Il Carciofo - Coltivazione

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Il carciofo botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato


il carciofo e il cardo

coltivazione Ibridi commerciali Rodolfo Zaniboni

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


coltivazione Ibridi commerciali Foto N. Calabrese

Introduzione Attualmente il carciofo è coltivato in tutti i Paesi del Mediterraneo, in California, in alcuni Paesi del Sudamerica, come pure in Cina; ma tradizionalmente l’Italia, la Spagna e la Francia sono sempre state i maggiori produttori e consumatori di carciofi. La moltiplicazione è effettuata solitamente per via vegetativa ed è basata sulla propagazione di cloni selezionati, con discreti risultati produttivi e scarsa omogeneità della produzione. Inoltre, numerosi sono gli svantaggi della moltiplicazione vegetativa: – bassa flessibilità nella data di trapianto; – eterogeneità del materiale utilizzato; – alta percentuale di piante non attecchite; – costi elevati di manodopera; – diffusione delle malattie trasmesse dalla pianta madre. La propagazione per “seme” del carciofo costituisce invece una valida alternativa, contribuendo alla razionalizzazione della tecnica colturale, al miglioramento dello stato fitosanitario delle piante e all’incremento delle produzioni unitarie. I vantaggi ottenuti dall’impiego del “seme”, possono favorire l’espansione della coltura sia negli areali in cui sono evidenti i problemi di natura agronomica e patologica sia in quelli di nuova introduzione. La moltiplicazione per “seme” del carciofo può essere attuata attraverso l’uso di: – cultivar impollinate liberamente (OP, Open Pollinated). Sono popolazioni da seme solitamente selezionate e mantenute at-

Opal F1

Madrigal F1

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ibridi commerciali traverso libera impollinazione. Questo metodo consente cicli di coltivazione flessibili, riduzione del numero delle fallanze dopo il trapianto, prevenzione di infezioni da virus (la maggior parte dei virus non si trasmette per “seme”) e parassiti nonché, in generale, una migliore gestione della coltura. Lo svantaggio dell’uso delle cultivar OP è la mancanza di omogeneità nella produzione finale dei capolini, questo ne rende difficile l’utilizzo per un certo segmento di mercato e il prodotto finisce per essere destinato esclusivamente dalle industrie di trasformazione; – ibridi (F1). La motivazione dell’uso delle cultivar ibride è data dall’effetto positivo dell’eterosi, che può essere definita come l’aumento dell’espressione di certi caratteri come vigore, produttività, resistenza contro le malattie o gli stress causati dalle condizioni di coltivazione, assieme a un’elevata omogeneità del prodotto finale. Tutto ciò può essere ottenuto incrociando specie, varietà o linee pure. Le possibilità dell’incrocio sono enormi, fornendo più efficacia e facilità nell’incorporazione dei caratteri nuovi attraverso le linee parentali. Altri vantaggi ottenuti dall’uso di ibridi sono (oltre a quelli già citati per gli OP): – meno costi di manodopera e trasporto grazie alla concentrazione della produzione; – maggiore produttività dovuta al vigore e alla salute delle piante; – flessibilità nel ciclo di produzione, cioè possibilità di ottenere la produzione in estate, in coltura annuale o biennale. Ciò fa rientrare il carciofo ibrido tra le colture di rotazione, anche in nuove aree di coltivazione ecc.; – nuovi cicli, o persino nuove aree, che dovrebbero far posto a una nuova generazione di materiali specificatamente sviluppati per questi diversi cicli di coltivazione; – migliore adattabilità alla lavorazione industriale rispetto alle altre cultivar tradizionali.

Opal F1

Foto M. Curci

Madrigal F1 Parcelle sperimentali per la valutazione degli ibridi commerciali

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coltivazione Uso degli ibridi La selezione clonale è stata usata per secoli ma, con l’evoluzione dei metodi di ibridazione e le sue applicazioni sul carciofo, nuove tecnologie sono state impiegate per il miglioramento della coltura. Per esempio, in ricerche condotte in Francia negli anni ’70 del secolo scorso gli incroci venivano utilizzati per produrre variabilità, ma erano sempre focalizzati all’ottenimento di nuovi cloni. Successivamente, nella seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, furono creati in Israele i primi ibridi destinati al commercio. Ormai, da più di dodici anni, la società sementiera Nunhems è impegnata in un programma di ricerca relativo alla creazione di nuovi ibridi. I punti fondamentali per la costituzione degli ibridi sono: – ottenere, selezionare e valutare linee parentali provenienti da diverse generazioni autoimpollinate; – controllare le possibili combinazioni delle linee parentali; – introduzione della maschio sterilità; – impollinazione incrociata per ottenere gli F1; – valutazione e selezione degli F1 durante diverse annate;

