Chi vuol fare la guerra non deve essere lasciato in pace

Page 1

CHI VUOL FARE LA GUERRA NON DEVE ESSERE LASCIATO IN PACE Dossier su Turchia, Kurdistan e venti di guerra Per costruire un movimento a Genova contro la guerra

A cura di Genova City Strike/ Rete Nazionale Noi Saremo Tutto Piazza dei Trogoli di Santa Brigida 20 rosso www.citystrike.org www.noisaremotutto.org Radio Stella Rossa www.stellarossagenova.org Contattaci citystrike@inventati.org


Indice

1) Introduzione 2) Dopo l'attentato di Parigi 3) Le elezioni farsa in Turchia 4) La strage di Suruc 5) Reportage dal Kurdistan


1) Introduzione ”Non c‘é stato un momento preciso in cui è cominciata questa guerra. Abbiamo combattuto in Corea, in Jugoslavia, in Iran. Il conflitto si è allargato sempre di più. Alla fine hanno cominciato a sganciare bombe anche qui. E’ successo come il diffondersi di un’epidemia. La guerra si è estesa. Non è cominciata”. Colazione al Crepuscolo, di Philip K. Dick, 1953 Iniziamo con una banalità di base: la guerra alle porte di casa è entrata nei perimetri dello spazio politico dell’UE, ha determinato uno stato di eccezione permanente evidente ai più e un salto di qualità nelle scelte apparentemente irreversibili dei “signori della guerra”made in Europe. Nella percezione comune, gli indiretti ambasciatori di questa “escalation” sono stati per primi i profughi sradicati dai conflitti causati dalla politica bellicista della NATO, dell’Unione Europea, dalle petrol-monarchie della penisola arabica in Africa e in “Medio-Oriente”. Dietro la falsa contrapposizione tra integrazione ed esclusione dei profughi giocata dalle elité dei governi europei a seconda dei propri interessi (ricerca di manodopera a basso costo versus ricerca di un consenso basato sul concetto di sicurezza), c’è una sostanziale profonda matrice neo-coloniale nella politica di ogni schieramento che in fondo non fa che cristallizzare l’abisso tra “razze schiave” e “razze padrone” nel nuovo dis-ordine mondiale. In tal modo viene perpetrata tuttora quella politica di accumulazione per espropriazione di terre, uomini e risorse che è alla base del nostro sistema economico. Se, negli anni recenti, questo sistema aveva offerto le briciole ad un parte della classe lavoratrice “autoctona” dei paesi imperialisti, anche a scapito della forza-lavoro multinazionale, ora ha ben poco da offrire a tutti e mette in pericolo la sicurezza dei “più”. Il corollario di questa politica “neo-colonialista” è stata una percezione inferiorizzante dei “dannati della terra” che ha fatto breccia da tempo tra i “proletari autoctoni” annichilendo una tradizione internazionalista che aveva visto – per una parte importante del movimento operaio – nella lotta dei popoli del tricontinente un naturale alleato per il miglioramento delle proprie condizioni di vita anche nei propri territori. Ma i nostrani e autoctoni dannati della metropoli stanno bruscamente scoprendo gli “effetti collaterali” di un ciclo di feroce competizione globale (in primis all’interno della contraddizione capitale-lavoro) e di relativi conflitti, fino ad ora – tranne casi significativi ma marginali – rimasti al di fuori della sfera della propria quotidianità e tutt’al più nella rappresentazione falsante della propaganda di guerra dei media mainstream. Tutto questo accade in un contesto in cui il consenso dei tecno-burocrati di Bruxelles e Francoforte, e delle loro articolazioni locali, è ai minimi storici.


La pericolosità di questo boomerang sta facendo riflettere su un possibile cambiamento di tattica da parte di una parte della borghesia e del blocco di potere dominante, che non vuole fare più le spese di una gestione scellerata dello strumento guerra (e vedere risicati ancora maggiormente i propri consensi) e sta dando credito a quelle voci inascoltate che da anni fanno dell’opposizione alla guerra un discrimine etico e politico. Ma scelte meno scellerate sarebbero possibili solo con una radicale inversione di tendenza ad opera di soggetti politici in grado di dare rappresentanza ad un mutamento drastico dei rapporti tra il “centro” e “la periferia” nell’attuale gerarchia imperialista, restituendo alla sovranità popolare le scelte di fondo della politica in un cambio di paradigma nella tessitura di rapporti fraterni tra popoli e le loro legittime rappresentanze. Questo anche perché, a parte qualche voce fuori dal coro, la borghesia maggioritaria ha scelto da tempo di andare alla guerra a qualsiasi costo. Tutto per la ragione criminale del pensiero economico secondo cui la guerra è lo sbocco naturale della crisi: chi ha rimosso questo dato storico, come la sinistra radicale in primis, non è solo intellettualmente disonesto ma politicamente opportunista e ci condanna ad una gravosa sconfitta. Il prossimo gennaio entreremo nel 25° anno di stato di guerra permanente inaugurato dalla prima aggressione statunitense all’Iraq, allora stato sovrano multi-etnico e multiconfessionale la cui conformazione politica era la conseguenza di una rivoluzione anticoloniale, ed è sempre bene ricordarlo, in prima fila nella coalizione dei paesi arabi del “fronte del rifiuto” nei confronti di una normalizzazione dei rapporti con lo stato d’Israele, nonché campione nell’accoglienza e nell’integrazione dei profughi palestinesi. Da quel gennaio del ‘91 la tendenza alla guerra ha sempre e solo subito brusche accelerazioni e i teatri dei conflitti si sono estesi, moltiplicandone i fronti, fino alla situazione attuale in cui una linea dal Marocco fino alla Cina. Qui, non solo si affrontano gli attori globali e i loro referenti locali nello scontro interimperialista, ma combattono anche resistenze popolari dai contenuti progressisti contro le aggressioni neo-coloniali e feroci dittature militari. A differenza del passato, non vi è attualmente un involucro politico in una cornice sovranazionale in grado di fungere da camera di compensazione dei conflitti inter-imperialistici sempre più aspri in un quadro di bilanciamento delle forze in chiave distensiva. Esistono invece vettori che accelerano la tendenza alla guerra come NATO e Unione Europea che sono né più né meno gli attuali Dottor Stranamore che giocano con la vita di miliardi di persone. Appare chiaro come in questo scenario, l’attuale leadership politica turca si sia fatta carico del primato nella spinta al conflitto sia nei confronti del nemico “interno” che nei confronti di


quello “esterno” delineando un profilo di intervento politico che fa diventare la Turchia un laboratorio politico per l’inasprimento della guerra. Ricevendo, per così dire, il testimone dall’alleanza tra neo-nazisti e neo-liberisti che ha provocato il golpe in Ucraina ormai due anni fa e che attualmente governa il Paese. Più accetteremo la catastrofe legittimando il corso politico attuale nei punti più avanzati della contro-rivoluzione globale: Israele, Ucraina, Turchia, più ci condanneremo a subire lo stesso trattamento che i nostri fratelli e le nostre sorelle subiscono in quei quadranti, perché lo stato d’eccezione permanente è per sua natura virale. L’urgenza di un movimento contro la guerra e di rottura dello stato d’eccezione permanente è improcrastinabile, sta a noi dare forza organizzata a una spinta che sottotraccia possiamo registrare abitualmente nella sensibilità dei ceti popolari. Stiamo veramente camminando sull’orlo di un baratro ad occhi bendati, e di fronte all’attuale empasse la guerra alla guerra non può che essere la risposta contro il nemico più vicino, che è quello in casa nostra. Per quel che possiamo, ci mettiamo a disposizione per favorire la formazione di un processo locale che vada in questa direzione.

