una cosa è certa e cioè che con un dente mancante non verrò.

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Si disvelano una volta di più aspetti di un Pietro narcisista che ci tiene moltissimo a mostrarsi sempre al suo meglio. Ne abbiamo una conferma da quanto scrive a Maria due giorni dopo: se gli daranno la convalescenza e relativa licenza, spera che gli mettano il dente nuovo perché senza non vuol essere visto; tutt’al più, se verrà a Reggio con un dente mancante, vuol dire che non parlerò più per tutto il periodo che starò perché sono racchio anzi racchissimo. La gelosia continua ad essere un tema portante della corrispondenza. Una gelosia reciproca, a tratti devastante, soprattutto per Pietro che si lacera di questo sentimento e spesso si vede costretto a richiamare all’ordine Maria per certi atteggiamenti di lei, che in realtà non conosce trovandosi così lontano, ma che comunque intuisce. Atteggiamenti che lo fanno andar via di testa. Si sa, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore…” e il cuore sanguina al solo pensiero. Pietro sa bene che la sua fidanzata è una bella donna che attira gli sguardi degli uomini. La immagina attorniata da stuoli di ammiratori se non addirittura di pretendenti pronti a scalzarlo. Maria a sua volta vive nel timore che Pietro possa darsi daffare con le donne: sono molte quelle che notoriamente ronzano intorno agli ufficiali, prede ambite e concupite. Il fascino della divisa, è ben noto, miete vittime e Maria è conscia che il suo bel Pietro, “ufficiale e gentiluomo”, maschio ed elegante, non avrebbe problemi a trovare compagnia femminile. E dunque anche Maria non è affatto tranquilla e, come abbiamo potuto vedere, è sospettosa che lui conduca “vita libertina” e appena può glielo rinfaccia. Nei giorni seguenti Pietro viene a sapere che Maria è partita per Imola insieme a sua madre per andare a trovare Francesco reduce dalla campagna di Russia e ricoverato in ospedale per la ferita al piede. Le scrive subito un espresso cercando di confortarla augurandole che Ciccio guarisca al più presto. Lo invia all’indirizzo della famiglia di Wanda, alla quale aveva già scritto il 13 agosto del ’42 a Bologna, sperando che questa possa farglielo avere. Pochi giorni dopo Pietro è a Reggio: in convalescenza com’è gli è stata concessa una breve licenza e ne ha approfittato per passare qualche giorno a casa. E’ superfluo dirti - le scrive - quanto mi sembra brutto stare qui senza che ci sia la donna che amo. 84


A Reggio Pietro resta sei giorni, speranzoso che lei torni a casa in tempo per riabbracciarla, ma così non è: il suo espresso non le è giunto in tempo o non le è stato consegnato. Con ogni probabilità Maria riteneva che Pietro fosse ancora a Taranto. Lui non se ne dà pace perché sarebbe bastato che

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lei gli inviasse un telegramma per evitare il contrattempo. Si era recato a Reggio sicuro di trovarla mentre invece Maria aveva dovuto trattenersi a Imola per ben dodici giorni. Nella lettera del 17 febbraio si legge: Tua sorella mi ha detto di andare a Gioia Tauro. Perché non vai? La mia famiglia andrà a Cittanova quasi vicino Gioia. Quando verrò staremo più tranquilli, ti pare? Le due famiglie stanno progettando di lasciare Reggio per sfuggire ai pericoli dei bombardamenti. Non se ne parla chiaramente ma una breve frase di Pietro in una lettera scrittale due giorni dopo è sibillina: Adesso dovranno passare due lunghi mesi prima di potersi vedere e chissà se saremo tra i vivi. Quella riprodotta qua sotto è la prima pagina della lettera che un Pietro adirato e furente ma rassegnato invia a Maria il primo marzo. Maria gli risponde con una lunga lettera, una di quelle che Pietro vorrebbe sempre avere da lei, lettere dove la sua amata gli racconta tutto, tutto quello che le succede, qualsiasi cosa la riguardi ed anche le sciocchezze come ad esempio i sogni che lei fa e che sono immancabilmente sogni dove Pietro la tradisce. Ma com’è possibile? - le chiede Pietro - che ogni volta che ti vengo in sogno ti tradisco? e comunque Maria deve sapere che i sogni prevedono il contrario, quindi se hai sognato che ti tradisco significa che non è vero, quindi stai contenta. La seguente è l’ultima parte della lettera dell’11 marzo.

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Dopo di questa ce ne saranno solo altre due. Il testo ribadisce che Maria non voleva saper niente di quello che stava succedendo intorno a loro mentre Pietro, più consapevole, evitava di parlargliene. Siamo alla penultima lettera e val la pena di leggerne almeno l’inizio. Scopriamo un Pietro che per una volta, invece di arrabbiarsi di brutto, è capace di fare dell’ironia sui comportamenti dell’amata richiamandola all’ordine affinché non gli menta e soprattutto non corra inutili rischi per soddisfare i suoi capricci (quattro volte al cinema, che diamine!): 16-3-43

Maria carissima Nell’espresso che mi hai inviato da Bologna mi avevi detto che al cinema non eri andata malgrado la insistenza di Wanda; inoltre mi hai detto che tutto questo lo avevi fatto per me. Hai detto una menzogna in quanto non si può vedere una presentazione se non si vede una pellicola quindi al cinema ci sei stata. Ricordati di non dire menzogne specie a me che sono, modestia a parte, furbo e ricordo tutto. Noto che al cinema ci vai spesso, però tre volte di seguito e con Caravaggio quattro, non lo voglio credere anzi non lo ammetto specie di questi tempi in cui gli allarmi sono frequenti. Certo è soltanto il timore di tuo padre che ti impedisce di andare spesso, se dipendesse da te ci andresti ogni sera, vero? Sei una bambina quando fai questi ragionamenti… meriteresti una tirata di capelli, peccato che sono tanto lontano. Di quello che succede da metà marzo in poi non sappiamo quasi niente: aprile, maggio e quasi tutto giugno passano senza che ci siano più lettere. Dobbiamo aspettare il 21 giugno per trovare l’ultima inviata da Brescia dove Pietro è di stanza al 3° Reggimento Autieri. Maria si trova a Gioia Tauro Marina, alloggiata presso un certo Risola Gaetano come si desume dall’indirizzo cui Pietro le scrive. E’ una lunga lettera, intensa, di cui riporto il solo inizio: racconta il disastratissimo viaggio che ha fatto per arrivare a Brescia all’impiedi senza mai sedere e delle difficoltà cui va incontro per trovare alloggio e soprattutto delle sue valige che sono andate perdute. 87


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La corrispondenza finisce qui. Le certezze di Pietro di riavere le sue valige andranno deluse: in realtĂ scoprirĂ presto che gli sono state rubate con tutte le cose di valore che contenevano. Mia

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madre mi raccontava che la perdita che piÚ causò dolore a mio padre fu quella della corrispondenza e delle foto di Maria che tanto gelosamente conservava e che tanto lo avevano aiutato nei momenti di sconforto.

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La lettera che segue, a firma di Violetta, fidanzata di zio Giuseppe, scritta da Napoli il 29 giugno, conferma che Maria si trova a Marina di Gioia Tauro dove lei e la sua famiglia si sono rifugiati dopo aver lasciato Saline Joniche dove erano in un primo tempo sfollati.

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ANNO 1943 (II parte)

Da Marzo a Giugno del ’43 sono successe molte cose di cui nelle corrispondenza di Pietro non troviamo traccia. Sul fatto che non ci siano altre lettere di Pietro dopo quella da lui inviata a metà marzo fino all’ultima del 21 giugno scrittale da Brescia si possono fare alcune illazioni: che eventualmente qualche lettera sia andata perduta (ma è ipotesi da scartare sapendo quanta cura ha avuto mia madre nel conservare la corrispondenza), che Pietro in quel periodo non conoscesse l’indirizzo dove scriverle, che i suoi impegni militari in quei mesi cruciali gli lasciassero poco tempo per scrivere, che Pietro e Maria avessero trovato altri mezzi per comunicare. Sono però a conoscenza del fatto che nel mese di aprile la famiglia di Maria ha lasciato Reggio Calabria per sfuggire ai bombardamenti degli arerei della RAF che, partendo dalla base di Malta e sin dall’entrata dell’Italia in guerra, avevano iniziato a imperversare sul sud della penisola (Palermo subì il primo bombardamento il 23 giugno 1940). Maria e i suoi, rifugiati a Saline Joniche, sono entrati a far parte del numero degli “sfollati”. Quello degli “sfollati” è un fenomeno che nel periodo bellico investe intere comunità civili, causando vasti movimenti di popolazione dalle città verso le località rurali e i centri minori. L’evento bellico scardina il quadro civile, separa e allontana le persone fra di loro e dall’ambiente abituale di vita. Gli sfollati lasciano alle proprie spalle affetti, abitudini, casa, lavoro, 94


pagando la maggior sicurezza con l’incertezza del ritorno, con il senso di provvisorietà dovuti al fatto di soggiornare in una comunità spesso molto diversa per dimensioni e cultura. L’accoglienza agli sfollati è imposta come un obbligo per i comuni, nei quali vengono impiantati appositi servizi che registrano su schedari presenze e movimenti rilasciando permessi di soggiorno e tessere annonarie. Una vita difficile, ma si vive comunque, o meglio si sopravvive. La famiglia Romeo è sfollata a Saline Joniche, frazione di Montebello Ionico, piccola cittadina sul mare che deve il suo nome per la presenza, un tempo, di saline marine e non è molto distante da Reggio. E’ una località che i Romeo conoscono bene in quanto mia nonna materna Clotilde era originaria di Pentadattilo, anch’essa frazione di Montebello. C’è il disagio di essere sfollati ma almeno lì ci si sente abbastanza al sicuro.

A Saline Joniche la famiglia Romeo tuttavia non resta a lungo, dopo poco meno di un mese torna nel capoluogo che non ha subito più attacchi aerei e dunque c’è il convincimento e la speranza che il pericolo sia passato. Un convincimento e una speranza destinati ad essere molto presto disillusi. 95


Ai primi di maggio, Pietro, che è stato trasferito da Taranto ed è di stanza a Brescia, ottiene l’agognata licenza e raggiunge Maria a Reggio. Dopo tanto tempo lontani finalmente si ritrovano, possono riabbracciarsi e dirsi quanto si vogliono bene. Giorni felici quelli ma destinati a durare ben poco. Il 6 maggio Reggio viene bombardata. Le cronache riportano che la città venne colpita da uno dei più sanguinosi e devastanti bombardamenti della seconda guerra mondiale in Italia. Il capoluogo, che contava circa 130.000 abitanti, era una zona strategica: aveva un aeroporto, era un importante nodo ferroviario, aveva due porti ed una piccola zona industriale; disponeva inoltre di diverse caserme e di batterie antiaeree. Per questo rappresentava un obiettivo primario per gli alleati ed i pesanti raid aerei cui la città fu sottoposta a partire dal gennaio 1943 fino al settembre dello stesso anno trovarono il loro culmine in quella data del 6 maggio. Sulla città vennero sganciate dagli aerei statunitensi partiti da Bengasi ben 110 tonnellate di bombe in due successivi attacchi che causarono oltre duemila vittime di cui il 90% solo nel rione Santa Caterina. Il bombardamento era stato fra l’altro preannunciato il 30 aprile intorno alle ore 13,00 da 50 quadrimotori delle forze alleate che avevano lanciato sulla città migliaia di manifestini nei quali la popolazione era invitata a rifugiarsi nelle campagne. Tempi di guerra. La vita è a rischio. Pietro e Maria ne hanno già corsi, ma ora insieme si godono questi pochi giorni di felicità che sono stati loro concessi. E’ il 6 maggio e in lontananza si sente il rombo… A tutti quelli che vissero in quegli anni penso sia successo di sentire il rumore degli aerei in lontananza che diventa sempre più forte man mano che si avvicinano. Un rumore minaccioso, raggelante. Anche Pietro e Maria sanno bene cosa significhi quel rombo e una volta di più lo sentono. Sono a casa di Lucrezia, a badare alla piccola Tilde, la figlia di Saveria che non ha nemmeno un anno. Saveria è con gli altri a fare i preparativi per sfollare di nuovo e come altre volte ha affidato la bimba a Maria. 96