Classificazione degli ibridi in base alla forma e al colore del capolino

• Verde ovoidale: Madrigal • Verde allungato (tipo Blanca de Tudela): Simphony, Harmony

• Viola allungato (tipo Violetto

di Provenza): Concerto, Opal, Tempo, Nun 4021

• Viola tondo (tipo Romanesco): Nun 4051

Schema per l’ottenimento degli F1 Linea selezionata A

Linea selezionata B Controllo possibili combinazioni

Foto M. Curci

Moltiplicazione vegetativa (linea maschio sterile)

X Impollinazione manuale incrociata “Semi” ibridi raccolti sulle piante portaseme Valutazione degli F1 per diverse annate

Registrazione degli F1 e immissione sul mercato

Campo sperimentale

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Moltiplicazione del “seme”


ibridi commerciali Foto N. Calabrese

Foto N. Calabrese

Foto N. Calabrese

Carciofaia di Madrigal F1 in ottimo stato vegetativo

– registrazione, protezione e produzione di “seme” commerciale dei migliori F1; – introduzione sul mercato e vendita. Gli sforzi e il buon lavoro dei selezionatori sono stati premiati con successo grazie all’ottenimento di nuove cultivar ibride pronte per essere introdotte nei vari ambienti colturali.

Madrigal F1 è particolarmente idoneo alla lavorazione industriale

Descrizione di alcuni ibridi in commercio Madrigal – Capolini ovoidali, bel colore verde intenso con leggera colorazione viola chiaro alla base delle brattee, che scompare progressivamente con la crescita del capolino. Capolini compatti, chiusi, con numerose brattee interne: ne – conseguono eccellenti risultati nella trasformazione industriale, ma sono anche adatti per il mercato fresco. – Pianta altamente produttiva e raccolta molto concentrata. – Produzione tardiva, con picco massimo nella seconda metà della primavera (ambiente mediterraneo). – Pianta molto robusta, vigorosa e sana che sopporta basse temperature, acque di irrigazione di scarsa qualità e terreni più poveri. Simphony – Capolini conici, verdi, simili al tipo Blanca de Tudela. – Eccellente qualità esterna e interna, adatto sia per mercato fresco sia per industria.

Capolino di Simphony F1

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coltivazione

Simphony F1

– La produzione e la raccolta possono essere programmate gestendo in modo adeguato le tecniche di coltivazione. – Piante vigorose, erette e sane, con raccolta concentrata e alta produttività. Harmony – Capolini conici, verdi, simili al tipo Blanca de Tudela. – Buona qualità interna ed esterna, adatto sia per mercato fresco sia per industria. – La produzione e la raccolta possono essere programmate gestendo in modo adeguato le tecniche di coltivazione. – Piante vigorose, aperte e sane, con raccolta concentrata, in grado di garantire una seconda produzione (ottenuta dai nuovi carducci emessi della pianta) se la prima è avvenuta molto anticipatamente.

Simphony F1

Harmony F1 Harmony F1

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ibridi commerciali Foto N. Calabrese

Foto N. Calabrese

Concerto F1

Concerto – Capolini di forma conica, molto uniformi e di colore viola scuro brillante. – Piante forti e sane che ben si adattano alle condizioni invernali nei Paesi mediterranei. – Produzione medio-tardiva, fornisce capolini a partire dal tardo inverno fino alla primavera. – Produzione molto elevata. – Capolini compatti e chiusi, di grande qualità interna, adatti sia per mercato fresco sia per industria.

