Il sole 24 ore 9 giugno raccontare un segreto, la milanesiana al circolo dei lettori

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Il Sole 24 Ore

DOMENICA - 9 GIUGNO 2013

Luoghi e persone

Né capo né coda | Palindromi di Marco Buratti Sull'ombrellata piu' cliccata del web ORA C'E' TERNI IN RETE, CARO!

a colloquio con jeremy rifkin

È verde la terza rivoluzione Il grande cambiamento energetico preconizzato dall’economista sarebbe già in atto. Germania, Danimarca, Francia del Nord, hanno già un piede nel futuro, ma l’Italia è pericolosamente indietro di Enrico Brivio

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ungimirantevisioneosuggestivo miraggio: l’unica strada da imboccare per assicurare uno sviluppopromettenteesostenibileainostrifigli osolol’illusione di quello che il mondo potrebbeessere. Quandosi parlacon JeremyRifkinsipuòesseresfioratidaldubbiosullapiena attuabilità delle sue teorie. Ma poi l’entusiasmoconcuiilsociologo-economistaespone le sue argomentazioni, gli esempi che cita, la torrenziale foga con cui sostiene le sue tesi non possono che aprire una breccia anche nel più scettico degli interlocutori. La Terza rivoluzione industriale non è uno slogan, assicura Rifkin. Non è solo l’azzeccato titolo di un suo libro pubblicatodue anni fa che preconizzava l’avvento di un modello di società basata su cinque pilastri: energie rinnovabili, conversione degli edifici in centrali energetiche diffuse sul territorio, utilizzo di tecnologie come l’idrogeno per immagazzinare quella forza propulsiva, reti intelligenti e trasporti basati su veicoli ibridi e ricaricabili. La Terza rivoluzione industriale è ormai in atto e tangibile. Germania, Danimarca, ma anche la regione francese di Nord Pas de Calaishannogiàunpiedeinquelfuturo diventatopresente,incuiinvece l’Italiafaticaa entrare.«LaTerzarivoluzioneindustrialestaprendendo piede molto rapidamente in alcune parti del mondo e senz’altro in varie regioni d’Europa – spiega Rifkin –. In Nord Pas de Calais, una delle più antiche aree industriali in Europa e la seconda in Francia, si sta lavo-

rando su tutti i cinque pilastri per un’economiabasatasuenergierinnovabilieretiintelligentidiffuse.Laregionemetteràadisposizionefinoa3 miliardiall’anno,inparteattingendo ai fondi comunitari, e sta preparando uno strumento finanziario per permettere a ogni persona di comprare quote e contribuire a condividereunmodelloenergeticodecentrato. È la prova di ciò che si può fare e si dovrebbe fare ovunque». A Copenaghen Rifkin vede un altro esempio virtuoso di modello europeo orientato a un’economia verde, ma è soprattutto a Berlino che invita a guardare. «Quando la cancelliera Merkel mi chiamò per consigliarla sulle strategie per aiutare la crescita in Germania – racconta lo studioso americano – la prima cosa che le ho fatto presente è che siamo nell’ultimo stadio di una fase energetica: combustibili fossili ed energia nucleare, motori a combustione e vecchie reti elettriche centralizzate hanno fatto il loro tempo, hanno esaurito il loro potenziale di crescita della produttività, sono antiquate. Lei ha concordato e appoggiato in pieno i cinque pilastri dellaTerza rivoluzione industriale». Una svolta condivisa da tutto il mondo politico tedesco, sostenuta dalla Cdu della Merkel ma anchedasocialdemocraticie verdi. E ora laGermaniapunta a farsalire dal22% al35% laporzione di energia rinnovabile entro il 2020 e ad avere un milione di palazzi autosufficienti con la creazione di 370mila posti di lavoro in gran parte derivanti da realtà produttive locali, lasciando solo il 7% alle big utility.