E’ giorno e tutti corrono nei rifugi. Non loro due, rimasti soli con la bambina, le orecchie tese a capire dove porti quel fragore di aerei via via sempre più forte. Fortezze volanti, hanno imparato a riconoscerle, sanno che sono grandi, che hanno la pancia piena di bombe, ordigni di morte e distruzione. Le sentono sopra di loro, grevi nell’aria ma pronte ad alleggerirsi del loro carico mortale. Ancora non sanno dove andranno a sganciarlo e come tutti pregano che il loro obiettivo sia altrove, non importa dove ma non qui. Preghiera inascoltata: si sente un sibilo, quasi subito seguito da altri, di cose che lacerano e fendono l’aria, uno dietro l’altro senza soluzione di continuità, e si cerca di intuirne l’impatto, dove andranno a cadere. L’istinto ti dice di scappare. Sì, ma dove? Si resta impietriti ed è come se il tempo ticchettasse al rallentatore, attimi dilatati di terrore in un’attesa senza fine. Poi lo scoppio, il primo, la deflagrazione, la terra che sussulta e trema sotto i piedi, che scuote il suolo e le case, pareti e mura che traballano, tutto che sussulta, rumore di schegge impazzite. Non c’è il tempo di chiedersi “questa dov’è caduta” che tutto intorno torna a squassarsi per effetto di un’altra bomba che violenta il suolo, lo dilania e semina distruzione. E poi un’altra, micidiali ordigni che cadono a ripetizione, e ogni cosa vibra ed oscilla e si prova un terrore da cui non si può fuggire. E’ quanto succedeva in quei momenti, qualcosa che mi viene dalle testimonianze di mia madre, dai racconti suoi e di mio padre, parole dette comunque in modo parco e vago forse per non impressionare la piccina che ascoltava. Parole lontane. E’ il mondo che va a pezzi tutt’intorno. Qui ci sono due persone che si amano ed è l’istinto di conservazione a spingerli l’uno nelle braccia dell’altro… Sì, perché, com’è giusto e naturale, Pietro e Maria si abbracciano per proteggersi e questo stringersi reciproco è un modo - l’unico modo che conoscono in quei momenti - per distanziarsi dall’incubo che li sovrasta e dalla ferocia di quanto sta succedendo, un impulso straniante che li porta ad essere più forti di un fato crudele che potrebbe annientarli. 97


Pietro e Maria NO!, non vogliono che questo succeda, loro vogliono vivere e amarsi. Ed è quello che fecero: Pietro e Maria si amarono per vivere… il cuore e la carne che vanno a braccetto… e quel loro reciproco atto d’amore fu il rifiuto di soggiacere a un mondo che stava impazzendo, inconsapevolmente consci che quel donarsi reciproco soddisfaceva l’urgenza assoluta di combattere la morte con la vita… Così fu che una nuova vita ebbe a palpitare nel ventre di mia madre e, sì, a quella nuova vita nove mesi dopo sarebbe stato imposto il mio nome. Mia madre un giorno mi avrebbe confidato che lei, quando successe quel che successe, era ignara di tutto “ma proprio di tutto”. Questo significa che mia madre all’epoca era quasi inconsapevole e probabilmente senza una cognizione precisa di quanto successo fra lei e il suo Pietro. Non solo, perché in questa sua ignoranza mia madre era addirittura all’oscuro di quali avrebbero potuto essere le conseguenze di quella sua prima volta. Tant’è che passa un po’ di tempo, Maria ha dei “ritardi” ma non se ne preoccupa perché è una cosa che le è già successa. Passano i giorni e in Maria qualcosa inizia a manifestarsi, qualcosa che lei non capisce, strane cose che stanno succedendo al suo corpo e delle quali non può parlare a Pietro che ha finito la licenza ed è dovuto ripartire per Brescia, ma che infine si vede costretta a confidare a sua madre… Sua madre che trasecola: “Oh, figlia mia, ma tu sei incinta… ed ora?” La cosa non è ben accetta, porta sconvolgimenti in famiglia, c’è chi non gradisce e non è comprensivo. C’è da immaginarselo: Maria, questa figlia che non è sposata porta un figlio in grembo… e lo verranno a sapere tutti… vergogna, mortificazione, imbarazzo... E’ una sorta di ripudio. Maria viene allontanata, mandata da dei conoscenti contadini a Marina di Gioia Tauro, i Risola, che l’accolgono e le dànno asilo. Di Maria nessuno chiede più notizie, è come se lei non esistesse, abbandonata a se stessa, senza più una famiglia, ed è così che lei si sente, reietta, dimenticata. 98


Ma no, di una cosa Maria è consapevole: c’è qualcuno che sicuramente continua a pensare a lei, qualcuno a cui lei preme, qualcuno che l’ama: Pietro, e Pietro è l’unica persona su cui può contare, Pietro, che non sa e che deve sapere… Ed è di questo che Maria ragiona dentro di se nelle lunghe giornate passate nel fienile che fa parte della casa dei contadini, nel quale spesso si rifugia a pensare. Lei, Maria, deve, assolutamente DEVE, raggiungere il suo Pietro. Ma come fare? A questo punto entra in scena, diciamo da protagonista della vicenda, il fratello di Maria, Francesco. Di lui sappiamo che è da poco rientrato a Reggio dopo il ricovero all’ospedale di Imola dove nel mese di febbraio erano andate a trovarlo Maria e la madre. Guarito, è però rimasto irrimediabilmente affetto da zoppia a seguito delle ferite riportate al piede durante la campagna di Russia. Sulle vicissitudini di quello che per me sarà sempre lo “zio Ciccio” val la pena spendere un po’ di parole. Francesco, nato nel 1917, si era arruolato volontario e nel 1942 era stato inviato a combattere sul fronte russo. Le poche lettere che Francesco riusciva a far arrivare a casa dalla Russia erano infarcite di riferimenti a un certo Don Pasquale che risultava sconosciuto a tutti. Al che ognuno, leggendole, si chiedeva sconcertato; come mai Francesco parla così spesso di questo Don Pasquale? Il mistero fu svelato da Vincenzo, un amico di famiglia di Pietro che era ragioniere ma che sapeva un mucchio di cose e tutti ritenevano fosse un vero intellettuale. Vincenzo intuì che con quelle espressioni zio Ciccio cercava di comunicare la sua posizione geografica in Russia nella zona di combattimenti esattamente sul fiume Don (zona in seguito individuata dal nome Varonch Vordney Rosshos in cirillico). Ferito al piede in azione di guerra, Francesco era stato dato per morto e abbandonato durante la ritirata. Solo, ormai destinato a morte certa per assideramento, era invece sopravvissuto miracolosamente grazie a un con99


tadino russo che, trovatolo, se l’era caricato sulle spalle e l’aveva portato a casa sua. Curato alla meglio e dopo aver perso 3 dita del piede sinistro, zio Ciccio, affidato all’esercito russo quale prigioniero di guerra, era stato poi riconsegnato all’esercito italiano e rimpatriato. Francesco è persona generosa e riservata ed ha uno stretto legame con Maria. Conosce bene Pietro e gli è molto amico. Malgrado quel che è successo, Francesco ha continuato ad avere contatti con la sorella e questa alla fine gli ha confidato quello che intende fare e cioè risalire la penisola e raggiungere Pietro a Brescia. E’ una vera pazzia. Si può pensare che Francesco abbia cercato di far desistere Maria, ma lei è decisa nel suo proposito, niente la smuove, sarebbe partita anche senza essere accompagnata. Francesco non può assolutamente permettere che la sorella affronti questo viaggio da sola e vista la sua determinazione e l’impossibilità di convincerla a desistere, decide di accompagnarla. Non può lasciarla andare senza alcuna protezione incontro a chissà quali pericoli. Congedato e reduce di guerra lui solo può sicuramente aiutarla nell’impresa. La decisione è presa: Maria e Francesco partiranno insieme. Mia madre. All’apparenza fragile ma coraggiosa e determinata come poche. Mi sono spesso chiesta: quante donne al suo posto avrebbero avuto il coraggio di intraprendere una cosa simile? Addirittura In tempi come quelli, con tutti i pericoli cui sarebbe andata incontro nel bel mezzo di una guerra che ormai mieteva vittime sul suolo italiano, fra i civili e non più solo fra i soldati al fronte, con le difficoltà nei trasporti messi a rischio dalle incursioni aeree, le carenze di alloggi e la penuria di cibo. Inoltre, nelle sue condizioni, con l’accenno ormai di pancetta e le probabili nausee. Sì, certo, coraggiosa, ma diciamolo pure anche incosciente e avventata se è vero com’è vero che con quella sua decisione avrebbe messo a rischio se stessa oltre alla vita che portava dentro di sé. Non posso fare a meno di sottolineare il lato femminista di mia madre e dall’altro quello contraddittorio, perché in seguito avrebbe avuto il corag100


gio di rimproverarmi, ai tempi del ’68, quando per imitazione cercavo un eskimo (anche usato!) per darmi un tono. Mi diceva che ero una “stupida femminista sessantottina!”. Da che pulpito... lei lo era stata veramente! Comunque da me e mia sorella avrebbe preteso con tutte le forze illibatezza e abito bianco alle nozze. Io e mia sorella l’abbiamo accontentata. Inconsciamente abbiamo capito tutto senza tante parole. Occorre considerare che con quella decisione Maria avrebbe messo a repentaglio anche Pietro una volta riunitasi a lui, Pietro che era ufficiale alle prese con i suoi doveri di militare e che non si sa come avrebbe potuto reagire. Sì, insomma: cosa avrebbe fatto o potuto fare Pietro per lei ritrovandosela davanti? Ma credo che a mia madre questi pensieri non la sfiorassero nemmeno, credo che a lei premesse solo raggiungere l’uomo di cui portava il figlio in grembo, l’uomo che l’aveva resa donna e che doveva essere il suo sposo, certa del suo amore e decisa a ritrovarlo per stare insieme a lui, qualsiasi cosa avessero dovuto affrontare. Ed ora aveva suo fratello disposto ad aiutarla. C’è però un problema da superare: i due non hanno una lira e senza come si fa a partire? La sorte viene in loro aiuto: la contadina che ospita Maria ha il figlio a Brescia e, venuta a sapere che quella sarà la loro destinazione, chiede loro di andare a cercarlo quando saranno lì e di consegnargli dei soldi che ha messo da parte per lui. Maria e Francesco accettano, consapevoli che di quei soldi faranno un uso ben diverso da quello cui erano destinati, ma tant’è, si fa di necessità virtù e loro approfittano di quest’aiuto insperato. Le loro remore, se ne hanno avute, se le dimenticheranno quando a Brescia cercheranno e non troveranno il figlio della contadina.

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ANNO 1943 (III parte) MARIA e FRANCESCO RAGGIUNGONO PIETRO A BOLOGNA

Siamo a metà agosto del ’43 quando Maria e Francesco partono in treno per Brescia. Il convoglio incontra vari impedimenti lungo la strada e non li porta a destinazione, sicché sono costretti a cercare un passaggio su un camion militare e ci riescono grazie al fatto che Francesco, in quanto reduce di guerra, può usufruirne. Viaggiare in camion non è il massimo della comodità: sul retro, allo scoperto, caldo, sporco, polvere, tanta polvere. Ho appreso dai racconti di mia madre (sempre pronta a scherzare sulle vicissitudini di quel viaggio) che, prima di arrivare a Brescia, rendendosi conto di quanto fossero malmessi, stremati, sporchi, impolverati e con i vestiti luridi, decisero di far sosta in un albergo. E qui, usciti di stanza dopo aver fatto un bagno rigeneratore ed essersi cambiati con abiti puliti, mentre percorrevano il corridoio per andare a pranzo, Maria e Francesco, videro venir loro incontro due tipi tutti azzimati con i quali rischiarono di sbattere contro… cioè contro una porta a specchio che in realtà rifletteva la loro immagine. E lei, a raccontarlo, come rideva… Il loro viaggio è durato poco meno di una settimana quando finalmente arrivano a Brescia. Si recano subito a cercare Pietro, hanno l’indirizzo della caserma dove presta servizio, sono certi di trovarlo, è una corsa affannosa ma indomita.

