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gli agrumi Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Storia Salvador Zaragoza
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storia e arte Storia Foto E. Alonso IVIA
Introduzione Gli agrumi comprendono un importante gruppo di piante che appartengono alla famiglia delle Rutacee, sottofamiglia Auranzioidee. La loro importanza commerciale è enorme e i loro frutti, molto ricchi di vitamina C, si consumano non solo freschi ma anche trasformati in succhi, spicchi, conserve, gelatine e marmellate; si ottengono anche sottoprodotti per usi cosmetici e medicinali. Origine e diffusione Facendo uso di tecniche differenti, vari ricercatori giunsero alla conclusione che i diversi tipi di agrumi che oggi conosciamo derivano, almeno, da tre taxa principali: i cedri (C. medica L.), i pummeli [C. grandis (L.) Osb.] e i mandarini (C. reticulata Blanco), i quali a loro volta deriverebbero da un antenato comune che si sarebbe originato circa 20-30 milioni di anni fa, alla metà dell’Era Terziaria, in qualche regione del Sud-Est asiatico. Con il trascorrere del tempo queste specie basilari si diversificarono favorite da diverse circostanze, come la selezione naturale, le ibridazioni occasionali, le mutazioni spontanee, l’apomissia ecc.,
Attualmente esistono nel mondo numerose varietà commerciali di agrumi adattate alle condizioni ambientali di ciascuna area
Aree di origine delle principali specie di agrumi e loro percorso di diffusione fino al Mediterraneo
M
C C
AD AA-L
L
AA-L
AD M C
AA
M AD AD
C: cedro AA: arancio amaro; L: limone AD: arancio dolce M: mandarino
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storia e a poco a poco si andarono acclimatando e disperdendo in aree prossime a quelle della loro origine. Molto più tardi, con l’ausilio dell’uomo, questi processi si accelerarono: le piante furono trasportate in luoghi molto distanti e utilizzate commercialmente, dando luogo alle differenti specie e varietà che attualmente conosciamo. Alla luce delle ultime scoperte, l’origine delle specie principali del sottogenere Eucitrus sarebbe questa: il cedro proverrebbe dal nord-est dell’India e della Birmania (Myanmar), il pummelo dal sud-est della Cina, dall’Indocina (Laos, Cambogia e Vietnam) e dalla Malesia e il mandarino dal sud-est della Cina. Da queste tre specie deriverebbero tutte le altre. L’arancio amaro (C. aurantium L.) proverrebbe dal sud dell’Himalaya, dal nord-est dell’India e dal Nepal, il limone [C. limon (L.) Burm. f.] dal nord dell’India e probabilmente dal sud-est della Cina e dal nord della Birmania, la lima (C. limettioides Tan.) dall’arcipelogo del Sud-Est asiatico e l’arancio dolce [C. sinensis (L.) Osb.] dal nord-est dell’India, dal sud-est della Cina e dall’Indocina. Il pompelmo (C. paradisi Macf.) è una specie moderna, che si originò nel XVIII secolo nel Mar dei Caraibi, probabilmente nelle isole Barbados. Le conquiste di Alessandro Magno, i Monsoni, la Diaspora, l’espansione dell’Islam, le Crociate, la scoperta dell’America e altri numerosi avvenimenti contribuirono a propagare gli agrumi dalle loro aree di origine ad altre dove le condizioni erano favorevoli per il loro sviluppo. Così, lentamente e senza sospendere il loro processo evolutivo, arrivarono nel bacino del Mediterraneo e poi nel Nuovo Mondo diverse specie e varietà, alcune in epoca relativamente recente. L’uomo ha sempre provato una forte predilezione per gli agrumi, le cui virtù sono state esaltate fin dai tempi antichi da poeti, viaggiatori, narratori e scrittori dell’ambito agrario. In passato erano utilizzati unicamente a scopo ornamentale e medico, dato che i vantaggi economici che si potevano ricavare dalla coltivazione e dalla commercializzazione furono scoperti solo molto più tardi.
Foto J. Juarez IVIA
I mandarini e i pummeli continuano a essere ancora i frutti più apprezzati in Cina. La foto mostra un mercato di Pechino Foto A. Medina. Bco. Germ. IVIA
Gli agrumi in Oriente, loro luogo di origine È cinese la più antica citazione sugli agrumi che conosciamo. È riportata nel libro Yu Gong che si diffuse 4000 anni fa e richiama documenti precedenti. In uno di essi si riferisce che durante il regno dell’imperatore Da-Yu (XXI secolo a.C.) fu stabilito un tributo consistente nell’offerta di alcune ceste con due tipi di agrumi: alcuni piccoli e altri più grandi, probabilmente mandarini e pummeli. Il fatto che gli agrumi fossero oggetto di offerta induce a pensare che venissero considerati frutti di alto valore. L’abitudine di consumare mandarini e pummeli è confermata da diversi autori come Zuhang Zhou (III secolo a.C.) e Han Fei (II secolo a.C.), il quale riferisce del Poncirus trifoliata sottolineando le sue pericolose spine. Molto più tardi, nell’anno 304, nel libro
Il Poncirus trifoliata era conosciuto in Cina fin dall’antichità per le sue spine e le foglie caduche. Si osservano pure i germogli, i fiori grandi e i frutticini appena allegati
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storia e arte intitolato Piante della regione del sud-est di Chi-Han vengono descritti il cedro, che si può consumare cotto con il miele, l’arancio dolce e diversi tipi di mandarini. Sono molti gli autori che riferiscono degli agrumi in Cina. Alcuni sono botanici, come Shen Nung (III secolo) e T’ao Hung-Ching (V secolo), altri sono poeti come Ssu Hsiang-yu (II secolo) e Sung Yu (III secolo), nelle cui opere vengono citati aranci amari e dolci, mandarini, poncirus, cedri, cedro digitato e altri ancora. Senza dubbio la pubblicazione più interessante è il Trattato degli aranci scritto nel 1178 da Han Yanzhi. Si tratta di una monografia agrumicola molto completa su varietà, portinnesti, tecniche colturali, malattie e impiego officinale. Va sottolineato che, almeno fino a quella data, in nessuna opera cinese vengono citati il limone e le lime, poiché certamente non erano ancora stati scoperti. Il limone viene citato per la prima volta da Fan Cheng nel 1175 nella regione di Canton con il nome di li-mung, denominazione cinese di probabile origine indiana che fa supporre la sua origine estera. Non si conosce l’epoca in cui gli agrumi arrivarono in Giappone dalla Cina, anche se non si può scartare l’ipotesi che esistessero già specie autoctone. La prima specie a essere citata fu il mandarino Tachibana [C. tachibana (Mak.) Tan.], sebbene potesse già essere presente il Shiikuwasha (C. depressa Hay.), che cresce in forma selvatica nelle isole Ryukyu, nel sud del Giappone. In un antico libro risalente all’anno 712 intitolato Cronaca di avvenimenti antichi, così come in altri testi successivi, si intuisce che la presenza di aranci dolci e amari era nota da tempo immemorabile. Viene citata la leggenda della principessa Otetachibana, nota come la “figlia del mandarino”, che si sacrificò lanciandosi nel mare per calmare le tormente. Anche in India si incontrano numerosi riferimenti agli agrumi, specialmente al cedro e al limone. Nella raccolta di scritti sacri redatta in sanscrito intorno all’anno 800 a.C. se ne parla utilizzando il termine jambila. In questa lingua si incontra il prefisso nar-, sinonimo di fragranza o profumo, che successivamente ha dato origine alla parola araba narany.
Primo riferimento di lotta biologica degli agrumi
• Riferisce Chi-Han che ai tempi suoi
(IV secolo) la gente del sud-est della Cina vendeva in borse di giunco intrecciato delle formiche giallo-rosse (Oecophylla smaragolina Fab.). Le borse venivano collocate sui rami dei mandarini e le formiche uscendo controllavano molti insetti dannosi
Foto A. Medina. Bco. Germ. IVIA
Il passaggio del cedro in Occidente Sebbene vi fossero relazioni tra Oriente e Occidente da tempo immemorabile, i primi rapporti commerciali permanenti si stabilirono grazie alle conquiste di Alessandro Magno (356-323 a.C.), quando invase l’Asia Minore, l’Egitto, la Media e la Persia e arrivò fino al fiume Indo, al confine con l’India. Queste campagne militari permisero ai botanici al seguito dell’esercito di conoscere il cedro nella Media e nella Persia (Iran e Irak), regioni in cui la sua coltivazione era abbastanza diffusa, a cui diedero il nome di “mela della Media” (malus medica) o “mela della Persia” (malus persicae). È possibile che il cedro e altri agrumi fossero presenti in altre regioni comprese nei suoi domini, ma non furono considerati interessanti
Il cedro o mela della Media fu il primo agrume che si conobbe in Occidente. Fiorisce diverse volte l’anno; la buccia è spessa, molto aromatica e si impiega candita; la polpa è di scarso valore
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storia e non furono citati. Rimane il fatto che solo il cedro fu introdotto in Grecia e si può supporre che a poco a poco fosse conosciuto in Siria, Palestina ed Egitto.
La leggenda delle mele d’oro
Il cedro e i giudei: Hadar La presenza del cedro in Palestina ai tempi della Bibbia non è confermata dal libro del Levitico (23,40), in cui il Signore dice a Mosè in occasione della festa dei Tabernacoli: “Il primo giorno offrirai frutti degli alberi più belli, foglie di palma e di alberi frondosi”. In questa espressione si fa riferimento a “frutti degli alberi più belli” che è la traduzione dell’ebraico peri etz hadar. Però la Bibbia non specifica a quale frutto si riferisca, anche se i giudei interpretarono hadar come il frutto del cedro, sicuramente perché consideravano che l’albero più bello era indubbiamente quello che li produceva. Nella Bibbia, in cui vengono identificate più di 200 piante, non si menzionano mai gli agrumi. A quanto pare fu nel II secolo a.C., ai tempi di Simone Maccabeo (143-134 a.C.), sommo sacerdote e capo dell’esercito e dei giudei, che si iniziò a utilizzare il cedro nella festa dei Tabernacoli (Sukkot). Lo storico Flavio Giuseppe (30-100) conferma la presenza del cedro in Palestina nella sua opera Antichità giudaiche; riferendosi al Levitico dice che per acquisire la grazia si deve “sollevare tra le mani rami di mirto, di salici e palme, da cui penderanno mele della Persia”, cioè cedri.
• Esperus ebbe una figlia, Esperis,
che sposò suo zio Atlas e dal loro matrimonio nacquero tre ninfe, le Esperidi, chiamate Egle, Aretusa ed Espertusa. Le tre sorelle avevano il bel Giardino delle Esperidi dove crescevano gli alberi delle mele d’oro. Il guardiano del giardino era il drago Ladon contro cui lottò Ercole, per ordine di Euristeo, allo scopo di impadronirsi di quei preziosi frutti e compiere così una delle dodici imprese per ottenere l’immortalità. Con il tempo le mele d’oro furono associate alle arance
Il cedro nel mondo ellenico Teofrasto di Ereso (327-288 a.C.), contemporaneo di Alessandro Magno, nella sua opera Historia plantarum cita il cedro dicendo che i suoi frutti, pur non essendo commestibili, servono per preservare i vestiti dalle tarme, sono un antidoto per il veleno e conferiscono un buon profumo all’alito. Dal punto di vista botanico, scoprì nel pistillo l’organo riproduttore e sottolineò che potevano trovarsi frutti maturi in tutte le stagioni dell’anno. Anche Dioscoride di Anazarba (I secolo) nella sua opera De materia medica identifica il cedro che denomina medica mela, medica persica o cedro mela, e dice che i Latini lo chiamano citria. Lo raccomanda come lassativo, mescolando i semi triturati con il vino, e alle donne incinte, che mangiando i suoi frutti eviterebbero le voglie. Le prime notizie sul consumo del cedro come alimento e non come medicinale provengono dallo scrittore Plutarco (ca. 50-120), in particolare dalle sue Quaestiones convivales. Nel suo libro De alimentorum facultatibus, Claudio Galeno (129199) identifica e descrive minuziosamente il frutto del cedro (citrus) dicendo che è composto da tre parti: quella interna, acida e non commestibile, contiene semi e polpa; quella intermedia, che è come la carne del frutto (albedo) e quella esterna, rugosa e gialla (flavedo). Dice pure che la buccia è odorosa e aromatica e consumata in piccole quantità facilita la digestione e fortifica lo stoma-
Ercole riceve in premio le “mele d’oro” avendo sconfitto il drago del Giardino delle Esperidi in un’incisione di G.B. Ferrari, 1646
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storia e arte co. La polpa è nutriente, sebbene di difficile digestione; se però la si mescola con aceto e con una salsa di pesce chiamata “garo” (garum) il suo sapore viene esaltato e la si può consumare. Secondo Ateneo di Naucrati (II-III secolo), nell’opera Banchetto degli eruditi, il cedro è un frutto commestibile specialmente se cucinato con il miele dell’Attica.
Il garo
• Come riferisce Apicio (I secolo)
il garo era l’ingrediente principale della cucina romana. Era una salsa molto apprezzata, usata come condimento, che si preparava con pesci piccoli (alici, sardine, aringhe) che si lasciavano fermentare con le viscere aggiungendo aceto, peperoncino, sale ed erbe aromatiche
Il cedro nell’impero romano Dalla Grecia il cedro giunse a Roma e fu Virgilio (70-19 a.C.) il primo a menzionarlo nelle Georgiche elogiando il frutto della Media, basandosi senza dubbio sugli scritti di Teofrasto. Tra gli autori di testi dedicati all’agricoltura Plinio il Vecchio (23-79) nella sua Naturalis historia illustra diversi aspetti interessanti del cedro. All’inizio lo chiama malus assyria o medica, così come i Greci, e successivamente citrus, citrum o citrea. Scrive che il suo frutto è molto odoroso e si può propagare per seme e per talea. Afferma pure che, nonostante non sia edule, il frutto è molto apprezzato e impiegato per le sue virtù medicinali, specialmente contro i veleni, l’alito cattivo, il mal di stomaco e le voglie delle donne incinte. Il gastronomo Marco Gavio Apicio (I secolo) ci ha lasciato uno splendido libro di cucina, il De re coquinaria. Sebbene citi per due volte il cedro, non lo fa sotto il profilo alimentare: da ciò si desume che a Roma, all’epoca, non venisse utilizzato a tale scopo. Senza dubbio, come riferisce Macrobio (Saturnaliorum libri VII), il filosofo Cloazio Vero considera il cedro un frutto che si consuma come dolce. Più tardi Palladio (IV secolo), autore di opere dedicate all’agricoltura, nel suo Agriculturae opus parla delle diverse tecniche di coltivazione del cedro con riferimento a propagazione, concimazione, irrigazione e potatura. Cita inoltre alcune pratiche fantasiose, per esempio la macerazione dei semi in acqua e miele, o nel latte di pecora, che avrebbero fatto sì che le piante originatesi da questi semi producessero frutti dalla polpa dolce. La coltura del cedro era abbastanza estesa all’epoca e proprio Palladio scrive di essere proprietario di aziende agricole in Sardegna e a Napoli dove coltivava cedri. Negli ultimi anni si è indagato sulla possibile presenza nell’impero romano, oltre al cedro, del limone e di altri agrumi. Questa ipotesi è sorta dagli studi degli scavi di Pompei, precisamente della Casa del frutteto (I secolo), dove sono state trovate pitture che mostrano rami di limoni carichi di frutti. La somiglianza tra le piante e i frutti del cedro e del limone non consente di differenziarli con certezza. Il cedro nel Mediterraneo occidentale Non è possibile determinare l’epoca in cui il cedro è giunto in Spagna provenendo dall’Italia. La prima menzione nota si trova nelle Etimologie del vescovo Isidoro di Siviglia (560-636) che, citando Virgilio, nomina il cedro e dice che i Greci lo chiamano medica arbor e cedromelon e i Latini citria.
Notizie sugli agrumi si incontrano in molti libri che, con la denominazione di Libri de re rustica, furono pubblicati tra i secoli XV e XVI riportando scritti di Columella, Varrone e Palladio (Edizione di Parigi, 1533)
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storia Gli agrumi nel Medio Oriente Trascorsi diversi secoli durante i quali non si hanno notizie, gli agrumi tornano a essere trattati negli scritti di numerosi autori arabi del Medio Oriente. Un’importante fonte letteraria è il Trattato di agricoltura nabatea scritto in siriaco antico, lingua dei Nabatei di Babilonia, e tradotto in arabo nel X secolo da Ibn Wahsiyya. È un’opera apprezzabile per la sua impostazione agronomica; cita molte qualità del cedro (utruyy) dicendo, per esempio, che è purgativo ed evita le carie, dell’arancio amaro (narany) sostenendo che è febbrifugo e antireumatico e del limone (hasbana, al-limua o limun), che protegge dal raffreddore sebbene il succo possa creare problemi allo stomaco. Sono numerosi gli autori arabi che hanno scritto di agrumi. Ibn Sulayman, di origine egiziana (880932), nel suo Trattato dei medicinali e degli alimenti riporta nuovi impieghi del cedro: per esempio, il suo succo toglie le macchie di colore dai vestiti e può essere impiegato come dentifricio. Sono citati due tipi di cedri: quelli acidi e quelli insipidi. Lo storico e geografo Ali al-Masudi (900-956) nacque a Baghdad e viaggiò per gran parte del mondo islamico. Nella sua opera Prati dorati menziona l’arancia amara e un cedro rotondeggiante, di incerta identificazione. Ibn Sina o Avicenna secondo i Latini (9801037), persiano di origine, nel suo Canone della medicina riporta una funzione del cedro contro le flatulenze e la produzione di uno sciroppo a base di succo di cedro e di arancia amara. Riguardo al limone, Ibn Jamiya (1171-1193), originario del Cairo e medico personale del Saladino (Salah al-Din, 1138-1193), nel suo Trattato sul limone descrive molte delle sue virtù e un modo per preparare le limonate. Il medico e botanico di Malaga Ibn alBaytar (1197-1248) nel suo Trattato sui medicinali semplici descrive le proprietà del limone precisando che non vi è un alimento che non abbia un effetto terapeutico. Abd Al-Latif (1162-1231) riferisce della presenza in Egitto di limoni “composti”, espressione con cui probabilmente indicò i limoni innestati sul cedro.