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a milano | Jeremy Rifkin, 68 anni, è autore, fra gli altri, del saggio «La terza rivoluzione industriale». Ne parlerà al teatro Dal Verme di Milano mercoledì prossimo Rifkin evidenzia, invece, che l’Italia, nonostantel’enorme potenziale imprenditoriale e creativo della sua rete di piccole e medie imprese, stenta a spiccare il volo. Fa fatica a promuovere e sostenere un nuovo sistema organico produttivo e di consumo che punti su generazione, immagazzinaggio e utilizzo di energia diffusa e rinnovabile. «Mi sento frustrato – ammette Rifkin – perché ho un love affair con l’Italia, ho speso negli ultimi vent’anni più tempo da voi che in

ogni altro Paese. L’Italia è una miniera di creatività, con piccole e medie imprese che possono vincere nel mondo, e il mio tipo di rivoluzione le aiuterebbe, ma manca la leadership politica a livello nazionale, regionale e locale. Ci sono progetti interessanti sul territorio ma non sono interconnessi, manca un disegno complessivo». Una carenza ancor più grave, agli occhi del sociologo che nel 1995 scrisse La fine del lavoro, perché latrasformazioneverso il nuo-

milanesiana

vo modello verde e decentrato è l’unico vero propulsore che può garantire la creazione di occupazione nei prossimi 25-30 anni: «La prima rivoluzione industriale hafatto scomparirelaschiavitù e iservi dellagleba – osserva Rifkin – la seconda ha ridimensionato il lavoro agricolo, la terza farà finire il lavoro di massa, non solo nelle fabbriche, Algoritmi, big data e intelligenza artificiali stanno sostituendo segretarie e impiegati allo sportello ma presto soppianteranno anche professionisti,avvocati, contabili,radiologi e ingegneri. Anche in Cina il 15% dei lavoratori sono stati rimpiazzati da tecnologia e in tutto il mondo il 60% dei lavoratori nelle fabbriche sono stati eliminati». Rendere invece ogni palazzo efficiente e creatore di energia, e installare le infrastrutture intelligenti in tutta Europa per immagazzinarla e scambiarla, necessita di molto lavoro. Comporta la creazione di milioni di posti di lavoro, coinvolge migliaia di aziende e genera un nuovo giro d’affari con un grande potenziale di miglioramento della produttività dell’intero sistema. In una fase successiva, quando poi questo modello sarà maturo – sostiene Rifkin – tra 35-40 anni il potenzialedi nuova occupazione rimarrà invece confinato nel terzo settore, in servizi legati a cura personale, ricreazione, cultura e sport che comunque non potranno essere soppiantati dall’hi-tech. Per ora puntare su rinnovabili, economy e smart grid resta per lo studioso americano la sola via praticabile. Rifkin tende a ridimensionareancheilbalzodiproduttivitàfattodagli Stati Uniti grazie a gas e petrolio di scisto, ovvero le risorse estratte attraverso frantumazionedellaroccia.«Lo shalegasèstato sopravvalutatodalsettoreenergetico edallacomunità finanziaria, è una specie di bolla, un fenomeno di breve periodo. Andrew Hall, analistae managerdihedgefund cheèconsiderato come un Dio dagli addetti del settore, hafatto esploderela bomba sul"Financial Times" pochi giorni fa, osservando che quando silocalizzano riserve di shale gas il potenziale sembra enorme, ma quando si cominciano le estrazioni si può attingere solo a pochi punti. Si investono enormi somme per attingere a riserve che possono poi essere sfruttate solo in piccola parte». Impossibile, insomma, per Rifkin credere che un revival di combustibili fossili in nuove forme possa rallentare il cammino dell’avanzante Terza rivoluzione industriale da lui profetizzata e dell’onda di fonti rigenerabili, reti intelligenti e tecnologie pulite.