2) Dopo l'attentato di Parigi CONTRO LA GUERRA E IL TERRORE. COMBATTIAMO CONTRO I NOSTRI VERI NEMICI Con l’attentato di Parigi la guerra che insanguina il Medio Oriente esce dagli schermi televisivi e arriva nel cuore dell’Occidente. Non è la prima volta negli ultimi anni e non sarà l’ultima. In Europa viene colpita la Francia e immediatamente si alza lo sdegno che non viene mai usato quando intere popolazioni vengono sterminate. Dopo il crollo del sistema sovietico, l’occidente ha messo tra i nemici l’Islam conducendo rovinose guerre in Afghanistan, Iraq, Siria. Spesso ha combattuto per procura creando e foraggiando organizzazioni (Al Qaeda, ISIS) che poi gli si sono rivoltate contro, creando altre guerre. In Medio Oriente si combatte una guerra diffusa fatta di stragi quotidiane. Ogni tentativo di argine politico alla barbarie viene distrutto scegliendo di volta in volta il nemico (Saddam Hussein, Gheddafi, Assad), con lo scopo di accrescere il proprio controllo sul territorio. Gli attori principali di questi massacri sono gli USA la NATO e la UE. Il loro scopo è di controllare le risorse e i traffici, vendere armi, creare stati fantoccio controllati dai governi


amici dell’area (Arabia Saudita e altri paesi del golfo). La retorica sui diritti e sullo scontro tra civiltà è una barzelletta che non regge a nessuno sguardo minimamente attento. L’occidente gioiva solo qualche giorno fa quando il sultano Erdogan, uno dei principali alleati di fatto dell’ISIS, raggiungeva la maggioranza assoluta in Turchia schiacciando nel sangue e nel terrore ogni resistenza. L’ISIS, passato da alleato contro Assad a nemico numero uno, non potrebbe esistere senza l’appoggio delle potenze che lo foraggiano vendendo armi e comprando il petrolio. Per la NATO e per l’UE è sempre stato necessario armare una guerra di religione tra il blocco sunnita e quello sciita. Ma la religione è solo il paravento dietro al quale agiscono fattori economici. La distruzione di ogni forma organizzata al saccheggio delle risorse in quell’area fornisce all’estremismo islamico le truppe di disperati che sostengono queste guerre. Le vittime innocenti di Parigi, così come le vittime di Beirut, così come i compagni turchi e curdi uccisi nelle strade di Ankara o nei villaggi del Kurdistan, i civili uccisi nel conflitto in Iraq e in Siria, le vittime dei bombardamenti sauditi appoggiati da USA, NATO e UE in Yemen: sono questi i frutti del saccheggio organizzato dagli imperialisti occidentali e dagli imperialisti del Golfo loro alleati. Dietro di loro stanno gli interessi economici dei padroni del petrolio, del gas, delle rotte di trasferimento energetico. Come al solito pagano gli innocenti e il loro sangue viene utilizzato per giustificare nuove aggressioni. Oggi non dobbiamo appoggiare nessuna unione contro un nemico che è innanzitutto in casa nostra. Non esiste nessuno scontro tra civiltà e le religioni servono solo a dividere chi è sfruttato dagli sfruttatori. Non ci sarà pace né giustizia se continua il dominio incontrastato dell’imperialismo e dei suoi strumenti. Lottare contro la barbarie e la guerra diffusa significa quindi capire che il nostro vero nemico non è l’Islam, ma chi affama e sfrutta i popoli. Per questo dobbiamo rifiutare di arruolarci nella loro guerra. Per questo occorre organizzarsi per sconfiggere il nemico che è in casa nostra, che ci sfrutta tutti i giorni, alimenta guerre e massacri, lascia che a morire per sé siano vittime innocenti. La guerra è contro tutti i lavoratori Fuori l’Italia da ogni guerra, dalla NATO e dalla UE


3) Le elezioni in Turchia La vittoria di sangue del sultano Erdogan

Qualche mese fa commentavamo, come Rete Nazionale NST, il risultato delle elezioni in Turchia con la speranza dell’avvio di un possibile cambiamento positivo. L’HDP, che rappresenta una parte della sinistra turca e curda, aveva strappato il 13% dei voti e, soprattutto,

aveva

contribuito

a

togliere

la

maggioranza al partito AKP del primo ministro. Dietro i risultati, si avvertiva l’influenza del processo di pace tra il PKK e il Governo Erdogan. La strategia dei compagni del PKK era quella di spostare la lotta su un piano politico strappando potere al partito AKP misurandosi su un terreno minato e difficilissimo. La situazione era fluida e potenzialmente in grado di aprire una contraddizione nell’apparato di potere in Turchia. La coabitazione trattativa tra AKP e HDP si è però rivelata , da subito, impossibile. Sullo sfondo la situazione ai confini con Iraq e Siria dove la resistenza di Kobane all’avanzata dell’ISIS apriva un fronte per la creazione di una entità statale kurda. Qualche mese dopo, al culmine di una campagna elettorale giocata con le armi e con l’esercito, la situazione appare ribaltata con il partito AKP che riconquista la maggioranza assoluta e con la sconfitta della sinistra e dei curdi che raggiungono per il rotto della cuffia la soglia del 10% necessaria per entrare in parlamento. La politica come continuazione della guerra Appare evidente a tutti, come la vittoria politica di Erdogan e dell’AKP sia soprattutto una vittoria militare. Durante la campagna elettorale la tregua tra PKK e governo è totalmente saltata. L’esercito turco ha ripreso a bombardare massicciamente le zone kurde controllate dal PKK (di cui l’HDP è sostanzialmente il braccio politico). Interi villaggi sono stati bruciati mentre la repressione si spingeva a livelli parossistici, non solo contro i kurdi ma anche contro la resistenza dei partiti della sinistra turca. All’interno della campagna di sangue si segnalano anche delle stragi, ufficialmente da addebitare all’esercito islamico: dalla strage di Suruc a quella di Ankara durante un comizio elettorale della sinistra. Si segnalano raid sanguinosi (di recente è stata uccisa davanti a casa la giovane militante comunista Dilek


Dogan) e incarcerazioni per migliaia di militanti comunisti e anticapitalisti. Il cappio di Erdogan non ha risparmiato la stampa e la televisione. Con questa campagna di terrore, Erdogan si è accreditato come unico baluardo contro il terrorismo addebitato al PKK, alla sinistra di classe (colpito pesantemente il fronte popolare DHKP-C) e all’ISIS di cui però il governo turco è il principale finanziatore con l’acquisto di petrolio. Le grida della sinistra, secondo cui dietro gli attentati e le stragi ci sarebbero i servizi e lo stato turco, non hanno ottenuto nessuna eco. Il governo di Erdogan ha messo in berlina qualsiasi forma di controllo democratico e ha ottenuto la vittoria militare e politica che cercava. Elezioni farsa Che il verdetto delle urne non abbia nulla a che fare con un concetto, se pur vago, di democrazia è evidente a tutti gli osservatori imparziali. Basta guardare i dati dell’affluenza che scendono moltissimo nelle zone kurde o i brogli certificati con schede gettate nel cestino o bruciate. Questo è il risultato di un processo che non ha nulla a che vedere con la battaglia delle idee ma che rispecchia un potere militare in cui le parti in causa si gestiscono fette di potere per arrivare a una trattativa in condizioni di forza. Dopo le elezioni scorse, la sconfitta di AKP e i successi curdi nella battaglia contro l’ISIS potevano aprire una valanga che avrebbe portato alla nascita di uno stato kurdo e alla fine del regime islamico. Conoscendo e temendo la posta in gioco, il governo Erdogan ha puntato tutto sulla repressione sanguinosa e sul terrorismo di stato vincendo la propria battaglia. Il fatto che l’HDP sia riuscita comunque a entrare in Parlamento, rappresenta un piccolo elemento di resistenza ma contemporaneamente appare una gentile concessione del satrapo; con questa manovra Erdogan può continuare a gestire in totale solitudine una trattativa in cui ora ogni spazio di mediazione sembra negato. In questo contesto per la sinistra turca si apre un periodo di riflessione e sicuramente una situazione difficile da gestire e interpretare. Il ruolo internazionale Nella repressione del movimento kurdo e della sinistra, Erdogan ha avuto alleati d’eccezione: l’Unione Europea e gli USA. In questi mesi, non si è levata una voce di condanna istituzionale contro l’acquiescenza nei confronti dell’ISIS o contro la sanguinosa repressione. Erdogan continua a essere il beniamino di chi usa i diritti democratici e civili come una clava per colpire soltanto chi non si allinea agli interessi economici delle proprie elite economiche e padronali. In questo senso, nulla di nuovo sotto il sole, ma la conferma di una situazione in cui le sinistre di classe non hanno nessuna voce in capitolo. Per questo, la sconfitta dei compagni in Turchia e il ritorno deciso verso un regime fascista ci