Il prezzo della frutta al tempo di Diocleziano
• Nell’anno 301 l’imperatore Diocleziano
(243-313) stabilì con un editto il prezzo massimo di tutti i prodotti agricoli. Quello del cedro era di 24 denari, quello del melone di 2, del melograno 0,8, della ciliegia 0,5 e della pesca, della cotogna e della mela 0,4. Il cedro era dunque un frutto carissimo
L’arancio amaro, il limone e il pummelo giungono in Occidente La diffusione degli agrumi in Occidente procede parallelamente al consolidamento dell’Islamismo, fino ad acquisire una notevole importanza in Andalusia, la zona più lontana dalla loro area di origine. Lungo vie commerciali tracciate da tempo immemorabile, l’arancio amaro (narany) sarebbe arrivato dall’Oriente, attraverso l’Egitto e il Nord Africa, nella Penisola Iberica. Si hanno notizie della sua presenza in Medio Oriente nel IX secolo e in Andalusia nel X secolo, quando fu citato per la prima volta in un trattato anonimo di agricoltura andalusa. La più antica menzione del limone (lamun) in Andalusia si deve a Ibn Bassal (XI secolo) di Toledo nel suo Libro di agricoltura. Sicuramente seguì la stessa rotta dell’arancio amaro per arrivare in Spagna.
Pianta centenaria di arancio amaro alta circa 7 m in un agrumeto vicino a Siviglia. I suoi frutti si utilizzano per le marmellate
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storia e arte Le notizie sulla lima (lim) sono poco attendibili ed è possibile che fosse confusa con il limone. Ibn Luyun la cita varie volte nel suo Trattato di agricoltura (XIV secolo), ma non descrive nessuna caratteristica che induca a supporre che fosse una specie differente da quelle note. Il pummelo (zambua, istunbuti) fu importato dagli Arabi nell’XI secolo ma non ebbe successo, visto che in seguito la sua coltivazione scomparve.
Foto A.J. Risso e P-A. Poiteau, 1818, Connaissance et Mémoires, Paris, 2002
I trattati di agricoltura andalusi Nel corso del Medioevo i più importanti riferimenti agli agrumi si incontrano negli scrittori dell’Occidente musulmano, soprattutto in quelli andalusi. Sebbene frammentato, tra i secoli XI e XIII ci
I frutti di limone sono un eccellente condimento e materia prima per confezionare rinfreschi e prodotti medicinali Foto A.J. Risso e P-A. Poiteau, 1818, Connaissance et Mémoires, Paris, 2002
I frutti di pummelo hanno un grande calibro e i loro spicchi si consumano nelle insalate, avendo eliminato le membrana
In questa pagina del Trattato di agricultura di Ibn Luyun (1348), l’autore spiega come si livellano i terreni con un sistema allora noto come muryiqal (Escuela de Estudios Árabes, CSIC, Granada)
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storia è pervenuto un trattato completo di agrumicoltura: alcune delle tecniche descritte sono ancora attuali e le specie sono state raggruppate in base al loro adattamento al clima e anche secondo la natura della linfa. Sono state classificate almeno quattro specie di agrumi: cedri, aranci amari, limoni e pummeli, poiché le lime, sebbene citate con questo nome, risultano di dubbia identificazione. Sono state descritte le varietà note, le norme del vivaismo e le tecniche di propagazione vegetativa. Si sapeva, inoltre, che le piante propagate per innesto e per talea fruttificavano prima di quelle ottenute da seme. Il trattato mette in luce le conoscenze delle diverse tecniche colturali, come impianto, irrigazione, concimazione e conservazione della frutta e riporta anche le utilizzazioni medicinali (alcune fantasiose) e il modo di consumare i frutti. Merita di essere ricordato il Calendario di Cordova, opera di vari autori, ma soprattutto di Ibn al-Awwam, lo studioso andaluso che ha descritto con maggior dettaglio gli aspetti agronomici.
Il nome della specie
• La parola araba naranŷ proviene dal
sanscrito attraverso il persiano e da essa derivano arancio e arancia in italiano. In francese orange e oranger, in inglese orange e orange tree e in spagnolo naranja e naranjo. Le parole laymun, lamun o limun adottate dagli Arabi provengono pure dal sanscrito, passando dal persiano, e diedero origine al termine italiano limone. In Francia persistono i nomi citron e citronnier insieme al termine limonade riferito alla bevanda. In inglese si impiegano le parole lemon e lemon tree e in spagnolo limón e limonero
Gli agrumi in Europa nel Medioevo Non si conoscono altri specifici trattati di agricoltura simili a quelli scritti dagli autori arabi. Riferimenti agli agrumi si trovano soprattutto nelle opere di medicina e in quelle di viaggiatori e di storici e, in ogni caso, la frutta era considerata in generale principalmente una medicina e non un alimento. Le citazioni più antiche di agrumi, risalenti al XII secolo, si trovano nell’opera di Hugo Falcandus Historia Hugonis Falcandi Siculi de rebus gestis in Siciliae regno, che descrive le bellezze della Sicilia e cita la presenza di fruttiferi tra cui gli agrumi, di cui si dice che hanno all’esterno una buccia colorata e odorosa e all’interno sono acidi. Cita pure i limoni (lumias), il cui sapore acido è idoneo per condire gli alimenti, e gli aranci amari (arangias), di sapore agro. Ai tempi delle crociate, Jacques de Vitry (ca. 1160-1240) scrisse Historia orientalis in cui dice che i crociati trovarono in Palestina il pomo d’Adamo, di incerta identificazione, i limoni, i pummeli e le arance amare. È possibile che i crociati al loro ritorno portassero con loro questi frutti. Le descrizioni botaniche del cedro e dell’arancio amaro del teologo tedesco Alberto Magno (1206-1280) in De vegetalibus et plantis libri VII sono molto interessanti perché analizzano in dettaglio le foglie, i rami, i frutti, i semi e l’apparato radicale. Sotto il profilo medico, Arnaldo da Villanova (ca. 1240-1311) scrisse per il re Giacomo II di Aragona il Regimen sanitatis ad regem aragonum in cui, oltre a sostenere che si deve consumare frutta per mantenersi sani e non per soddisfare i sensi, raccomanda di mangiare gli agrumi con zucchero per mitigare il sapore ed evitare l’acidità. Pure Matteo Silvatico nella sua Opus pandectarum medicinae (ca. 1317) presta molta attenzione al limone per le sue im-
Limoni rappresentati in un’opera di Andrés Laguna (Edizione Salamanca, 1570)
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storia e arte portanti utilizzazioni mediche e dice che tonifica il cuore ed esalta l’appetito, sebbene la sua acidità possa essere dannosa. Il senatore bolognese Pietro de’ Crescenzi (1233-1320) scrisse un’opera di carattere agricolo e sanitario, Liber cultus ruris, basata essenzialmente su testi greci e latini, in cui tratta della coltivazione degli agrumi e specialmente della loro difesa dal freddo. Enrique de Villena (1384-1434), scrittore e precursore dell’umanesimo spagnolo, nell’Arte cisoria consiglia la buccia del cedro e le foglie del limone per correggere l’alito cattivo e il succo dell’arancia amara e del limone come condimento. Gli aranci (arangia) erano gli alberi più apprezzati a Palermo e, secondo quanto scrive Niccolò Speciale nel Rerum sicularum, i suoi abitanti lamentarono la loro distruzione nel 1325 quando il duca di Calabria devastò i dintorni della città. L’arancio dolce: una nuova specie nel Mediterraneo Fu agli inizi dell’epoca moderna che l’Europa fece la conoscenza dell’arancio dolce. È ancora misteriosa la modalità con cui arrivò dall’Oriente: probabilmente mediante le rotte marittime-terrestri, attraverso il Mar Nero e il Golfo Persico, alla fine del XV secolo o agli inizi del XVI venne importato dai commercianti genovesi o veneziani che avevano relazioni con l’Oriente. Quelle piante, per il clima idoneo, si riprodussero in Liguria e da lì si diffusero nel resto dell’Italia, nel sud della Francia e nel sud-est della Spagna. I portoghesi, con la scoperta della rotta di Capo di Buona Speranza, spinsero le loro esplorazioni in Oriente giungendo in luoghi ignorati fino allora dagli europei. È molto probabile che abbiano conosciuto le arance dolci nei porti cinesi, coltivate in quei luoghi da tempo immemorabile, e si può supporre che nella prima metà del XVI secolo siano giunte nel porto di Lisbona. Dal Portogallo passarono in Spagna e quindi in Italia. Quelle arance all’inizio furono chiamate “arance di Lisbona” (Aurantium olysiponensis), dal il nome del porto di arrivo, o del Portogallo, sicché in alcuni Paesi arabi si conoscono con il termine Bortugali. Senza dubbio il nome cambiò nel tempo, prendendo in molti casi quello dei luoghi dove si coltivava. Diversi autori come Giovanni Battista Ramusio (1497), Leandro Alberti (1523), Andrea Navagero (1525), Nicolás Monardes (1540), Andrés Laguna (1555), Jacques Daléchamps (1587) e Carolus Clusius (1601) scrivono di arance dolci conosciute in Italia, Spagna e Francia.
L’arancio in un’illustrazione di Antonio Targioni Tozzetti, 1831
L’arrivo dell’arancio in Europa
• L’arancio fu conosciuto in Europa
quattro secoli dopo l’arancio amaro. Sebbene fosse presente nel Sud-Est asiatico da molto tempo, gli europei non lo hanno citato né hanno sottolineato chiaramente la sua presenza fino agli inizi del XVI secolo. Inizialmente fu chiamato Aurantium olysiponensis o del Portogallo
Gli agrumi arrivano in America Come riferisce Bartolomé de Las Casas (1489-1566) nella sua Storia delle Indie, gli agrumi furono portati nel Nuovo Mondo da Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio: il 22 novembre 1493 sbarcò a La Española (Haiti) e poiché si seminava tutto ciò che si portava dalla Spagna, certamente ciò accadde anche per 48
storia i semi di aranci, limoni e cedri. Gonzalo Fernández de Oviedo (1479-1557) lo conferma più tardi nella Storia generale e naturale delle Indie, quando dice che lì trovò arance dolci e amare, limoni, lime e cedri. Stando a quanto afferma Bernal Diaz del Castillo (1495-1584) nella sua Storia della conquista della nuova Spagna, fu nel Messico, nel 1518, che furono impiantati i primi aranci del continente. Altri autori come Francisco Lopez de Gomara (1511-1562), José de Acosta (1540-1600) e Bernabé Cobo (ca. 1579-1657) ne confermano la presenza in Perù e in altre località. I missionari gesuiti, nell’ultimo terzo del XVI secolo, diffusero gli agrumi in gran parte del Sud America. Tra il 1513 e il 1565 gli agrumi giunsero in Florida, grazie alle colonie dei missionari francescani (missione di Sant’Agostino) e da lì rapidamente si diffusero in Georgia, nella Carolina del Sud e, più tardi, a partire dal 1769, furono introdotti in California dai colonizzatori e missionari spagnoli (missione di San Diego) che li coltivavano nei loro orti e giardini. L’introduzione in Brasile avvenne tra il 1530 e il 1540.
La missione di San Javier, fondata dai gesuiti nel 1691, fu la prima nella provincia di Chiquitos del dipartimento di Santa Cruz in Bolivia. La sua costruzione durò diversi anni e da allora ha subito numerosi restauri. Al centro del patio vi è una pianta di arancio
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storia e arte L’agrumicoltura nell’era moderna Appartengono ai primi tempi di questo periodo interessanti trattati di agricoltura in cui l’uso medicinale va perdendo interesse a favore di quello ornamentale e di un limitato consumo. Di conseguenza, la descrizione delle varietà e delle tecniche di coltivazione assume maggiore importanza come testimoniano i capitoli dedicati agli agrumi nelle opere di Alonso de Herrera (1513), Charles Estienne (1536), Agostino Gallo (1559), che scrive sull’utilità del cambio della varietà, Benedicto Curtio (1560), Giovanni Tati (1561), Antoine Mizauld (1575), Miguel Agustí (1617) e Gregorio de los Rios (1620). Spicca l’opera di Olivier de Serres (1600), un vero trattato di agricoltura che si stacca totalmente dalla medicina e dalla botanica, in cui gli agrumi sono considerati come piante per la produzione economica di frutti, seppure in scala molto ridotta. Le Théâtre d’agriculture et mesnage des champs può essere considerato l’opera più completa di questo periodo, in cui sono trattati in dettaglio le tecniche di propagazione, l’innesto e lo sfruttamento economico dei frutti. È interessante rilevare che fino a quel periodo gli autori menzionati non scrivono di parassiti delle piante (ciò fa supporre che essi non provocassero danni significativi) ma riportano i danni da temperature basse. Con il passare del tempo, l’interesse per la coltura degli agrumi aumenta, solo però per fini ornamentali e collezionistici. Stranamente questo fenomeno è più diffuso in luoghi freddi, dove la coltivazione in piena area sarebbe impensabile; pertanto vengono adoperate strutture fisse o mobili per la protezione dal freddo che in seguito verranno chiamate orangeries. Le piante sono prodotte prevalentemente nel Nord Italia, soprattutto nei vivai di Genova, e vengono inviate sotto copertura ai collezionisti dei diversi Paesi. Una pietra miliare sull’agrumicoltura di quest’epoca è il libro del gesuita senese Giovan Battista Ferrari, Hesperides sive de malorum aureorum cultura et usu (1646) che descrive in dettaglio più di cento varietà, accompagnate da numerose illustrazioni. Si può incontrare il primo riferimento all’arancio Navel, al calamondino, all’arancio sanguigno, all’arancio dolce e all’arancio amaro Bouquet de fleurs. Spiccano le monografie di Jan Commelyn, Nederlantze Hesperides (1676), nei Paesi Bassi e di Johann Georg Volkamer, Nürbergische Hesperides (1708) e Continuation der Nürbergischen Hesperidum (1714), in Germania, che descrivono la coltivazione e le caratteristiche di numerose varietà accompagnate da immagini. Quasi allo stesso periodo appartengono i primi trattati di agrumicoltura. Il francese Pierre Morin stampa due monografie, Instruction facile pour connoistre toutes sortes d’orangers et citronniers (1674-1692), sulla coltura degli agrumi, dando priorità alla coltivazione in vaso e nelle serre ai fini ornamentali. Il suo contempo-
Orangeries
• Nei Paesi freddi in inverno gli aranci
si conservavano in vasi di legno o di terracotta nelle orangeries o serre; quando il clima si addolciva si portavano all’esterno con l’ausilio, per il loro peso, di gru e carri. A poco a poco quelle costruzioni furono trasformate in bellissimi edifici. Le orangeries non sono esclusive della Francia perché ne esistono numerose e ben conservate in Inghilterra, Germania, Repubblica Ceca e altri Paesi
Serra del cardinale Marcelo dove gli agrumi erano potati formando curiose figure (arte topiaria). Incisione di G.B. Ferrari, 1646
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storia raneo Jean Baptiste de la Quintinie pubblica pure il Traité de la culture des orangers (1690) che in dettaglio affronta tutti gli aspetti interessanti per poter produrre e mantenere gli agrumi in condizioni ottimali. Anche Antoine Joseph Dezallier (1708) e Roger Schabol (1770) sottolineano nei loro trattati la produzione di agrumi. Nei loro testi scompaiono gli aspetti fantasiosi riportati nelle opere del passato e si parla di alcuni parassiti come formiche, cimice verde, forbicina, afidi e cocciniglie; per la prima volta viene citata la fumaggine. Il freddo, i venti e la grandine sono considerati nemici naturali. Dezallier è il primo specialista che parla di innesto a T rovesciata e ne giustifica l’impiego. Infine va sottolineata la relazione tra gli agrumi e lo scorbuto, accertata da James Lind nel 1754, che consentì ai naviganti di fare lunghe traversate in condizioni sanitarie migliori.
Lo scorbuto
• Di scorbuto soffrivano molto i marinai
a causa delle lunghe traversate. James Lind (1716-1794), un medico scozzese dell’Armata Britannica, fu il primo a evidenziare sperimentalmente il superamento della malattia mediante il consumo di agrumi. Nel 1789 la Marina inglese riconobbe questi benefici e decise che le navi dovevano avere nelle loro stive lime e limoni. Come conseguenza di ciò ai marinai inglesi venne attribuito il soprannome di Limeys
Gli agrumi nel mondo e nel XIX secolo Nel XIX secolo l’agrumicoltura europea presenta l’inizio di una profonda trasformazione: la coltivazione ornamentale cede il passo a quella economica. Le opere fondamentali di questa prima fase sono il Traité du citrus (1811) dell’italiano Giorgio Gallesio e Histoi-
A causa della concentrazione della coltura e dell’aumento delle comunicazioni, si diffusero alcuni insetti che prima, sebbene esistenti, non costituivano una seria minaccia. La tavola rappresenta i principali parassiti presenti alla fine del XIX secolo (B. Giner Aliño, 1893)
Arance ombelicate simili a quelle del gruppo Navel nell’opera di G.B. Ferrari, 1646
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storia e arte re naturelle des oranges (1818-1822) dei francesi Antoine Risso e Antoine Poiteau. In entrambe le opere si manifesta l’interesse per la coltivazione in piena area: nella prima l’autore ipotizzò l’esistenza delle mutazioni per giustificare l’origine di alcune varietà e intuì l’esistenza di certi “principi” riguardanti gli individui, alludendo al patrimonio genetico. Nella seconda i due francesi formularono un’eccellente classificazione di tutte le varietà note, sotto i profili artistico, anatomico, morfologico, ornamentale ed economico. A metà del secolo cessano le pubblicazioni agrumicole nei Paesi con temperature invernali che non consentono la coltivazione senza protezione dal freddo e iniziano nei Paesi con clima ade guato e con potenzialità produttive importanti. L’agrumicoltura economica si va concentrando nelle locali tà dove si può coltivare in piena aria e si sviluppa grazie alla richiesta dei mercati. Nell’ultima parte del secolo fanno la loro comparsa riviste specializzate su argomenti concreti riferiti agli agrumi: vengono soprattutto pubblicate numerose monografie per divulgare i mezzi necessari per una produzione economica e commerciale. Si suggeriscono varietà, portinnesti e tecniche colturali senza alcun riferimento al collezionismo e alle fantasie dei tempi passati. In Italia si distinguono le opere di Ferdinando Alfonso Spagna (1869), Giuseppe Inzenga, Emanuele Arnao (1899) e Antonio Aloi (1900). In quel periodo si manifesta la gommosi (Phytophthora spp.) in alcuni limoneti del lago di Garda. In Francia oltre a Risso e Poiteau va ricordato Alphonse du Breuil (1868), autore di un’opera sulla coltivazione degli aranci.