ercoledì prossimo, 12 giugno, Jeremy Rifkin sarà ospite della serata «Aspettando la Milanesiana», alle 21 al teatro Dal Verme (via San Giovanni sul Muro 2, Milano, ingresso libero). La lectio magistralis dell’economista sarà ispirata al suo libro «La terza rivoluzione industriale». A chiudere la serata ci sarà il pianista Michele Campanella. La manifestazione di letteratura, musica, cinema, scienza, arte, filosofia e teatro, ideatadaElisabettaSgarbi, quest’anno avrà come tema conduttore «il segreto»ed entrerà nelvivo apartiredal21 giugno.Segnaliamo in particolare il 24 giugnoleletturediHanif Kureishi e Amitav Gosh e il 25 giugno le letture deipremiNobelperlaletteratura Wole Soyinka e JohnCoetzee,conilpremioPulitzerMichael Chabon (tutti al Teatro Dal Verme alle 21, glistessi autori li ritroveremo ilgiorno successivoalle12 presso laFondazioneCorriere della Sera, sala Buzzati, via Balzan 3). Il 26 giugno sarà la volta di Umberto Eco, sempre al Dal Verme. Il 27 giugno alle 21 all’Auditorium Pirelli si potrà ascoltare, tra gli altri, Remo Bodei, ilgiorno successivo, nellostesso luogo e alla stessa ora, Tzvetan Todorov, il primo luglio, alle 21 a Palazzo Reale il protagonista sarà Boris Pahor. Il 2 luglio in Sala Buzzati alle 12 ci sarà Franco Loi, alle 21 a Palazzo Reale il premio Nobel per la Letteratura Gao Xingjian. Il giorno successivo, alle12 in Sala Buzzati, Dubrava Ugresic leggerà un suotestoeilgiorno successivo, alle21, apalazzoReale,protagonistasaràlamatematica con la medaglia Fields Michael Atiyah. LaMilanesianaquest’annohaorganizzatoancheunamostraaTorinodedicataaTonino Guerra (al Circolo dei lettori, via Bogino 9) e un paio di serate, tra cui segnaliamo quelladel26 giugno alle21 alCircolodeilettori: l’ospite sarà Wole Soyinka.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Raccontare il segreto

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fermo posta

Le parole di Levi, il «New Yorker» e il «Sole» In questa rubrica ospitiamo ogni settimana la lettera di un lettore a un collaboratore della «Domenica» e la risposta del destinatario. Le lettere, della lunghezza massima di 40 righe per 60 battute, vanno inviate a «Il Sole 24 Ore Domenica», via Monte Rosa 91, 20149 Milano, oppure per email, al seguente indirizzo: fermoposta@ilsole24ore.com

G

entile Direttore, Le scrivo per chiederle una rettifica riguardo la questione della fonte originale di una citazione falsamente attribuita a Primo Levi e di correggere quanto scritto nell’articolo «Le vere parole di Levi» di Domenico Scarpa e Irene Soave, da voi pubblicato l’8 aprile 2012. L’anno scorso, nel suo giornale, Scarpa e Soave cercarono di venire a capo della vicenda di un’affermazione falsamente attribuita a Primo Levi. Si era scritto che Levi avesse detto «I palestinesi sono gli ebrei degli israeliani». Scarpa e Soave hanno stabilito, correttamente, che Levi non aveva mai detto queste parole; quelle parole erano del giornalista Filippo Gentiloni, che aveva intervistato Levi per «il manifesto» nel 1982. Scarpa e Soave hanno sostenuto, erroneamente, che Joan Acocella si era resa responsabile di una citazione sbagliata, la cui origine, hanno detto, era nella recensione di un libro da lei scritta per «The New Yorker» nel 2002. Però, come Acocella ha fatto notare a Scarpa e Soave, dopo aver letto l’articolo su «Il Sole 24 Ore», lei aveva tratto quella citazione dal libro che stava recensendo, The Double Bond: Primo Levi, a Biography, di Carole Angier. Acocella ha chiesto che la questione venisse chiarita, cosa che non è avvenuta, benché Scarpa e Soave le abbiano scritto spiegando che la loro ricerca si era limitata ad internet (!) e dunque non avevano cercato delle fonti precedenti per la falsa attribuzione. Questo era, ed è, inaccettabile. Recentemente Acocella ha scritto di questa vicenda sul sito newyorker.com (http://www.newyorker.com/online/blogs/books/2013/04/who-said-what.html), dove potrete trovare altre informazioni in merito. Vi chiediamo di pubblicare una

Domenica

rettifica al vostro articolo, in modo da chiarire che Acocella non era stata la fonte di questa citazione falsamente attribuita a Primo Levi e di esprimere il vostro rammarico per l’errore. Lynn Oberlander, General Counsel, «The New Yorker»