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Maria rivedrà il suo amato, Francesco la riconsegnerà a Pietro, tutti e tre si abbracceranno e saranno al settimo cielo. E’ questo che pensano e sperano. E invece no!... delusione, oh, quanta! Pietro è stato appena trasferito a Bologna. Non si perdono d’animo, Bologna non è distante, bisogna tornare indietro, insomma poteva andare anche peggio… sù, che ci vuole? andiamo... Trovano l’ennesimo passaggio ed eccoli lì, nella città conosciuta come “la crassa”, ma ora alquanto dimagrita. Si recano alla caserma, Pietro è lì, questo è sicuro com’è sicuro che lui non sa che sono lì e non li aspetta… oh, la sorpresa che gli faranno… Ma… gliene andasse bene una almeno una volta! no, non c’è proprio verso… “Pietro Manglaviti?... mah, forse può essere che sia da queste parti questo Manglaviti”, è la risposta dell’ufficiale di picchetto, e no, non lo conoscono, non sanno chi sia, comunque, se c’è, di certo non è lì in caserma, forse sarà fuori, magari di ronda o per fatti suoi… Scorati e sfiniti: che fare? possono aspettare o andare a cercarlo… Sì, ma dove?... Bologna sembra loro una metropoli… no, inutile cercarlo, troppo stanchi per farlo… E allora si siedono a un bar lì nei pressi, sotto i portici, per riposarsi, per raccogliere le idee… E’ tardo pomeriggio, comincia a farsi scuro e ormai è davvero quasi buio e lì, sotto i portici si riesce a vedere a malapena, non c’è illuminazione, c’è l’oscuramento, i pochi negozi sono già chiusi o stanno per esserlo, e fra poco ci sarà il coprifuoco. In giro poca gente che si affretta a rincasare… e anche loro dovranno darsi daffare per cercare un posto dove passare la notte… Lì sotto, seduti a quel bar, al massimo scorgono solo ombre. Ma poi… a un tratto… quelle ombre là in fondo… un inceder di passi, tre figure che camminano verso di a loro… e che… sì, sì… quelli là vestono la divisa… militari… sì, militari che conversano… un parlottìo inintellegibile che giunge agli orecchi di Maria e Francesco… visione e suoni che soprattutto in Maria ridestano qualcosa e la fanno sperare… Maria ha un tuffo al cuore… un intuito, un presentimento… e d’impulso, d’istinto emette un grido: “PIETRO!” 103


un grido che echeggia sotto le volte, un nome invocato che fende l’aria… quei tre che si arrestano… uno che si fissa a guardare davanti a sé prima degli altri… attimi di sospensione… aguzzar di sguardi in cerca di conferme… incredulità, stupore… i dubbi che si fanno certezza. “MARIA?!” “PIETRO!” Ed allora eccoli Pietro e Maria, attori di un film dove si vedono i protagonisti corrersi incontro, una colonna sonora martellante che segna il tempo dei loro passi e dei battiti dei loro cuori impazziti e infine esplode nella frenesia del loro abbraccio, convulso e appassionato. I dialoghi posso intuirli: “Maria… tu qui?... ma come? perché?” “Oh, Pietro… dovevo venire… dovevo farti sapere…” Abbracci e lagrime che rigano le guance di Maria, di Pietro, di Francesco e, forse, anche dei commilitoni di Pietro, attoniti e commossi… E poi le spiegazioni: “Aspetto un bambino, Pietro…” e la risposta di Pietro, pronta, rimasta scolpita nel ricordo di Maria: “Non ti preoccupare, è una bella notizia.” Immaginiamocelo Pietro che prende cognizione di ciò che sta succedendo: Maria, la sua Maria, e Ciccio, lì a Bologna, arrivati chissà come… il perché l’ha capito, la sua amata aspetta un figlio (mio figlio!) ed è venuta a dirglielo, voleva che lui sapesse ed ora lei è qui che lo abbraccia, che gli si stringe addosso, raggiante… Maria, la sua amata, la sua fidanzata… Sì, giusto così… Perché Pietro non ha un pensiero che sia uno sull’avventatezza di Maria: di lei e da lei, innamorato com’è, accetta tutto e ora lei è lì con lui, donna indomita che ha avuto il coraggio di attraversare mezza Italia per raggiungerlo. Di una cosa è certo, che non si separeranno più, qualsiasi cosa succeda. Mia madre mi raccontava che quando mio padre venne messo al corrente dello stato in cui lei si trovava la sua gioia fu irrefrenabile e la prima cosa 104


cui pensò e disse fu: “Maria, ora ci sposiamo”. Non altro c’era da aspettarsi da un Pietro fermo e determinato nella sua certezza che non c’erano più impedimenti al coronamento del loro sogno, perché Maria era lì con lui ed è questo che lui aveva sempre desiderato e voluto per tutto il tempo che li aveva separati. Ma… e ora?... e ora che si fa? E’ la domanda sospesa nell’aria, la domanda cui occorre dare una risposta. E occorre darla in fretta perché Pietro deve tornare in caserma e loro… loro dove andranno? E’ qui che Francesco diviene ancora una volta protagonista. A Bologna vive Wanda Mignani con la quale sappiamo che Francesco è stato legato affettivamente e allora con Maria si reca a casa sua per chiedere ospitalità. Wanda non gliela nega, anzi è contenta di rivedere Ciccio di cui si considera ancora fidanzata. In realtà Francesco di Wanda non ne vuol più sapere e la considera solo una ex. La cosa non tarderà ad essere scoperta, tant’è che una sera Maria e suo fratello, tornando nella camera che è stata loro messa a disposizione, trovano i letti disfatti. Un preciso segnale che sono stati messi alla porta. A Maria e Francesco non resta che prendere alloggio presso un affittacamere.

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ANNO 1943 (IV parte) L’8 SETTEMBRE

C’è un bel film di Comencini, TUTTI A CASA, che descrive bene il trauma e lo sconcerto dell’8 settembre, quando dopo 1201 giorni di guerra la radio diffuse il famoso comunicato con cui si annunciava l’armistizio chiesto dal maresciallo Pietro Badoglio alle potenze anglo-americane. “Ma tu con chi stai, con il duce o con il re?” fu il dilemma di fronte al quale si trovarono i nostri soldati, colti di sorpresa dall’annuncio della resa senza condizioni accettata dall’Italia e dalla conseguente fuga di Vittorio Emanuele III a Brindisi. Ma quella storia raccontata nel film non ha niente a che fare con quel che successe ai miei se non per il fatto che sicuramente di quel giorno fatidico anche loro subirono gli influssi e dovettero prendere delle decisioni. Non so di preciso come la pensasse mio padre, so per certo che politicamente nutriva idee socialiste. Comunque per lui non c’erano alternative: mia madre era lì con lui, arrivata a Bologna non si sa come, a prezzo di sacrifici, stenti e paure. Non solo, Maria aspettava un bambino. Avrebbe mai potuto mio padre lasciarla per diventare partigiano o repubblichino? No, non c’erano scelte se non quella di togliersi la divisa, darsi alla macchia e lasciare ogni dubbio: per lui mia madre contava più di ogni cosa al mondo, questa donna che l’aveva raggiunto e trovato a sprezzo di tutto. Fu presa anche un’altra decisione: quella di sposarsi. Bisognava farlo subito giacché si poteva.

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All’epoca c’era un articolo, il 18, che consentiva di convolare a nozze senza tanta burocrazia, ovvero era sufficiente trovare un sacerdote ed avere due testimoni e la cosa si poteva fare. Fu così che il matrimonio di Pietro e Maria venne celebrato alle 7,00 del mattino il 14 settembre nella chiesa del Sacro Cuore a Bologna, con lo zio Ciccio a far loro da testimone insieme a due ferrovieri reclutati per strada che avevano fra l’altro molta furia in quanto dovevano prendere servizio. E i vestiti per il matrimonio? Maria con un bell’abitino che, previdente com’era aveva pensato bene di portarsi dietro quando era partita da Marina di Gioia Tauro. Pietro con un vestito diciamo “buono”, giacca e cravatta, prestatogli da Francesco. Quest’ultimo, avendo dato la sua camicia a Pietro, ne indossava una di Maria infilata alla rovescia sotto la giacca. C’è da credere che Maria avesse sempre sognato un matrimonio con tante persone tutte in ghingheri, in una chiesa piena di fiori, lei con l’abito bianco e lo strascico circondata dall’invidia di tutte le amiche, e poi tutti a festeggiare, il pranzo di nozze con le specialità calabre, morzeddu, nduja di spilinga, pesce spada in salmoriglio, la ghiotta, pignolata e torta al bergamotto, un giorno intero di tripudio con lei e il suo Pietro al centro dell’attenzione.

Vetrate nel Tempio del Sacro Cuore a Bologna

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No, niente di tutto questo ma si sposano: è quello che entrambi volevano, quello cui pensavano da due anni, il sigillo del loro amore. Io li immagino comunque felici, che si guardano con sguardi d’amore mentre si scambiano gli anelli, mentre si dicono SI davanti all’altare in quella chiesa sconosciuta con quel prete sconosciuto e quei testimoni altrettanto sconosciuti che hanno pure molta fretta. Quando mia madre raccontava come festeggiarono, brindando con un fiasco di vino e qualche biscotto, a lei veniva da ridere, a me scappava qualche lacrima! E i regali di nozze? L’unico regalo che ebbero gli sposi fu il Libretto di famiglia che il parroco donò loro com’era d’uso a quel tempo.

A Bologna Maria Pietro e Francesco non possono restare. Troppo pericoloso. Soprattutto Pietro è a rischio perché può essere riconosciuto e gli sono preclusi i rifugi. Ha disertato, per di più era ufficiale, ci sono i rastrellamenti e, se catturato, rischia di essere fucilato. L’unica cosa da fare è cercare di tornare a Reggio, comunque di scendere a sud per cercare di avvicinarsi a quella meta. E’ il terzo anno di guerra e ormai l’intero territorio italiano è sconvolto dalle bombe: linee postelegrafoniche che funzionano a singhiozzo, stabilimenti rasi al suolo, depositi incendiati ancora in fiamme, strade interrotte da macerie, cavi elettrici spezzati, rotaie divelte, tubazioni idriche interrotte. 108