La varietà Washington Navel
• Questa varietà si originò in Brasile
a seguito di una mutazione avvenuta in un ramo di arancio dolce della varietà Selecta, molto sugosa e con abbondanti semi. La prima propagazione avvenne verso il 1820, a Salvador (Bahia), ma non giunse a ottenere importanza commerciale. Nel 1868 William Sauders, sovrintendente dei giardini di Washington, importò dal Brasile alcune piantine che collocò nella sua serra di Washington D.C. Nel 1870 invió tre di queste piante a Mrs. Eliza Tibbets che a sua volta le piantò, e moltiplicò, nella sua proprietà di Riverside (California)
Albero di Washington Navel che discende direttamente da una delle prime piante giunte in California dai giardini di Washington D.C. Questa Parent Washington Navel si trova nella Av. Magnolia a Riverside
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storia In Spagna i primi impianti ai fini commerciali furono realizzati alla fine del XVIII secolo. L’agrumicoltura spagnola si basa sull’esperienza acquisita e sulle pubblicazioni periodiche di quegli anni, molte delle quali straniere. Nel XIX secolo si trasforma in un’attività con fini di lucro. Tra le monografie più interessanti si distinguono quelle di Eduardo Abela (1879), F. Bou Gascó (1879), José Rullan (1896), Bernardo Giner Aliño (1893), Bernardo Aliño (1900) e Antonio Maylin (1905): esse forniscono molte informazio ni e indicano lo stato reale dell’agrumicoltura sotto il profilo economico riportando i primi dati statistici su superfici, produzioni ed esportazioni. I riferimenti agli agrumi nel Sud America sono consistenti e compaiono i primi impianti commerciali. Nel 1800 si scopre la varietà Bahia o Washington Navel, pietra miliare dell’agrumicoltura commerciale. Sebbene le arance ombelicate fossero note nel XVII secolo, come riporta Ferrari descrivendo la varietà Aurantium foemina sive foetiferum, la Bahia era di qualità notevolmente migliore e senza semi e sembra essersi originata da una mutazione gemmaria avvenuta in una pianta di arancio Selecta. Con minor impeto ma con fermezza ha inizio l’agrumicoltura commerciale in Brasile, in Sud Africa, in India e in altri Paesi quali Argentina e Uruguay che nel tempo diverranno importanti produttori. Negli Stati Uniti l’agrumicoltura irrompe con forza alla fine del secolo e compaiono numerosi articoli in riviste specializzate e diverse pubblicazioni monografiche destinate alla conoscenza degli agrumi e alla loro produzione commerciale, con pochi riferimenti all’agrumicoltura del Vecchio Mondo. Tra le monografie
Fino all’inizio del XX secolo le noria sono state molto utili per l’irrigazione degli agrumi, facilitandone la diffusione della coltivazione Lavori di costruzione di un pozzo per realizzare un sistema di irrigazione e quindi impiantare un agrumeto a Tavernes de Valldigna (Valencia) nel 1921. Attualmente questa proprietà continua a essere coltivata ad aranci
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storia e arte pubblicate in Florida si distinguono quelle di Theophilus Wilson Moore (1877), George W. Davis (1882), A.H. Manville (1883), Helen Harcourt (1884) e per ultimo Harold Hume, il cui Citrus fruit and their culture (1907) è certamente l’opera più nota. In California emergono gli scritti di William Spalding (1885) e Byron Martin Lelong (1902). Nel 1886 Emanuele Bonavia pubblica in India un valido libro intitolato The cultivated oranges and lemons, etc. of India and Ceylon. L’India non rientra nei circuiti internazionali come produttrice di agrumi, sebbene la sua produzione sia molto vasta. A causa della concentrazione della coltura si diffondono nuovi parassiti, specialmente cocciniglie, ma è la comparsa della gommosi che produce i maggiori danni. Fino ad allora l’agrumicoltura era basata fondamentalmente sull’uso di piante autoradicate o innestate sui soggetti arancio dolce, limone o cedro; la gommosi le colpì gravemente e costrinse a impiegare l’arancio amaro dando origine a un nuovo assetto dell’agrumicoltura. Il numero delle varietà descritte e consigliate nelle diverse opere fu ridotto, propagando solo quelle che avevano importanza commerciale per il consumo e in particolare quelle di arance bionde comuni. Nuove specie: pompelmo e mandarino Sconosciuto in Oriente e per un certo periodo considerato un tipo di pummelo, il pompelmo è comparso di recente. Le prime citazio ni riportano il nome di forbidden fruit o frutto proibito e provengono dal reverendo e naturalista Griffith Hughes in The Natural history of Barbados (1750). Il botanico inglese James MacFayden nel 1837 gli diede il nome di Citrus paradisi. Fu introdotto in Flori-
Il mandarino comune, sebbene noto in Cina da tempo immemorabile, giunse in Europa all’inizio del XIX secolo (B. Giner Aliño, 1893) A partire dal 1920, e fino agli anni ’70, l’acido cianidrico fu utilizzato efficacemente per combattere la cocciniglia degli agrumi
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storia da nel 1823 dal conte francese Odett Phillippe che lo piantò nella baia di Tampa e da lì si diffuse in California e in altri Paesi del Mediterraneo; nel 1909 arrivò in Spagna. Il mandarino Comune (C. deliciosa Ten.), descritto da coloro che furono direttori del Real orto botanico di Napoli, Vincenzo Tenore e Giuseppe Antonio Pasquale nel loro Compendio di botanica (1847), si conobbe in Europa duecento anni fa quando Sir Abraham Hume portò nel 1805 in Inghilterra, giungendo da Canton, due varietà di mandarino e una di esse era il mandarino Comune; sembra che successivamente siano state portate a Malta e in Sicilia e dopo nel 1828 nel continente. In seguito, nel 1842, il mandarino Comune si coltivava nei dintorni di Parma e nel 1848-1849 nella contea di Nizza e nei pressi di Genova. In Spagna fu introdotto dal conte di Ripalda nel 1845. Il XX secolo. Consolidamento ed espansione della coltivazione commerciale Nel XX secolo gli agrumi costituiscono un’attività esclusivamente commerciale. Sono state selezionate nuove varietà più gradite dal consumatore e la superfice destinata agli agrumi è aumentata considerevolmente. Sono comparsi malattie devastanti e parassiti sconosciuti, affrontati dai centri di ricerca con nuovi portinnesti, antiparassitari più efficaci e selettivi, agrotecniche più efficienti ecc. Attualmente gli agrumi si coltivano in più di un centinaio di Paesi con clima tropicale e subtropicale che producono circa 100 mi lioni di tonnellate, quantità notevolmente superiore a quella di altri frutti come mele o uva.
Agli inizi della commercializzazione delle arance, gli esportatori identificavano questi frutti con etichette di piacevole aspetto estetico, che incollavano ai lati degli imballaggi di legno. Attualmente le nuove tecnologie hanno determinato la scomprasa di questo sistema a vantaggio di altri molto più pratici
Magazzino per il confezionamento della frutta per l’esportazione nei primi del XX secolo a Carcaixent (Valencia)
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gli agrumi Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Letteratura Giovanni Continella
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storia e arte Letteratura Cina In quale paese se non in Cina, ove si è originata la maggior parte degli agrumi, ne annoveriamo la più antica testimonianza scritta della terra? Si tratta del Tributo di Yu (Yu kung) dove vengono elencati i frutti di mandarino (chu) e pummelo (yu) inviati quali tributi all’imperatore Ta Yu, che regnò dal 2205 al 2197 a.C., dando inizio alla dinastia Hsia (2205-1767 a.C.). I Cinque Canoni costituiscono il più importante documento mitologico, storico, filosofico e letterario della Cina nel lungo periodo della dinastia Chou (1122-249 a.C.). Essi sono, in ordine cronologico, il “Libro delle odi”, il “Libro del mutamento”, il “Libro dei documenti storici”, gli “Annali della primavera e dell’autunno” e il “Libro dei riti”. Gli agrumi più volte richiamati sono due: chu (kumquat e mandarini a frutto piccolo) e yu (yuzu e pummelo). Alla fine della dinastia Chou il poeta Sung Yu menziona il Poncirus trifoliata definendolo “albero preferito dagli uccelli per costruirvi il nido”. Alla dinastia Chou succedettero la dinastia Ch’in (249-210 a.C.) e quella Han (202 a.C.-220 d.C.), sotto la quale Ssu Hsiang-Ju (?-118 a.C.) scrisse un poema in cui si parla di cheng (arancio amaro), lu chu (kumquat) e huang kan (mandarino giallo).
4 millenni di letteratura
• La letteratura dedicata agli agrumi ha
attraversato la storia planetaria coprendo vari periodi delle diverse civiltà che si sono succedute, interessando 4000 anni
• In relazione all’origine asiatico-orientale
degli agrumi le citazioni e documentazioni iniziano con la civiltà cinese, per poi interessare quelle indiana e giapponese e, successivamente, il bacino del Mediterraneo con le civiltà ebraica, greca, romana, araba. Attraverso il Medio Evo, il Rinascimento ed i secoli successivi, si perviene ai giorni nostri, quando, in virtù della rapida globalizzazione, la letteratura sugli agrumi diviene sempre più un patrimonio comune dell’umanità
Acquaforte-acquatinta di Fernanda Paternò di Carcaci, ispirata a un pensiero di Kung Fu-tzu (Confucio)
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letteratura Dopo il breve periodo dei “Tre Regni” (221-265 d.C.), durante la dinastia Chin (265-420 d.C.) nell’opera Nan fang ts’ao mu chuang, scritta da Chi Han nel 304, vengono citati lo ju kan, che corrisponderebbe al mandarino “Ponkan”, e il cedro denominato kuo han. Nello stesso periodo vide la luce il primo testo cinese di botanica, Shan Nung Pen Ts’ao, in cui viene citato un agrume con l’antico nome di chu. Nell’età dell’oro della poesia cinese, che cade nell’era della dinastia Tang (620-907 d.C), Tu Fu (712-770), nel suo poema Un giardino di alberi d’arancio, scrive: “In piena primavera sulle sponde di un fiume / due grandi giardini piantati con migliaia di aranci. / Le loro folte foglie stanno spingendo le nubi a vergognarsi, / sulla ricchezza dei loro fiori caduti si cammina / senza toccare la neve”. Un altro poeta, Tin Tun Ling (772-845 d.C.), è insuperabile nei versi intitolati L’ombra di una foglia di arancio: “Sola nella sua stanza, una ragazza ricama fiori di seta. / All’improvviso sente un flauto distante... Lei trema. / Pensa al giovane che le sta parlando d’amore. / Attraverso la tenda di carta della finestra, l’ombra / di una foglia di arancio viene e si ferma sulle sue ginocchia... / Lei chiude gli occhi, pensa che una mano / le sta strappando il vestito”. Su Tung Po (1031-1101 d.C.), nel ritmico poema in prosa Il vino colorato di primavera di Tung-T’ing, scrive che questo vino ottenuto da arance dolci “è meritevole di mestoli di turchese, bricchi d’argento, garze purpuree e involucri di seta verde”. Nel 1026 Hsi Ma Kuang così descrive il proprio paese: “La primavera non abbandona mai questo luogo delizioso. Una piccola foresta di melograni, cedri e aranci, sempre coperta di fiori e di frutti, limita l’orizzonte. Nel mezzo di essa su una piccola collina si
Confucio
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storia e arte erge un padiglione verde verso il quale una scala sale a spirale in volute sempre più strette”. La prima monografia completa sugli agrumi, dal titolo Chu lu, fu scritta da Han Yen-chih nel 1178 durante la dinastia Sung (9601279) e costituisce il testo più antico al mondo che si occupi di propagazione, tecniche colturali, difesa degli alberi e della raccolta, conservazione e trasformazione dei frutti, descrivendo minuziosamente ventisette varietà di agrumi riferibili ad arancio amaro, mandarino, pummelo, cedro, kumquat e Poncirus. Di notevole rilevanza è una voluminosa opera medico-botanica del XVI secolo, Pen ts’ao kang mu, che descrive cinque specie di agrumi: kan (mandarino), ch’eng (arancio), yu (pummelo), kou yuan (cedro) e ching-chu (kumquat).
Il primo agrume nel Mediterraneo: il cedro
• Il popolo ebraico nelle sue tradizioni
religiose, interpretando il testo del Levitico (XVI-XV secolo a.C.) dove veniva indicato da Dio a Mosè “il frutto dell’albero più bello”, lo identificò con il cedro, sconosciuto in Palestina, ma che gli ebrei conobbero nei 4 secoli di permanenza in Egitto, ove quest’agrume era noto probabilmente dal II millennio a.C.
India In una collezione di testi sacri bramini, scritta in sanscrito e denominata Vajasaneyi Samhita, viene indicato con il nome di jambila o jambira un agrume che corrisponde al cedro e/o al limone, ai quali somiglia molto l’agrume indiano Citrus jambhiri universalmente noto come rough lemon. Intorno al 100 d.C. venne pubblicato il primo libro di medicina scritto in sanscrito, dal titolo Charaka Samhita; vi si citano vari agrumi, il cedro (matulungaka), il limone (jambira) e l’arancio sia dolce che amaro (naranga). Nel 1519 vennero pubblicate le memorie di Zeher-ed-din Muhammed Baber, sovrano dell’Hindostan, che riportano notizie dettagliate sugli agrumi ivi coltivati e sugli usi dei relativi frutti. Si menzionano l’arancio amaro (naranji), il limone (limoo), il cedro (taranj), la lima (kilkil), il limone rugoso (jambiri) e altri agrumi, tra cui il samtereh (probabilmente l’arancio dolce).
• Così il cedro pervenne nella Terra
Promessa e da qui, prima della Diaspora, e specialmente in seguito, seguì le migrazioni degli ebrei diffondendosi in diversi territori del Mediterraneo
Giappone L’antologia poetica Manyoshu, scritta durante l’VIII secolo d.C. da Otomo Yakamochida da solo o assieme ad altri autori, menziona per la prima volta il C. tachibana, tipico e antico agrume giapponese. Un prezioso esempio sono i seguenti versi della principessa Awata: “A casa andrò / non appena la luna si sarà levata, / poi essa brillerà / sugli splendidi fiori di tachibana / aderenti ai miei capelli”. Palestina Il vertice della letteratura ebraica risiede nella Bibbia, dove viene citato un agrume, seppure non esplicitamente. La testuale citazione biblica (Lev. XIII-40) è la seguente: “Mosè disse al popolo: prendete il primo giorno frutti dell’albero più bello, rami di palme e dell’albero più frondoso e dei salici che crescono lungo i torrenti e gioite davanti il Signore”. Il frutto dell’albero più bello (perì et’s hadar, come è scritto in ebraico nel Levitico) si è da allora identificato come il frutto del cedro, che veniva recato nella mano
Cedro rappresentato nei mosaici della Villa del Casale di Piazza Armerina (II-IV sec. d.C.)
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letteratura sinistra, mentre la destra portava rami di palma, mirto e salice per celebrare la festa delle Capanne o dei Tabernacoli. Questa festa, denominata Sukkoth, viene celebrata ai primi di ottobre e, assieme ad altre due festività religiose, la Pasqua e la Pentecoste, viene tutt’oggi osservata scrupolosamente dagli ebrei ortodossi. Grecia Prima di apparire nella letteratura, gli agrumi nell’antica Grecia sono stati annoverati nella mitologia, in quanto si identificavano con essi gli alberi dai pomi d’oro che Hera (la Giunone dei Latini) aveva portato in dote alle nozze con Zeus (il Giove dei Romani); furono impiantati a costituire il notissimo “giardino delle Esperidi” dislocato ai piedi dell’Atlante, nell’odierno Marocco. A questo mito si intrecciava quello di Eracle (l’Ercole dei Latini) che, tra le sue celebri imprese, compì l’undicesima fatica uccidendo il drago messo a guardia del giardino e impossessandosi dei pomi d’oro. Teofrasto di Ereso (372-287 a.C.) nella Historia plantarum scrive anche del cedro, indicandolo come coltivato in Media e in Persia per produrre un frutto che, appunto, chiama “pomo della Persia” o “della Media”. Di esso descrive alcuni aspetti morfologici, nonché l’utilizzazione precisando che il frutto non è commestibile, ma è utile per proteggere la biancheria dalle tignole e anche come antidoto ai veleni e per correggere l’alito cattivo. Si sofferma poi sulla propagazione per seme e sulle caratteristiche morfologiche del fiore che influenzano la fertilità e la conseguente fruttificazione. Dioscoride, vissuto nel I secolo d.C., è autore di un ampio trattato, Materia medica, dove cita i cedri chiamandoli “pomi medi e persiani, o cedromeli (kedròmela), che in lingua romana sono detti citria (kitria)”. Intorno al 200 d.C. Ateneo nel suo Deipnosophistae (“Sofisti a convivio”) torna a discettare sul cedro, riportando anche gli scritti di vari altri autori. Nel II secolo d.C. Florentinus scrisse la Geoponica, dove, sempre facendo riferimento al cedro, fornisce una serie di indicazioni di carattere agronomico sulla migliore difesa della pianta dal freddo e di carattere botanico sui fantasiosi effetti di improbabili innesti su sicomoro o melograno.