devono ulteriormente far riflettere. Ogni volta ci scontriamo con la dura realtà dei fatti: per questo, invece di disquisire sulla tattica o sulla strategia dei compagni turchi e curdi, occorrerebbe interrogarsi sulle nostre strategie. Sicuramente, visto che l’internazionalismo è un concetto che rifiuta ogni idealismo, ci sembrerebbe sensato ragionare su come favorire la pace, la democrazia e il progresso in Turchia cercando di rafforzare le forze anti imperialiste nei nostri territori. Magari cercando concretamente di mettere in difficoltà politica l’Unione Europea e la NATO. Cercando strade per unire politicamente quella parte di sinistra che fa propri questi concetti.

4) La strage di Suruc L’ombra di Erdogan dietro l’attentato di Suruc Di fronte ad un attacco vigliacco quanto spietato come quello che si è realizzato il 20 luglio a Pirsus (Suruç) all’indomani del terzo anniversario dell’istituzione dell’Autonomia Democratica in Siria non si pUò che condannare l’operato dell’Isis così come di quei paesi, Turchia in primis, che avallano in toto questa politica assassina e guerrafondaia al servizio dell’imperialismo. Una giovane militante dell’Isis si sarebbe fatta saltare in aria in occasione di una conferenza stampa dell’organizzazione socialista giovanile SGDF all’interno del giardino del centro culturale Amara, punto di ritrovo nevralgico per quanto riguarda l’organizzazione di solidarietà attiva alla Rojava e alla causa del popolo curdo e non solo dove in questi mesi avevano trovato casa le centinaia di solidali accorsi per portare il proprio sostegno. Ad ora l’esplosione ha provocato ufficialmente la morte di 37 persone (ma si mormora che ve ne siano di più) e vi sono più di cento feriti, molti dei quali in pericolo di vita. Tutto ciò in concomitanza con un altro attacco portato avanti da un autobomba dell’Isis a Kobanê che ha mietuto altre vittime tra le fila delle YPG. Lungi dal fare una mera cronistoria degli eventi, quello che ci preme è sottolineare alcuni dati politici. Per prima cosa l’Isis e il governo Turco, tra i quali ci sono stretti ed evidenti legami di collaborazione di cui esistono comprovate fonti documentate e testimonianze, fin’ora, con fasi più o meno alterne, hanno più o meno tollerato la presenza “straniera” al confine, dovendo comunque rendere di conto della loro attività di repressione di “internazionali” nei confronti di una “comunità internazionale”, repressione che invece non si fanno problemi ad attuare a livello interno verso i curdi e i dissidenti e i militanti politici di sinistra e/o


estrema sinistra, anarchici e comunisti. L’episodio più grave di nei confronti di “internazionali” è di poche settimane fa, quando alcuni compagni di Torino sono stati arrestati dall’esercito turco nei pressi del confine turco-siriano, di ritorno in Turchia da Kobanê e trattenuti sul posto. I militari turchi hanno sparato un colpo di pistola, fermato i due compagni torinesi e un compagno curdo che è stato brutalmente picchiato, privato delle scarpe e costretto rientrare in Rojava a furia di sassate. Chi si trova a dover passare illegalmente il confine turco-siriano deve fronteggiare una situazione pericolosa nonostante l’affievolirsi del conflitto in quelle zone anche a causa dell’atteggiamento dell’esercito turco che continua a presidiare la frontiera e ad ostacolare le attività di sostegno alla popolazione e di ricostruzione. Appare ora chiaro come invece stavolta, non solo di come l’Isis non si sia fatta problemi a colpire al centro del cuore delle attività di sostegno per la causa curda, ma di come abbia proprio voluto lanciare un preciso segnale politico: vi colpiamo quando vogliamo e vi colpiamo dove siete più forti. Il fatto che si sentano liberi di farlo in Turchia è un dato tutt’altro da trascurare ma che anzi va preso necessariamente in considerazione. Alcune fonti tra cui un comunicato ufficiale del KCK affermano che il MIT, i servizi segreti turchi, erano a conoscenza dell’attentato imminente. A niente valgono le ipocrite dichiarazioni del governo di Erdogan sui giornali quando afferma che il ministero degli interni farà di tutto per trovare i colpevoli. Sappiamo benissimo che le reclute dell’ISIS si aggirano indisturbate lungo il confine, si scambiano informazioni e sigarette con i soldati dell’esercito turco al confine, eseguono attacchi dal territorio sotto la sovranità turca verso la popolazione resistente in Siria, come è successo recentemente nell’ultimo di una serie di attacchi che ha coinvolto l’accesso alla frontiera di Mursit Pinar. C’è da dire che al confine la situazione reale oltre la volontà politica è più complessa di quello che potrebbe sembrare: la leva obbligatoria e la politica di gestione dell’esercito turco fa sì che i soldati semplici curdi o di origine curda vengano spesso usati come carne da macello e portati a sparare contro la loro gente. Abbiamo avuto modo di sapere da un compagno curdo che si è trovato costretto a prestare servizio militare e di cui non possiamo rivelare l’identità che se anche le postazioni di soldati semplici si trovano a dover fermare dei miliziani dell’Isis in corsa verso il reclutamento, nel momento in cui questi sono consegnati come da ordine ai superiori, questi vengono portati in caserma e poi fatti sparire, presumibilmente liberati. Non mancano casi di suicidio tra i soldati dell’esercito turco che si vedono spesso costretti a rimandare verso il califfato nero intere famiglie in fuga: questa è la politica di frontiera dell’esercito e del governo turco, tra minacce di confino e prepotenze. All’interno di questo scenario viene dunque operato un vero e proprio blocco che va contro la richiesta di corridoio umanitario richiesto dalle