Bisogna evitare le strade principali, andare per campagne. E’ quello che fanno, praticamente senza soldi quando vengono via da Bologna. Si arrangiano, a piedi e utilizzando vari passaggi, dormendo e mangiando dove e quello che trovano. Erano giorni quelli in cui ci si dava una mano, la catastrofe accomunava e rendeva solidali, le strade erano piene di gente che scappava, chi verso il nord chi verso il sud. Il cibo veniva condiviso, chi poteva offrire ospitalità lo faceva, ci si aiutava con una generosità sconosciuta in tempi meno difficili. Non so quanto tempo avranno impiegato, una settimana o forse più, ma infine riescono a raggiungere Roma. Arrivano che da poco Roma è stata dichiarata CITTÀ APERTA con proclama del Ministero degli Affari Esteri in data 14 agosto e la situazione 109


non è delle migliori. Il termine “città aperta” si riferisce ad una città ceduta, per accordo esplicito o tacito tra le parti belligeranti, alle forze nemiche senza combattimenti con lo scopo di evitarne la distruzione. Lo statuto di “città aperta” veniva attribuito tenendo conto del particolare interesse storico o culturale della città, oppure in virtù del consistente numero di civili presenti nella popolazione. Secondo il diritto di guerra internazionale, “aperta” significa “aperta all’occupazione da parte del nemico”. La proclamazione di ROMA CITTÀ APERTA era stata comunicata ai governi di Londra e Washington tramite la Santa Sede e il canale diplomatico dei paesi neutrali, Svizzera e Portogallo. Da parte del Comando Supremo italiano, sulla base del proclama, venne ordinato alle batterie antiaeree della zona di Roma di non reagire in nessun modo in caso di passaggio aereo nemico sulla città; furono anche disposti lo spostamento di sede dei reparti italiani e tedeschi ed il trasferimento degli stabilimenti militari e delle fabbriche di armi e munizioni; fu infine vietato l’utilizzo del nodo ferroviario romano per scopi militari. Però tutto ciò rimase lettera morta. Si trattava di fatto di una dichiarazione unilaterale, senza alcuna efficacia in quanto proclamata da una sola delle parti in causa. E dunque, se anche l’impegno italiano a smilitarizzare la città poteva ritenersi realizzabile, ottenere quello tedesco risultò pura utopia. Per tal motivo, i governi alleati rifiutarono di accettare la dichiarazione e si riservarono «piena libertà di azione nei riguardi di Roma». E Roma sarà infatti bombardata dagli Alleati altre 51 volte dopo il 13 agosto 1043, fino al 4 giugno ‘44. E’ in questa città sconvolta e in preda al caos che arrivano Pietro Maria e Francesco e lì sono costretti a fermarsi. Scendere più a sud avrebbe significato trovarsi con ogni probabilità in zona di guerra con le truppe angloamericane che fra luglio e agosto avevano occupato la Sicilia mentre le divisioni tedesche si preparavano ad una controffensiva acquartierandosi nel sud della penisola per fronteggiare un probabile attacco alleato sulla costa tirrenica che presumibilmente avrebbe 110


colpito Calabria Campania o Lazio. Ma c’è anche un’altra ragione per fermarsi a Roma. Qui vive infatti con la sua famiglia il cugino di Pietro, Fernando, che lavora alla Buitoni. Esiste quindi la possibilità di poter contare su un aiuto da parte sua. Pietro ha l’indirizzo, vanno a cercarlo e lo trovano nella sua abitazione nel quartiere Monteverde Vecchio, vicino all’ospedale San Camillo. L’accoglienza del cugino Fernando è buona, soprattutto nei confronti di Pietro che è contento di rivedere; semmai ha qualche problema ad accettare Maria che considera colpevole delle vicissitudini di Pietro. Fernando si dà subito daffare per trovare ai tre una sistemazione, soprattutto un posto dove possano passare le notti. E così Pietro e Maria hanno un posto dove dormire: il primo mese viene messa addirittura loro a disposizione una bella camera nella casa di proprietà della cognata di Fernando, la signora Ada Forti, stilista con un atelier di moda. Il prolungarsi al di là delle attese della loro permanenza a Roma finisce per cambiare le cose. Pietro e Maria si ritrovano a dormire in una delle stanze dell’atelier della signora Ada, non più su un letto ma su due sedie a sdraio. Quanto a Francesco trova ospitalità a Trastevere nella casa di un’amica di famiglia di Fernando dove divide una stanza con un tale Memmo che fa lo spazzino. A quel tempo chi ospitava i fuggiaschi correva seri rischi, addirittura la fucilazione, era dunque palpabile un clima di costante paura. Durante una notte furono svegliati all’improvviso dal suono prolungato del campanello nell’atelier. Pensando ad un rastrellamento dei nazisti, Pietro si dette alla fuga dalla finestra finendo nel giardino di un convento di monache dove un cane lo rincorse abbaiando ma non riuscendo a raggiungerlo. Si venne a scoprire che il campanello era bloccato. Passato il panico una gran risata accolse Pietro al rientro: era fuggito senza i vestiti e gli stivali. I disagi di questo soggiorno non sono pochi. 111


Tutte le mattine Pietro e Maria sono costretti a lasciare l’atelier prima dell’arrivo delle lavoranti e possono tornarvi solo quando queste finiscono i loro turni di lavoro. C’è da chiedersi come passano le giornate. Prima di tutto il quotidiano problema di approvvigionarsi di cibo che comporta trascorrere molto tempo in piedi, in fila nelle lunghissime code che fin dalle prime ore del mattino si formano davanti agli spacci deputati a fornire farina e altri generi reperibili. Francesco anche in questi frangenti si rivela prezioso poiché, come reduce e ferito di guerra, può proporsi ed essere designato a regolare le file dei questuanti davanti agli spacci ed ha così modo di agevolare Maria nel passare avanti agli altri. Vedendola in coda ordina perentorio “Avanti le donne incinte!”, poi, passato un po’ di tempo e chiudendo un occhio, può fare in modo che lei venga servita anche più volte. Da mio cugino Paolo, figlio di Francesco, ho saputo anche che zio Ciccio si faceva prestare da Memmo lo spazzino scarpe, cravatte e giacche usate che questi collezionava. Pertanto lo zio Ciccio era vestito sempre elegantemente come appare nelle foto di quel periodo. Esser vestito bene gli serviva a comprare carne ed altri generi alimentari all’ingrosso che poi rivendeva, guadagnandoci qualcosa, a domicilio di qualche casa di benestanti. Il cibo era il pensiero dominante in quei tempi. Pietro e Maria in qualche modo si arrangiano: campano con le tessere annonarie ottenute da Francesco, mangiando alle mense dei poveri che hanno imparato a conoscere, anche qui con le file regolate con la bacchetta da Francesco che può far passare per prima Maria la quale può mangiare anche per più turni. Erano giorni durissimi quelli, quando sotto le bombe alleate e le privazioni dovute alla guerra, la gente doveva preparare da mangiare. tessere alla mano e tutti in fila per il pane…

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Le materie prime scarseggiavano e cosa si mangiava? Me lo sono domandata e ho chiesto a parenti e familiari che quei giorni li hanno vissuti. La colazione, nei tempi più difficili, era rappresentata più o meno da un pezzo di pane rimasuglio del giorno prima, e, se si aveva la fortuna di tenere in casa zucchero, si facevano fette di pane “cotto” e addolcito. Per i bambini era l’antenato delle merendine di oggi. Il pane era giornalmente rintracciabile solo con la cosiddetta “tessera”, che faceva quotidianamente accalcare le persone in fila davanti ai negozi che lo distribuivano. Ma più si andava avanti e più aumentava la carestia di farina, il pane era sempre meno buono, quasi immangiabile. C’era il pane di segale, dalla mollica scura e amaro al gusto (anche se per ironia, pare sia molto ricco di qualità nutrizionali), o un tipo di pane che per breve periodo venne lavorato con farina (la poca rimasta) e nientemeno che polvere di marmo. Il caffè era un ricordo, esistevano dei “surrogati”, e spesso si usava l’orzo. Il pranzo era rappresentato da un piatto di frumento macinato e cotto alla buona. La pasta era una rarità. A cena sempre pane e qualche raro frutto o decotto di cicoria e altre verdure raccattate in qualche giardino. Una cosa che non mancava era l’acqua, che sgorgava per fortuna regolarmente dai rubinetti. Chimicamente molto più buona di quella di oggi. Quelli furono i momenti in cui si poté dire di aver non solo provato ma anche visto la fame coi propri occhi. L’ironia non mancava nemmeno a stomaco vuoto. A volte, però, anche quelle poche e misere cibarie mancavano e per la fame le briciole rimaste sul tavolo venivano mangiate come dessert. E c’erano i gatti che entravano dalle finestre, i topi da chissà dove, ma era dura pure per loro. D’altronde la guerra era davvero per tutti e non faceva quindi distinzione di specie. Comunque a casa del cugino Fernando e di sua moglie Gemma non se la passavano male. Fernando, tipo ingegnoso, utilizzava una cintura con l’interno cavo che poteva essere riempito di farina. Era uno strattagemma che gli consentiva 113


di fare provvista alla Buitoni dove lavorava. Niente abbacchio a tavola, né scottadito, forse qualche amatriciana, cicorietta e carciofi alla giudìa, comunque sia la mensa era imbandita e alla sera si mangiavano le tagliatelle fatte con la farina raccapezzata con quella cintura. Mentre Fernando Gemma e il loro figlio Carlo si ingozzavano, Maria e Pietro restavano in disparte a guardare e a inghiottire amaro. Non passava giorno senza che il cugino Fernando si rivolgesse a Pietro invitandolo in tono ironico: “A Piè, viè a mangià le tagliatelle” e Pietro, l’orgoglioso Pietro che aveva più orgoglio che fame, rispondeva “No, grazie, ho già mangiato.”. Maria no, lei non si faceva pregare e accettava l’invito, si precipitava al desco e per quel che poteva si rimpinzava. Dopo quell’impegno quotidiano che vedeva al mattino Maria in coda davanti agli spacci, gli sposi trascorrevano il resto della giornata vagando per la città, soffermandosi a sedere sulle panchine dei parchi e delle tante piazze di Roma, aspettando il tardo pomeriggio quando potevano tornare nell’atelier a riposarsi. Largo Argentina era una delle loro mete preferite. Sono arrivati a Roma verso la fine settembre e a Maria ormai comincia a crescere la pancia. Lasciare Roma per tornare a Reggio è una soluzione poco praticabile con l’inverno ormai alle porte ed il clima che diventa sempre più inclemente. La vita che conducono è a dir poco grama… e pensare che a Reggio, se si sapesse che loro sono nella capitale, a qualcuno verrebbe da commentare: “ah, quei due, hanno anche trovato il modo di farsi il viaggio di nozze”. Mi piace raccontare un aneddoto che riguarda Francesco di cui mi ha fatto ancora una volta partecipe mio cugino Paolo. Lo zio Ciccio un giorno viene a sapere che in una tal parrocchia riceve un monsignore che si prodiga per alleviare le condizioni dei più disagiati. Sperando di ricevere qualche aiuto in denaro, convince la sorella a seguirlo per andare da questo benefattore. Giunto alla parrocchia, vestito dimessamente, perora la sua causa adducendo di essere un profugo calabrese, male in arnese, di avere la moglie incinta che di li a poco deve partorire. Il monsignore lo ascolta, li guarda, e poi gli dà una lettera di presentazione per un lavoro. 114


Usciti fuori, già amareggiati per non aver ricevuto denaro, Francesco e Maria aprono la busta dove si raccomanda l’assunzione di Ciccio ai mercati generali come facchino. Ma lo zio, quale mutilato, non è in grado di fare quel tipo di lavoro. Fatto sta che qualche giorno dopo, in piazza Navona, Francesco, vestito di tutto punto con un abito preso in prestito dallo spazzino Memmo, si fa pulire le scarpe da uno sciuscià, assiso su una bella poltrona rossa. Mentre fuma una sigaretta gli passa davanti il monsignore che riconosciutolo lo apostrofa dicendo: “Ma guarda… e bravo il profugo!” Questo monsignore era Giovan Battista Montini che poi diventò papa Paolo VI°.