Historia Plantarum di Teofrasto pubblicata nel 1505
Roma Nella letteratura latina i richiami al cedro sono numerosi: si va da Cloanzio Vero (II secolo a.C.), che lo chiama citreum, al botanico Oppio, che definisce i cedri citrea. Il grande poeta Virgilio (70-19 a.C.) nelle Georgiche si riferisce al cedro con l’espressione “frutto della Media”, mentre Plinio nella Naturalis Historia, scritta tra il 70 e il 79 d.C., cita il “malum assyria, quam alii vocant medicam”. Il celebre gastronomo Apicio Celio, vissuto nel II secolo d.C., nella sua opera De re coquinaria inserisce l’albedo del cedro tra le sue ricette più elaborate. 59
storia e arte Rutilio Tauro Emiliano Palladio, vissuto nel III o IV secolo d.C., dedica al cedro un intero capitolo (“De citreo”) della sua Agriculturae opus, descrivendone le tecniche di propagazione e di coltivazione. Mondo arabo Del Libro di agricoltura nabatea dell’agronomo iracheno IbnWahshiya, che nel 904 d.C. lo presentò come una serie di antiche scritture, ci restano solo frammenti citati da scrittori successivi, contenenti notizie sul limone (hasia in nabateo, limun in persiano), sul cedro e sull’arancio amaro (naranj), ricordato per la sua origine indiana e il sapore simile a quello del cedro. “Prati d’oro” è la traduzione del titolo del testo di al-Masudi, completato nel 943, dove si citano, tra tante altre cose, l’arancio amaro e un imprecisato “agrume rotondo” (una lima?), che sarebbe stato introdotto dall’India. Il ben noto Avicenna (980-1037), il cui nome deriva dall’ebraico Aven Sina, contrazione del suo vero nome (Abu Ali el-Huseyn Ibn Sina), nel suo Canone di medicina, il testo medico più accreditato del Medioevo, si diffonde sull’efficacia di alcuni agrumi nella prevenzione e cura di malesseri e malattie, peste compresa. Alla fine del 1100 il medico Ibn Jamiya pubblicò il Trattato sul limone, dove descrive le numerosissime funzioni medicinali del frutto e menziona la limonata per le sue proprietà dissetanti e disinfettanti. Un altro medico, Muwaffaq ed-Din Abd el Latif ben Yusuf (Bagdad, XII-XIII secolo), nella sua Descrizione dell’Egitto annovera tra gli agrumi del Paese cedri, limoni dolci e altri, tra cui proba-
Frontespizio del Colliget (1553), traduzione del Kulliyyaˉt (Medicina generale) di Averroè
Liber canonis medicinae (1501-1504) di Avicenna
Dettaglio dell’opera del Mattioli Commentari al Dioscoride, traduzione con integrazioni del trattato Materia medica
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letteratura bilmente i pummeli, oltre a fare la prima segnalazione di agrumi “ombelicati”. Il trattato più completo di agricoltura, articolato in 34 capitoli e opera del sivigliano Abu Zacaria Iahia, universalmente conosciuto con il nome di Ibn al-Awwam, è Kitab-al-Felaha (“Libro di agricoltura”), vastissimo compendio delle conoscenze dell’epoca sulle piante (circa 200) e sull’arte di coltivarle. Sugli agrumi (cedro, arancio amaro, pummelo e limone) si diffonde con informazioni interessanti e scientificamente esatte, alternate a credenze e superstizioni. Il grande botanico Ibn el-Beithar di Malaga (1197-1248), autore del Dizionario dei semplici rimedi, tra le oltre 1400 piante di cui tratta annovera anche gli agrumi, descrivendo vari processi di estrazione dell’olio essenziale dal cedro, raccomandato per la cura di molte malattie, e la preparazione dello sciroppo partendo dal succo di limone. Anche con la poesia la civiltà araba seppe mostrare il meglio del fascino degli agrumi. Alì al-Ballanubi di Villanova, vissuto nella prima metà dell’XI secolo, così si esprime: “gioisci delle arance che raccogli: / dalla loro presenza viene gioia. / Oh, siano benvenute / queste guance dei rami, / benvenute le stelle di quest’albero. / Si direbbe che il cielo abbia versato oro, / e che per noi la terra abbia forgiato pomi”. Abd ar-Rahman, arabo di Trapani, intorno al 1160 compose i bellissimi versi che descrivono il lago della Villa Favara presso Palermo: “le arance dell’isola sono simili a fiamme / brillanti tra rami di smeraldo / e i limoni riflettono il pallore di un amante / che ha trascorso la notte in lacrime / per il dolore della lontananza”.
Frontespizio del Libro de agricultura di Ibn al Awwam, tradotto in spagnolo nel 1802
Il Medioevo e il Rinascimento Ugo Falcando, vissuto in Sicilia dal 1154 al 1169, scrisse l’Historia de rebus gestis in Siciliae Regno, che contiene riferimenti ai limoni (lumias) e alle arance (arengias). Jacques de Vitry (Jacopus Vitriacus), sacerdote francese che fece carriera fino a divenire patriarca di Gerusalemme, nella sua Historia hierosolymitana descrisse, tra l’altro, gli agrumi noti nella prima metà del XIII secolo in Palestina, dai limoni ai cedri, agli aranci amari, fino ad agrumi molto belli, del colore del cedro, che portano l’impronta di denti e vengono perciò chiamati pomi di Adamo, attribuendo così a essi il ruolo del “frutto proibito” del Giardino dell’Eden. Matteo Silvatico (1277-1342) fu medico della Scuola salernitana e, nel suo Opus Pandectarum Medicinae, presentò cedro, arancio amaro, limone e lima come agrumi coltivati in Liguria, diffondendosi anche sull’uso medicinale, in particolare del limone. Pier de’ Crescenzi (1233-1320/21) nell’Opus ruralium commodorum elenca tre tipologie di giardini e tra gli agrumi cita soltanto il cedro.
Frontespizio dell’opera di Leandro Alberti
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storia e arte Nicolò Speciale, storico del XIV secolo, nel De Siculis rebus parla delle arance amare prodotte da “alberi dai frutti agri” (“acripomorum arbores quos vulgo arangias vocant”). Il geografo Blondo Flavio di Forlì nella sua opera Italiae illustratae libri VIII, pubblicata a Verona nel 1482, descrisse il ruolo degli agrumi nei territori di Amalfi in Campania e di San Remo in Liguria. Giovanni Gioviano Pontano (1426-1503), poliedrica personalità di scrittore in latino sia in prosa sia in versi, nel suo De Hortis Hesperidum sive de cultu citriorum si compiace di essere anche agrumicoltore nel suo giardino presso Napoli, dove crescono “aranci a frutti acri e a frutti dolci”, limoni di tre varietà, cedri e il pomo di Adamo. In particolare, l’arancio viene esaltato come “hortorum honor, et nemorum ac geniale domorum delicium”. Antonino Venuto da Noto (?-1550) nel De agricultura opusculum, scritto nel 1510 e pubblicato a Napoli nel 1516, suddivide gli agrumi in quattro specie (“Arangio, Cetro, Lomie e Scombo”); cita esplicitamente gli aranci dolci nel primo capitolo, che inizia con questa impegnativa affermazione: “L’Arangio è cosa manifesta essere il Re, Prencipe, e Signore di tutti arbori”. Il domenicano bolognese Leandro Alberti (1479-1553), al termine dei suoi viaggi che lo portarono nelle diverse regioni d’Italia, pubblicò nel 1550 la Descrittione di tutta l’Italia et Isole pertinenti ad essa, opera che attesta, tra l’altro, la diffusione dell’agrumicoltura in Sicilia (che l’autore visitò nel 1526), Calabria, Campania e Puglia, non trascurandone la presenza in agro di Fiesole (Toscana), Ancona (Marche), San Remo (Liguria) e Salò (Lombardia). Nicolò Peranzoni nel De laudibus Piceni, scritto tra il 1510 e il 1527, cantò le peculiarità del territorio, assicurando che “nell’Agro Piceno non mancano i cedri né le arance”. Anche due notissimi poeti del Rinascimento menzionarono gli agrumi. Ludovico Ariosto (1474-1533) nell’Orlando Furioso, dato alle stampe nel 1516, così descriveva il giardino di Alcina: “Vaghi boschetti di suavi allori, / di palme, et d’amenissime mortelle, / cedri, et naranci, ch’avean frutti e fiori, / contesti in varie forme e tutte belle, / facean riparo a’ fervidi calori / de’ giorni estivi con lor spesse ombrelle”. Torquato Tasso (1544-1595) nella sua Gerusalemme Liberata, nella descrizione dei giardini della maga Armida, inserisce questo celebre verso sulla rifiorenza: “coi fiori eterni eterno il frutto dura, / e mentre spunta l’un, l’altro matura”. Agostino Gallo (1499-1570), nella sua opera Le venti giornate dell’agricoltura e dei piaceri della villa, descrive “orticelli vaghi di cedri, di limoni e di aranzi vari” e “pergolati di limoni” nei giardini di nobili della Riviera del Garda. Il bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605), ricordato per la sua “onniscienza della natura”, nella sua ponderosa Iconographia plantarum, costituita dalla raffigurazione di oltre 1800 reperti ve-
Frontespizio del trattato Hesperides di G.B. Ferrari (1646)
Tavola tratta da Hesperides di G.B. Ferrari, che raffigura l’arrivo in Italia delle Ninfe Egle, Aretusa ed Esperetusa con le piante di agrumi sottratte al “giardino delle Esperidi”
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letteratura getali, dedicò dodici tavole a numerosi agrumi, tra cui cedri, limoni, aranci e diverse varianti di pomo di Adamo. Dal Seicento all’Ottocento La trattatistica in tema di agrumi trova gli esempi più mirabili nel Seicento. L’opera più completa, autentico caposaldo della letteratura citrologica, è Hesperides, sive De Malorum aureorum Cultura et Usu Libri Quatuor, data alle stampe nel 1646 a Roma dal gesuita senese Giovan Battista Ferrari (1583-1655). Si tratta di una monografia ampia che unisce il fascino della mitologia e delle leggende sull’argomento al rigore della documentazione con cui vengono descritti i numerosi agrumi, raffigurati fedelmente in splendide incisioni.
Raffigurazione del pomo di Adamo tratta da Hesperides di G.B. Ferrari (1646)
Ritratto di Cassiano dal Pozzo eseguito da Pietro Anichini
Tavola tratta da Hesperides di G.B. Ferrari (1646), dove si rappresentano gli elementi essenziali del “giardino delle Esperidi”
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storia e arte L’opera è suddivisa in quattro libri: il primo comprende in dieci capitoli le generalità, rappresentate dai criteri ispiratori e dagli obiettivi dell’opera, seguiti dalla narrazione della leggenda del giardino delle Esperidi (Hesperidum fabula), che si conclude con la fuga delle ninfe in Italia per trapiantarvi gli agrumi: il cedro in riva al Garda a Salò per opera di Egle, il limone in Liguria per mano di Aretusa e l’arancio nella Campania Felix per iniziativa di Hesperetusa. Alle tre Esperidi sono dedicati, conseguentemente, i tre libri successivi: il secondo che descrive il cedro, il
Dipinto di Vincenzo Leonardi utilizzato per realizzare l’incisione in Hesperides di un’arancia ombelicata denominata Aurantium foemina sive foetiferum
Monumentale limonaia degli Aldobrandini
Frontespizio della versione latina (1714) di J.C. Volkamer del trattato Nürnbergische Hesperides
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letteratura terzo che tratta del limone e il quarto che si occupa dell’arancio. All’opera del Ferrari fornirono un contributo decisivo le informazioni e i dipinti del “museo cartaceo” dell’accademico dei Lincei Cassiano dal Pozzo, oggi conservati presso la Royal Library di Windsor. Nello stesso periodo molti autori (Barpo, Scamozzi, Taegio, Del Riccio, Tanara ecc.) descrissero agrumi coltivati nei giardini di ville e palazzi delle classi emergenti o affermate del tempo, insediati in oasi microclimatiche del settentrione d’Italia e particolarmente della Lombardia, dove, partendo dall’areale a clima più dolce costituito dalla riviera gardesana, che va da Salò a Limone, si giunge fino al giardino di palazzo Vertemate Franchi a Piuro, in piena val Chiavenna (Sondrio). Bisogna aspettare l’inizio del Settecento per trovare un altro trattato sugli agrumi paragonabile al capolavoro del Ferrari, di cui peraltro ricalca l’impianto scientifico: è l’opera di Johann Christoph Volkamer (1644-1720) intitolata Nürnbergische Hesperides, oder Gründliche Beschreibung der Edlen Citronat, Citronen, und Pomerantzen-Fruchte: data alle stampe a Norimberga nel 1708, fu seguita da un altro volume (Continuation...), pubblicato nel 1714, e quindi ristampata in latino. L’opera, scaturita anche da un lungo soggiorno di Volkamer a Roverè Veronese, descrive agrumi coltivati sulle sponde del lago di Garda, lungo la riviera del Brenta e nei litorali della Liguria, con i frutti rappresentati spesso su scorci di paesaggi e di palazzi gentilizi di quei territori. Nel 1723 a Venezia venne pubblicata postuma Historia e coltura delle piante, con un copioso Trattato degli agrumi di Paolo Bartolomeo Clarici che descrive sinteticamente 150 tra cedri, limoni, lime, lumie, aranci, pummeli e chinotti. Ai citrologi del Seicento e dell’inizio del Settecento si rifece Pier Antonio Micheli (1679-1736) in un manoscritto intitolato Enumeratio quarundam Plantarum sibi per Italiam et Germaniam observatarum iuxta Tournefortii Methodum dispositarum tomus IX. Un geografo siciliano, Arcangiolo Leanti, pubblicò nel 1761 Lo stato presente della Sicilia, da cui si ricavano notizie precise sulla distribuzione nell’isola degli agrumeti che alimentavano consistenti correnti di esportazione di limoni, scorze e sugo di limoni, arance dolci, arance agrodolci, essenze di arancio e di bergamotto. Un ulteriore notevole progresso della coltura e dell’esportazione si evince dalle Lettere dalla Sicilia e dalla Turchia a diversi suoi amici in Toscana date alle stampe nel 1779-1781 dall’abate fiorentino Domenico Sestini (1750-1832), che soggiornò a Catania quasi tre anni come “antiquario e bibliotecario” di Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari. È di quel tempo il primo viaggio di Goethe in Italia, che gli dette occasione per comporre i famosi versi della canzone di Mignon
Ville venete con agrumi rappresentate in Nürnbergische Hesperides
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storia e arte dal Wilhelm Meisters Lehrjahre: “Kennst du das Land wo die Zitronen bluhen / im dunkeln Laub die Gold-Orangen gluhen?” (“Conosci la terra dove fioriscono i limoni, / ove scintillano sopra bruno fogliame arance d’oro?”). Alcuni anni dopo, nel 1816, il conte Giorgio Gallesio (1772-1839), già autore di una monumentale Pomona Italiana, dava alle stampe a Parigi il Traité du Citrus, che rappresentò il primo tentativo organico di inquadramento scientifico delle specie del genere Citrus. In seguito il Gallesio si adoperò per predisporre materiali e iconografie di un Atlante citrografico che non vide mai la luce, ma i cui elementi sono stati scoperti e studiati magistralmente da Enrico Baldini. Un’altra opera fondamentale è l’Histoire Naturelle des Orangers, pubblicata da Joseph-Antoine Risso e Pierre-Antoine Poiteau a Parigi in diciannove fascicoli tra il 1818 e il 1820, che riporta l’accurata descrizione e raffigurazione di ben 171 varietà di agrumi, tra aranci (43), aranci amari (32), bergamotti (5), lime (8), pummeli (6), lumie (12), limoni (46), cedri (7) e altri (2). Poco dopo, nel 1825, Antonio Targioni Tozzetti dette alle stampe a Firenze la Raccolta di fiori, frutti e agrumi più ricercati per l’adornamento dei giardini, disegnati al naturale da vari artisti, che comprende quattordici agrumi rappresentati con singolare precisione ed eleganza. Giuseppe Inzenga (1815-1887), seguace del Risso, compilò sulla scorta di una collezione vivente la monografia Agrumi Siciliani, pubblicata nel 1915 da Luigi Savastano, in cui descrisse 81 varietà di agrumi. Frontespizio del Traité du Citrus di G. Gallesio
Raffigurazione nell’opera di Risso e Poiteau di un agrume relativamente nuovo, il bergamotto
Raffigurazione nell’opera di Risso e Poiteau di un agrume antico, il cedro
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Raffigurazione minuziosa ed elegante nell’opera di Antonio Targioni Tozzetti di un ibrido, il Pomo di Adamo cedrato
letteratura Nel 1875 Ferdinando Alfonso dette alle stampe un Trattato sulla coltivazione degli agrumi che testimonia lo sviluppo della coltura in Sicilia, dove “la estensione della terra irrigua consacrata agli esperidi, dal 1854 a questa volta, si ritiene quintuplicata per l’aumento grandissimo dei pozzi semplici e a ripiano, e per la introduzione delle norie Gattau o delle trombe a vapore, che elevano le acque latenti per lo innanzi inesplorate”. Il Novecento: le poesie e i romanzi Lungo le rive del Mediterraneo, tra gli assolati giardini di Spagna, gli appartati orti della Liguria e gli agrumeti di Sicilia dall’impareggiabile fascino, estraggono lo spirito degli agrumi Machado, Salinas, Montale e Quasimodo. Antonio Machado y Ruiz (1875-1939) sin dalla sua prima grande raccolta di poesie (Soledades, 1903) esprime la solitaria e pensosa aristocrazia del poeta e dell’uomo. Tra i suoi componimenti citiamo La plaza y los naranjos (“La piazza e questi aranci così accesi / dai frutti che sorridono rotondi...”) e El limonero lánguido (“Il languido limone sporge un ramo / pallido
Frontespizio dell’Histoire naturelle des orangers di Risso e Poiteau (1818-1822)
Frontespizio del Trattato sulla coltivazione degli agrumi di Ferdinando Alfonso (1875)
Raffigurazione minuziosa ed elegante nell’opera di Antonio Targioni Tozzetti di una chimera d’innesto, la Bizzarria
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storia e arte e polveroso / sopra il limpido incanto della fonte / e già sul fondo sognano / i frutti d’oro...”). Pedro Salinas (1891-1951) nella sua prima pubblicazione (Presagios, 1923) si esprime con mirabile tensione e delicata classicità di stile. Fanno parte della poesia Yo no te había visto i seguenti versi: “Io non ti avevo visto / giallo limone nascosto / nell’agrumeto tra le scure foglie: / no, non ti avevo visto. Ma al bambino / un nuovo fuoco di desiderio germogliò negli occhi / e tese le due mani. Dove quelle / non giungevano giunse il suo grido. / Ora è notte e, come compiuto frutto / del giorno ti tengo tra le mani / limpido limone nascosto, / limpido limone svelato”. Eugenio Montale (1886-1981) nella sua prima raccolta (Ossi di seppia, 1925) esprime già pienamente la sua poetica aspra e nuda, intessuta tuttavia di immagini vivaci, che lo porterà nel 1975 a essere insignito del premio Nobel per la letteratura. Da I limoni: “Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, /discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni... / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni... / Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo dei cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità”. Salvatore Quasimodo (1901-1968) ha impresso ai suoi versi un senso di solitudine incolmabile che gli è valso nel 1959 il conferimento del premio Nobel. Da Nuove poesie (1936-1942), Ride la gazza, nera sugli aranci: “Già l’airone s’avanza verso l’acqua / e fiuta lento il fango fra le spine, / ride la gazza, nera sugli aranci”. Quante altre citazioni letterarie, fino ai giorni nostri, sarebbe possibile riportare! Per quanto riguarda la prosa, ci si limita a un brano del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), edito postumo nel 1958: “la strada attraversava gli aranceti in fiore, e l’aroma nuziale delle zagare annullava ogni cosa come il plenilunio annulla un paesaggio... tutto era cancellato da quel profumo islamico che evocava urì e carnali oltretomba”.