YPG/YPJ e da larghe fette dell’opinione pubblica solidale. L’altro aspetto da considerare si può riassumere con la frase “un colpo al cerchio uno alla botte”. L’attentato esplosivo è stato realizzato durante una conferenza stampa della Federazione delle Associazioni di Giovani Socialisti (SGDF), un delle tante sigle della sinistra turca, la quale avrebbe dovuto partecipare a dei progetti di ricostruzione della citta di Kobanê. Per quanto non possiamo affermare l’entità di una partecipazione diretta all’attentato, lo stato turco è comunque da considerarsi vero e proprio complice politico attivo in quanto aveva impedito domenica 19 il passaggio al confine ai suddetti militanti e dunque ostacolato ancora una volta l’opera di sostegno alla popolazione e di ricostruzione di Kobanê. Il messaggio da entrambe le parti, Isis e governo turco (principalmente AKP e Erdogan, che per quanto con le ultime elezioni abbia perso la maggioranza assoluta conserva ancora la maggioranza relativa, nonostante il boom dell’HDP balzato al 12%) che altro non rappresentano che lo stesso peso sui piatti della bilancia dell’imperialismo, è di inficiare quanto si può dispiegare a livello internazionale ma anche e soprattutto a livello interno in termini di coalizioni, legami politici e sociali di solidarietà. Colpire non solo dunque il popolo curdo dentro lo stato turco, ma anche tutto ciò che si sta coagulando attorno a questo movimento: una serie di alleanze che Erdogan non vuole permettere a posteriori della rivolta di Piazza Taksim che, per quanto si trovi ormai in fase di reflusso, rappresenta l’esperimento di mobilitazione di massa più importante della storia della Turchia negli ultimi anni e il cui eco risuona ancora nelle coscienze. La situazione interna turca continua a essere potenzialmente esplosiva, seppur tutt’ora contenuta: nonostante tutte le divisioni e le differenze politiche, vi è un magma incandescente di organizzazioni militanti comuniste e anarchiche, molte delle quali presentano un fronte armato. E’ di pochi mesi fa l’operazione portata avanti dal DHKP-(C) di ispirazione marxista-leninista al Palazzo di Giustizia di Istanbul in nome di Berkin Elvan, ragazzo di undici anni ucciso da un lacrimogeno sparato ad altezza uomo durante le rivolte del 2011, e abbiamo tutti davanti agli occhi sul web le immagini delle manifestazioni esplose subito dopo in molte città della Turchia in cui si vedono militanti armati ai cortei perfettamente tollerati dal resto della folla, i quali vivono di una vita propria all’interno di determinati quartieri nelle grandi città. AKP, fascisti e Lupi Grigi cercano di sfruttare a breve-medio periodo l’Isis in termini di contraddizioni interne ed esterne, di unitarietà interna ed esterna, per quanto essi stessi vengano definiti “infedeli” dai membri del califfato nero: la Turchia non solo si prefigura l’entrata a pieno titolo nell’Unione Europea, oltre ad essere membro della Nato, ma sta cercando di guadagnarsi un ruolo tutt’altro che secondario nei giochi politici dell’area medio-orientale, in “competizione- cooperazione”


con paesi occidentali quali Usa ma anche con paesi quali Arabia Saudita, Qatar ed EAU, non ultima Israele: effettua accordi riguardanti le fonti energetiche con la Russia mentre compra il petrolio dell’Isis in una serie di balletti diplomatici. Si sovrappongono così vari piani, più livelli dialettici di contraddizioni per le quali non possiamo che affermare che però se l’Isis deve essere individuato come il fanalino di coda delle politiche imperialiste di paesi occidentali e “petro-monarchie”, come un servo che si ribella al padrone per diventare padrone a sua volta, come il caos necessario ad un nuovo ordine, lo stato turco è da individuare come nemico politico, come contraddizione regionale in quanto protagonista attivo all’interno della guerra di destabilizzazione portata avanti in Siria. Stanotte, 20 luglio, è stata una notte di fuoco e di scontri in molte parti del paese. Con le immagini del giardino del Centro Amara devastato dalla bomba davanti agli occhi, là come parte di una delle tante delegazioni che hanno portato il loro sostegno e la loro solidarietà abbiamo scritto i report, scelto le foto, discusso, parlato con gli altri solidali da tutte le parti d’Europa e non solo tra un çay e l’altro, fatto le dirette camminando nervosamente avanti e indietro con la sigaretta accesa in mano, i rumori della guerra di sottofondo. Il pensiero va a tutti coloro con cui abbiamo condiviso un pezzo di strada, a coloro che ci hanno portato nei campi profughi, che ci hanno raccontato con la voce e con gli occhi cosa avevano vissuto, cosa significa avere 17 anni e seppellire i propri compagni fatti a pezzi dai cani di Daesh, cosa significa convivere da sempre con la repressione dello Stato turco, a coloro che hanno condiviso con noi il loro cibo, le loro canzoni intorno al fuoco ma soprattutto la loro voglia di libertà, alcuni dei quali sono morti o sono stati feriti nell’attentato. Che hanno dato la vita per una rivoluzione tutta da costruire.

5) Reportage dal Kurdistan Pubblichiamo un reportage molto interessante sulla resistenza della Rojava, ricevuto da una compagna che si trova sul confine turco, di fronte a Kobane Heval. Amico. Così in curdo (Curmanji) ci si rivolge l’un l’altro. Così ti chiamano per strada se non sanno il tuo nome. E appena ti conoscono meglio, ti affidano un nome Curmanji che è sempre di buon auspicio, quasi fosse un augurio: che io possa portarti sulla testa, heval. Il vilaggio-comune di Maser (nome curdo), a sud di Suruç (provincia di Şanlurfa), è composto da poche case con i muri di terra. Solitario, 1200 mt di campi arati lo separano


dalla Siria. Davanti c’è una collinetta artificiale dell’esercito Turco (Askar), che segna l’inizio della striscia di militarizzazione. Da qui, Kobane, si vede benissimo. E’ una città distrutta, se si guarda dal cannocchiale. Sul tetto della moschea di Maser, che ora si usa per dormire e fare le assemblee, ci si sta ore. Da lassù, si vede anche meglio. Da lassù i genitori, i fratelli, guardano col cuore in mano l’avvicendarsi di scoppi, bombe e sparatorie. Di notte si vedono anche i traccianti: bussolotti luminosi rossi, sparati per identificare la posizione del nemico di notte. Da sinistra a destra sono loro. Da destra a sinistra siamo noi. La città è a ridosso del confine, con un promontorio al centro. Qui fa buio presto. A partire dalle 5 di pomeriggio, fino alla mattina seguente, non si vede nemmeno la collina. Kobane, di notte, è completamente al buio. Mi spiegano che se combatti, non vuoi fare sapere dove sei, ma gli spari e gli scoppi ti ricordano che qualcuno c’è ancora e resiste a fatica. Quando cade un ordigno americano, si vede un esplosione simile ad una grossa eruzione vulcanica. Poi si sente il boato della bomba e, a volte, anche l’aria si sposta. I media internazionali hanno lasciato la zona diverse settimane fà, non c’è più scoop da quando gli YPG e le YPJ hanno riconquistato gran parte della città, quasi la guerra fosse già vinta. Ma l’equivoco da sottolineare è grosso: anche quando le YPJ e gli YPG riconquisteranno l’intero perimetro cittadino, saranno comunque circondati a sud da Isis (in curdo Daș, in turco Ișid), e dagli Askar (esercito turco) a nord. Il ruolo della Turchia, in questa storia, è importante da definire per capire quanto la resistenza del Rojava sia eroica in questo momento. A resistere, a Kobane, ci sono gli YPG (Yekîneyên Parastina Gel – People’s Protection Units) del Kurdistan Siriano. Non chiamateli esercito, per loro è un offesa. Le YPJ sono la brigata femminile delle Unità di Protezione del Popolo, si sono formate nel 2012 ed hanno un ruolo centrale nello scontro militare con Isis a Kobane (ma non solo). A volte i media nazionali hanno erroneamente utilizzato il termine Peshmerga, l’errore è grossolano. Benchè in curdo voglia dire combattente, Peshmerga è il nome della forza armata del Kurdistan Iracheno e fà riferimento al leader storico Shaykh Mahmud Barzanji. Tra l’altro, tra Peshmerga e Unità di Protezione del Popolo (YPG dal lato siriano, HPG dal lato turco) i rapporti non sono sempre stati di collaborazione, e nemmeno non conflittuali, per via della complicità e della collaborazione, in più fasi storiche, dei seguaci di Barzanji con gli imperialismi occidentali. 150 Peshmerga si sono uniti agli YPG meno di un mese fa, attraversando il confine dalla dogana Turca, ma le contrattazioni tra i due gruppi sono state lunghe e faticose: anni di storia da riconciliare.