Concerto F1

Foto N. Calabrese

Opal – Capolini conici di medio-grosse dimensioni. I primi capolini possono mostrare una forma più rotondeggiante con lunghi peduncoli. Il colore delle brattee esterne è verde/viola. Foto N. Calabrese

Pallet di carciofo Opal F1 venduto con il marchio Violì Carciofaia di Opal F1 in piena produzione

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coltivazione Foto N. Calabrese

Foto N. Calabrese

Ibridi a confronto a pieno campo

– Piante alte e semiaperte che richiedono adeguati apporti idrici e di fertilizzanti. – Maturazione medio-precoce a partire dall’inizio dell’inverno fino a tutta la primavera. – Produzione molto elevata. Frutti di Opal F1 confezionati in casse di cartone e venduti con il marchio Violì

Tempo – Capolini di colore verde scuro, forma conica e buona omogeneità. – Pianta eretta che permette densità d’impianto più elevate per la produzione commerciale. – Produzione molto elevata e concentrata. – La gestione della coltura richiede molta attenzione per evitare il rischio di ottenere piante eccessivamente vigorose.

Foto N. Calabrese

Foto N. Calabrese

Tempo F1 Capolini secondari e principali della cultivar Tempo F1

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ibridi commerciali

Piante di Nun 4051 F1

Nuovi ibridi di prossima introduzione Nun 4021 F1 – Simile alla cultivar Tempo ma più precoce e più produttivo (10-30% di produzione in più). – Pianta eretta. – Capolini di colore viola scuro, conici e di grande qualità sia esterna sia interna. – Molto adatto per i mercati che apprezzano il colore viola intenso dei capolini.

Capolini di Nun 4021 F1

Nun 4051 F1 – Tipo Romanesco; capolini molto belli, con migliore qualità esterna e colore più scuro rispetto alle cultivar standard usate oggi. – Pianta aperta che richiede basse densità d’impianto. – Ottima produzione, solidità e uniformità. Foto N. Calabrese

Nuovo ibrido in fase di valutazione Capolini di Nun 4051 F1

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il carciofo e il cardo

coltivazione Impianto Nicola Calabrese

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


coltivazione Impianto Foto D. Leskovar

L’impianto è effettuato per mezzo di carducci, ovoli, parti di rizoma o “ceppaia” (ciocchetti), piantine ottenute da micropropagazione e per achenio (“seme” del commercio); l’impianto avviene dalla primavera all’autunno a seconda del materiale di propagazione utilizzato e delle aree di coltivazione. L’impiego di carducci è uno dei metodi più diffusi; è preferibile utilizzare carducci radicati, allevati in piantonaio, o in vivaio, fino al momento del trapianto (effettuato di solito da metà giugno a fine agosto). Questa tecnica consente un’elevata percentuale di attecchimento e l’uniforme entrata in produzione delle piante. L’uso dei carducci appena distaccati dalle piante è sconsigliabile perché in genere comporta un’elevata percentuale di fallanze. L’impianto con ovoli si effettua in estate e la produzione inizia generalmente in novembre. Per aumentare il numero di ovoli per pianta, si può ricorrere alla rincalzatura delle piante o all’eliminazione dell’apice caulinare. Nelle cultivar del tipo Romanesco, che normalmente producono un basso numero di organi di propagazione, l’immersione per 24 ore in una soluzione di acido naftalenacetico di gemme prelevate dal rizoma e successivo allevamento per 30 giorni in fitocelle, assicura un’elevata percentuale di attecchimento. La conservazione degli ovoli a 5 °C per circa un mese comporta la riduzione del numero di germogli nel Violetto spinoso di Menfi, mentre il trattamento a 30 °C per 21 giorni e a 5 °C per 15 giorni fa diminuire il numero dei capolini atrofici.