Federico García Lorca e l’arancio fiorito, simbolo dell’amore perfetto
• Federico García Lorca (1899-1936),
il poeta del Novecento spagnolo oggi più noto e apprezzato, esprime un’arte al tempo stesso ingenua, vibrante e commossa, come si evince anche dalla sua maggiore opera lirica, Romancero gitano (1924-28), da cui traiamo i versi di La Lola : “Sotto l’arancio lava/ le fasce in cotone./ Ha verdi gli occhi/ e violetta la voce./ Ahi, amor,/ sotto l’arancio in fior!/ L’acqua del canale/ scorreva piena di sole;/ nell’uliveto/ un passero cantava./ Ahi, amor,/ sotto l’arancio in fior!/ Poi, quando la Lola/ consumerà tutto il sapone,/ verranno i ragazzi toreri./ Ahi, amor,/ sotto l’arancio in fior!”
Il Novecento: i trattati La prima monografia del secolo sugli agrumi la dobbiamo a un autore dell’Università della Florida, H. Harold Hume, che pubblicò nel 1904 Citrus fruits and their culture, riedita nel 1926 con il titolo The cultivation of citrus fruits, dopo ampi rimaneggiamenti e aggiornamenti.
Copertina dell’opera di Eugenio Montale Ossi di seppia
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letteratura Citrus fruits, un altro autorevole testo di un professore dell’Università di California, J. Eliot Coit, fu pubblicato nel 1915 e assieme al precedente costituì per oltre un trentennio un caposaldo della letteratura statunitense sugli agrumi. Ma il trattato più completo è stato senza alcun dubbio The Citrus Industry, che vide la luce per iniziativa di Herbert John Webber e Leon Dexter Batchelor dell’Università di California. Edito in due volumi, il primo pubblicato nel 1943 (History, Botany and Breeding), il secondo nel 1948 (Production of the Crop), ha costituito per un ventennio un il testo di riferimento nella letteratura sugli agrumi. L’inevitabile obsolescenza di alcuni temi, l’affermazione di nuove conoscenze e tecnologie e la volontà di dare un impianto più organico e completo alla materia trattata portarono all’iniziativa editoriale di Walter Reuther di dar vita, con una sostanziale opera di revisione e ampliamento, ai cinque volumi dell’opera The Citrus Industry, di cui videro la luce nel 1967 e nel 1968 il primo e il secondo tomo, in concomitanza con il centenario dell’Università di California (1868-1968). Il primo volume tratta la storia, la distribuzione nel mondo, la botanica e le varietà, il secondo le caratteristiche morfofisiologiche, la nutrizione minerale, la riproduzione e gli aspetti genetici; seguirono il terzo volume, pubblicato nel 1973, che si occupa della propagazione e dei diversi interventi colturali, il quarto, dato alle stampe nel 1978, che affronta le malattie fungine, batteriche e virotiche e il loro controllo, il quinto, apparso nel 1989, che abbina alla biologia e al controllo degli insetti parassiti le alterazioni dei frutti nel post-raccolta e i problemi del reimpianto, per concludere con un saggio sulle origini della ricerca in agrumicoltura in California. In Italia, dopo il volume La coltivazione degli agrumi, dato alle stampe nel 1899 da Emanuele Arnao, allievo di Ferdinando Alfonso, è da ricordare L’agrumicoltura siciliana che Domenico Casella pubblicò nel 1935, offrendo un quadro abbastanza analitico delle caratteristiche della coltura nell’isola. Si deve poi giungere al 1980, anno in cui, nell’ambito di una fortunata collana diretta da Enrico Baldini e Franco Scaramuzzi, venne pubblicato il volume Gli agrumi, che sintetizza in 333 pagine i principali temi della loro coltura. Successivamente, nel 1985, è stato dato alle stampe il Trattato di agrumicoltura, coordinato da Paolo Spina ed Enrico Di Martino, che ha impresso un ampio respiro alla trattazione della materia, organizzata in due volumi: il primo dedicato alla coltura e il secondo alla difesa. Le sempre frequenti necessità di aggiornamento hanno condotto nel 2009 all’edizione di Citrus. Trattato di agrumicoltura, grazie al coordinamento di Vincenzo Vacante e Francesco Calabrese e all’apporto di altri trentadue studiosi dei diversi argomenti.
Frontespizio del primo volume di The Citrus Industry (1967)
Copertina del primo volume del Trattato di agrumicoltura
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gli agrumi Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Arte Margherita Zalum Cardon
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - DreamsTime: p. 145 (in basso). Fotolia: pp. 96 97 - 98 - 99 - 100 - 101 - 102 - 103 - 104 - 105 - 106 - 107 - 110 - 116 (in basso, a sinistra) - 126 - 127 - 310 (in alto) - 316 (in basso) - 318 - 320 - 330 - 452 - 453 - 465 (in alto) 466 - 524 (in alto) - 548 - 549 - 551 - 554 - 555 558 - 559 - 561. IstockPhoto: pp. 144 (in alto) - 145 (in alto).
storia e arte Arte Nella loro millenaria storia, gli agrumi hanno spesso accompagnato eventi importanti nelle vicende dei popoli di tutto il mondo: migrazioni, conquiste, nascita e sviluppo di nuove civiltà. Queste piante, diffuse sin dalle epoche più remote nel continente euroasiatico e più tardi anche in quello americano, hanno sempre ricevuto una particolare attenzione in tutte le culture evolute e raffinate che si sono succedute dall’antica Cina all’estremità occidentale dell’Europa e oltre; la ricchezza delle specie e delle varietà, il fogliame sempreverde, il gradevole profumo, le proprietà organolettiche, i colori brillanti e insomma tutto l’insieme delle loro straordinarie qualità hanno fatto sì che fossero sempre conferiti loro particolari significati simbolici, religiosi, civili e filosofici. In questo rapido excursus ci limiteremo, per ovvie ragioni di brevità, all’area del bacino del Mediterraneo, in cui già così ricco è il patrimonio figurativo relativo agli agrumi, seguendo però un doppio binario, che da una parte cercherà di rintracciare la presenza delle piante all’interno di rappresentazioni figurative e coglierne ove possibile le implicazioni culturali, dall’altra ne seguirà l’esistenza all’interno del giardino, per mettere in evidenza non tanto il progresso delle tecniche colturali, quanto soprattutto la funzione decorativa e simbolica. Com’è facile comprendere, i vari aspetti si intrecciano e si sostengono a vicenda, perché laddove la coltivazione raggiungeva ragguardevoli livelli tecnici era più facile l’uso ornamentale delle piante e la loro valorizzazione in altri ambiti della produzione artistica, e viceversa. Sin dagli albori della civiltà occidentale, gli agrumi sono presenti nei giardini e nelle opere d’arte: sembra infatti di poterne riconoscere una pianta tra le innumerevoli raffigurazioni che costituiscono il cosiddetto “giardino botanico” del faraone Tutmosi III. Si tratta di una serie di bassorilievi che ornano le pareti di una saletta laterale dell’Akh-Menu, tempio giubilare eretto intorno alla metà del XV secolo a.C. all’interno del più vasto complesso del tempio di Amon, a Karnak, e che illustrano una stupefacente varietà di vegetali e animali, trovati dal faraone nel corso delle sue moltissime campagne militari. I soggetti delle rappresentazioni possono essere quasi sempre identificati e compongono un insieme davvero strabiliante per rarità e stranezza: essi sono infatti destinati a suscitare l’ammirazione e lo stupore degli Egizi per la sconfinata potenza creatrice del dio Amon. Benché non attestata da fonti certe, è assai probabile la presenza degli agrumi nei mitici giardini pensili di Babilonia; certamente la pianta di cedro è conosciuta e coltivata nella Media già durante il VII secolo a.C., proveniente dall’India, ove a sua volta è arrivata dalla Cina. Anche i Greci conoscono questo agrume e ne hanno lasciato la prima documentazione scritta nel mondo occidentale: nella Storia delle piante di Teofrasto, databile al IV secolo a.C., ne
Copertina della Storia delle piante di Teofrasto
Vaso attico raffigurante il Giardino delle Esperidi (particolare), IV secolo a.C., Museo Archeologico Nazionale, Napoli (© 2012. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze)
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arte è presente la prima descrizione, con l’indicazione degli usi per i quali può essere impiegata. La civiltà greca ci ha lasciato anche uno dei miti più significativi, e più frequentemente rappresentati nell’arte occidentale, sugli agrumi, quello del giardino delle Esperidi. Anche i Romani conoscono e coltivano il cedro, descritto da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia (I secolo d.C.), ma prima di lui citato anche da Virgilio nelle Georgiche e da altri autori meno noti del II e del I secolo a.C. Benché la loro coltivazione sistematica si debba far risalire a epoca più tarda, probabilmente i Romani conoscono anche il limone e forse la lima e l’arancia amara: ne esistono rappresentazioni in varie opere pittoriche di epoca imperiale e tardo imperiale, da alcuni affreschi provenienti dalla “Casa del frutteto” di Pompei (I secolo a.C.) ai mosaici di una villa romana nei pressi di Cartagine (II secolo d.C), fino a quelli della Villa del Casale presso Piazza Armerina in Sicilia (IV secolo d.C.). I più belli e suggestivi sono però gli affreschi staccati dalla Villa di Livia a Prima Porta e oggi conservati al Museo Nazionale Romano (I secolo a.C.). Si tratta di un’opera unica anche perché ci è pervenuta praticamente integra: la decorazione parietale di una sala ipogea, forse destinata al soggiorno e all’intrattenimento durante la stagione estiva, le cui pareti sono interamente ricoperte dalla rappresentazione illusionistica di un lussureggiante giardino,
Affresco raffigurante un giardino, dalla Villa di Livia a Primaporta, Roma, I secolo a.C., Museo Nazionale Romano (Palazzo Massimo alle Terme), Roma (© 2012. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze)
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storia e arte popolato da innumerevoli specie di uccelli. La rappresentazione è strutturata secondo un ben preciso schema compositivo, ma al tempo stesso la raffigurazione delle varie specie botaniche e avicole è resa in modo assolutamente fedele al dato naturale, attestando da una parte la perizia tecnica raggiunta dai pittori in questo periodo, dall’altra documentando in modo inequivocabile l’uso degli agrumi come piante ornamentali da giardino. Meno conosciuti, ma non meno interessanti, sono anche alcuni mosaici riferibili all’arte paleocristiana, che raffigurano arance e limoni e si trovano in alcune moschee di Istanbul. Queste opere risalgono all’epoca di costruzione delle moschee stesse, che erano in realtà state edificate al tempo dell’imperatore Costantino come chiese cristiane, ben prima della conquista araba del Medio Oriente. Ed è agli Arabi, a partire dal VII e fino all’XI secolo, che si deve l’enorme diffusione delle piante di limone e di arancio amaro in tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ma in particolare Nord Africa, Siria, Sicilia e Spagna: nei giardini che circondano le molte regge e i palazzi dei nuovi dominatori gli agrumi hanno invariabilmente un ruolo di rilievo, gettando le basi di una tradizione colturale che prosegue ininterrotta fino a oggi. È questo popolo, infatti, a sviluppare e mettere a punto le tecniche agronomiche e i complessi sistemi d’irrigazione necessari per migliorare la produzione delle piante e introdurle anche in zone aride, mai prima di allora coltivate, raggiungendo traguardi inimmaginabili: la Conca d’Oro di Palermo costituisce, per le grandi coltivazioni di arancio, una delle meraviglie dell’agricoltura araba di tutto il bacino del Mediterraneo. L’eccezionale eredità culturale e tecnico-pratica lasciata dagli Arabi è raccolta in Sicilia dai Normanni, a proposito dei quali ci preme qui ricordare solamente che a loro si deve un’innovazione
Gli Arabi e gli agrumi
• Gli stupefacenti progressi delle
tecniche colturali che si riscontrano durante il periodo della dominazione musulmana nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo sono sostenuti e al tempo stesso rispecchiati nei testi prodotti dagli scienziati arabi, spesso ben più progrediti dei coevi occidentali e capaci di sintetizzare il sapere della propria tradizione con quello discendente dal mondo greco e romano. Le piante di limone e di arancio amaro, destinate a una diffusione capillare nei giardini europei, sono descritte per la prima volta nel Libro di agricoltura nabatea, databile al 904 d.C., uno dei più antichi trattati agronomici prodotti da questo popolo
Reales Alcazares, Siviglia, Andalusia, (© 2012. Mark E. Smith /SCALA, Firenze)
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arte linguistica assai significativa per la civiltà occidentale. È proprio in Sicilia, nel corso dei primi due secoli dopo il 1000, che si comincia a usare il termine jardinum per designare gli agrumeti in quanto piantati a scopo ornamentale e non utilitaristico. Questo specifico uso di fatto sancisce l’inizio del declino della definizione di giardino nell’accezione etimologica di hortus conclusus, le cui piante sono destinate prevalentemente all’uso domestico e farmaceutico, e favorisce invece l’affermarsi del significato moderno di spazio verde destinato ad attività ricreative e di piacere, che sarà enormemente sviluppato in epoca tardo medievale in relazione alla nascita e alla diffusione della cultura cortese. Durante gli ultimi secoli del Medioevo, sia le spedizioni dei crociati, sia l’affermarsi delle Repubbliche marinare e il conseguente intensificarsi dei rapporti commerciali con il Vicino Oriente fanno sì che le piante di agrumi si diffondano ampiamente in tutto il bacino del Mediterraneo, lungo le coste italiane, francesi e via dicendo: cedri, aranci amari, limoni, lime sono piantati in abbondanza nei giardini di tutte le tipologie. Se ne consolida inoltre l’uso in ambito profumiero con la produzione degli oli essenziali, se ne sperimentano e confermano le proprietà medicamentose e se ne consacra l’uso in cucina. È però soprattutto in ambito medico e farmacologico che gli agrumi vedono il fiorire di un particolare interesse tra l’XI e il XIV secolo: nel Meridione. Prospera in questo periodo la celebre Scuola Medica Salernitana, che ben presto acquisisce straordinario prestigio in tutta l’Europa ed è considerata da alcuni la prima istituzione di tipo universitario del continente. Tra le sue caratteristiche d’eccezione vi è il fatto che anche le donne sono ammesse allo studio della teoria e della pratica medica, e infatti la celebre Trotula de Ruggiero, figura a metà tra storia e leggenda, nel suo trattato De passionibus mulierum ante in et post partum, scritto nell’XI secolo, decanta le virtù medicamentose di foglie, fiori e semi di cedro. A Salerno sorge poi quello che può essere considerato il primo orto botanico del mondo occidentale, a opera di Matteo Silvatico, insigne medico della Scuola tra XIII e XIV secolo. Egli si distingue come profondo conoscitore di piante per la produzione di medicamenti: nel suo giardino dei semplici, il Giardino della Minerva, è coltivata e classificata una grande quantità di erbe e piante, di cui Silvatico studia le proprietà terapeutiche. Alla sfera medica risale anche l’origine dei Tacuina sanitatis, prontuari di pratica medica che rappresentano un’interessante sintesi del sapere occidentale con quello arabo. Essi infatti, pur basandosi sulla teoria di ascendenza galenica, contengono una serie di prescrizioni e rimedi basati sull’uso di piante e spezie, di cui sono spiegati gli effetti sul corpo umano, e sul mantenimento di sane abitudini di vita più che sulle pratiche tradizionali di matrice semimagica. Gli esemplari artisticamente più rilevanti sono quelli prodotti tra XIV e XV secolo nelle botteghe dell’Italia settentrionale; so-
Liber de coquina
• L’uso del limone in cucina è attestato
già dal più antico ricettario di area italiana, il Liber de coquina. Si tratta di un’opera, oggi conservata in due copie alla Bibliothèque Nationale di Parigi, compilata verso la fine del XIII secolo alla corte angioina, nel periodo della sua massima fioritura artistica, letteraria e culturale. Anche questo testo rispecchia il clima fastoso e cosmopolita della corte, riportando influssi e ricette arabe, francesi, spagnole, tedesche e di varie regioni italiane
Pagina di un antico manoscritto arabo dove è illustrato un albero di limone. Lemon tree, Or. 3714 Vol. 4 f. 406, British Library, Londra (© 2012. British Library board/Robana/ Scala, Firenze)
