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Corriere della Sera Lunedì 18 Marzo 2013
Omaggi A un anno dalla scomparsa gli amici ricordano lo scrittore. Ed esce un suo libro postumo
Elzeviro Una raccolta di saggi del premio Nobel
LA LINGUA DI WALCOTT OLTRE LE ANTILLE
Tabucchi, il maestro assente
«La letteratura, visione del mondo diversa da quella del potere»
di ROBERTO GALAVERNI
S’
intitola La voce del crepuscolo eppure è costruito anzitutto su ideali di cominciamento, di luce e di libertà. Mi riferisco al volume di saggi del poeta caraibico Derek Walcott, che è uscito in questi giorni in Italia (traduzione di Marina Antonielli, cura editoriale di Matteo Campagnoli, Adelphi, pagine 280, € 22). «Per i poeti, nel mondo è sempre mattina», afferma Walcott. Ciò significa che il senso di sé come scrittore del Nuovo Mondo coincide per lui con un’idea della letteratura quale testimonianza di una possibile liberazione dai condizionamenti della Storia, dai vincoli del retaggio, dal rancore, dal lamento. La letteratura ha un valore iniziale perché insegna a rinnovare ogni volta il contatto col mondo. Per questo discendente di schiavi negri, nato su un’isola in cui la magnificenza della natura e del paesaggio è davvero segnata dal sangue, l’emancipazione è allora una questione che riguarda il destino di ogni uo-
❜❜ L’appartenenza a
una cultura agli albori è vissuta dal poeta caraibico come una conquista mo, perché appunto ogni uomo dovrebbe saper raggiungere il proprio presente, riscattare la propria vita, liberarla. È vero allora che il riconoscimento paradossale, per se stesso come per altri interpreti delle Antille, di una sorta di adamitico privilegio d’appartenenza a una cultura agli albori, costituisce per Walcott non il partito preso ma la conquista della sua scrittura, che nasce proprio nel punto di sutura e di reciproco superamento tra l’ideologia del Vecchio e quella del Nuovo Mondo, tra schiavitù e primogenitura, tra la sudditanza alle rovine del passato e un’altrettanto ideologica celebrazione del proprio ceppo etnico. I tre scritti raccolti nella prima parte del libro, tra cui per intensità lirica spicca il discorso tenuto da Walcott per il conferimento del Nobel nel 1992, riguardano la definizione della sua identità di scrittore, e dunque il rapporto tra centro e periferia, tra la fedeltà alla grande tradizione poetica in lingua inglese e l’immediatezza dell’esperienza, cioè suono e
colori della natura, del mare e degli uomini della sua isola. Questo stesso processo di attraversamento e di liberazione non avrebbe tuttavia un significato davvero credibile se non appartenesse alla letteratura in quanto tale. «Dal punto di vista del tono, la voce individuale è un dialetto; dà forma al proprio accento, al proprio lessico e alla propria melodia sfidando un concetto imperiale di lingua, la lingua di Ozymandias, delle biblioteche e dei dizionari, dei tribunali e dei critici, delle chiese, delle università, dei dogmi politici, il linguaggio delle istituzioni. La poesia è un’isola che si stacca dalla terraferma», scrive ricordando il celebre sonetto di Shelley dedicato al tramonto di ogni potere mondano. Ecco allora che i saggi monografici che compongono la seconda parte del libro hanno sempre al centro — diversissimo, multiforme, imprevedibile, eppure non aggirabile — questo stesso procedimento di definizione di una lingua sottratta agli automatismi del cosiddetto «impero», che viene individuato anzitutto nelle sue ora eclatanti ora più sottili e subdole configurazioni espressive. Come per l’idea di esilio o di felicità mentale, Walcott mostra qui di avere compreso in profondità la lezione del più importante, credo, dei suoi maestri, Iosif Brodskij, il cui fondamento concettuale si avverte di continuo nella filigrana di questi scritti critici. In particolare, i