La posizione degli americani è la meno impegnata ed impegnativa in questo momento. Sorvolano. Sganciano qualche bomba. Fine. All’inizio hanno collaborato alla creazione dello spauracchio mediatico nero che adesso gli è forse un po’ sfuggito di mano, ma che ancora gli serve per motivare l’ingresso nel conflitto siriano all’opinione pubblica internazionale: l’eroe a stelle e strisce contro l’oscuro pericolo che farnetica di religione. Gli Isis non hanno niente di mussulmano, tutto il popolo islamico li considera blasfemi, solo i nostri media li considerano fondamentalisti religiosi. Isis, a livello mediatico, altro non è la proiezione stereotipata del fondamentalismo islamico da parte degli occidentali, un po’ come le proiezioni autorealizzanti nell’economia finanziaria. Gli aerei americani sorvolano il cielo di Kobane dall’alto, molto in alto, anche quando la bomba cade, ed il cielo è limpido, è difficile identificare il velivolo che ha sganciato l’ordigno.

Sicuramente

sono

in

possesso

di

metodi

tecnologici

superiori

per

l’identificazione dei target, ma l’impressione che aleggia è che spesso colpiscano palazzi vuoti. In concreto, non risulta un coordinamento tra la logistica aerea americana e la guerriglia sul campo dell’YPJ-YPG. E’ vero che gli sono state consegnate delle armi agli Ypg-Ypj, ma è vero anche che non sono stati dotati di apparati seriamente militari e, anche quando riconquisteranno la città per intero, si tratterà comunque di rapportarsi con il sultanato che assedia su tutti i lati Kobane, tranne il lato che dà sul confine Turco. Ed il confine Turco è tutt’altro che amico. Ci si chiede perchè l’offensiva USA non colpisca la via per Raqqa, il Quartier Generale del sultanato in Siria, da dove arrivano tutti gli approvvigionamenti per Kobane. Una delle tante domande che, dopo un po’, ci si smette di farsi. La Turchia sostiene una particolare facciata mediatica a livello internazionale. Pubblicamente sostiene lo sforzo della resistenza ai YPG-YPJ, esprimendo un rapporto di solidarietà con il popolo curdo. Supporta solo a livello logistico lo sforzo bellico della coalizione occidentale contro ISIS ma non si sbilancia con un’azione militare all’interno del confine siriano perchè, in fondo, cos’ ha da guadagnarci? Il supporto ai gruppi armati curdi è semplicemente una menzogna mediatica. Dalla dogana di Kobane non si fanno passare nemmeno le ambulanze per i feriti. Solo i cadaveri vengono fatti passare per essere seppelliti a Suruç. Inoltre, si calcolano diverse decine di militanti YPG-YPJ uccisi dall’esercito turco mentre cercavano di attraversare il confine per tornare a casa o rivedere i parenti. Anche le manifestazioni di chi vorrebbe passare il confine per unirsi alla resistenza vengono represse con violenza militare. La non-azione all’interno del confine siriano si spiega in relazione ai rapporti internazionali


Turco-Americani. La Turchia non ha nessuna intenzione di subordinare la propria egemonia regionale a quella americana e, qualora dovesse entrare in maniera attiva nel conflitto, lo farebbe nell’ottica di realizzare, con un occupazione militare, le proprie mire in terra siriana: abbattere il regime di Bashar Al-Assad. Negli anni di Al-Assad, l’industrializzata zona meridionale della Turchia ha subito una contrazione economica dovuta alla chiusura del confine siriano, il quale in precedenza aveva rappresentato un grande mercato per le produzioni di quell’area. Entrare in guerra in Siria significherebbe esercitare finalmente sia a livello economico-commerciale, che militare, quel ambìto controllo egemonico regionale che gli Stati Uniti temono. Non è da trascurare infatti, che l’unico paese che accetta i profughi siriani, senza condizioni, è la Turchia e che qui, attualmente, risiede gran parte del popolo siriano. Il confine Turco e la complicità degli Askar con l’Isis è un argomento difficile da affrontare e onestamente anche pericoloso per chi ne scrive. A quanto pare, due settimane fa è sparita una giornalista nel dintorni di Suruç che indagava su questo argomento. Succede che in Turchia, ci sono molti sostenitori di Isis, più di quanto ci si possa immaginare. Quando un mese fà le proteste dei curdi sono scoppiate nelle strade di tutte le città della Turchia, i giornali hanno riportato di molti curdi feriti ed uccisi. Gran parte di questi cortei non sono stati repressi dalla polizia o dai militari, ma da bande armate di nazionalisti e sostenitori dell’Isis i quali, in complicità con le forze dell’ordine, hanno attaccato i cortei con fucili e pistole ed ucciso diverse decine di manifestanti. Dal canto loro, i turchi che simpatizzano per Isis, creano sul territorio un intenso reticolo di sostegno logistico alla causa del sultanato. Dalla Turchia passano tutti i militanti che dall’Europa decidono di combattere in Siria con l’esercito nero. In Turchia trovano amici al controllo dei passaporti, amici che li tengono a casa e poi li portano in macchina fino al confine. Amici che preparano il canale di passaggio attraverso il confine, che avvertono gli Askar che è ora di farli passare. La triste realtà è che l’Isis, gli amici, ce li ha anche all’interno del popolo curdo. A quanto pare,infatti, c’erano anche curdi sostenitori di Isis tra coloro che hanno attaccato i cortei dell’ultimo mese. Non tutto il popolo curdo, è unito sotto i valori politici che contraddistinguono le realtà dei militanti che adesso sostengono il sogno del Rojava (anarchici, antinazionalisti, comunisti, pkk ecc). Questo, per chi milita, rappresenta una ferita sanguinante all’interno del sentire nei confronti del proprio popolo, un’identità alla quale sono molto attaccati. Ma la battaglia per il Rojava non è una battaglia per il popolo curdo. E’ una battaglia per tutto il mondo: la Resistenza del paese del sole (Berxwadane


Rojava) è di tutti ed è questo il messaggio che la Comune di Maser lancia al mondo: siamo tutti resistenti al capitalismo, all’imperialismo ed al sessismo. La battaglia di Kobane non è una rivendicazione etnica ma una resistenza politica che ci rappresenta tutti, militanti, anticapitalisti ed internazionalisti. La resistenza concreta del villaggio. Il villaggio è una comune molto aperta ed inclusiva, tutti mangiano insieme seduti per terra e di soldi non se ne parla. Tutti possono entrare e tutti vengono invitati a bere un tè ed a fumare mille sigarette. Ma si ha sempre l’impressione che loro abbiano i loro metodi per inquadrare chi hanno di fronte e che tutto sia sempre sotto controllo. C’è un sistema di ronde e di vaglio delle macchine che arrivano: il villaggio ha il suo sistema di vigilanza in cui tutti si alternano, anche le signore. Benchè intendersi non sia uno scherzo anche se si parla un po’ di turco, mi spiegano cosa si intende quando si dice che gli Askar fanno passare gli Isis attraverso il confine. Qualche volta, la sera, manca la luce al villaggio. Non è un problema tecnico di approvvigionamento. Viene sospesa l’illuminazione anche dalle strade limitrofe. Spesso, in corrispondenza, si sente l’esercito sparare in direzione siriana, per allontanare gli YPG e YPJ dal confine. A quel punto tutto è pronto per far passare i militanti Isis che vengono lasciati dalle macchine nei campi limitrofi, si cambiano ed attraversano a piedi i recinti. Il ruolo del villaggio-comune è anche questo: presidiare e fare ronde in queste “notti buie”, per intercettare gli aspiranti Isis. Quanti ne sono passati in questo modo da qui, dall’inizio del conflitto? Troppi. Ed è anche questo l’obbiettivo della conquista della città di Kobane da parte di ISIS, avere una frontiera amica aperta, un contatto diretto in grado di approvvigionare militanti e materiali. E la resistenza di Kobane, in questo momento si erge non solo contro il sultanato nero, ma contro l’esigenza di egemonia regionale del nazionalismo turco. Infinito è l’orgoglio che si può provare per la determinazione di questi 6000 (ca) combattenti, tra maschi e femmine, schiacciati tra questi due ingombranti oppressori. Nella comune, le idee di tutti sono accettate nelle assemblee. I giornalisti non sono ammessi. Si incontrano anarchici, libertari, antinazionalisti e anticapitalisti. Si incontrano anche i comunisti e i militanti delle nuove formazioni del PKK (ad esempio gli HPG in divisa). S’incontrano: giovani e vecchi. Colpisce il rapporto di genere quasi quanto il rapporto intergenerazionale. Il rapporto di genere sembra irreale, calato nel contesto nazionale turco. No, la donna non ha un ruolo ancillare. Ma non è solo questo, è la cooperazione nelle più piccole attività