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storia e arte no strutturati in modo da presentare in ogni pagina un breve testo prescrittivo corredato da una dettagliata immagine esplicativa. Negli ultimi secoli del Medioevo il giardino in tutte le sue valenze assume un rilievo di primissimo piano all’interno del sistema culturale: sia nell’ambito religioso sia in quello profano sono moltissimi i giardini realizzati, e ancora di più sono quelli immaginati nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, nei testi religiosi. Dobbiamo pensare quasi tutte le città medievali, perlomeno in Italia, punteggiate da giardini grandi e piccoli, impiantati all’interno dei cortili e addirittura sulle terrazze delle austere case torri e dei più moderni palazzi che si vanno via via costruendo con l’affermazione sociale del nuovo ceto mercantile. Significativo e oggi ben documentato è il caso del giardino pensile di Palazzo Agostini a Pisa, nel quale la presenza degli agrumi è addirittura ricordata, ancora alla fine del Quattrocento, quale elemento di particolare pregio estetico e valore economico, negli atti notarili di compravendita dell’immobile. La cultura cortese dà un enorme impulso all’uso delle piante ornamentali: non basterebbero volumi per illustrare l’importanza simbolica del giardino all’interno di questo complesso e raffinatissimo codice culturale. Per mantenere una localizzazione geografica coerente, basti qui ricordare, tra gli esempi salienti del ruolo attribuito agli agrumi in questo periodo, la descrizione del “tipico” giardino di piacere presente nel grande affresco del Trionfo della Morte del Camposanto pisano (affresco attribuito a Buonamico Buffalmacco, 1336-1341): nell’angolo in basso a destra è infatti rappresentata un’“allegra brigata” di giovani, ignari di quello che li aspetta al passaggio della morte, che si dedicano ai “colti ra-
Raccolta dei limoni, tratta dal Tacuinum sanitatis, ca. 1390-1400, Bibliothèque Nationale, Parigi (© Archives Charmet / The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
Bartolo di Fredi (1330-1410), Dio indica il frutto proibito (particolare), Collegiata, San Gimignano (© 2012. Foto Scala, Firenze)
Maestro del Trionfo della Morte (sec. XIV), Trionfo della Morte (particolare del giardino dell’amore), Camposanto, Pisa (© 2012. Foto Scala, Firenze)
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arte gionari” e ai piaceri della musica e del buon vivere in un giardino interamente circondato di piante di arancio. Il ruolo degli agrumi è altrettanto importante anche nella sfera religiosa: data la loro prerogativa di fiorire a ciclo continuo durante tutto l’arco dell’anno e di avere contemporaneamente sulla pianta fiori e frutti, essi sono assunti a simbolo del Paradiso Terrestre, sia quello perduto delle origini, sia quello da riconquistare attraverso il cammino di fede e di vita. Questo ne spiega la frequentissima presenza nei chiostri monastici e conventuali, luoghi privilegiati nei quali appunto è rievocato e addirittura idealmente ricostituito il luogo originario in cui l’armonia tra l’uomo e Dio non è stata ancora spezzata; la medesima simbologia era sottesa anche alle rappresentazioni degli agrumi nelle immagini religiose raffiguranti il Paradiso che possono essere rintracciate in tutta l’area europea. La stessa simbologia, del resto, è ancora presente alla fine del Quattrocento, seppur traslata su un piano mitologico, nella famosa Primavera di Sandro Botticelli (Uffizi, Firenze, 1482 ca.; si veda la foto a pag. 194) anche qui lo sfondo del quadro è interamente occupato da piante di arancio. Molti altri artisti del Quattrocento italiano usano gli agrumi quale elemento simbolico e decorativo all’interno di opere di pittura e scultura a destinazione sacra o profana, come la celebre Pala d’altare di Santa Lucia de’ Magnoli di Domenico Veneziano (Uffizi, Firenze, 1445). In questo periodo, gli agrumi si trovano spesso associati alla figura della Vergine Maria, non solo per il dolce profumo e la forma perfetta dei fiori e dei frutti, ma soprattutto in virtù del significato salvifico loro attribuito: secondo una credenza che
Domenico Veneziano (1410 ca.-1461), Pala di Santa Lucia dei Magnoli, Galleria degli Uffizi, Firenze (© 2012. Foto Scala,Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali)
Andrea Mantegna (1431-1506), Trionfo della Virtù, Louvre, Parigi, (© 2012. Foto Scala, Firenze)
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storia e arte risaliva addirittura a Plinio, i cedri e i limoni erano infatti considerati potenti antidoti contro i veleni, e dunque associati idealmente all’azione redentrice di Cristo e all’intercessione della Madonna. Tra Quattro e Cinquecento le piante di agrumi si diffondono ancora di più, soprattutto nei giardini dell’Europa meridionale, ma rimangono pur sempre un oggetto di lusso: lo saranno fino all’Ottocento. La loro connotazione di bene prezioso, oltre che la loro ricchezza simbolica ed evocativa, li rende una presenza frequente in giardini di prestigio: da quello quattrocentesco dell’arcivescovo di Pisa (nell’antica Repubblica marinara la presenza degli agrumi come si è visto data ormai da secoli) al ben più famoso ed esclusivo Giardino del Belvedere a Roma, progettato da Bramante nei primi anni del Cinquecento per il papa Giulio II. Il giardino e il complesso di edifici che lo circondano sono una delle imprese architettoniche di maggior respiro del primo Rinascimento, punto di snodo fondamentale della storia dell’architettura in età moderna: la loro realizzazione è collegata con la demolizione della vecchia basilica di san Pietro in Vaticano e l’inizio dei lavori per la nuova. Insieme al nuovo Palazzo Pontificio, l’architetto progetta anche un complesso sistema di giardini, il cui fulcro è un luogo straordinario, sintesi inedita e ineguagliata di natura e cultura, antico e moderno, classicità e innovazione, appunto il Giardino del Belvedere. Esso è completamente circondato da piante di agrumi ed è destinato all’esposizione delle numerose sculture di epoca antica rinvenute negli scavi effettuati in varie zone di Roma e acquistate dai pontefici; tra queste ricorderemo il celeberrimo Apollo detto appunto del Belvedere e il gruppo del Laocoonte (Musei Vaticani, Città del Vaticano). Forse per emulazione di questo esempio illustre, nel corso del Cinquecento si sviluppa enormemente l’arte dei giardini, assunti a simbolo di prestigio sociale, di raffinatezza culturale e di benessere economico. I giardini sono spesso progettati per veicolare ben precisi significati allegorici e celebrativi e sono arricchiti da sculture pregiate, sia antiche sia moderne; sempre più spesso, nel corso del secolo, essi diventano anche il luogo in cui esporre all’ammirazione dei visitatori rarità botaniche e vere e proprie collezioni di esemplari vegetali pregiati. In questo contesto, gli agrumi acquistano un particolare valore sia per le loro straordinarie qualità ornamentali, sia per l’interesse suscitato dall’apparentemente inesauribile variabilità delle forme e dei colori di foglie e frutti, esito di ibridazioni casuali o di incroci sperimentali. Tra i primi grandi collezionisti di questo genere di piante c’è Cosimo de’ Medici, primo granduca di Toscana: in ognuna delle ville che la famiglia possiede a Firenze e nei dintorni egli fa impiantare collezioni di agrumi, la più ricca delle quali è quella del giardino della Villa di Castello. All’interno dei giardini medicei è introdotto un importante cambiamento nelle modalità di coltivazione delle piante, non più solo coltivate in piena terra e lasciate crescere ad arbusto nei luoghi in cui il clima lo permetteva o disposte a spalliera lungo
Giovanni Della Robbia (1469-1529), Natività, Bargello, Firenze (© 2012. Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali)
Facciata della Villa Medicea di Castello, Firenze (© The Bridgeman Art Library/ Archivi Alinari)
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arte mura assolate, ma sistemate all’interno di grandi vasi di terracotta, collocabili in punti significativi del giardino e poi trasportabili in luoghi riparati durante la stagione fredda; questa modalità di coltivazione enfatizza al massimo grado le qualità decorative delle piante e sarà adottata da allora in poi in tutti i giardini europei e non solo. Le collezioni medicee di piante esotiche e rare sono celebri in tutta l’Europa e manterranno il loro prestigio anche durante tutto il Seicento: tutti i granduchi mettono particolare cura e sollecitudine nel mantenere vivo questo filone del collezionismo di famiglia, considerato altrettanto meritevole di investimento degli altri, più “tradizionali” e oggi più conosciuti. Nel XVI e XVII secolo il mondo naturale, e in particolare il possesso di tutto ciò che è esotico e raro, diventa il simbolo di un intero universo culturale e delle sue molteplici problematiche: la ricerca di un rinnovato rapporto tra l’uomo e l’universo che lo circonda, quale oggetto di indagine scientifica, di sperimentazione di nuove tecniche e di speculazione filosofica; la necessità di riappropriarsi, almeno concettualmente, di uno spazio geografico che ha assunto contorni assai diversi da quelli sino ad allora ritenuti validi; raffinatezza culturale, ampie disponibilità economiche, prestigio sociale; nuovo strumento di mediazione nel rapporto con il divino, attraverso la contemplazione dell’infinita potenza creatrice di Dio, e di espressione di una complessa simbologia mistico-ascetica. Il collezionismo botanico non è però appannaggio esclusivo dei principi regnanti: molti esponenti di ricche famiglie, dell’alta borghesia e perfino professionisti benestanti vi si dedicano, proprio in virtù del prestigio che esso conferisce. Particolarmente ricercate sono le forme teratologiche e quelle caratterizzate da mutazioni di varia entità, spesso frutto di incroci casuali, ma spesso anche prodotte ad arte attraverso la pratica dell’ibridazione. Gli esperimenti che oggi immaginiamo condotti dai giardinieri del tempo da un lato parlano della febbrile ricerca di esemplari rari e curiosi, capaci di suscitare meraviglia e stupore, così tipica dell’epoca barocca; dall’altro lato rimandano all’attività condotta dagli scienziati e al loro sforzo di giungere a una soddisfacente catalogazione del mondo naturale, invitando a considerare come appunto la scienza sia stata in questo periodo intensamente sperimentale. All’interesse per il mondo naturale corrisponde, tra Cinque e Seicento, lo sviluppo di un particolare filone della produzione figurativa, quello della natura morta, in cui gli agrumi, in quanto beni preziosi, svolgono un ruolo preminente. Bellissime immagini si possono trovare tra i molti studi realizzati dai numerosi artisti che in quest’epoca lavorano fianco a fianco con gli scienziati, per realizzare l’“archivio visivo” più completo possibile di tutta la realtà, includendo tanto le specie autoctone quanto quelle di provenienza esotica, spesso facilmente deperibili. La peculiarità di queste immagini è l’assoluta aderenza al dato naturale, ottenuta grazie a procedimenti tecnici particolari messi a punto appositamente da ciascun artista. L’estre-
Coltivazione degli agrumi
• Un membro dell’illustre Accademia
dei Georgofili, Niccoli, in uno scritto del 1767 confronta “l’utilità che dalla coltivazione degli agrumi ricavano i popoli della Riviera di Genova e del Principato di Monaco”, con i più tradizionali sistemi di coltivazione impiegati in Toscana e soprattutto nella sua città natale, Pisa. In Liguria è stato abbandonato l’uso dei vasi e dunque anche delle limonaie, che rendono la coltivazione troppo dispendiosa, ma ciò non impedisce una produzione abbondante e di qualità, esportata poi massicciamente verso il Nord Europa. Al contrario, a Pisa, dove pure “il terreno è fertilissimo e con poca arte prosperano fino le delicate piante del limoncello”, le piantagioni sono insufficienti per una produzione su scala commerciale; inoltre, esse sono troppo condizionate da criteri “estetici” di coltivazione: persistono infatti la tradizione di potare le piante in forme architettoniche, la coltivazione a spalliera o a pergolato e quella all’interno di grandi conche di terracotta
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storia e arte ma raffinatezza della tecnica, che spesso raggiunge in queste immagini vette virtuosistiche incomparabili, non va mai a scapito del valore estetico, facendo di questi fogli degli autentici capolavori. Accanto a questa produzione forse meno conosciuta si collocano le nature morte vere e proprie, che invece riscuotono oggi l’interesse di un pubblico molto vasto. Tra i primi artisti a praticare questo genere figurativo, nel quale ogni intento narrativo esplicito è abbandonato e tutta l’attenzione si concentra sugli oggetti della realtà quotidiana, c’è Giuseppe Arcimboldo, che si diverte ad assemblare in modo assai fantasioso frutta e verdura, conferendo alle sue creazioni una parvenza umana (Inverno, Louvre, Parigi, 1563). Anche se a prima vista queste rappresentazioni possono sembrare al più curiose e divertenti, una dimensione concettuale è imprescindibile per qualsiasi opera d’arte che voglia definirsi tale in quest’epoca: esse hanno spesso un significato allegorico nascosto, a volte difficilmente decifrabile dagli studiosi moderni. Ma c’è un ulteriore livello di lettura: certo non si può negare che uno degli stimoli maggiori nella realizzazione di queste tele sia l’interesse per il dato materico, per la capacità dell’artista di riprodurre in modo fedele, quasi mimetico le diverse consistenze delle superfici. Ecco allora che l’attenzione si sposta verso la tecnica stessa del pittore e la sua abilità illusionistica, sottolineando l’aspetto intellettualistico di questi quadri, al di là della pura sollecitazione sensoriale. Ovviamente, non in tutti i contesti storico-geografici in cui si sviluppa la natura morta assume gli stessi contorni: essa ha infatti una vasta diffusione in tutta l’Europa e assume in ogni Paese e in ogni periodo funzioni e caratteristiche diverse. Così, se spesso i quadri dei pittori fiamminghi mirano a esaltare le qualità materiche degli oggetti rappresentati (in genere si tratta di tavole riccamente imbandite, coperte da preziosi tappeti orientali e con sopra frutta e fiori rari, suppellettili d’argento, vasi in porcellana di provenienza cinese) e indirettamente l’opulenza della ricca borghesia mercantile, nella Spagna di Zurbaran prevale invece un atteggiamento più intimista, più riflessivo, più incline a una contemplazione silenziosa della realtà. Le opere del pittore (Natura morta, Norton Simon Museum, Pasadena, 1633) sono quasi sempre contraddistinte dall’uso di colori decisi e brillanti e da un accentuato utilizzo della tecnica del chiaroscuro; la disposizione degli oggetti è sempre molto rigorosa e apparentemente semplificata, per esaltare l’ordine e la solennità di ogni composizione. Non si può fare a meno di essere indotti a una meditazione sul mistero della vita e della natura. Il particolare status delle scienze naturali nel XVII secolo, a metà tra rigore accademico ed esibizione mondana, è esemplificato al meglio da una pubblicazione magnifica, stampata a Roma nel 1646: Hesperides, sive de malorum aureorum cultura et usu libri quatuor di Giovanni Battista Ferrari. Il volume è arricchito da un eccezionale apparato illustrativo: centoventidue tavole, disegnate e incise dagli artisti più famosi
J. Le Moyne de Morgues (c.1530-1588), Citrus limonum e Citrus aurantium, Victoria & Albert Museum, Londra (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
Giuseppe Arcimboldo (1527-1593), Inverno, Louvre, Parigi (© 2012. Foto Scala, Firenze)
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arte del tempo, tra cui Poussin, Pietro da Cortona, Francesco Albani, Domenichino e Guido Reni; settantanove tavole descrivono con meticolosa precisione e a grandezza naturale alcune delle varietà di agrumi coltivate nei giardini del tempo, le rimanenti illustrano episodi mitologici collegati agli agrumi, strumenti di giardinaggio e vari esempi di limonaie e altre strutture protettive in uso nei giardini più prestigiosi dell’epoca. Il vertice qualitativo della presenza degli agrumi nell’arte sono forse le opere di Bartolomeo Bimbi, pittore specializzato in soggetti naturalistici attivo tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento. In quattro enormi tele (Museo della Natura Morta, Poggio a Caiano), egli raffigura e al tempo stesso cataloga centododici varietà di agrumi, ricomposti in magnifiche quanto inverosimili spalliere, sulle quali crescono insieme limoni, lumie, cedri, arance amare e dolci, l’arancia rossa, il chinotto e anche il bergamotto, appena introdotto in Toscana. Un ruolo particolare hanno poi le forme mostruose e bizzarre, tra cui la “Bizzarria”, i limoni digitati, gli esemplari “fetiferi” (come l’odierna diffusissima arancia Navel), e quelli distorti, tutti analiticamente documentati dal pittore; egli, in queste come in tutte le sue altre opere, si mostra capace di un’efficacissima sintesi tra accuratezza descrittiva e qualità pittorica. I quadri sono dipinti per volere di Cosimo III de’ Medici, degno erede della passione collezionistica di famiglia, che in età giovanile aveva dimostrato una particolare inclinazione per gli studi naturalistici e che lungo tutto l’arco della vita pone speciale cura nell’ampliare le sue collezioni di piante e animali rari.