saggi su Lowell, Larkin, Hughes e Naipaul mi sono parsi i migliori. Si tratta in ogni caso di uomini al cospetto della propria vita, con i loro limiti e le loro prerogative esistenziali, ma sempre alle prese con la maestà e il peso della lingua, con la forza e il condizionamento della tradizione poetica. Walcott scrive in modo appassionato, reattivo, a sangue caldo. Cerca sempre l’intensità, quasi volesse colpire il lettore ad ogni nuova frase, e questo lo porta a qualche squilibrio tra la sentenziosità metaforica e l’argomentazione, tra l’oltranza delle immagini e la centratura del discorso. Nel senso che a volte è la prima a mangiarsi un poco la seconda. Ma è anche vero che per lo stesso motivo la sua prosa non risulta mai inerte o interlocutoria, ma comunque decisa, se non decisiva. In Walcott la critica può assumere aspetti anche molto diversi, tranne quello, si può star certi, di un animale addomesticato. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Presentazione il 20 marzo
Pittura antica agli Uffizi: due croci e un dittico restaurati Dal 20 al 29 marzo la Galleria degli Uffizi di Firenze espone un lavoro di restauro che ha coinvolto tre fra le più antiche opere della Galleria: due croci dipinte del XII e XIII secolo e il dittico della Crocifissione e della Madonna col Bambino e santi del Duecento attribuito al pittore pisano Bonaventura Berlinghieri. L’intervento, finanziato dall’associazione Amici degli Uffizi, sarà presentato dopodomani, mercoledì 20, alle ore 12, nell’aula di San Pier Scheraggio Loggiato degli Uffizi alla presenza di Cristina Acidini (Soprintendente per il patrimonio Storico e Artistico e per il Polo Museale della città di Firenze), Antonio Natali (direttore della Galleria degli Uffizi), Angelo Tartuferi (direttore del Dipartimento della pittura dal Medioevo al Quattrocento della Galleria degli Uffizi) e Maria Vittoria Rimbotti (presidente degli Amici degli Uffizi). © RIPRODUZIONE RISERVATA
Le iniziative
Letture, film e incontri fino a Lisbona Q
Antonio Tabucchi, nato a Pisa nel 1943 e scomparso il 25 marzo 2012 a Lisbona, città dell’amatissimo Pessoa (Fotogramma)
di ROBERTO FERRUCCI
L
inda richiude Di tutto resta un poco, il nuovo libro di Antonio Tabucchi e, con lo stesso sorriso del giorno in cui lo conobbe nella sua casa di Parigi, dice: «Che uomo generoso». Io lo so, l’ho sempre saputo, questo libro ne è la testimonianza lampante, ma lei lo dice con una spontaneità, accompagnata da un gesto così naturale, che la generosità di Antonio Tabucchi mi appare in un’altra luce. Generosità umana, certo, di quelle sempre presenti e pronte, forti e decisive. E una generosità letteraria, affatto disgiunta dall’altra, anzi, ma che ora, qui, in un bar di Alcamo, diventa così evidente, nel momento in cui Linda, la mia compagna, mi ridà il libro con un gesto complessivo, come se la generosità di Antonio stesse tutta lì, in quel passaggio da una mano all’altra, mani che si sfiorano. Chiunque abbia conosciuto Antonio Tabucchi, le sa, queste cose. E le sanno anche i suoi lettori. Una generosità, la sua, che vorresti davvero fosse contagiosa, replicabile, da poterla offrire agli altri così come faceva lui, attraverso di sé e i suoi libri. La generosità di un maestro, che aveva sempre da insegnarti, anche quando non c’era. No, aspettate. Va declinata al presen-
te, questa cosa: che ha sempre da insegnarti, anche ora, che non c’è. Continuo a parlarci spesso, con Antonio Tabucchi. Ogni giorno, direi, come ha appena fatto Andrea Bajani nel suo bellissimo libro Mi riconosci (Feltrinelli). E lui continua a farmela, quella domanda. Impertinente, se fatta da chiunque altro. Te la fa anche in modo burbero, quando serve. «Stai scrivendo?», chiede, e al punto di domanda segue sempre quella pacca di rimprovero preven-