Pietro e il lustrascarpe (come zio Ciccio)

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ANNO 1943 GENNAIO FEBBRAIO

GIUGNO

LUGLIO

Incalzate dall’VIII armata inglese le truppe dell’Asse evacuano la Libia e si attestano in Tunisia. Ai vertici del regime vengono sostituiti 9 ministri su 12. I dimissionari non ottengono altre cariche, a eccezione di Ciano (nominato ambasciatore in Vaticano) e di Grandi (che conserva la carica di presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni). MARZO Il malcontento popolare sfocia in un’ondata di agitazioni nelle maggiori fabbriche dell’Italia settentrionale che si protrae fino all’inizio di aprile. Ivanoe Bonomi, in un colloquio con Vittorio Emanuele III, suggerisce il licenziamento di Mussolini. Stessa proposta al re viene fatta da Dino Grandi, tra i maggiori esponenti del regime fascista. Vittorio Emanuele suggerisce di avviare il mutamento attraverso un pronunciamento del Gran consiglio del fascismo Il re inizia a considerare necessaria l’uscita dalla guerra. Maria José, moglie del principe di Piemonte Umberto, tesse rapporti con le opposizioni. Il comandante delle forze tedesche in Italia, Kesselring, informa il capo di stato maggiore Ambrosio della decisione di Hitler di inviare in Italia un consistente numero di divisioni il cui armamento lascia presagire un’occupazione piuttosto che la difesa dall’offensiva alleata. Il 10 luglio gli Alleati sbarcano in Sicilia. Il giorno 15 il re, in vista della costituzione di un nuovo governo, incontra Badoglio. Il 16 Mussolini riceve alcune importanti figure del regime che criticano la gestione della guerra e chiedono la convocazione del Gran consiglio del fascismo. Il 19 Mussolini e Hitler s’incontrano a Feltre (Belluno). Gli uomini che accompagnano il duce tentano inutilmente di 116


AGOSTO

SETTEMBRE

spingerlo a porre in modo inequivocabile l’uscita dell’Italia dalla guerra. Hitler promette aiuti militari che si configurano come un’appena velata minaccia di occupazione. Dopo l’incontro si diffonde la convinzione che Mussolini non sia più in grado di reggere il potere. Quello stesso giorno Roma è bombardata. Le vittime tra i civili sono oltre 1500. Il giorno 23, dopo la caduta di Palermo, gran parte della Sicilia è liberata dagli Alleati) Il 25 si riunisce il Gran consiglio del fascismo e viene proposta l’attribuzione al re della «suprema iniziativa di decisione»: di fatto vengono chieste le dimissioni di Mussolini; l’esito è di 19 «sì», 7 «no» e un astenuto. Badoglio è incaricato di costituire un nuovo governo. Manifestazioni di giubilo tra la popolazione all’annuncio dell’avvenuta destituzione del Duce. Il 27 s’’insedia il governo Badoglio. Il comitato nazionale delle opposizioni invia una delegazione a Badoglio per chiedere l’immediata cessazione della guerra (3/8). Tutta la Sicilia è liberata. Il primo settembre Badoglio decide di accettare l’armistizio nei termini proposti dagli Alleati. Gli Alleati varcano lo stretto di Messina e iniziano l’avanzata in Calabria. A Cassibile (Siracusa), in presenza di Eisenhower, i generali Castellano e Bedeil Smith firmano un armistizio articolato in 12 punti Da New York viene comunicato il ritiro dell’Italia dal conflitto. L’esercito tedesco inizia l’occupazione dei punti strategici del paese. Badoglio annuncia alla radio la cessazione delle ostilità con gli angloamericani. All’alba del 9 settembre, il re, Badoglio e un folto gruppo di militari e di funzionari abbandonano precipitosamente 117


OTTOBRE

DICEMBRE

Roma per trasferirsi a Pescara. Da lì, via mare, raggiungono Brindisi e si mettono sotto la protezione degli Alleati. Il 10 i reparti italiani che difendevano Roma si arrendono. Il 12 un reparto di paracadutisti tedeschi libera Mussolini a Campo Imperatore e lo trasferisce nel quartier generale di Hitler. Il 14 la guarnigione italiana di Cefalonia, forte di oltre 10.000 uomini, rifiuta la resa ai tedeschi ma viene sopraffatta dopo dieci giorni di violenti combattimenti. Il 23 Mussolini, rientrato in Italia, dà vita alla Repubblica sociale italiana e costituisce un governo con sede a Salò, sul lago di Garda. Il 27 iniziano le 4 giornate di Napoli. La città, insorgendo contro gli occupanti tedeschi, li costringe a ritirarsi e si conquista da sola la libertà. Il 29 Eisenhower e Badoglio firmano a Malta l’Armistizio lungo, composto di 44 articoli che traducono in prescrizioni il totale controllo politico, economico e militare esercitato dagli Alleati sull’Italia. Il 13 il governo Badoglio dichiara guerra alla Germania. L’Italia è riconosciuta dagli Alleati come nazione cobelligerante. A Roma, rastrellamento dei nazifascisti nel ghetto: 1024 ebrei sono prelevati e deportati nei campi di sterminio in Germania. A Campegine (Reggio Emilia), sette fratelli di una stessa famiglia (Cervi) vengono fucilati dai nazisti.

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Nel 1943 nascono: Janis Joplin 19 gennaio 1943 Sharon Tate 4 gennaio 1943 Lucio Dalla 4 marzo 1943 Lucio Battisti 52 marzo 1943 David Cronenberg 16 marzo 1943 Mario Monti 19 marzo 1943 Mick Jagger 26 luglio 1943 Robert De Niro 17 agosto 1943 Gianni Rivera 18 agosto 1943 Catherine Deneuve 22 ottobre 1943 Nel 1943 muoiono: Sergei Rachmaninoff 1 aprile 1873 - 28 marzo 1943

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ANNO 1944 (I parte) NASCE MARIA ANTONIETTA

Era il 9 febbraio, mattina presto, e gli abitanti della casa di Roma si recarono ai rifugi perché era prevista una incursione aerea. Maria e Pietro si ritrovarono soli nella casa, quasi felici di quella forzata intimità. Mia madre andando in bagno notò qualcosa di strano, ne uscì di corsa e informò mio padre: “andiamo subito all’ospedale”, decisero e a piedi, sotto una pioggia fredda e pesante, con l’angoscia del bombardamento, giunsero al non lontano San Camillo. Pietro, durante il percorso, rassicurava mia madre invitandola a respirare profondamente. Non che lo sapesse ma era convinto che respirare fa sempre bene. Giunti all’ospedale, mamma venne fatta sedere su una sedia a rotelle e portata via senza neanche il tempo di dare un bacio a mio padre. Lui si ritrovò con dei vestiti sulle braccia consegnatigli da una frettolosa infermiera, confuso e piangente. Non era così che avevano immaginato il parto, non era così che avevano sognato la nascita del primogenito, non era così che pensavano alla conclusione dei loro sacrifici. Mia madre si trovò sola in una stanza con infermiere preoccupate per le bombe e con modi bruschi e volgari. Mio padre, altrettanto solo ad aspettare, sciogliendosi in lacrime per l’ansia, seduto su una panchine del giardino. Si sentirono però vicini con la forza del pensiero, tutti e due in attesa, tant’è che a mezzanotte io decisi di nascere. 120


Non mi accolse un corredino ricamato né una mangiatoia, ma dei panni sterili, senza garbo, messimi addosso solo per proteggermi dal freddo. Mamma mi diceva che, nonostante fossi una femmina e nonostante le pene che le avevo fatto patire, mi accolse con amore, rapita dal mio aspetto che a lei parve meraviglioso. Finalmente, al mattino Pietro poté rientrare in ospedale a cercare Maria. Riuscì a infine a trovarla nel reparto maternità insieme alla bambina, sì, a me che racconto e non ricordo niente. Narrava mia madre che lei, smarrita, ancora stordita, guardò il suo uomo dicendogli “mi dispiace che non sia un maschio”. E Pietro di rimando le disse “i undi ti n’esci? la bambina è bellissima” e le carezzò entrambe. Che fossi una bella bambina, rosea e paffuta (alla nascita pesavo tre chili e sei) lo sostengono i miei e consentitemi di crederlo. Mia madre, orgogliosa di avermi dato alla luce e di sapermi ammirata da tutti quelli che mi vedevano, era stata avvicinata da una famosa cantante lirica cui era permesso visitare le corsie in cerca di un neonato da adottare. Vedendomi, stava addirittura per prendermi in braccio e portarmi via, quando Pietro, accortosi della cosa, reagì in maniera violenta: “Ehi, ma che fa? Lei è pazza, questa è mia figlia, che non si provi…” Madre e figlia erano ancora lì quando Roma subì un altro bombardamento e le bombe scoppiarono proprio lì vicino al San Camillo. Panico, anzi terrore, tutti che scappavano di corsa, compresa mia madre che mi lasciò sola per poi tornare a cose finite, ritrovarmi sana e salva e forse urlante per la fame. La reazione di mia madre fu di commozione e sollievo, e senza dubbio anche di pentimento per essere fuggita, avermi dimenticata e abbandonata. Quando me ne parlava leggevo un velo di commozione nei suoi occhi, era come si sentisse ancora colpevole, se ne vergognasse e volesse scusarsi. Ed io la consolavo: “mamma, dài, scappavano tutti sotto le bombe… sono sopravvissuta… siamo state fortunate entrambe…” Dopo 4 giorni Maria e la bambina vengono dimesse dal San Camillo. Pietro e Francesco sono lì ad aspettarla. La foto li mostra tutti e quattro mentre tornano dal cugino Fernando. 121


Pietro, mentre la madre e la neonata erano ancora ospiti del San Camillo, aveva scritto una lettera a casa facendola recapitare da persone che si prestavano a far da corrieri. Qui di seguito ne riporto l’inizio: Per adesso mi astengo a darvi notizie del mio ottimo stato di salute la quale ha subito un po’ di patimenti però è sempre ottima, o di Maria la quale a lei debbo la vita e che ha sopportato vicino a me tutto con stoica risolutezza e mediante tutto lo squallore della vita che giorno per giorno si faceva più difficile, ha dato alla luce una bella creatura di nome Maria Antonietta. Adesso cresce tanto bella, somiglia tutta alla madre come carnagione e gli occhi sono di un nero velluto con un visetto tondo e rubicondo, è veramente bella e spero piaccia anche a voi.

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Dopo il rientro dall’ospedale la convivenza ha cominciato a diventare difficile: sono passati cinque mesi da quando Pietro Maria e Francesco sono arrivati a Roma e da Fernando hanno sicuramente avuto un grande aiuto. A casa di Fernando passano le serate a giocare a carte ma Fernando e Gemma hanno cominciato ad avere atteggiamenti che fanno capire che sono infastiditi da questa presenza che sta durando troppo a lungo. In fondo potevano essere giustificati: era un periodo quello in cui la vita diventava sempre più dura per qualsiasi famiglia, con una guerra che vedeva il nostro paese, ormai sconfitto e piegato, diviso in due, e lì nella capitale la situazione non era certo delle migliori con i tedeschi a comandare, le rappresaglie e i continui bombardamenti degli alleati che però non si decidevano ad arrivare. Avere ospiti, doversi preoccupare per loro creava problemi. Ma cosa si può fare? Pietro e Maria con la bambina appena nata e Francesco pensano sicuramente ad un ritorno a Reggio ma è tutt’altro che facile. Il 22 gennaio gli alleati sono sbarcati ad Anzio ma non riescono a risalire la penisola. Hanno fatto molti tentativi di aggirare la linea Gustav approntata dalle divisioni naziste che bloccano l’avanzata verso Roma, tuttavia sono riusciti solo a stabilire una testa di ponte che poi per quattro mesi si troverà a dover fare i conti con una violentissima reazione tedesca. Dunque raggiungere Reggio significava dover oltrepassare un territorio pattugliato dagli eserciti contrapposti, in situazione di stallo ma comunque impegnati a combattersi a ridosso della linea Gustav. Insomma significava ritrovarsi in piena zona di guerra e se nella zona in mano ai tedeschi Pietro avrebbe corso seri pericoli di essere catturato e con ogni probabilità immediatamente fucilato come “traditore”, altrettanto a rischio sarebbe stata Maria nei territori occupati dagli alleati dove - era cosa nota - imperversavano reparti di marocchini a caccia di donne. Chi ha letto o visto LA CIOCIARA sa di cosa parlo. Non ci sono alternative, bisogna restare a Roma e continuare ad arrangiarsi. E’ quello che fanno Pietro e Maria che si trovano a dover lavare nelle fontane la bambina e anche i pannolini che riescono a procurarsi tramite la 123


Caritas. Ovviamente ero continuamente preda di raffreddori duri da curare. So che mia madre cercava di dare una mano nella sartoria della signora Forti. Io me ne stavo per terra sorvegliata da Nanni, il figlio di Ada, che in pratica mi faceva da babysitter. Quando mi mettevo a piangere Nanni correva a chiamare mia madre: “ah, Marì, la pupa chiagne”. Sono anche a conoscenza che, in quel periodo, mio padre, adoprandosi con i comitati che prestavano aiuto ai profughi, era riuscito ad ottenere una abitazione e che un bel giorno era andato a vederla insieme a mia madre. Si trattava solo di dire di sì: avrebbero potuto lasciare l’atelier ed avere finalmente a disposizione un letto dove dormire al posto delle sdraio. Si recarono a visitarla. Era una bella casa, tutta ammobiliata e in ordine e mia madre ne era entusiasta. Mio padre si guardò intorno: c’erano delle foto alle pareti e lui impiegò un attimo a rendersi conto che quell’abitazione era una di quelle confiscate agli ebrei. Fece dei cenni a mia madre che mi aveva poggiato sul letto e lei li interpretò come un segnale che nel letto c’erano cimici o scarafaggi e che quindi doveva togliermi di lì. M riprese in braccio e, dopo aver guardato anche sotto il letto, protestò che di insetti non ce n’era neanche l’ombra. Poi alla fine capì: Pietro non voleva saperne di quella casa. In effetti intravide la realtà, era una casa che aveva ospitato persone trascinate fuori dalla furia nazista, persone cui era stato inferto dolore e morte. Mio padre non poteva sentirsi tranquillo, non intendeva usurpare i ricordi lasciati lasciati in quella casa. Questo era mio padre! 124