quotidiane, legate ad esempio al cibo, che lega insieme tutti in un fare condiviso e propositivo. Non è “la donna” che si “prende cura”. E’ la comunità che si prende cura di sé stessa. Nessuno dà ordini. Tranne la signora che lancia i cori quando è ora di cantare. Si canta a Maser, la mattina. Si canta perchè dall’altra parte ci sentono e gli dobbiamo ricordare per cosa lottano. Si canta tutti, disposti in linea, il più forte possibile. Biji Berxwadane Kobane (Viva la resistenza di Kobane) Biji Berxwadane YPG – Biji Berxwadane YPJ. Il rapporto di genere è tutt’altro che scontato all’interno dell’area del Kurdistan geografico, ma è sicuramente fonte di orgoglio, per chi milita, il livello del rapporto uomo-donna che si è sviluppato all’interno di ambiti come questo. Non si sono concentrati, a differenza dei movimenti femministi dell’Europa alla fine degli anni ’60, sulla questione della libertà sessuale. E nemmeno bisogna pensare che una combattente è pari all’uomo solo làddove imbracci un arma e ricalchi lo stereotipo maschile. Anzitutto, mi spiegano, che la libertà sessuale non c’è in momenti di guerra, per nessuno: regole di disciplina. Ma cadono a Maser tutte quelle barriere relative al rapporto uomo-donna tipiche della Turchia, del non ci si tocca, del non ci si abbraccia ecc… Una cosa è importante sottolinearla: le “belle” (non che non lo siano, ma è il solito aggettivo femminilizzante e sessista che i media occidentali hanno affibbiato alle combattenti) del Rojava non combattono (solo) per il femminismo. Combattono per il Rojava. E nel Rojava, considerato come il mondo che verrà, questi argomenti saranno considerati come obsoleti làddove la realtà che si plasmerà sarà fatta da quei militanti, da quell’inclusività e da quei valori che questa resistenza sta portando avanti più coi fatti e con la quotidianità, che con le parole. Le parole, però, diventano una necessità per una piccola comunità schiacciata sotto il menefreghismo totale della nazione turca e la distorsione del messaggio a livello internazionale. Loro lo sanno e sono loro a chiederlo. Non lasciamoli soli. Viva la resistenza di Kobane.

Pubblichiamo queste riflessioni sul Kurdistan per introdurre una serie di approfondimenti e contributi di alcuni compagni in partenza per Kobane a cui daremo voce. In questi ultimi mesi, grazie anche all’improvvisa attenzione mediatica da parte dei media mainstream, si è parlato molto della resistenza curda, soprattutto di quella siriana che da due mesi resiste alla conquista della città di Kobânê da parte dell’IS. Su Repubblica e simili, in ogni angolo dei social network, hanno cominciato a campeggiare le foto delle


combattenti delle YPJ.1 Molto si è detto e fatto per supportare la giusta causa del popolo curdo, ma molto spesso non si è andati oltre la semplice narrazione di cronaca degli eventi, la constatazione che nel Rojava stia prendendo forma un’alternativa sociale e politica senza precedenti nella culla del Medio-Oriente, la mitizzazione appassionata di questa esperienza. Ma nel momento in cui si utilizzano termini quali “Confederalismo Democratico”, ci si appropria di concetti e linguaggi che sono dotati di una loro specificità geografica e politica. Quindi occorre forse fare alcuni passi indietro e ripercorrere alcune tappe storiche fondamentali della resistenza curda, specificatamente del Pkk, primo tra i promotori dell’esperienza dell’autonomia democratica. Un esperimento sociale che presuppone un’analisi politica, un dimensione teorica di fondo che non può essere ignorata: occorre riportare il punto politico della questione alla ribalta. Il che fa sorgere alcune tematiche interessanti, apre molti spunti di riflessione e di confronto su cui poter intavolare un dibattito politico. Nonostante le accuse di filo-imperialismo da parte di organizzazioni quali il Partito Comunista Turco e altre compagini, in questa fase appare piuttosto evidente come consistenti settori della resistenza curda stiano svolgendo un ruolo anti-imperialista in un calderone in cui si intrecciano gli interessi delle potenze occidentali (tra cui Usa e paesi dell’Ue in primis), quelli di Turchia, Iraq, e califfati arabi, quelli iraniani, ed ovviamente quelli sionisti. Per non cadere nel semplicismo è importante non liquidare “i curdi” come un soggetto politico e sociale monolitico. Le comunità curde presenti in Turchia, Iraq e Iran hanno avuto storicamente tra loro un rapporto tutt’altro che semplice ed armonico, i cui attriti sono addirittura culminati in episodi di aperto conflitto. Tutto ciò non ha avuto origine solo dal condizionamento causato da fattori esterni – regionali o non – ma anche da una diversa composizione politica delle principali organizzazioni curde e delle loro prospettive talvolta contrapposte. A partire da questo, per spiegare l’ascesa dell’IS è inutile quanto fuorviante adottare un approccio analitico che si focalizza sul suo portato culturale e le sue radici religiose: si tratta di un frutto diretto e indiretto degli interessi imperialistici nell’area, il figlio bastardo nato dallo stravolgimento degli assetti post-coloniali, non ultime le cosiddette e tanto declamate “primavere arabe”. Questo non implica certo il fatto che si tratti di un qualcosa di avulso dalla base sociale autoctona: tutt’altro. Lungi dal vedere le relazioni tra gli interessi imperialistici in campo come un qualcosa di univoco, unilaterale, conformante: più che di complotto dell’occidente ai danni del medio-oriente occorrerebbe adottare un 1