Lezioni Il gusto di fare domande, di impartire rimproveri preventivi, di rispondere nel dettaglio a interrogativi impertinenti tivo — pamm — sulla schiena. E poi «dài, racconta». Potrei raccontarti del vento di scirocco, qua fuori, stanotte, Antonio, raffiche di vento irregolari sotto — o dentro? — il cielo stellato di Sicilia, dove sono venuto a parlare di te a degli studenti del Liceo scientifico e classico Ferro di Alcamo, e avessi visto le loro facce, quando l’altro giorno ho scritto alla lavagna quella tua frase che sta nella quarta di copertina del tuo ulti-
mo libro. Come se avessi girato un interruttore. E le domande sono partite a raffica. «La letteratura è sostanzialmente questo: una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia». L’estate scorsa avevo chiesto loro di leggere Notturno indiano. A ragazzi di 16, di 17 anni. Troppo presto?, mi sono chiesto. Macché. Ti sarebbero piaciuti, Antonio, questi ragazzi, la risposta più bella a tutti i cliché sulla Sicilia che portiamo dentro di noi. Ora la conoscono anche loro, la tua generosità di narratore. E tu non li abbandonerai più, lo so. Poi, con Tabucchi, si poteva anche girargliela, contro, la domanda impertinente. E lui ti rispondeva. Nei dettagli, spesso. Ed era bello andarsene sapendo quale sarebbe stato il prossimo libro di Antonio Tabucchi. Stringo fra le mani Di tutto resta un poco, guardo l’eco del sorriso sul volto di Linda che ha appena detto «Che uomo generoso». E so che quel «poco» è così tanto da riempire vite intere. Antonio Tabucchi l’ha riempita, la mia, come amico, come maestro e come scrittore. Perché, se di tutto resta un poco, spesso, a volte, quel poco basta e avanza. © RIPRODUZIONE RISERVATA
uasi un anno fa, il 25 marzo 2012, moriva a Lisbona Antonio Tabucchi, il romanziere di Sostiene Pereira e di Notturno indiano. Per ricordarne la figura, gli omaggi si moltiplicano in tutt’Europa, con incontri, letture e testimonianze di amici, come lo scrittore Roberto Ferrucci qui accanto, ma anche con riedizioni o uscite di sue opere. Tra le pubblicazioni, il libro postumo di Tabucchi Di tutto resta un poco (Feltrinelli), e la riedizione di quattro suoi Racconti e romanzi (Sellerio) con l’introduzione di Paolo Mauri. Ma c’è anche l’audiolibro di Sostiene Pereira letto da Sergio Rubini (Emons, Feltrinelli), e Andrea Bajani (Mi riconosci, Feltrinelli) sugli ultimi giorni dell’amico Tabucchi. Tra le celebrazioni, al Circolo dei lettori di Torino il 20 marzo una lettura di Bajani, appunto, dal suo libro (ore 21), a Milano il 24 marzo un ricordo con Gabriella D'Ina alla Feltrinelli di piazza Piemonte (ore 16) e a Genova venerdì 22 dalle 15 un simposio alla Scuola di Scienze umanistiche dell’Università degli studi, con Giacomo Deferrari, Giorgio Bertone e molti altri. A Firenze, dal 23 al 25, i Dialoghi inquieti a cura di Gruppo toscano critici cinematografici e Fst Mediateca: in particolare il 25, all’Odeon, un’intera giornata curata da Ranieri Polese, che proporrà dalle ore 11 proiezioni video e dalle 15.30 il film Sostiene Pereira, presente il regista Roberto Faenza, per chiudere con Notturno indiano di Alain Corneau e l’anteprima di La vita non basta curato da Paolo Di Paolo per Rai Educational; il tutto inframmezzato da interventi di amici come Antonio Sellerio, Romana Petri e Antonio Padellaro tra gli altri. Per quanto riguarda l’Europa: a Strasburgo, il 22 un incontro con Bajani alla Médiathèque Malraux, a Parigi il 19 una serata alla Bibliothèque Nationale con José Maria Lancaster e Bernard Comment, mentre «L’immagine e la parola», spin-off del Festival di Locarno, proporrà il 25 la proiezione di Requiem di Alain Tanner, e un dibattito con Comment e Roberto Ferrucci. E a Lisbona, il 25, l’Istituto italiano di cultura ospiterà la lettura di Il signor Pirandello è desiderato al telefono, di Tabucchi, con Marcello Urgeghe.