Intanto c’è una cosa che mia madre non riesce a mandar giù. A causa dei bombardamenti alleati su Roma che non risparmiavano neanche gli ospedali e mettevano a rischio la vita di tutti, vigeva la regola che i bambini appena nati venissero battezzati ancor prima della loro dimissione e dunque è quello che era successo anche a me. Mia madre ha un’idea fissa: sua figlia è nata a Roma e Roma è la sede Papale, ci sono il Vaticano e San Pietro. E allora: ma vi sembra giusto che mia figlia non sia stata battezzata nella più bella cattedrale del mondo? No, neanche per sogno… E’ un punto d’impegno per Maria: deve trovare il modo di rimediare. Non le basta il rito celebrato in fretta e furia nella piccola cappella del San Camillo, così scarna e squallida. No, non è giusto: ben altro palcoscenico si merita la sua bellissima bambina e anche lei, sua madre, deve assolutamente godere, da protagonista, di questo privilegio. E così, testarda com’è, Maria briga e briga. E alla fine riesce nel suo intento: vengo di nuovo battezzata in San Pietro, mia madre mi tiene in collo e la signora Ada mi fa da madrina. Il tutto all’insaputa di mio padre, tenuto all’oscuro perché lui non voleva nemmeno sentir parlare di questa cosa, lui nutriva sentimenti anticlericali e soprattutto non gli stavano simpatici quei preti con quella loro pompa. Il 15 marzo del ’44 è il mio vero battesimo, l’unico che conta per mia madre. Quando tornerà a Reggio Calabria, potrà dire a tutti: questa è mia figlia ed è stata battezzata in San Pietro. Pochi giorni dopo, il 24 marzo, a seguito dell’attentato dei partigiani in via Rasella, muoiono 33 soldati tedeschi e per ritorsione, vengono fucilati 335 civili presso le Fosse Ardeatine. La gioventù dei miei genitori era evidenziata dall’assoluta mancanza di critica nei confronti dei fatti epocali che stavano accadendo. Armistizio, sbarco degli alleati, bombardamenti a Cassino, Roma città aperta, tutto risultava relativo nei racconti di mia madre che si soffermava sui discorsi di Gemma di Fernando e della famiglia romana, ma senza alcun rancore, come se tutti gli avvenimenti fossero sullo stesso piano: i vestiti da sposa che Ada confezionava nel suo atelier come le mitragliate dei tedeschi. 125


ANNO 1944 (II parte) LA LIBERAZIONE DI ROMA

La popolazione di Roma vive nell’incubo. Dall’ottobre dell’anno precedente Puglia, Calabria e buona parte della Basilicata sono state liberate, ci sono state le 4 giornate di Napoli dove la città, insorgendo contro gli occupanti tedeschi, li ha costretti a ritirarsi e si è conquistata da sola la libertà. Ma le divisioni tedesche hanno approntato una linea di fortificazione che divide in due la penisola: è la linea Gustav che si estende dalla foce del Garigliano alla foce del Sangro, a sud di Pescara, passando per Cassino; in pratica taglia trasversalmente l’Italia dall’Adriatico al Tirreno nel punto più stretto della penisola. A metà febbraio un violentissimo bombardamento alleato ha raso al suolo l’antica abbazia di Montecassino, ma i tedeschi continuano a resistere e Roma resta nelle loro mani. Gli alleati prima o poi sfonderanno, è quello che sperano e attendono un po’ tutti, che Roma venga liberata dal giogo nazista, che finiscano i bombardamenti. E finalmente la linea Gustav cede, è il 18 maggio 1944 e da lì in poi le truppe alleate possono avanzare, non incontrando ormai più nessuna resistenza. Come noto se la prenderanno calma perché bisognerà aspettare il 4 giugno perché finalmente Roma venga liberata. Il pomeriggio del giorno prima i romani hanno visto cominciare a sfilare per le strade autocarri stipati di soldati tedeschi sporchi, laceri, feriti, pro-

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venienti dal fronte, seguiti da carri armati e pezzi d’artiglieria d’ogni calibro. E’ un flusso continuo di truppe e di mezzi che la popolazione osserva attonita: la direzione in cui vanno è il settentrione e quindi si comincia a capire che i nazisti se ne stanno andando. Serpeggia la paura perché si teme che vengano mantenute le minacce di Hitler di punire Roma, la capitale della nazione traditrice. Si sa infatti che i ponti e i monumenti sono stati minati, incluso il Colosseo e “Quando cadrà il Colosseo, cadrà Roma e quando cadrà Roma, finirà il mondo”. Ma la profezia non si avvera. Le mine non vengono fatte scoppiare, la città eterna è salva. Il 4 giugno, domenica, la quinta armata USA comandata dal generale Mark Clark entra in Roma. E Roma, dopo nove mesi di buio e di fame, di paura e di morte, esplode in manifestazioni di gioia. I romani impazziscono d’entusiasmo per le truppe americane, in migliaia e migliaia vanno ad affollare le vie e le piazze con bandiere, applaudendo e gridando. E’ un coro di “evviva” per quell’esercito che per mesi aveva sganciato migliaia di bombe sulla città e che ora viene bombardato a sua volta da tutti i fiori di primavera, salutato dalla gente in delirio che ricomincia a vivere. Tutti, uomini, donne, bambini, ebbri di felicità, che corrono dietro a jeep, camion, carri armati e vi si aggrappano per salirvi sopra, stringere le mani dei soldati yankees, abbracciare i “liberatori”, i vincitori. E’ uno scenario di folla in delirio che Malaparte ha ben descritto ne LA PELLE e che la Cavani ha visualizzato nel film che trasse dal romanzo con quella scena sconvolgente per chi la vide al cinema dove uno dei festanti, correndo incontro a un carro armato per salirvi sopra, inciampa e finisce spiaccicato sotto i cingoli senza che nessuno se ne accorga salvo la cinepresa impietosa. La festa pervade la città eterna: è un tripudio che dura giorni e che ha radici amare nella tragedia immane che ha sconvolto un popolo che ora vuole e fa di tutto per dimenticarla. Niente più tedeschi, niente più Gestapo e SS con le loro tetre uniformi a stringere nella morsa del terrore tutta una popolazione. 127


Lì a Roma ora ci sono gli americani che sembrano tutti John Wayne, che ti sorridono e ti chiamano “paisà” e regalano scatolette con quella carne che ti pare così buona dopo tanti digiuni. Gli americani hanno di tutto e di più, soprattutto hanno le barrette di cioccolata che non ricordavi nemmeno più quanto possono essere deliziose, e ne hanno scorte inesauribili che gettano alla gente che si accalca per farne incetta. Ma lì, in mezzo alla folla festante, impazzita, inneggiante a chi fino a poco prima era il nemico da combattere, c’è qualcuno che non riesce a partecipare al tripudio generale, qualcuno che guarda e osserva, muto spettatore di un evento che travolge una popolazione intera. Lo vediamo lì quest’uomo attonito, questo tacito spettatore del giubilo altrui che non sa unirsi al tripudio generale, e lo vediamo mentre anche a lui tocca la sua razione di cioccolata che un soldato gli mette in mano. Lui forse mormora un grazie perché è uomo educato e dabbene. E ora quest’uomo guarda quella barretta che promette delizie per il palato adagiata nel palmo della sua mano. Sa che basta scar128


tarla dal suo involucro argentato e darle un morso per capire quant’è dolce e succulenta. Sa anche che poi, come tutti gli altri, si vedrebbe costretto a questuarne ancora e ancora da chi te l’offre generoso perché ne ha una scorta infinita nel suo zaino di soldato di una nazione ricca che non soffre la fame e per la quale è facile saziare la tua. Sì, sono molto generosi questi militi USA, hanno conquistato Roma e ora conquistano la sua popolazione blandendola con quei doni che le fanno scordare ben altri doni - bombe e mitraglia - rovesciati con altrettanta abbondanza e senza requie per mesi e mesi sulla città e sui suoi abitanti ora dimentichi. Ma quest’uomo NO, lui NON DIMENTICA. Perché è uno che ha visto e se non l’ha visto ha saputo delle stragi di civili indifesi che gli ordigni di quei “liberatori” oggi così generosi hanno fatto e ancora forse faranno. La guerra non è ancora finita e quest’uomo lo sa. E così lo vediamo mentre guarda quella barretta di cioccolata, attraente e irresistibile, e lo vediamo mentre fa per portarsela alla bocca e addentarla perché gli è già venuta l’acquolina al sentirne l’aroma. Ma è un attimo. Tutt’a un tratto negli occhi di quest’uomo si legge un lampo di rabbia e di ripulsa per quella cioccolata che stringe in mano. Per lui quello non è più un dono da assaporare e gustare, bensì un qualcosa che sa d’amaro e di fiele. Quest’uomo quel dono non lo vuole ed è un attimo e ora lo vediamo mentre scaglia per terra quella barretta con stizza perché ne è stato tentato. Il suo è il gesto rabbioso di rifiuto di un uomo giusto e consapevole, un diniego e una rinuncia che dànno il senso della sua indignazione e che vanno al di là del momento e del luogo in cui quel gesto è compiuto e anche del perché è stato compiuto. Il rifiuto di quest’uomo è per la guerra, per l’ingiustizia di qualsiasi guerra. Quest’uomo è mio padre ed è nel mio cuore. A Reggio Calabria ormai li avevano dati tutti per morti ma grazie ad un radioamatore romano i miei finalmente riescono a far arrivare un messaggio a casa, un messaggio il cui testo suppergiù dice: “Maria e Pietro stanno bene e sono da Fernando, nata una bambina” 129


Il messaggio viene mal riportato e peggio interpretato. A casa capiscono che è nato un bambino, un maschio, al che il padre di Pietro, Luigi, si offende perché pensa che l’abbiano chiamato Fernando e non con il suo nome com’era usanza consolidata (Maria Antonietta era il nome della nonna materna).