approccio dialettico, scevro da automatismi e semplificazioni concettuali, proprio per evitare logiche da “il nemico del mio nemico è mio amico” e di diventare i partigiani dell’ultimo secondo. L’IS è un’entità sociale, religiosa e politica spalleggiata da interessi economici locali dotata di una propria specificità, per quanto si sia prestata e si presti ancora ora ad altri interessi imperialistici. Le potenze occidentali hanno foraggiato questa costola di Al-Qaeda nata nel 2006 in concorrenza con altre fazioni come quella di Al-Nusra fino quando gli fosse stata utile per destabilizzare Assad: dopo il duro “niet” di Mosca verso l’ipotesi di intervento diretto in Siria che da tempo gli USA accarezzavano, con la nascita dello stato islamico di Iraq e Siria sotto il califfato di Al-Baghdadi si sono scompaginati gli equilibri di convergenza-divergenza delle volontà in gioco. L’ascesa dirompente, la proclamazione formale e sostanziale del nuovo stato che di fatto dettava della fuoriuscita dalla collocazione negli interessi esteri, la presa di importanti giacimenti di gas e petrolio hanno destato un riassestamento non indifferente all’interno dei giochi di potere tra i paesi in campo, ognuno con i suoi interessi specifici. La coalizione “democratica” della “guerra giusta” contro il “mostro” IS ha aggregato la Nato e diversi paesi arabi “amici”, compresi Turchia e Iran, anche qui con le opportune specificità del caso.2 Ed è in questo scenario difficile e complicato che torna alla ribalta la questione curda. Quando l’IS ha attaccato la città di Shengal ed i Peshmerga hanno abbandonato la loro postazione militare lasciando indifesi gli Êzidî di fronte ad un vero e proprio genocidio, le forze militari del PYD e del PKK sono si intervenute per difendere i cantoni della Rojava, la quale non comprende soltanto la parte siriana, ma anche alcuni territori del Nord Kurdistan in Turchia, nel Kurdistan regionale iracheno, nel campo di Maxmur dove da un paio di decenni i profughi costretti ad emigrare durante la distruzione dei villaggi da parte del governo turco si sono auto-organizzati. E’ per proteggere tutto ciò che hanno accettato recentemente i carichi di armi pesanti dei Peshmerga, mantenendo il controllo delle operazioni militari nonostante gli auspici di controllo del governo turco, il quale non solo ha preso a carico nei centri profughi di sua responsabilità soltanto circa 6000 profughi siriani sui quasi 200000 in difficoltà, ha osteggiato il passaggio degli aiuti umanitari e le aperture del fronte inficiando le operazioni militari curde, ma ha anche effettuato recenti operazioni repressive ai danni dell’intero movimento curdo con decine di arresti. Tutto questo mentre gli aerei statunitensi bombardano postazioni periferiche dell’IS in un’operazione pressoché di facciata. Accettare strumentalmente sostegno tecnico ed avvalersi dell’appoggio “di facciata” del governo turco e degli USA per combattere ad armi pari e fermare l’avanzata dell’IS significa svendersi all’imperialismo, oppure lo sarebbe rinunciare al cosiddetto 2


“diritto all’autodifesa” permettendo che l’esperienza della Rojava intesa come possibile ipotesi rivoluzionaria – o comunque caratterizzata da una non trascurabile valenza democratica e progressista – svanisca nel nulla mentre le altre potenze in gioco attendono che IS e curdi si annientino da soli? Collaborazionismo non è accettare aiuti militari sotto la minaccia di un massacro, ma entrare nelle relazioni di dipendenza imperialista. Non è la prima volta che i curdi si trovano stretti tra di fuochi nei giochi di potere medio-orientali: nel XIX secolo la Gran Bretagna ha cercato di servirsi delle aspirazioni indipendentiste curde contro le élites turche, persiane e arabe con la speranza di vedere tutte le parti in gioco sbranarsi a vicenda, fino all’esaurimento reciproco delle forze. 3 Quando gli inglesi tentò di assoggettare l’Iraq nel XIX secolo, lo fece provando a mettere curdi, arabi ed assiri uno contro l’altro nell’intento di aprirsi una via commerciale verso l’India ed accaparrarsi i giacimenti minerali e petroliferi dell’area. Idem per quanto riguarda la rivolta di Nahri nei confronti dell’Iran, anche se l’esempio più tragico può essere considerata la rivolta dello sceicco Sait del 1925, ma non ultima la guerra in Iraq contro Saddam Hussein: “l’imperialismo ed il colonialismo fanno sempre affidamento su due parti, per poter ottenere il maggior successo”. 4 Divide et impera, contrapponi e domina. Come afferma Celal Erkmen, presidente del BDP, Partito delle Regioni Democratiche, a Sanliurfa in un’intervista: “Gli Usa non vogliono distruggere l’IS, vogliono solamente indebolirlo. Il loro obiettivo è lasciare che i curdi e l’IS si annientino a vicenda”. Magari paventare un necessario intervento militare “umanitario” e sedersi al tavolo delle spartizioni da vincitori con l’interlocutore migliore? Tra questo scenario non troppo inverosimile e la realtà c’è la resistenza curda di Kobânê. L’esperienza della messa in atto dei principi di “autonomia democratica” nella parte siriana nasce proprio con la conquista di questa città il 19 luglio del 2012. Insieme a Cizre, Efrin, e la provincia di Aleppo controllata dai curdi costituisce la Rojava, che altro non vuole dire che “Ovest” in curdo. Qui curdi, arabi, cristiani e altre minoranze etnico-religiose collaborano fianco a fianco nella gestione dal basso delle comunità. A partire da “cellule” di 50 abitazioni, le quali corrispondono a piccolo porzioni di città e villaggi, i cittadini eleggono tra i 5 e i 7 rappresentanti. Questi delegati a loro volta si riuniscono nelle Assemblee rionali le quali si organizzano nelle Assemblee regionali. Il mandato varia da 1 a 2 anni con possibilità di revoca immediata da parte del popolo. La punta del vertice strutturato per per livelli orizzontali bottom-up è rappresentata dall’Assemblea del Kurdistan Occidentale (Mgrk), presieduta da due coordinatori e cogestita da un’amministrazione di 33 membri. 5 L’ Assemblea del Kurdistan orientale, 3 4 5


costituita dal Pyd quale principale motore insieme ad altri 16 partiti curdo-siriani, di raccordo con l’Enks, l’Assemblea Nazionale Curda della Siria con sede a Erbil nel Kurdistan iraqueno, forma l’Alto Consiglio Curdo di Unità Nazionale. Da esso dipendono il Comitato della Diplomazia, il Comitato dei servizi sociali e il Comitato della Difesa. Non necessariamente tutte le parti politiche in causa si rivendicano il socialismo: in questo sistema di rappresentanza dal basso i marxisti hanno un peso maggioritario ma non costituiscono la totalità dei delegati. Non tutti i distretti vengono amministrati dal Pyd, vige il pluralismo. Vi è un fervido sviluppo di associazioni, strutture espressione della “società civile” come case delle donne, centri culturali e artistici, associazioni di assistenza a famiglie e anziani ecc. Le attività economiche prendono forma attraverso un sistema di cooperative, hanno come parola d’ordine l’ecologismo e e la lotta contro lo sfruttamento: il fiume Eufrate e i giacimenti di petrolio costituiscono un importantissima risorsa per l’economia curda che fa gola anche alle potenze in ballo. Tutto questo non nasce dal niente ma è il frutto di un percorso di riflessione politica e di riassetto organizzativo sviluppati in seno al Pkk grazie al contributo teorico di Öcalan, in carcere dal 1999. Un’autocritica del passato dell’organizzazione ed un’analisi dei rapporti di forza: le riflessioni specifiche sull’ aspetto “militarista” e il fenomeno del “banditismo”, ovvero le lotte per il potere all’interno al partito, fino a contributi a carattere più generale su avanguardia e lotta di liberazione nazionale, hanno portato all’ideazione di un governo sociale come passo intermedio per un modello diverso di socialismo contro quello che lui definisce settarismo e dogmatismo.6 Tutto questo nasce dall’esigenza di creare un’alternativa, un sistema che lo superasse che non fosse fondato solo sulla sua critica ma che formulasse le sue finalità in una maniera tale che fossero chiaramente riconoscibili dei principi concreti, realizzabili, vicini alla realtà materiale. Öcalan nei suoi scritti divide la storia del Pkk in quattro fasi principali: la terza fase, immediatamente precedente a quella odierna, va dal 1993 al 2003 ed è stata caratterizzata dall’avvio della politica del dialogo a fronte di un duro attacco repressivo, durante il quale il dibattito politico e la riorganizzazione del Pkk hanno portato a maturare il cambio strategico. 7 Questa è definita la fase del “proteggere la (nostra) esistenza e sviluppare la (nostra) libertà”, una scelta di termini non casuale che lascia intravedere la transizione politica auspicata. Si tratta di una svolta atta a produrre un’alternativa ideologica e programmatica a partire da una critica del socialismo reale, del concetto di stato, del partito e dell’organizzazione intesa in senso leninista. Öcalan durante la sua permanenza in carcere approfondisce una critica ed un’autocritica a quelli che definisce paradigmi dogmatici inadatti alla realtà del popolo 6 7