Ida Bozzi
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Architettura Il riconoscimento per la sesta volta a un progettista del Paese asiatico. Nel 2008 realizzò a Pescara una controversa scultura
Toyo Ito «fluido» e «senza tempo» Il Pritzker premia ancora il Giappone di STEFANO BUCCI
A
ncora una volta il Pritzker Prize, di fatto il Nobel dell’architettura, premia la scuola giapponese. Toyo Ito, proclamato ieri vincitore dell’edizione 2013, è nato anagraficamente nel 1941 in Corea (allora colonia nipponica) da una famiglia di imprenditori che all’epoca si occupava di porcellana e che più tardi sarebbe passata anche al settore alimentare: il suo nome si aggiunge così a quelli di Kenzo Tange (1987), Fumihiko Maki (1993), Tadao Ando (1995), Kazuyo Sejima con Ryue Nishizawa (2010), sei personalità in tutto, se si considera la coppia Sejima-Nishizawa. Per numero di riconoscimenti il Giappone si piazza dunque subito a ridosso degli Stati Uniti, mentre il premio a Toyo Ito arriva un anno dopo quello tributato al primo cinese, Wang Shu. Da tempo Toyo Ito era costantemente presente nella lista dei possibili candidati (stavolta si parlava di Chipperfield, di Pelli, di Bohigas, dello studio Mumbai) ma, come spesso succede ai favoriti, il riconoscimento che la critica gli aveva pronosticato (nonostante abbia realizza-
Toyo Ito, 71 anni. A fianco, il Toyo Ito Museum of Architecture di Imabari (foto Daici Ano)
to non tantissimi progetti) sembrava non voler arrivare mai. Sarà invece proprio lui a ricevere il premio il prossimo 29 maggio a Boston nella Kennedy Library, una scelta che vuole rappresentare — come ha sottolineato Tom J. Pritzker, magnate filantropo che oggi anima il premio messo in piedi dai suoi genitori nel 1979 — anche un doppio omaggio: a un altro grande architetto come Pei, che ha progettato la Library, e allo stesso JFK, visto che il 29 maggio ricorre il compleanno di Kennedy.
La motivazione del premio parla di «quarant’anni di lavoro (il suo primo studio, l’Urban Robot, l’aveva fondato nel 1971 a Tokyo per poi trasformarlo nel 1979 nell’attuale versione, Toyo Ito & Associates ndr) durante i quali è riuscito a coniugare con successo una seria ricerca concettuale con una superba esecuzione formale». Un corpus di edifici — scuole, parchi, padiglioni, teatri, uffici, negozi — «che hanno di fatto esplorato tutte le possibilità dell’architettura». Edifici «fluidi» e «senza tempo»,
sempre secondo la giuria, ma che «non vogliono mai dipendere da uno stile o da una moda e che non mi soddisfano mai» come ha più volte tenuto a precisare Toyo Ito, premiato tra l’altro nella Biennale di Venezia del 2002 con il Leone alla carriera: un riconoscimento bissato giusto nell’ultima edizione con il premio per il miglior padiglione nazionale, naturalmente quello del Giappone. Dalle case di famiglia di Tokyo (l’Aluminun House, la White U) alla Sendai Mediateque, dal building Tod’s a Omotesando (sempre a Tokyo) al Museo di Architettura a Imabari fino al Padiglione per la Serpentine Gallery di Londra. Un architetto schivo, ma anche uno dei progettisti più influenti della sua generazione, assai amato dai giovani, capace di riuscire a trasformare la ricerca tecnologica in un fatto anche poetico, sfuggendo alle leggi dello star system e all’esasperazione dell’high tech. Con un retroterra pure made in Italy: dalla bellissima poltrona Suki per Driade (1988) alla più controversa (ma non per colpa di Toyo Ito) scultura in una piazza di Pescara, quel «bicchiere di vino» andato in pezzi a metà febbraio 2009 dopo soli due mesi di vita, a causa un cedimento strutturale. © RIPRODUZIONE RISERVATA