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ANNO 1944 (III parte) RITORNO A CASA

Del libro di Moravia LA CIOCIARA e del film che ne fu tratto ricordo la parte dedicata all’esodo degli abitanti di Roma assediata e bombardata dagli alleati: povera gente a piedi che fugge per campagne, rasentando i bordi di strade dissestate, pronta a rifugiarsi sotto gli alberi o a buttarsi nei fossati in cerca di riparo al primo sentore dell’arrivo di aerei. Un’umanità dolente e sgualcita che porta con sé poche cose racchiuse in valige di fibra, poche auto e qualche camion per quelli più fortunati come i nostri tre che per tornare a casa hanno pagato con soldi prelevati da Pietro dalla pensione del nonno (a sua insaputa) valendosi del fatto di essere studente universitario, un passaggio in camion insieme ad altri che vogliono raggiungere il sud per ritrovare le loro famiglie. Pietro Maria e lo zio Ciccio me li immagino così, protagonisti e testimoni di questo percorso di speranza. Figurine incerte, fotogrammi di una pellicola ingiallita, nel loro viaggio di ritorno verso una terra se non santa e promessa di certo sospirata e agognata. Il viaggio è quello che è, scomodo come si può immaginare, su quest’automezzo che procede traballante cercando di scansare le buche disseminate sull’asfalto butterato dai raid degli aerei. Tutti stipati dietro nel vano di carico, scoperto, con Maria seduta come gli altri sul seggiolino perimetrale al cassone. Si viaggia di giorno e di notte, la stanchezza è tanta. Maria si addormenta con la bambina in collo. Nel sonno le sue braccia si rilassano

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e perdono la presa di quel fagottino che le scivola in grembo e poi ai piedi senza che lei se ne accorga. E’ notte e nessuno lo nota, e il fagottino avvolto nelle coperte, immerso anch’esso nel sonno, viene sospinto dai continui sobbalzi dell’autocarro sotto il seggiolino e lì vi resta adagiato e nascosto. Maria si sveglia, è sempre notte e… “la bambina!... dov’è la mia bambina?” Ora tutti sono svegli, è buio pesto ed è tutto un affannarsi a cercare la piccola sul piancito del cassone, tutti in preda a un’apprensione e a un panico crescente che si diffondono perché nessuno la trova. Maria e Pietro disperati non sanno capacitarsi di come e di cosa possa esser successo. L’ipotesi inquietante che si fa strada è “sarà caduta dal camion, sarà scivolata fuori”, tanto che al guidatore del camion viene chiesto di fermarsi, di tornare indietro a cercare, “chissà? magari qualcuno l’avrà raccolta”… Poi un vagito, un pianto, che vengono dal basso, dallo spazio sottostante il seggiolino, dove la bambina era stata maldestramente cercata a tentoni e non trovata, suoni che disvelano come lei, Maria Antonietta, sia ancora lì, sana e salva, sempre avvolta nella copertina, col capino che spunta e la boccuccia che chiede strillando la sua fame. Non un rimprovero di Pietro a Maria. No, non è affatto il caso di arrabbiarsi con una madre preda di una stanchezza e di un Morfeo più forti della sua forza di madre. E’ invece giusto che lui, Pietro, uomo innamorato e gentile, abbracci questa madre insieme alla sua bambina e pensi e le dica “non è successo niente… siamo ancora insieme”.

La chiesa anglicana in via San Pasquale alla Chiaia

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Giungono a Napoli ed è una tappa obbligata perché li vive il fratello di Maria, lo zio Giuseppe detto Peppe, sposato con Violetta, di padre italiano e madre inglese. Peppe se la passa bene in una bella casa che sta di fianco ed è di proprietà della chiesa anglicana in via San Pasquale alla Chiaia e della quale la Chiesa Episcopale Americana madre di Violetta, Gladys, in quandi Saint James a Firenze to membro praticante, è custode. L’architettura del tempio si richiama allo stile neogotico, tipico delle regioni anglosassoni. Sono evidenti alcune analogie con la chiesa Episcopale Americana di Saint James a Firenze, in via Bernardo Rucellai, anch’essa adibita al culto riformato e costruita nei primi anni del Novecento. Mia madre mi raccontava, commossa e divertita, questo incontro. L’incredulità e l’emozione dello zio Giuseppe per quest’apparizione improvvisa: lui che si precipita fuori della porta non appena riconosce le persone che lo stanno chiamando a gran voce da dietro il cancello davanti a casa, la gioia di loro tre che lo vedono correre incontro, l’allungarsi delle braccia protese attraverso le sbarre, l’afferrarsi delle mani smaniose di un contatto che fa dimenticare a tutti quanto sarebbe più semplice e opportuno aprire quel cancello cui invece restano avvinghiati e che continua a tenerli separati ostacolando la loro voglia di stringersi in un abbraccio senza fine. Zio Giuseppe è un grande ospite e non c’era da dubitarne. I nostri tre possono godere finalmente di qualche comodità nella sua casa. Soprattutto Maria può fare finalmente un bagno come si deve alla sua bambina, in una tinozza dov’è spruzzata un po’ d’acqua di colonia. C’è chi resta perplesso vedendo la madre allontanarsi e lasciare sola la piccola a guazzo; ma la bambina c’è abituata, di abluzioni ben più disagiate è stata oggetto nelle fontane pubbliche e sotto i freddi getti d’acqua romani e dunque nessuna difficoltà, Maria Antonietta se ne sta calma e tranquilla lì ad aspettare. 133


Quella qui a fianco è una bella foto, studiata e accurata, molto glamour, che ritrae due donne felici in posa, vestite elegantemente. Vi si respira l’aura di un passato lasciato ormai dietro le spalle. Il soggiorno nella casa di Giuseppe è sicuramente felice ma breve, il tempo di recuperare le fatiche per arrivare a Napoli prima di rimettersi in viaggio per tornare a casa. Francesco resta a Napoli e Maria Pietro e la bambina stavolta possono prendere il treno. Maria torna alla sua Reggio, ai luoghi cui sono legati i suoi ricordi più belli, quelli di un’infanzia e di una adolescenza felici che l’hanno vista crescere e diventare donna. Maria e Violetta Reggio è la sua città e ora vi sta tornando sposa e madre con il suo Pietro e la sua bambina. Si rincorrono i ricordi: le passeggiate sul lungomare, le soste sulle panchine con suo padre, seduta al suo fianco a guardare le trasparenze azzurre del mare, le giornate ai bagni a crogiolarsi sotto il sole, gli strusci per il corso con le amiche, le serate al cinema a vedere i film che la facevano sognare. E’ a Reggio che Maria ha conosciuto Pietro, è lì che è nato il loro amore. Ne è stata lontana per così tanto tempo, un tempo che le pare infinito, e sa che per tutto questo tempo l’hanno come dimenticata, anzi hanno voluto dimenticarla, che ne è stata allontanata come se tutti volessero liberarsene mentre a parlare di lei erano rimaste solo le malelingue. Tante cose le sono state tolte ma i ricordi sono rimasti, quelli felici ma anche e soprattutto quelli tristi. Il suo pensiero va a quel distacco bruciante cui l’hanno destinata e al quale lei ha voluto e saputo ribellarsi imbarcandosi 134


in un’impresa che nessuno avrebbe creduto possibile, portandola a termine superando ogni ostacolo e uscendone vincente. E’ questa consapevolezza che rende forte Maria. Adesso che torna nella sua Reggio da dove l’hanno cacciata non può fare a meno che in lei si faccia strada un sentimento vindice. “Sto tornando, sapete, e se non lo sapete avrete modo di vederlo. Oh, sì, ve ne accorgerete”. E’ la sua idea fissa prendersi una rivincita, stupire chi l’ha denigrata e deprecata. Ed è questo che viene in mente a Maria quando stringe fra le braccia la sua bambina: “Oh, sì, tutti vedranno quanto sei bella figlia mia e vedranno me, tua madre insieme a tuo padre, tornati quando ormai nessuno più ci aspettava”. Arrivano a Reggio e si procurano una carrozza. Maria ha le idee chiare: è così che li vedranno arrivare, in carrozza, da signori. Si spargerà la voce: Pietro e Maria sono tornati e nel rione salirà la febbre e c’è chi storcerà la bocca ma correrà a vedere. Clotilde, la mamma di Maria, come ogni giorno se ne sta affacciata al balcone di casa dove passa il tempo ad osservare la gente che passa. Giornate tutte uguali, ma stavolta Clotilde ha un senso d’inquietudine, come un presentimento… sta per succedere qualcosa… Nonna Clotilde aguzza la vista volgendo lo sguardo in fondo alla strada e là, là in fondo, vede una carrozza, una carrozza che avanza lentamente, una carrozza che si avvicina. Ci sono due persone sedute dietro il vetturino, e una, una è una donna. Ora la carrozza è più vicina e di quelle persone, di quell’uomo e di quella donna, si cominciano a vedere i volti. Ancora più vicini e la donna si alza in piedi, regge qualcosa in braccio avvolto in una stoffa, ed ora alza le braccia e lo solleva davanti a sé, in alto, una testolina spunta da quella stoffa. Quella donna è mia madre e nonna Clotilde vede per la prima volta sua 135


nipote. Un grido le sgorga dalla gola: “Maria!” e chiama: “Saverina… Maria, Maria è tornata.” Zia Saveria accorre e anche lei guarda e abbraccia la madre: “Sì, mamma, è Maria, quella è Maria.” Scendono giù, corrono alla porta, la carrozza si ferma davanti a loro e ne scendono Pietro e Maria con la loro bambina. E’ la festa, abbracci e lagrime, la gioia di rivederli vivi, dopo tanto tempo, la bambina che passa da un braccio all’altro. Qualcuno va ad avvertire la famiglia di Pietro e anche loro arrivano, stringono in un abbraccio il figlio, questo loro figlio tornato dopo tanto tempo. Oddìo, ma com’è ridotto… smagrito, pelle e ossa. Maria Antonietta, sua madre, lo guarda e sviene. Rinvenuta se ne andrà in chiesa, a pregare, a ringraziare Dio, e ci resterà tutto il giorno. Nonno Luigi, coinvolto e interessato soprattutto al figlio, non può fare a meno di chiedergli: “ma questo bambino perché l’avete chiamato Fernando?” La storia non termina qui. Questa testimonianza ha inteso riportarla in vita affinché la memoria non andasse smarrita. Rimane il segno di una passione che travalica ogni difficoltà. Chi legge può trarre lo spunto per riflettere sulla capacità di sopportare la sofferenza, di meditare sugli avvenimenti e, in definitiva, di amare. Nel 1947, a mezzogiorno di una splendente giornata di Ottobre, nacque mia sorella Clotilde Adriana. Ancora una volta nonno Luigi non veniva accontentato, per questo mia mamma pianse. Non perdonò mai a se stessa quelle lacrime e ripagò Adriana di un amore grande, incoraggiata dal carattere affettuoso di lei. Nel 1952 Pietro, che ha potuto mantenere i suoi cari grazie soprattutto ai denari che Giuseppe, da Napoli, inviava alla sorella, risultò, fra 15.000 partecipanti, vincitore di concorso alle Ferrovie. Venne assegnato a Firenze. Maria e Pietro riposano insieme a Reggio Calabria dopo una vita più o meno serena ma sempre piena d’amore. Pietro se ne è andato trent’anni prima di Maria perché le vicende della vita avevano minato il suo tenero cuore. 136


Maria ha vissuto ogni giorno di questi trent’anni nel ricordo, leggendo e rileggendo ogni frase, ogni rigo, ogni parola di quelle lettere che Pietro le aveva scritto. Tutte le volte che torno a Reggio, i colori, gli odori, i paesaggi mi fanno rivivere il periodo del loro amore. Mi lascio trascinare con gioia in questa immaginazione soffermandomi su oggetti e situazioni in apparenza senza significato ma a cui mia madre aveva dedicato tanto spazio nei suoi racconti. Quando noto negli occhi di Niccolò la passione e in quelli di Luca la dolcezza e la mitezza, mi accorgo che questa storia non è finita, che rimane una eredità. Penso che non ci può essere solo casualità nella connessione degli eventi narrati e che i miei ricordi così nitidi e senza vuoti siano stati impressi, più che nella mente, nel cuore. Non sono stata né una figlia molto devota né una ascoltatrice particolarmente attenta agli occhi dei miei genitori, ma forse l’emozione lavorava e registrava tutto per me, a mia insaputa. Ogni cosa trova il suo posto ed ogni evento il suo perché… AMURI AMURI Amuri amuri, e chi m’hai fattu fari?… e m’hai fattu fari ‘na granni pazzia!… Lu Patri-nostru m’hai fattu scurdàri, e la megghiu parti di l’Avi-Maria…

Prim’era a la me’ casa comu un Santu, pinsèri ‘nta la testa non avìa… Ora, picciotta, mi portasti a tantu: ‘nta n’ura moru si non viju a tia!…

E a unni t’haju vista e t’haju amata tantu?… Pari ca mi facisti la magìa!…

E vegnu attornu a tia comu la nebbia, comu a lu cacciaturi cu la quagghia…

Criscisti comu l’erba di lu campu, criscisti beddha, per amari a mia…

Guarda ‘stu cori comu s’assuttigghia: comu ferru filatu a la tinagghia.. (Otello Profazio) 137


ANNO 1944 GENNAIO

FEBBRAIO MARZO

GIUGNO AGOSTO

SETTEMBRE

OTTOBRE

8/1: A Verona si celebra il processo contro i gerarchi che, nella seduta del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio, hanno votato a favore dell’allontanamento di Mussolini. Tutti condannati a morte. 12/1: Fucilazione dei suddetti, incluso Galeazzo Ciano. 22/1: Gli Alleati sbarcano ad Anzio, tentando di aggirare la linea Gustav che blocca l’avanzata da Napoli verso Roma. Riescono a stabilire solo una testa di ponte che per quattro mesi resiste alla violentissima reazione tedesca. Un violentissimo bombardamento alleato rade al suolo l’antica abbazia di Montecassino. 1/3: Il Cln proclama uno sciopero generale nelle zone sottoposte al controllo della Repubblica sociale. L’agitazione, a lungo preparata dalle forze clandestine della Resistenza, per 10 giorni blocca la produzione di tutti i principali impianti industriali. 23/3: Attentato dei partigiani in via Rasella a Roma. Muoiono 33 soldati tedeschi. Il giorno dopo, per ritorsione, vengono fucilati 335 civili presso le Fosse Ardeatine. 4/6: Roma viene liberata dagli Alleati. 6/6: Sbarco degli angloamericani in Normandia. 4/8: Inizia la battaglia per la liberazione di Firenze 12/8: A Sant’Anna di Stazzema (Lucca) i tedeschi uccidono 560 persone in segno di rappresaglia contro le azioni svolte dalle formazioni partigiane che operano nella zona. 28/9: A Marzabotto (Bologna) un reparto comandato dal maggiore Reder, già protagonista dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, compie una strage di 1836 civili. 27/10: L’offensiva alleata si arresta lungo la linea Gotica, tra Firenze e Bologna. 138


NOVEMBRE

DICEMBRE

Il generale Alexander, comandante delle forze armate angloamericane in Italia, lancia per radio ai partigiani l’ordine di sospendere le operazioni in attesa di una ripresa dell’avanzata alleata, rinviata alla primavera successiva. 16/12: Davanti a un’adunata fascista al teatro Lirico di Milano Mussolini tiene il suo ultimo intervento pubblico.