curdo, alla fase odierna e alla situazione del medio-oriente. 8 Il Confederalismo Democratico descritto nella “Carta del Contratto Sociale” della Rojava del 2013 adotta i principi della condivisione di governo tra gli individui delle diverse comunità medio-orientali senza alcun discrimine di sesso, genere, lingua e religione, promuove un’autonomia che non mette in discussione i confini siriani e garantisce un accesso universale ai beni primari in nome di uno sviluppo all’insegna del rispetto, della parità di genere, del lavoro e dell’ecologia. Nel complesso non si tratta di un’esperienza subordinata all’emancipazione del popolo curdo in quanto tale, ma si propone quale espansione di democrazia reale, sostanziale, di tutti i popoli all’interno dei confini statali dei vari paesi ma oltre il concetto di stato-nazione. Riproducibile proprio in quanto tale, come alternativa concreta accessibile a tutti gli individui della società civile. 9 Prima di procedere occorre definire cosa si debba intendere per società civile nella teorizzazione di Öcalan ed il portato politico che ne consegue, unitariamente al concetto di democrazia. Per società civile egli intende un’evoluzione in senso democratico della società borghese sorta dalla vecchia società feudale in quanto pilastro democratico da sviluppare in alternativa al concetto leninista di dittatura del proletariato e conquista del potere. Si tratta di occupare tutte le aree della società senza toccare i confini, di sviluppare le strutture democratiche della società civile: invece che costruire il socialismo a partire da uno stato, realizzarlo dentro lo stato. Realizzare in ogni parte del Kurdistan un’unione democratica con i sistemi statali preesistenti, poiché secondo le teorizzazioni del Pkk, a causa della globalizzazione la comunità curda non può aspirare ad un mercato nazionale indipendente, tantomeno ad uno stato nazionale indipendente, anche in virtù della considerazione per cui lo statonazione si tratta di una struttura nata come espressione istituzionale del capitalismo e perciò strumento inadatto a superarlo 10 In quest’ottica va vista quella che può essere considerato una transizione che vedrebbe una graduale sotto-articolazione, se non smantellamento, del Pkk in una serie di partiti e associazioni: in virtù del fatto che ogni organizzazione deve rappresentare un’operazione sociale. Il Pkk si avvia a divenire un sistema sociale.11 Se da una parte non ci si può esimere dal riconoscere la legittimità della strategia intrapresa dal PKK, organizzazione i cui militanti hanno portato avanti decenni di guerriglia e subito una sanguinosa repressione, non si può certo perdere di vista il fatto che il contesto a cui ci si riferisce è perlopiù quello di un ambiente rurale che determina un assetto politico-sociale completamente diverso da quello di società a sviluppo capitalistico 8 9 10 11


più avanzato come l’Italia. Dunque, per quanto la scelta del PKK rappresenta una reale possibilità di emancipazione per il popolo curdo, rischia di essere alquanto limitato e fuorviante fare del Kurdistan “un nuovo Chiapas” e di Öcalan “un nuovo sub-comandante Marcos” di cui innamorarsi perdendo completamente di vista le specificità locali di certe aree geografiche e quelle politiche di certe esperienze. L’esempio del Chiapas è piuttosto calzante per spiegare come nella passata stagione politica si sia negata tout-court la necessità dell’organizzazione politica e scansato solo apparentemente la questione del potere decontestualizzando di fatto i principi di fondo a cui si ispiravano legittimi esperimenti comunitari. Questo breve e sicuramente limitato contributo per quanto riguarda la totalità di un’esperienza ricca e complessa come quella della lotta del Pkk e del movimento di liberazione curdo, si propone di ricontestualizzare un minimo la valenza politica dell’esperienza specifica della Rojava. Per dare un significato, un passato, una storia alle parole che ci vengono tramandate; innescare un dibattito politico attorno ai recenti avvenimenti che vedono le forze HPG e YPG e la popolazione civile protagoniste nella lotta contro l’IS e gli interessi imperialistici dell’area: al di là di ogni retorica, affinché Kobânê non resti soltanto un nome e la resistenza curda, non diventi un mito evanescente buono per la copertina di qualche giornale. Aprire un dibattito che possa costituire un confronto ed offrire spunti di riflessione. E’ questo lo spirito che abbraccia la necessità di supportare concretamente la giusta lotta a difesa del Rojava, di continuare a tenere viva l’attenzione su quello che sta succedendo attraverso testimonianze e contro-informazione: di andare a vedere con i propri occhi e portare solidarietà tra i campi profughi e le macerie della guerra. Le YPJ sono l’unità femminile delle YPG (Yekîneyên Parastina Gel –Unità di Protezione del Popolo-), l’ala militare del PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat, -il Partito di Unione Democratica-), che può essere considerato il corrispettivo siriano del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan –Partito dei Lavoratori del Kurdistan-), il cui braccio militare è l’ HPG (Hêzên Parastina Gel –Unità di difesa del Popolo-), che prevede anch’esso brigate di sole donne chiamate YJA-Star. http://nena-news.it/guerra-allisis-cosi-bella-e-cosi-oscura/; http://nena-news.it/siria-coselisis-per-la-gente-comune/ A. Öcalan, Scritti dal Carcere II, Il Pkk e la questione Kurda nel XXI Secolo, Ed. Punto Rosso, Milano, 2013, pp. 79-81. Ib., p. 82. http://www.uikionlus.com/rojava-come-funzionano-le-comuni-curde/


A. Öcalan, Scritti dal Carcere II, Il Pkk e la questione Kurda nel XXI Secolo, Ed. Punto Rosso, Milano, 2013, pp. 106-107. http://www.pkkonline.com/en/index.php?sys=article&artID=34 http://new-compass.net/articles/bookchin-öcalan-and-dialectics-democracy http://www.pkkonline.com/en/index.php?sys=article&artID=66 A. Öcalan, Scritti dal Carcere II, Il Pkk e la questione Kurda nel XXI Secolo, Ed. Punto Rosso, Milano, 2013, pp. 103-104. A. Öcalan, Scritti dal Carcere II, Il Pkk e la questione Kurda nel XXI Secolo, Ed. Punto Rosso, Milano, 2013, pp. 213-220.

Il giornalista Di Gianni Rodari O giornalista inviato speciale quali notizie porti al giornale? Sono stato in America, in Cina, in Scozia, Svezia ed Argentina, tra i Sovieti e tra i polacchi, Francesi, Tedeschi, Sloveni e Slovacchi, ho parlato con gli Eschimesi, con gli Ottentotti, coi Siamesi, vengo dal Cile, dall’India e dal Congo, dalla tribù dei Bongo-Bongo e sai che porto? Una sola notizia! Sarò licenziato per pigrizia. Però il fatto è sensazionale, merita un titolo cubitale: tutti i popoli della terra han dichiarato guerra alla guerra.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.