La stampa 27 maggio joel dicker

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LA STAMPA LUNEDÌ 27 MAGGIO 2013

CULTURA SPETTACOLI

Roma,lescenediKandinskijperMusorgskij Lo storico spettacolo realizzato da Vassilij Kandinskij nel 1928 sulla musica di Quadri d’una esposizione di Modest Musorgskij è stato fedelmente ricostruito dalla Cité de la Musique di Parigi e domani sarà eseguito in prima romana nell’aula magna della Sapienza, con Mikhail Rudy solista al piano. In sincrono con la musica andrà la proiezione del film d’animazione basato su quella versione teatrale, riproponendone le storiche scenografie.

MARIA GIULIA M INETTI

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a voce è cordiale, giovane. Che peccato essere attaccati al telefono, non poterlo guardare mentre ride, la risata allegra di chi non è ancora stremato dal successo. Non ancora, ma la freschezza di Joël Dicker, 28 anni, svizzero ginevrino provvisoriamente residente a Londra, è a rischio, rischio estremo. Se dappertutto si ripeterà quello che è successo in Francia, Joël dovrà imparare a nascondersi, a salvarsi dai curiosi, a depistare i cronisti. In una parola, dovrà imparare a essere famoso. La verità sul caso Harry Quebert – il suo secondo romanzo, si legge sul risvolto di copertina dell’edizione italiana, appena mandata in libreria da Bompiani, che l’ha comprato al volo, acquistando i diritti prima della pubblicazione francese – ha travolto il pubblico e i recensori d’Oltralpe, un tornado di copie, di premi. Sbalorditivo per un autore quasi esordiente, che si presenta con un libro di 800 pagine ambientato in America e centrato su personaggi americani. Bandito ogni riferimento europeo, il romanzo – un thriller classico, con una suspense che raddoppia di capitolo in capitolo – è costruito sull’«esperienza» che tutti abbiamo dell’America, quell’enorme paesaggio letterario, cinematografico, musicale, cronistico, politico dove riconosciamo ogni cosa, ogni persona, ogni panorama. L’America è un gigantesco cliché che ci portiamo dentro, Joël Dicker ha la genialità di approfittarne, di farci passeggiare nei suoi sentieri come in un parco a tema. Ma nulla è statico, nel parco. C’è una complicatissima vicenda in corso nella piccola città del New Hampshire dove Dicker ha concentrato il suo plot (ma a farle da contraltare c’è New York, tranquilli, non manca niente), e una volta coinvolti nella vicenda, siamo in trappola. Ne verremo fuori solo 800 pagine dopo…

Conosco bene gli Stati Uniti e in particolare la zona del New England dove ho ambientato la storia. Volevo condividere questa America con i miei lettori Prendo i codici di genere ­ il noir, il poliziesco, la commedia urbana, il romanzo d’apprendistato, il thriller psicologico, il dramma amoroso ­ tutti i filoni del cinema e della letteratura Usa, e ci gioco

A Torino il 4 giugno Joël Dicker è nato a Ginevra il 16 giugno 1985 da padre russo e madre francese. Lo scrittore presenterà il suo libro martedì 4 giugno, ore 18,30 al Circolo dei lettori di Torino. Il giorno seguente, alle 19, sarà a Roma nella Galleria Alberto Sordi

La “mia” America è un parco a tema La verità sul caso Harry Quebert, thriller kolossal tutto yankee Lo ha scritto Joël Dicker, ventottenne svizzero ginevrino

na, il romanzo d’apprendistato, il thriller psicologico, il dramma amoroso – tutti i filoni del cinema e della letteratura statunitense, e ci gioco. Cioè, li adopero». Gioca coi codici, ma anche con opere vere e proprie. La storia al centro delle infinite storie che compongono la tra­ ma, per esempio, sembra una «varia­ zione» di Lolita.

«Lolita m’ha certamente ispirato, lo denuncio addirittura nel nome della protagonista, Nola, No-la… Ricorda l’incipit di Lolita? “Lo-li-ta, Lo-li-ta…”. Mi sono ispirato anche a Steinbeck, Franzen, Woody Allen, Philip Roth, Paul Auster… Ma l’ispirazione centrale, il personaggio centrale del mio romanzo è il Paese, sono gli Stati Uniti d’America». «Già, nonostante il Grande Paese ci sono persone che restano conficcate in queste piccole comunità, cittadine che sembrano isole, dove le esistenze si incrociano continuamente, si confrontano». Dove, se uno straniero arriva, tutti lo guardano. Tipico, certo. E foriero di guai. Ma i guai originati dall’arrivo a Aurora di Harry Quebert, oltre a svilup­ parsiperpiùditrent’anni,vannoavanti per 800 pagine. È partito subito con questa idea di kolossal?

«Avevo un posto e avevo un’idea, ma non sapevo quanto complessa sarebbe diventata. Non avevo un piano preciso, non sapevo dove andavo, via via che m’imbattevo in un personaggio volevo conoscerlo meglio, frugarlo. A un certo punto ogni mattina mi sedevo a scrivere elettrizzato, incuriosito per quello che avrei scoperto, e ogni volta la storia mi portava oltre, la curiosità aumentava… Ero allo stesso tempo lo scrittore e il lettore». Il libro non ti molla mai. La sua maestria nel creare suspense è da vecchissima volpe. Da narratore sperimentato. E in­ vece è solo il suo secondo libro. E l’ha scritto a 25 anni.