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MARIA PIETRO E IL CINEMA

Ai miei piaceva molto il cinema, ci andavano spesso e non si perdevano i film migliori, “le pellicole più belle” per dirla con le loro parole. Nelle lettere di mio padre ci sono vari accenni a queste “pellicole” che hanno destato il mio interesse per il loro sapore d’epoca e qui le troviamo menzionate con le notizie che le riguardano. Un piccolo tuffo nel passato… A settembre del 1941 Pietro scrive a Maria da Noci dov’è di stanza: niente mi alletta tranne che il cinema, a proposito ho visto una bella pellicola e cioè “La stella di Rio”. Poiché tra tutti i film apparsi in Italia dal 1938 al 1941 non ho trovato traccia di questo titolo, penso possa trattarsi di UNA NOTTE A RIO di Irving Cummings con Maria Montez, Alice Faye, Don Ameche. In una lettera dell’ottobre del 41 inviata a Maria da Lecce Pietro dice di essere stato al cinema Apollo a vedere LA DONNA CHE FA PER ME, titolo che naturalmente gli fa pensare alla sua amata. In una lettera del marzo del 42 troviamo: Sai dove vado Maria? Al cinema a vedere “La cena delle beffe”, chissà com’è? E’ cosa nota che il film sollevò enorme scandalo e file ai botteghini. LA CENA DELLE BEFFE, 140


diretto da Alessandro Blasetti, tratto dall’omonimo dramma di Sem Benelli è ambientato nella Firenze rinascimentale di Lorenzo il Magnifico, ed è un melodramma torbido e serrato, incredibilmente ambiguo e sanguinoso per l’epoca. La pellicola ebbe un clamoroso successo ed è entrata nella storia per il primo seno nudo del cinema sonoro italiano che costò alla protagonista Clara Calamai, una delle maggiori dive del tempo, l’anatema delle autorità ecclesiastiche (il Centro cattolico di cinematografia lo bollò come «intreccio di libidine») e al film il divieto ai minori di 16 anni. È stato il film che ha dato la popolarità ad Amedeo Nazzari, che qui recita la battuta divenuta popolare “chi non beve con me, peste lo colga!”. Il film è anche spesso ricordato per essere uno dei molti interpretati dai due attori e giovani amanti Osvaldo Valenti e Luisa Ferida che furono la coppia più famosa del cinema italiano negli anni del fascismo, lui interprete di ruoli di bello e crudele, lei la diva sensuale e torbida, dai grandi fianchi e dai grandi seni, la più popolare di allora, più delle rivali, la Calamai, la Duranti, la Valli. I due erano amanti legati da una passione che li avrebbe portati a una terribile fine: gli “amanti del regime”, come erano soprannominati, dopo l’8 settembre del 43 lasciarono infatti Roma per Venezia dove gli esuli di Cinecittà tentavano di riportare in vita il defunto cinema italiano nella Repubblica Sociale. Valenti entrò nella Decima Mas e strinse amicizia con il peggior esponente della crimi141


Osvaldo Valenti e Luisa Ferida

nalità di Salò, il dottor Koch, il torturatore di «Villa Triste». Così nacque la leggenda di Valenti che portava la sua amante ad assistere alle torture e della Ferida che danzava nuda davanti ai prigionieri sanguinanti per eccitarli e spingerli a chissà quali confessioni. Sarà questo marchio d’infamia (mai supportato da prove convincenti) che li condurrà all’esecuzione da parte dei partigiani il 30 aprile 1945. accusati entrambi di crimini di guerra, condannati a morte e fucilati (l’ordine fu dato da Sandro Pertini). Alla loro vicenda umana è stato dedicato un discreto film del 2008, diretto da Marco Tullio Giordana ed intitolato SANGUE PAZZO con Zingaretti e la Bellucci. In una lettera dell’estate del 42 Pietro parla a Maria dei bei tempi che furono quando avevano visto insieme IL RICHIAMO DELLA FORESTA al cinema Siracusa. Ennesima versione del libro di Jack London, IL RICHIAMO DELLA FORESTA è un film della fine degli anni ’30 con Clark Gable e Loretta Young. Sempre in questo periodo Pietro scrive a Maria che lui il film GIARABUB non l’ha visto (sono due mesi che non va al cinema) e le chiede “è vero che è molto bello?”.

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GIARABUB, del 1942, diretto da Goffredo Alessandrini, fu un tipico prodotto di propaganda bellica che riscosse un grande successo all’epoca anche per la notorietà degli interpreti Doris Duranti, Mario Ferrari, Carlo Ninchi. Pietro conclude una lunga lettera scritta nell’ottobre del ’42 con il racconto finale di come passerà la giornata e dei film che andrà a vedere. L’alternativa è fra FARI NELLA NEBBIA e I RAGAZZI DELLA STRADA. Del secondo non ho trovato tracce, mentre di FARI NELLA NEBBIA, diretto da Gianni Franciolini e interpretato da Osvaldo Valenti, Fosco Giachetti, Mariella Lotti, Luisa Ferida, si può dire che ebbe buone critiche e un discreto successo come per tutti i film della coppia Ferida Valenti. La trama: abbandonato dalla moglie, un camionista perde la testa per una squinzia che lo tradisce con il suo abituale compagno di guida; tornato a casa con propositi sanguinosi, ha la sorpresa di trovarci la moglie pentita. E’ considerato come un curioso esempio dell’influenza del naturalismo francese su un melodramma italiano della gelosia, con attori efficaci e una suggestiva fotografia di Aldo Tonti. Sempre a ottobre Pietro parla di ricordi sui giorni passati insieme a Maria, quando erano andati a vedere L’ASSEDIO DELL’ALCAZAR: “eravamo seduti vicini, la mia mano appoggiata sul tuo petto… e una delle tue lacrime è caduta sulla mia mano”. L’ASSEDIO DELL’ALCAZAR di Augusto Genina, con Maria Denis, Fosco Giachetti e Andrea Checchi fu all’epoca un successone e vinse la Coppa Mussolini a Venezia.

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A novembre del 42 Pietro è Taranto dove stanno proiettando la pellicola NOI VIVI, ma lui non andrà a vederlo. NOI VIVI di Goffredo Alessandrini, con Fosco Giachetti, Rossano Brazzi, e Alida Valli, tratto dal romanzo della russoamericana Ayn Rand fu un altro grande successo all’epoca grazie anche alla notorietà degli interpreti. Pietro dirà a Maria: “Ti posso assicurare che il film “Noi vivi” non l’ho visto e nemmeno “Addio Kira” che l’hanno dato subito dopo. Come vedi anche questa passione delle belle pellicole sta scomparendo.” ADDIO KIRA è il seguito di NOI VIVI, il film fu infatti diviso in due parti per la sua lunghezza (oltre 5 ore). Marzo 1943: Pietro racconta di essere stato al cinema a vedere IL GRANDE AMORE, “una bella pellicola con la più bella attrice tedesca, Zereh Leander (ma non so se è giusto come l’ha scritto)”. Il film di cui parla Pietro era non IL ma UN GRANDE AMORE e Zarah Leander non era tedesca bensì svedese. La Leander fu una cantante/attrice dotata di una voce splendida che divenne famosissima recitando nei melodrammi diretti Detlef Sierck (poi transfuga in America dove divenne noto a Hollywood come Douglas Sirk. Hitler cercò di fare della Leander ciò che Marlene Dietrich s’era rifiutata di diventare e cioè la diva numero uno del Terzo Reich. A fine guerra la Leander tornò in Svezia ma le fu reso difficile reinserirsi nel mondo dello spettacolo a causa delle sue relazioni con i nazisti (anche se pare accertato che in realtà fosse una spia al soldo dei sovietici).

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Doris Duranti

Maria ha visto a Bologna CARAVAGGIO, IL PITTORE MALEDETTO. E’ questo un film del 1942 diretto da Goffredo Alessandrini e interpretato da Clara Calamai e da un Amedeo Nazzari che colpì critica e pubblico nel ruolo di Michelangiolo Merisi. Dopo l’8 settembre le attrezzature cinematografiche statali vennero trasferite al Nord e la Scalera film spostò la sua sede a Venezia, nei nuovi stabilimenti della Giudecca. Parte delle attrezzature di Cinecittà venne requisita dai tedeschi e trasferita in Germania. Eppure nelle sale usciranno ancora I BAMBINI CI GUARDANO di Vittorio De Sica, OSSESSIONE, primo film di Luchino Visconti, e CARMELA di Flavio Calzavara con Doris Duranti che malgrado il periodo fu un grande successo popolare, fondato sulla straordinaria avvenenza della Duranti, la quale fece scalpore per una scena recitata a seno nudo per sua esplicita richiesta. Famosa era infatti all’epoca la sua rivalità, montata ad arte dalla stampa, con Clara Calamai che l’anno prima era stata protagonista di un’analoga scena in LA CENA DELLE BEFFE. La Duranti fu l’attrice più ammirata e pagata del regime fascista ed ebbe una relazione sentimentale con il gerarca toscano Alessandro Pavolini, ministro della Cultura Popolare, relazione che venne in un primo momento osteggiata, ma poi tollerata da Mussolini che, pare, fosse rimasto colpito positivamente dall’attrice nel film IL RE SI DIVERTE (del 1941).

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le foto

Le numerose foto che trovate qui sono state scelte fra quelle religiosamente conservate da mia madre. Ce n’erano un gran numero, veramente tante! Ho spesso chiesto come mai in quei turbolenti periodi pensassero a fotografarsi! E’ vero, sono stati sempre amanti delle foto che ricordavano momenti di aggregazione o ricorrenze; ma quelle relative a momenti non certo belli? La risposta è stata la voglia di fermare anche le situazioni disperate affinché nel tempo si potesse “vedere” oltre l’istantanea e ricostruire con gli occhi della mente gli accadimenti passati senza censure né giudizi . Avevano sicuramente ragione.

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Pietro e Zio Ciccio

Gemma Fernando e figlio

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Gianmario detto “Nanni”

A Roma

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Gli 80 anni di Maria

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Appendice il libro del giuramento

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Pietro e Maria. Il racconto di una vita che riemerge dalle lettere, dalle testimonianze, dai ricordi di una figlia. L’emozione di un tuffo nel passato alla scoperta della loro storia d’amore. O. P.

Maria Antonietta Manglaviti

Giancarlo Fallai


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