Francisco Zurbarán (1598-1664), Natura morta, Norton Simon Museum of Art, Pasadena (© 2012. Foto Scala, Firenze)
Alberi di limone in serra, da Hesperides di Giovanni Battista Ferrari, incisione di Cammillo Congio pubblicata nel 1646 (© The Stapleton Collection/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
Bartolomeo Bimbi (1648-1725), Cedri, limoni e arance, Galleria Palatina, Firenze (©2012. Foto Scala,Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali)
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storia e arte A partire dalla metà del Seicento inizia la diffusione su larga scala degli agrumi, che porterà al loro impianto nei giardini di tutta l’Europa, anche a latitudini e in climi in cui sino ad allora non era stato possibile garantire la sopravvivenza delle piante. Questo fatto, che è il portato della divulgazione delle più aggiornate tecniche colturali grazie anche a opere come quella di Ferrari, è accompagnato dalla costruzione, nelle più importanti regge europee, di enormi limonaie, o meglio orangerie. Tra le prime e più monumentali, quella del castello di Versailles, destinata a ospitare le centinaia di piante di Luigi XIV, esibite in quanto esotiche e destinate a esprimere il dominio del sovrano non solo sui sudditi ma perfino sulla natura stessa: l’effetto è ottenuto grazie alla disposizione artificiosa all’interno del giardino, che rispetta rigidi schemi geometrici, e alle potature estreme attuate dai giardinieri reali, che conferiscono alle piante una forma totalmente innaturale. Nel caso del Re Sole le arance hanno una pregnanza simbolica del tutto particolare, dato il loro colore solare, che non trova riscontro nei giardini di altri sovrani, ma il venir meno di questo riferimento non dissuade nessuno dall’impiantare cospicue collezioni di agrumi e di conseguenza dal far costruire le orangerie destinate a ricoverarle: si pensi ai castelli di Schönbrunn a Vienna, di Sans-Souci, Düsseldorf e più tardi di Postdam in Germania, oltre a vari esempi in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi. In Italia, in quest’epoca si consolida il prestigio della coltivazione nelle serre del Garda, che riforniscono le tavole delle grandi famiglie milanesi e veneziane, e sulla Riviera ligure, dove i frutti sono destinati alla produzione di canditi, ricco sottoprodotto della raffinazione dello zucchero, di cui Genova è tra i primi importatori.
Bizzarria
• A Firenze, merita di essere ricordata
la collezione di agrumi della famiglia Panciatichi, situata nella villa chiamata Torre degli Agli, oggi non più esistente. Qui per la prima volta si osserva nel 1644 la famosa “Bizzarria”, oggetto di un’interessante pubblicazione del 1674 di Pietro Nati, direttore dell’Orto Botanico di Pisa, che ne descrive le caratteristiche. Questo singolare agrume sembrava purtroppo perduto fino alla fine degli anni ’70, quando il curatore della collezione medicea di agrumi, Paolo Galeotti, ne ha ritrovato un esemplare; esso quindi può essere di nuovo ammirato tra le piante del giardino della Villa di Castello
Jean Baptiste Martin (1659-1735): Vue de l’Orangerie, des escaliers des Cent-Marches et du château de Versailles vers 1695, Musée du Château, Versailles (© 2012. White Images/Scala, Firenze)
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arte Curiosamente, la presenza degli agrumi nelle opere d’arte sembra invece diminuire sempre più, forse proprio perché i frutti diventano gradualmente più accessibili e perdono il loro status di beni “esotici”. L’unico ambito in cui sopravvive una tradizione di immagini di qualità è quello dell’illustrazione botanica: direttamente discendente dalle magnifiche tavole delle Hesperides di Ferrari, attraverso le successive edizioni tedesche e olandesi del trattato, sembra essere sopravvissuto un filone di documentazione figurativa degli agrumi che raggiunge i suoi vertici nelle tavole di Pierre-Joseph Redouté e poi delle edizioni dell’Histoire naturelle des orangers di Risso e Poiteau (1818 e soprattutto quella a cura dell’Abbé du Breuil del 1872). Redouté mostra una straordinaria capacità di documentare con scrupolosa precisione scientifica l’aspetto e il portamento delle piante, secondo le più aggiornate conquiste della scienza, ma anche di innalzare il soggetto botanico a veicolo di autentica espressione artistica, nella ricerca costante di un’eleganza fatta di rigore e compostezza. Le sue immagini, sempre caratterizzate da una raffinata impaginazione, riescono a trovare il giusto equilibrio tra attenta descrizione del dato vegetale e capacità di sintesi formale: esse sono uno dei vertici della pittura naturalistica di tutti i tempi. L’apparente oblio in cui gli agrumi cadono nel corso del XVIII secolo si riscatta infine nella seconda metà dell’Ottocento, nelle opere dei pittori impressionisti e dei loro successori. Manet, per esempio, non solo inserisce spesso e volentieri nelle sue opere dei veri e propri brani di natura morta in cui gli agrumi hanno un ruolo preminente (si pensi al celebre dipinto che raffigura Un bar alle Folies Bergère), ma dedica a un limone un vero e proprio ritratto (Musée d’Orsay, Parigi, 1880). L’opera, nonostante il piccoa)
L’orangerie
• Fu Carlo VIII a far costruire la prima
orangerie di Francia, nei giardini del Castello di Amboise, al rientro dalla sua famosa spedizione italiana del 1494-95. Anche Enrico IV volle far realizzare un’orangerie nei giardini del Palazzo del Louvre a Parigi a inizio Seicento. Nulla però a che vedere con l’enorme orangerie dei giardini di Versailles, progettata per soddisfare la spiccata preferenza di Luigi XIV per le arance: il Re Sole ambiva a poter disporre di arance e limoni tutto l’anno, in modo da dare l’impressione che la frutta più costosa fosse sempre sulla tavola del più ricco tra i sovrani europei. Fu durante il suo regno che si diffuse la moda dell’arancio in Francia non solo nei giardini, ma anche come motivo in sculture, mosaici, dipinti, poemi e canzoni, nonché dell’uso dei fiori d’arancio come fiore tipico delle cerimonie nuziali
b)
a) M arco del Carro, Erbario, XVII secolo, Delineature dei fiori di Villa Vendramin, 1627. Tavola: Vaso con piante di arance. Folio 83 recto. Biblioteca Civica Bertoliana, Vicenza (© 2012. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze) b) Pierre Joseph Redoute (1759-1840), Erbario, XIX secolo. Henry Louis Duhamel du Monceau (1700-1782), Traité des arbres et des arbustes, edizione del 1800. Tavola, Arancio amaro a frutto violetto (Citronier Bigaradier à fruit violet). Museo Civico di Storia Naturale, Milano (© 2012. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze)
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storia e arte lissimo formato, è un vero e proprio capolavoro in sé compiuto, in cui si ritrovano le caratteristiche della peculiare tecnica del pittore, che riesce a convogliare l’esatta impressione della consistenza della buccia e del vassoio su cui il limone poggia con una serie di pennellate apparentemente date in modo sommario. Inoltre, il pittore non rinuncia a conferire drammaticità al soggetto: da una parte spicca il contrasto tra la luminosità del frutto e lo sfondo quasi completamente omogeneo della tela (Manet, grande ammiratore della pittura spagnola, sembra qui memore delle opere di Zurbaran), dall’altra il vassoio sembra uscire dai confini materiali della tela, e questo spinge l’osservatore a immaginare ciò che è fuori di essa, impedendo alla rappresentazione di esaurirsi in una pura e semplice imitazione della realtà. Anche altri pittori di questo periodo raffigurano volentieri frutta di vario tipo, e gli agrumi vengono così di nuovo a trovarsi al centro del dibattito sull’elaborazione della teoria e della pratica pittorica. Particolarmente conosciute al grande pubblico sono le composizioni di Cézanne (Natura morta con mele e arance, Musée d’Orsay, Parigi, 1899), per il quale i soggetti naturalistici sono un ottimo pretesto per studiare i rapporti tra il colore e la forma, tema centrale di tutta la sua lunga opera; con gli impressionisti egli condivide l’uso di un colore libero, che prescinde dalla concettualizzazione sottesa al disegno, ma va poi oltre la pura ricerca di valori atmosferici e di luminosità. Il suo motto è “trovare i volumi”, cioè realizzare una tecnica pittorica che esprima appunto i volumi, le forme e perfino il disegno e i valori ad esso connessi esclusivamente attraverso la modulazione del colore. A Cézanne e alla sua lezione si rifanno tutti gli artisti attivi nel primo Novecento, tra cui Matisse, che approfondisce ulteriormente
Edouard Manet (1832-1883), Le citron, 1880. Musée d’Orsay, Parigi (© 2012. White Images/Scala, Firenze)
Paul Cézanne (1839-1906), Natura morta con mele e arance, Musée d’Orsay, Parigi (© 2012. Foto Scala, Firenze)
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arte il discorso sul colore (La tovaglia, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, 1908). Egli è uno dei principali esponenti del movimento pittorico francese del Fauvismo, che si sviluppa tra il 1898 e il 1908 dalla volontà di dare forma e incisività al colore puro e renderlo un valore evocativo ed espressivo autonomo. Il colore, usato appunto con funzione espressiva, domina ogni creazione: esso è acceso, vitale, mai impiegato da solo, ma sempre accostato alle tonalità complementari o contrastanti per accentuarne il valore e il peso, e abbandonando quasi completamente l’interesse per la resa volumetrica e tridimensionale della realtà. Il processo di appiattimento della superficie pittorica e apparente rinnegamento di buona parte della tradizione figurativa occidentale, basata appunto sulla prospettiva e sulla resa naturalistica dei soggetti, è portato a compimento da Picasso e dagli altri artisti che fanno parte del movimento cubista. Nel quadro Natura morta con limone e arance (Centre G. Pompidou, Parigi, 1936), che pure si colloca in una fase avanzata della carriera del pittore, si può osservare la scomposizione dei soggetti in forme geometriche elementari, la tavolozza smorzata e omogenea, la moltiplicazione dei punti di vista, la mancanza di distinzione tra sfondo, primo piano, oggetti principali e accessori che caratterizzano i capolavori di questo artista. Dai pomi aurei della mitologia greca alla scomposizione cubista della realtà, gli agrumi come si diceva all’inizio sono sempre al centro della cultura europea in tutte le sue sfaccettature: essi sono uno straordinario punto di incontro tra la fecondità della natura e l’operosità umana, trasformando con la loro sola presenza il paesaggio in giardino, evocazione e promessa del Paradiso Terrestre.
Pablo Picasso (1881-1973), Nature morte au citron et aux oranges, 1936, Musée National d’Art Moderne - Centre Pompidou, Parigi (© 2012. Foto Scala, Firenze)
Henri Matisse (1869-1954), La tovaglia (Armonia in rosso), 1908, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo. (© 2012. Foto Scala, Firenze)
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gli agrumi Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Musica Paolo Inglese
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storia e arte Musica Gli agrumi hanno una loro piccola storia “musicale”. Dalla lirica al pop, alla canzone napoletana è tutto un fiorire di zagara e una lirica sul paesaggio degli agrumi. Nella Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (1890), dopo il canto introduttivo di compare Turiddu, albeggia ed è il coro d’introduzione delle donne contadine a cantare, prima ancora di entrare in scena: Gli aranci olezzano / sui verdi margini, cantan le allodole / tra i mirti in fior; tempo è si mormori / da ognuno il tenero canto che i palpiti / raddoppia al cor. Così, con il profumo di aranci, gli autori del libretto, G. Menasci e G. Targioni-Tozzetti, introducono lo spettatore nell’atmosfera magica e misteriosa della campagna siciliana. Pochi anni dopo, sono ancora il “giardino” di aranci e il profumo della loro zagara a essere protagonisti di una delle più famose e più cantate canzoni italiane, vera regina della canzone napoletana; si tratta di Torna a Surriento (G. De Curtis ed E. De Curtis, 1904):
Gli agrumi nella musica popolare. Ninna nanna tradizionale inglese, 1744
Vide ’o mare quant’è bello! / Spira tantu sentimento. Comme tu a chi tiene mente / Ca scetato ’o faje sunnà. Guarda, gua’ chistu iardino; / Siente, sie’ sti sciure arance. Nu prufumo accussì fino / Dinto ’o core se ne va...
© WebPhotos
La zagara di agrumi, questa volta, assurge a simbolo della “terra dell’amore”. È poi il limone a diventare protagonista della musica d’autore italiana. Nel maggio del 1960 i “Due corsari”, all’anagrafe Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, antesignani del “rock demenziale” incidono, per la casa discografica Ricordi, il 45 giri Una fetta di limone, nel quale “una fetta di limone nel tè” è l’unico desiderio a fronte delle proposte di una “Signora”, della quale si rifiutano baci, amore, languidi sorrisi, palazzi, ricchezze e carezze Ma visto che tu insisti nel farmi le proposte, ti dirò, qualcosa c’è che desidero da te... Una fetta di limone, una fetta di limone, una fetta di limone, una fetta di limone nel tè. Un altro grande della canzone d’autore italiana celebra il limone, questa volta sotto forma di gelato. È Paolo Conte che nella sua Gelato al limon, dall’omonimo album pubblicato da RCA nel 1979, immagina, forse come unico sollievo di una triste e calda estate cittadina, di offrire in dono a una donna che sta entrando nella sua vita “con una valigia di perplessità”: 84
musica Un gelato al limon, gelato al limon, gelato al limon sprofondati in fondo a una città un gelato al limon è vero limon. Ti piace? Mentre un’altra estate se ne va… e ti offro l’intelligenza degli elettricisti così almeno un po’ di luce avrà la nostra stanza negli alberghi tristi dove la notte calda ci scioglierà. Come un gelato al limon, gelato al limon, gelato al limon.
Come vederli, dove sentirli
• La Cavalleria rusticana: Gli aranci
olezzano www.youtube.com/watch?v=ycfq6zdyyZk& feature=related
• Torna a Surriento
www.italiamerica.org/Torna_a_Surriento.htm
• Una fetta di limone - G. Gaber
ed E. Jannacci www.youtube.com/watch?v=3g_I2SjJoS0
• Gelato al limon - P. Conte
E infine, il limone è il protagonista di Lemon che, nel 1983, è parte di Zooropa, ottavo album degli U2:
www.youtube.com/watch?v=OW2Xwa9kyoE
• Lemon - U2
www.youtube.com/watch?v=3GAokN6XW7I
See through in the sunlight She wore lemon But never in the daylight… She wore lemon to colour in the cold grey light She had heaven and she held on so tight
• Verdi pascoli - F. De Andrè
www.youtube.com/watch?v=JXxPJg9-0YM
• Lucy in the Sky with Diamonds - Beatles http://www.youtube.com/ watch?v=3AVWJzHvhFE
Nel 1972, nell’album che porta il suo nome, è la volta di Fabrizio De Andrè. Nei Verdi pascoli viene descritto il paradiso secondo gli Indiani d’America, con molta libertà e divertimento. E il testo inizia proprio con degli strani agrumi:
• Lemon Tree - Fool’s Garden
www.youtube.com/watch?v=phEnpdDusss
Gli aranci sono grossi / i limoni sono rossi lassù, lassù nei verdi pascoli / ogni angelo è un bambino sporco e birichino / lassù, lassù nei verdi pascoli. C’è gloria anche per i mandarini, icona del mondo psichedelico dei Beatles che nel 1967 incidono forse il più straordinario e onirico dei loro album: Sgt Pepper’s and Lonely Hearts Club Band, all’interno del quale, Lucy in the Sky with Diamonds diviene immediatamente icona del nascente rock psichedelico, con testo e musica che rimandano alle atmosfere surreali e sognanti di L. Carrol: Picture yourself in a boat on a river with tangerine trees and marmalade skyes E, infine, è ancora il limone a essere rimedio di giorni tristi nella melodica Lemon Tree dei Fool’s Garden (1995): And all that I can see is just Another lemon tree 85
gli agrumi Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Cinema Marco Spagnoli
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - DreamsTime: p. 145 (in basso). Fotolia: pp. 96 97 - 98 - 99 - 100 - 101 - 102 - 103 - 104 - 105 - 106 - 107 - 110 - 116 (in basso, a sinistra) - 126 - 127 - 310 (in alto) - 316 (in basso) - 318 - 320 - 330 - 452 - 453 - 465 (in alto) 466 - 524 (in alto) - 548 - 549 - 551 - 554 - 555 558 - 559 - 561. IstockPhoto: pp. 144 (in alto) - 145 (in alto).