T

rascriviamo tre brani di tre autori diversi: 1. E ancora: «Ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi». E oggi i palestinesi sono gli ebrei degli israeliani. Filippo Gentiloni, recensione al romanzo di Primo Levi Se non ora, quando?, «il manifesto», 29 giugno 1982. 2. Suddenly Primo’s reviews and letters were full of Lebanon. «Everybody is somebody’s Jew», Manifesto’s reviewer quoted him: «And today the Palestinians are the Jews of the Israelis». Carole Angier, The double bond. Primo Levi: A biography, Viking, London 2002, pag. 628. Nelle note (pag. 825) è segnalata, insieme con altre, la fonte: «reviews by […] Gentiloni in Il Manifesto, 29 June 1982». 3. «Everybody is somebody’s Jew», he told an Italian newspaper in 1982, «and today the Palestinians are the Jews of the Israelis». Joan Acocella, A hard case. The life and death of Primo Levi, «The New Yorker», 17-24 giugno 2002, pag. 167. La vicenda che qui viene rapidamente ricostruita – e che costringerà i lettori, cui chiediamo scusa, a mobilitare il loro inglese – occupa lo spazio esatto di una generazione, dal 1982 al 2012: dalla recensione che Filippo Gentiloni dedicò al primo romanzo d’invenzione pubblicato da Primo Levi fino all’articolo che trent’anni più tardi i due autori di queste righe hanno firmato sul Domenicale, entrambi come consulenti del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino. L’articolo è uscito l’8 aprile 2012 con un titolo redazionale che non poteva essere più giusto: «Le vere parole di Levi». I lettori del «Domenicale» noteranno che i tre brani qui trascritti sono ripetitivi solo in apparenza. Dal primo al terzo si produce uno slittamento progressivo nella paternità delle affermazioni. Il primo, quello di Gentiloni, è inequivocabile. Il recensore del

«manifesto» riporta correttamente, tra virgolette, una frase che ha trovato nel romanzo di Levi: «Ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi». E qui, come si può constatare, Gentiloni ha chiuso le virgolette per poi aggiungere (com’era suo diritto) un’opinione personale: ed è l’opinione di un recensore, non di un intervistatore; chi andrà ora a rileggere il terzo e ultimo brano della serie coglierà l’importanza di questo dettaglio. Tra il primo brano (in italiano) e il secondo (in inglese), tra il secondo brano (in inglese) e il terzo (nella stessa lingua), ma soprattutto nel passaggio dal primo al terzo è avvenuto lo slittamento di cui si diceva. Il risultato? Chi legga l’articolo di Joan Acocella avrà ragione di pensare che nel 1982, al tempo in cui l’esercito israeliano invase il Libano, Primo Levi riteneva che i palestinesi fossero gli ebrei degli israeliani, e leggerà inoltre che Levi pronunciò questa frase durante un’intervista a un giornale. Il nostro articolo di un anno fa s’intitolava «Le vere parole di Levi». Il suo scopo era mostrare che Primo Levi non aveva pronunciato quella frase, e che anzi aveva detto esplicitamente, in svariate occasioni, che non si poteva azzardare la similitudine. Pensiamo che lo scopo sia stato raggiunto. In quell’articolo si registrava un altro fatto, ossia che la frase attribuita a Levi circolava da anni sul web: e si metteva in relazione questa circostanza col fatto che l’articolo pubblicato nel 2002 sul «New Yorker» da Acocella era disponibile sul sito internet della rivista. Joan Acocella ha chiesto ai due autori dell’articolo e al «Sole 24 Ore» una rettifica, sostenendo di essersi limitata a riprendere un brano della biografia di Carole Angier nella sua recensione di quel volume. Era così: ma il lettore ha sott’occhio gli elementi per confrontare tutte le trasformazioni che il brano ha subìto nei vari passaggi. Qui confermiamo (come già scritto direttamente ad Acocella) che non si intendeva formulare nessuna accusa nei suoi confronti ma solo smentire che Levi avesse pronunciato quella frase, e descrivere il possibile percorso sul web di una distorsione del suo pensiero. Domenico Scarpa e Irene Soave © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Francesca Barbiero, Cristina Battocletti, Antonia Bordignon, Eliana Di Caro Marco Carminati, Lara Ricci, Stefano Salis

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