Sempre Dimitrijevic, con un’altra nobi­ le e antica casa editrice, le Editions de Fallois, pubblicherà poi anche Harry Quebert. E questa volta è il boom, l’av­ vio pirotecnico. Se l’aspettava, questo successo?

Ma lei non ne ha fatto solo un ameri­ cano, ne ha fatto un americano in America.

«Conosco bene gli Stati Uniti e in particolare la zona del New England dove ho ambientato la storia. Volevo condividere questa America coi miei lettori».

«No» In Harry Quebert c’è amore ma non c’è sesso. Un editore, nel libro, spiega al protagonista che una storia senza ses­ so non può vendere milioni di copie. Lei invece dimostra il contrario. Ma, scusi la curiosità, perché non c’è sesso, nel suo romanzo?

Più che condividere una parte del­ l’America che conosce in modo parti­ colare, sembra che lei voglia condivi­ dere con i lettori una nozione d’Ame­ rica, come dire, codificata.

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«Per la verità è il mio sesto libro. È il secondo pubblicato, ma ce ne sono cinque che lo precedono. Tutti rifiutati. Invece di scoraggiarmi, però, ogni rifiuto mi ha spinto a rimettermi in causa. Finché Les derniers jours des nos pères, il quinto libro, che avevo mandato a un concorso di inediti, vince il primo premio. Tra il pubblico c’è Vladimir Dimitrijevic (leggendario fondatore della casa editrice L’Age d’Homme, l’uomo che ha fatto conoscere la letteratura slava contemporanea in Occidente, ndr), chiede di leggerlo e mi propone di pubblicarlo! Non potevo crederci, ma era vero».

«No, no. Il motivo è un altro. Harry Quebert è il mio esordio in prima persona. Finora non avevo mai detto “io”, nei romanzi. Volevo mettere una certa distanza fra me, Joël, e il tizio che dice “io” nel libro. Se fosse stato francese, o svizzero, la sovrapposizione fra me e lui sarebbe stata sempre in agguato».

orse abbiamo perduto un’occasione. Il moderno e la crepa, curato da Andrea Rabbito per le edizioni Mimesis (pp. 277, € 24), è il primo saggio monografico dedicato a Mario Missiroli, uno degli ultimi esponenti di quel «teatro di regia» che ha permesso alla nostra scena di offrirsi come gesto creativo superando il semplice esercizio illustrativo. Missiroli è stato, anzi è ancora, sulla soglia degli ottant’anni felicemente buttati dietro le spalle, un creatore dal segno forte, beffardo e tragicamente poetico. Il suo lavoro appare intriso di memorie brechtiane prese in senso tecnico e non politico, cioè come

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Un Grande Paese e una piccola città…

Pensava già a un pubblico internazio­ nale, quando ha deciso per un prota­ gonista americano?

«Ma certo, prendo i codici dei generi – il poliziesco, il noir, la commedia urba-

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Edward Hopper, High Noon, 1949. Joël Dicker è paragonato al pittore americano per la capacità di descrivere con lucida inquietudine la realtà

Elzeviro OSVALDO GUERRIERI

L’omaggio a Missiroli un’occasione mancata

uno strumento col quale diventa possibile distanziare, evitare l’immedesimazione, dotare lo spettatore di quell’occhio critico che il teatro borghese aveva quasi spento. Da ragazzo, Missiroli ha studiato musica, ma ha capito presto che il suo talento abitava altrove: nella letteratura, nel cinema, nel teatro di prosa. Negli anni 60 cinema e letteratura gli si sono offerti abbracciati l’uno all’altra e lo hanno indotto a scrivere con Alberto Arbasino Amate sponde!, un cabaret abnorme sulla storia patria, e a girare, ancora con Arbasino, il film La bella di Lodi. Incapace, per sua ammissione, di sottoporsi al-

la ritualità produttiva d’un film, eccolo abbordare definitivamente il teatro approdando negli anni 70 alla direzione dello Stabile di Torino, dove ha sviluppato un ammirevole percorso creativo con spettacoli quali la Trilogia della villeggiatura di Goldoni, I giganti della montagna di Pirandello, Verso Damasco di Strindberg, La mandragola di Machiavelli. Esaurita nell’85 l’avventura torinese, ha intrapreso il libero cabotaggio registico fino a quando la società dello spettacolo ha deciso di non potersi più permettere un talento spinoso quale il suo. Questo lungo percorso artistico fatto di eleganza, di sfida e perfino di

«Perché penso che non fosse necessario».

struggimento entra però come di riflesso nel volume curato da Rabbito. Vi leggiamo le parole di Arbasino, Philippe Daverio, Liborio Termine, ci soffermiamo sul dotto saggio di Roberto Tessari dedicato ai Giganti della montagna, ma ciascuno dei convitati sembra procedere per conto proprio. Lo stesso curatore, che chiude l’opera con una efficace meditazione su «Mario Missiroli e lo spettacolo perturbante della modernità», non elimina l’impressione del centone disorganico di impronta accademica nel quale colui che parla spesso non resiste alla tentazione di parlare soprattutto di se stesso.


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