storia e arte Cinema “La California è un bel posto per vivere… se sei un’arancia.” Una delle battute più famose del celebre comico americano Fred Allen indica non solo la divertente ironia con cui gli artisti della East Coast prendevano bonariamente in giro i colleghi di Hollywood e dintorni, ma anche la vera e propria “magnifica ossessione” che il cinema statunitense e non solo dimostrano, da sempre, nei confronti degli agrumi. Pochissima altra frutta, infatti, ha avuto l’onore di essere citata così tanto spesso nei titoli dei film. Complice, certamente, la presenza di grandi quantità di agrumi nella cultura alimentare californiana che dedica il nome di una delle contee più famose proprio all’arancia citata da Allen stesso: Orange County ha visto addirittura un’intera serie di grande successo a lei dedicata con il titolo di O.C. che cattura l’immaginario degli adolescenti (e non solo) di tutto il mondo. Prima ancora, però, già nei tempi del cinema muto, le arance compaiono nei titoli di alcuni film che all’epoca riscossero grande attenzione al di là dell’Atlantico, ma anche qui a casa nostra. Nel 1917, infatti, Luigi Serventi con la supervisione di Lucio D’Ambra dirige il lungometraggio Le mogli e le arance. Sei anni dopo, negli USA, esce Oranges and Lemons che coinvolge due delle più grandi Star del cinema di tutti i tempi ovvero Stan Laurel & Oliver Hardy conosciuti da noi con l’affettuoso nomignolo di Stanlio & Ollio. La “comica”, ovvero il breve cortometraggio interpretato dai due attori, racconta del buffo scontro di due raccoglitori di arance prima con i loro datori di lavoro eppoi tra loro stessi. Un conflitto
La torta agli agrumi di Ozpetek
• In La finestra di fronte (2003) di Ferzan
Ozpetek, Giovanna Mezzogiorno prepara questa “Torta agli agrumi”: 275 g di farina - 200 g di zucchero 5 cucchiai di cacao amaro in polvere 3 uova - 2 arance bio - 2 limoni bio 65 g di burro - 2 cucchiaini di lievito Grattugiare la buccia degli agrumi senza incorporare la parte bianca, quindi spremere le arance e i limoni per ottenere il succo. Sbattere il burro ammorbito a temperatura ambiente con lo zucchero, aggiungere le uova una per volta, sempre sbattendo. Infine incorporare la farina, il lievito, il succo, la buccia grattugiata degli agrumi e il cacao, mescolare bene e versare l’impasto in una teglia del diametro di 21 cm. Infornare a 160 °C per un’ora o finché la torta non sia lievitata e rassodata. Sfornare e lasciare raffreddare. Servire con un filo di miele caldo
Arancia meccanica, 1971
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cinema esilarante che si risolve in una fuga e un inseguimento rocamboleschi proprio sul mezzo utilizzato per la raccolta degli agrumi. Un anno dopo, nel 1924, il grande regista King Vidor, autore in seguito di Duello al sole e Guerra e pace firma Wild Oranges tradotto in italiano con Arance selvatiche. Il film dal titolo più emblematico legato agli agrumi e, ancora una volta, alle arance è, però, stato realizzato da un regista americano trasferitosi sin dagli inizi della sua carriera in Gran Bretagna. Nel 1971 Stanley Kubrick portò sullo schermo uno dei suoi titoli più famosi, Arancia meccanica, un grande classico della storia del cinema a lungo bandito nel Regno Unito per la violenza ritratta nel film che prendeva spunto da quanto stava accadendo in Europa alla fine degli anni ’60. Secondo l’autore del romanzo Anthony Burgess, l’espressione A Clockwork Orange (questo il titolo originale del film tradotto fedelmente in italiano) era tipica dello slang cockney, ovvero il dialetto dal caratteristico accento che si parla a Londra: “sballato come un’arancia meccanica” oppure “come un’arancia a orologeria” è l’espressione idiomatica per indicare una persona che reagisce meccanicamente. In una lettera scritta all’epoca al Los Angeles Times, Burgess affermò che il titolo e il tema dell’opera prendevano spunto da un grave episodio in cui era stato coinvolto lui stesso, allora residente a Giava. La sua compagna fu pestata e violentata da un gruppo di soldati americani ubriachi. L’autore commentò come l’uomo (urang in giavanese, ossia orango) sia un animale azionato da meccanismi a orologeria. Da ciò l’associazione fonetica tra la bestia e il frutto (orange). È possibile, tuttavia, che Burgess avesse inventato la frase come gioco di parole. L’attore Malcolm McDowell, protagonista del film, nato a Manchester, vissuto a Liverpool e trasferitosi in seguito per lungo tempo a Londra, interpellato a tal proposito dice di non avere mai sentito questa espressione prima di avere letto il romanzo che gli era stato dato dallo stesso Kubrick. “Anthony Burgess aveva scritto un capolavoro, e Kubrick è stato estremamente intelligente ad acquisirne i diritti e geniale a capire come trasformare quel materiale in un film”, spiega McDowell. “All’inizio quando ho letto il libro non avevo alcuna idea su come lo si potesse far diventare un film. Era qualcosa che andava oltre le mie facoltà e che mi spaventava un po’. È stata una grande avventura: io ero convinto che stessimo girando una black comedy. Arancia meccanica ci obbligava a riflettere sulla violenza: il film proponeva uno spunto per pensare al rapporto tra l’azione del governo e la libertà dell’individuo. La forza del libro di Burgess era proprio nel fatto che l’eroe protagonista è decisamente difficile da accettare per le sue scelte. È un personaggio poco appetibile: immorale e stupratore. Il mio lavoro è stato quello di renderlo ‘guardabile’.” Quale che sia la corretta interpretazione del singolare titolo, è
Le polpette delle fate
• Parliamo di Le fate ignoranti (2001) di Ferzan Ozpetek, dove vengono preparate delle “Polpette speziate al profumo di arance” seguendo la ricetta descritta di seguito.
Per 20 polpette: 1 kg di carne macinata (metà di vitello, metà di pollo) - 3 uova - 2-3 fette di pane ammollato nel latte - 2 formaggini - 1 mela - 3 arance - 1 cipolla - vino o brandy per sfumare - peperoncino olio - parmigiano grattugiato Sminuzzare il pane e farlo ammollare nel latte; grattugiare la polpa della mela e spremere 2 arance per ottenere il succo. Amalgamare la carne macinata con le uova, il pane, i formaggini, il parmigiano, la polpa della mela e il succo d’arancia. Preparare delle polpette di grandezza media. Tritare la cipolla e farla rosolare nell’olio in un’ampia padella, quindi unire le polpette e cuocerle. Una volta cotte, prelevarle dalla padella e adagiarle su carta assorbente. Aggiungere al fondo di cottura il succo della terza arancia, sfumare con un poco di vino o di brandy e fare rapprendere la salsa, che dovrà essere versata sulle polpette al momento di servirle
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storia e arte certo che nel romanzo – a differenza che nel film – viene espressamente precisato più volte come A Clockwork Orange fosse il titolo del testo a cui stava lavorando lo scrittore vittima della visita a sorpresa che costituirà uno degli episodi salienti del ciclo “eroico” del protagonista Alex. Fortunatamente l’avventura cinematografica degli agrumi non è stata sempre così drammatica: Oranges Are not the Only Fruit (Non ci sono solo le arance) diretto dalla futura regista di Bridget Jones, Beeban Kidron, è tratto dal romanzo omonimo di Jeanette Winterson e racconta l’educazione sentimentale di Jess (Charlotte Coleman), figlia adottiva di una fanatica cattolica (Geraldine McEwan), che vive rigidamente secondo i precetti biblici. Diventata adolescente, Jess incontra Melanie, la cui amicizia si trasforma presto in un’appassionata storia d’amore; inevitabile alla fine lo scontro con la madre che la crede posseduta dal demonio e la costringe a terapie antilesbiche. Agrumi come frutto della passione? Probabilmente sì. Nello straordinario classico del romanticismo moderno, l’imperdibile Notting Hill, è proprio una spremuta “galeotta” che William (Hugh Grant) versa inavvertitamente su Anna (Julia Roberts) invitandola, candidamente, a cambiarsi nel suo appartamento dove inizierà una grande storia d’amore. Amore, passione, violenza, comicità: sono grandi pulsioni e sentimenti associati agli agrumi. Tra loro, indimenticabili, sono film provenienti dal Mediterraneo, culla, sin dall’Odissea e dai leggendari “pomi delle Esperidi”, di frutti squisiti e, è proprio il caso di scriverlo, “mitici”. Arance amare di Michel Such è ambientato ad Algeri, nel maggio del 1945, dove si festeggia la fine della guerra e la sconfitta della Germania. Paco e Alice, lui spagnolo, lei italiana, sono sposati, gestiscono una panetteria e hanno un ulteriore motivo per festeggiare: è nato il loro secondogenito. Interpretato da Sabrina Ferilli e Bruno Todeschini, il film è una riflessione sull’Algeria in cui si leggono i primi drammatici segni del conflitto che esploderà di lì a poco. Lo stesso tipo di emozioni che si respirano ne Il giardino di limoni dell’israeliano Eran Riklis, interpretato dalla straordinaria attrice palestinese Hiam Abbas che porta sullo schermo l’iconica figura di Salma Zidane che vive in Cisgiordania, ha 45 anni ed è rimasta sola da quando suo marito è morto e i suoi figli se ne sono andati. Quando il Ministro della difesa israeliano si trasferisce in una casa vicina a quella di Salma, la donna ingaggia una battaglia legale con gli avvocati del Ministro che, per motivi di sicurezza, vogliono abbattere i secolari alberi di limoni che sono nel suo giardino. Ma Salma non lotta da sola. Infatti, oltre al supporto del suo avvocato – un trentenne divorziato con cui nasce un profondo sentimento amoroso – la donna trova inaspettatamente anche quello della moglie del Ministro che, stanca della sua vita
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Notting Hill, 1999 © WebPhotos
Il giardino di limoni, 2008
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cinema solitaria per gli impegni del marito, prende a cuore il caso della sua vicina di casa palestinese. Certamente meno impegnativo, ma non per questo non altrettanto riuscito, un celebre titolo della commedia sexy all’italiana per la regia di Luciano Salce. L’Anatra all’arancia nel 1975 raccontava, grazie al talento di Ugo Tognazzi, Monica Vitti e Barbara Bouchet di una coppia in crisi che trascorre un ultimo fine settimana insieme nella loro villa al mare, invitando anche l’amante di lei JeanClaude, con cui il marito ostenta di voler diventare amico. A questo punto però Lisa non può impedire che anche Livio porti una compagnia femminile: quindi si unisce ai tre Patty, la disinibita segretaria e amante di lui. Nell’incontro a quattro, che ufficialmente dovrebbe consacrare civilmente e senza traumi una separazione consensuale, la gelosia cresce tra i due consorti e ognuno cerca di screditare l’altro agli occhi del rispettivo amante. Lisa, in cuor suo furiosa per la relazione di Livio con la giovane e sexy Patty, è costretta a controllarsi per rimanere all’altezza dell’apparente calma del marito. Livio prepara una sua specialità culinaria, l’anatra all’arancia, specificando che è il pasto del loro viaggio di nozze e che il suo tocco personale è il piticarmo, presunta spezie afrodisiaca. Amori e passioni sono anche al centro di due film interpretati da grandi attori inglesi. Jim, figlio del più famoso papà regista Ken Loach, dirige Emily Watson in Oranges and Sunshine. Ispirato a uno degli scandali più recenti della storia del Regno Unito, il film narra la storia di Margaret Humphrey, assistente sociale di Nottingham, che ha saputo svelare un segreto nascosto per anni dal governo britannico: 130.000 bambini inglesi indigenti inviati all’estero, nei paesi del Commonwealth e principalmente in Australia, alla fine degli anni ’50. Piccoli di poco più di quattro anni, a cui fu detto che i loro genitori erano morti, rinchiusi in istituti agli antipodi e spesso oggetto di terribili abusi. A questi bambini era stata promessa un’esistenza migliore “piena di arance e sole”, ma hanno incontrato privazioni, orfanotrofi, preti poco evangelici. L’ex Dottor House, Hugh Laurie è, invece, il protagonista del decisamente più leggero The Oranges, in cui l’amicizia tra due famiglie è messa a dura prova quando una delle figlie ritorna a casa e intreccia una relazione proprio con il più grande amico dei suoi genitori. Il film più significativo sul potere “magico” degli agrumi è un piccolo grande cortometraggio diretto dalla talentuosa australiana Anna McGrath intitolato The Peel of Mandarin ovvero “La buccia del mandarino”, il succoso frutto nella secca campagna australiana. Un titolo commovente che segna uno dei passaggi più recenti dell’ormai secolare legame tra cinema e agrumi, con la consapevolezza che il rapporto tra entrambi continuerà nelle storie raccontate in futuro dai cineasti di tutto il mondo che in arance, mandarini, limoni e bergamotti vedono i simboli di qualcosa di forte e irrinunciabile.
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Anatra all’arancia, 1975
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Oranges and Sunshine, 2010
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gli agrumi Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Incarti Piera Genta
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - DreamsTime: p. 145 (in basso). Fotolia: pp. 96 97 - 98 - 99 - 100 - 101 - 102 - 103 - 104 - 105 - 106 - 107 - 110 - 116 (in basso, a sinistra) - 126 - 127 - 310 (in alto) - 316 (in basso) - 318 - 320 - 330 - 452 - 453 - 465 (in alto) 466 - 524 (in alto) - 548 - 549 - 551 - 554 - 555 558 - 559 - 561. IstockPhoto: pp. 144 (in alto) - 145 (in alto).
storia e arte Incarti Vere forme di arte popolare e autentiche rarità sono gli incarti, fragili quadrotti di carta velina o carta seta nati per proteggere da urti e accidentali lesioni durante il trasporto l’arancia, un frutto un tempo raro e costoso. Oltre ad avere fini funzionali, ben presto diventano un buon veicolo commerciale per destare la curiosità dell’acquirente, consentendogli anche di distinguere un prodotto di alta qualità e pregio. L’idea nasce verso la metà del XIX secolo; all’inizio si tratta di carta da imballo di colore bianco, rosa o blu, impregnata di olio minerale e priva di immagini stampate, ma dalla fine del secolo compaiono le prime decorazioni a tema natalizio su carta dorata o argentata, a confermare il carattere di eccezionalità del consumo del frutto associato all’idea di un dono, tradizione ancora presente in alcune regioni dell’Italia e della Spagna. Gli incarti decorati si diffondono per oltre cent’anni in cinquanta paesi con circa mezzo
Mostre e musei
• Nel Museo comunale di Adrano,
in Sicilia, è conservato un incarto con un disegno in stile Liberty
• Nel 1985 il Victoria and Albert Museum di Londra ha ospitato una mostra dedicata agli incarti per agrumi
• È del 2007 la mostra From Palermo
to America. L’iconografia commerciale degli agrumi di Sicilia, il cui catalogo è stato pubblicato dall’editore Sellerio
• Nel 2012, nel Buccheim Museum
(Museo della fantasia) di Bernried, si è tenuta la mostra Pop art mit Orangenduft
• Presso il Taschen Store di Chelsea
(Londra) in occasione del London Design Festival – dal 23 settembre al 6 ottobre 2010 – Rose Reeves, del design studio Hyperkit, ha presentato una collezione di incarti
• In occasione del 50° anniversario
della proclamazione di san Francesco da Paola patrono della Calabria, a Cosenza si è svolta una mostra a lui dedicata. Nella sezione dedicata all’arte popolare, Giancarlo Gualtieri, segretario dell’Associazione Italiana Cultori immaginette sacre, ha esposto due incarti d’agrumi con l’immagine di san Francesco da Paola di due aziende calabresi
• A Colorno, il signor Aldo Vecchi ha una
collezione di circa 15.000 pezzi con due preziosi incarti di fine Ottocento
• A Fidenza, Claudio Guardazzi
da trent’anni colleziona incarti e possiede solo esemplari italiani e spagnoli. Viene considerato il secondo collezionista italiano
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incarti milione di soggetti, per opera di artisti locali rimasti per lo più sconosciuti. L’unico modo per datare le immagini è collegarle con le influenze artistiche del momento, sebbene i disegni vengano utilizzati per decenni. Dal punto di vista grafico gli incarti presentano in posizione centrale scene appartenenti al mondo rurale, racchiuse da una cornice circolare, in modo tale che, una volta incartato il frutto, l’illustrazione risulti ben visibile. Nessuna data, di rado il nome del produttore, qualche volta l’indicazione della varietà. La metodologia di stampa ha seguito l’evoluzione della tecnologia, dalla tipocromia alle tecniche più recenti della rotocalcografia e della flessografia. I temi dai colori forti e fluorescenti si ispirano a soggetti agricoli, mitologici, patriottici, personaggi storici, animali esotici, slogan come “Insuperabile” e “First selection”, figure femminili, motivi folcloristici oppure immagini simboliche del sole e del mare e ancora soggetti religiosi o messaggi salutistici. Uno studioso ha parlato di un numero di soggetti variabile tra 300.000 e 500.000. I pochi studi pubblicati sull’argomento attestano che i primi incarti stampati sono apparsi simultaneamente in Europa (Spagna e Italia) e in Giappone tra il 1900 e il 1915; nel 1860 William Thackeray
Foto R. Piazza
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storia e arte li cita nel primo volume della “Cornhill Magazine” e nel 1892 un manifesto prodotto da una tipografia del New Jersey, negli Stati Uniti, rappresenta alcune dozzine di incarti con diverse immagini, predisposti per alcuni spedizionieri della Florida e della California. Negli Stati Uniti questi disegni sono stati realizzati da noti artisti come l’italoamericano Othello Michetti a San Francisco e Archie Vazques a Los Angeles. L’origine degli incarti europei è un po’ più oscura. I primi utilizzi della carta seta risalgono al 1823; Polo de Bernabé è stato il primo esportatore spagnolo ad avvolgere i mandarini e verso il 1878 ad aggiungere la stampa, subito dopo nasce l’idea di decorare anche i fianchi delle cassette. In una cittadina a nord di Valenza è nata la prima tipografia dedicata. Un articolo francese del 1950 data i primi disegni alla vigilia della prima guerra mondiale, dapprima in Spagna e poi in Italia, tuttavia un collezionista d’arte siciliano, Antonino Catara, asserisce che l’azienda Campione di Catania ha iniziato a stamparli nel 1891, in due o tre colori. Il decennio 1920-1930 rappresenta sia in Europa che in America l’era d’oro per gli incarti, che vengono usati anche per i limoni sebbene questi agrumi non necessitino di protezione perché meno delicati delle arance. Un collezionista francese del 1932 stima che
Siti web
• www.nonsoloarance.net è il sito
di una collezionista italiana, Romana Gardani, che è riuscita a raccogliere ben 15.000 pezzi. Gli incarti più antichi sono spagnoli e risalgono agli anni ’20. Quelli più particolari raffigurano Barbarella, la Vespa, lo Sputnik e la conquista dello spazio, la Tenda Rossa della spedizione di Nobile
• Altri siti web interessanti
per approfondire il fenomeno del collezionismo degli incarti di arance sono: - www.cartantica.it - www.etichettando.com - www.opiummuseum.de - www.fruitwrappers-collector.be/ Jean-Noel_Dupont/Accueil.html - http://pages.infinit.net/wickens/ index.html
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incarti i suoi incarti provengano per metà dalla Spagna, il 10% dall’Italia e il rimanente da Jaffa e dall’America. Prima della seconda guerra mondiale vengono utilizzati anche in Giappone, Australia, Sud Africa, Mozambico, Tunisia e Libano. Per quanto riguarda il mondo del collezionismo, se ne parla in uno studio di Jean Selz pubblicato nel 1932 nel numero 28 della rivista “Arts et Métiers graphiques” e celebri personaggi come lo stesso Pablo Picasso sono rimasti affascinati dalla loro fragilità. In un’interessante mostra tenutasi a Palermo nel 2007 dal titolo From Palermo to America è stata messa in evidenza non solo l’iconografia commerciale, rappresentata dai manifesti delle società agrumarie, dai pizzi di carta dai bordi merlettati che guarnivano le cassette di legno di faggio, ma anche i mestieri dimenticati come quello di traforatore di stampini metallici, che insieme alle incartatrici fanno parte del passato. Oggi solamente qualche frutto, in media il 15% di un imballo, viene vestito con gli incarti. Questi ultimi negli Stati Uniti sono praticamente scomparsi e rimangono solo due aziende nello stato di Washington che li stampano; in Italia sono gli agricoltori di piccole e medie dimensioni i guardiani di questa tradizione popolare, soppiantata dai bollini adesivi che hanno dato vita a una nuova forma di collezionismo.
Foto R. Piazza
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