Trapianto di piantine in file binate con pacciamatura

Impianto effettuato con carducci radicati e con sistema di irrigazione a goccia

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impianto Il ciocchetto è costituito da una porzione basale del rizoma provvisto di gemme e, come gli ovoli, viene prelevato durante i mesi di luglio-agosto con le piante in riposo e piantato subito dopo. Oltre ad essere costoso, questo metodo dà origine a emergenze scalari e a disformità tra le piante; la piena produzione si ottiene nella successiva primavera. Il confronto tra carducci e pezzi di rizoma ha mostrato produzione più precoce e più elevata a favore dei secondi. Il prolungato ricorso alla propagazione agamica ha favorito la dif­ fusione di patogeni e ha comportato l’attuale grave peggioramento delle condizioni fitosanitarie delle carciofaie. I patogeni che si riscontrano nella quasi totalità degli impianti sono principalmente i virus e il fungo Verticillium dahliae che si diffondono facilmente con il materiale di moltiplicazione, anche se questo spesso non presenta alcun sintomo a un esame visivo. Verticillium dahliae, inoltre, contamina il terreno con i microsclerozi e costringe gli agricoltori a ridurre il ciclo di coltivazione (da 4-5 anni si è passati a 2) per la necessità di dover spostare frequentemente le carciofaie su appezzamenti diversi, e in alcuni casi di abbandonare la coltura. La propagazione in vitro di meristemi apicali offre un importante contributo al superamento di questi problemi e negli ultimi decenni ha permesso la produzione e la distribuzione agli agricoltori di materiale genetico migliorato e più sicuro dal punto di vista fitosanitario; inoltre è stato possibile ottenere un elevato numero di piante (maggiore rispetto a quelle ottenibili con i metodi tradizionali) in spazi e tempi limitati e senza i vincoli posti dalle condizioni ambientali esterne. Sono state messe a punto metodologie di moltiplicazione in vitro, che hanno consentito la distribuzione agli agricoltori di diversi cloni di carciofo, soprattutto della tipologia Romanesco, in particolare il C3, che è risultato precoce e

Piantina dopo 20 giorni dal trapianto

Carciofaia a 50 giorni dall’impianto

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coltivazione produttivo, e alcune cultivar di nuova costituzione come Terom, Tema 2000, Grato 1, Grato 2, Exploter e Apollo. Per quanto riguarda invece le cultivar precoci o autunnali, le tecniche di moltiplicazione in vitro si sono dimostrate inefficaci, soprattutto a causa della disformità del materiale micropropagato che acquisisce caratteristiche di tardività. Studi recenti hanno però dimostrato che piante micropropagate di Catanese, trasferite in pien’aria, mantengono le caratteristiche morfologiche e di precocità quando gli espianti vengono sottoposti a un basso numero (3-4) di subcolture in fase di proliferazione. Partendo da piante madri risanate, è stata messa a punto una nuova tecnica di propagazione in vivaio che permette di ottenere piantine certificate di cloni di Romanesco e di Brindisino a radice protetta e a basso costo. Per favorire la radicazione e l’attecchimento del materiale di moltiplicazione, oltre all’uso di fitoregolatori a base soprattutto di auxine, ottimi risultati sono stati ottenuti con la tecnica della micorrizazione. L’inoculo del substrato di allevamento con funghi o batteri micorrizici induce variazioni nella morfologia del sistema radicale e, in generale, sull’accrescimento delle piante. Infatti queste variazioni migliorano l’efficienza nell’assorbimento di elementi nutritivi e rendono le piante più resistenti alle situazioni di stress. Le piantine micorrizate si presentano significativamente più rigogliose e robuste di quelle non micorrizate e con apparato radicale maggiormente sviluppato in virtù di un maggior numero di radici, evento che determina una più estesa superficie assorbente, mentre si riduce la loro lunghezza media e aumenta l’attività pollonifera. La propagazione per “seme” può costituire una valida alternativa a quella agamica perché contribuisce alla razionalizzazione della tecnica colturale, al miglioramento dello stato sanitario delle piante e all’incremento delle produzioni unitarie; inoltre, in prospettiva, il contenimento del costo del “seme” potrebbe favorire l’espansione della coltura. Il costo del “seme” delle prime cultivar, ottenute per libera impollinazione, era contenuto e permetteva la meccanizzazione della semina con forte riduzione delle spese di impianto. Attualmente la semina diretta delle cultivar ibride è improponibile a causa del costo dei “semi”, pertanto si ricorre alla semina in contenitori alveo­lari e all’allevamento delle piantine in vivaio. Il trapianto avviene in genere dopo 35-50 giorni dalla semina, quando le piantine hanno raggiunto lo stadio di 3-4 foglie vere e presentano un buon apparato radicale. La temperatura ideale per la germinazione è compresa tra 18 e 22 °C. Temperature maggiori diminuiscono e rallentano la germinazione, mentre aumenta la scalarità dell’emissione della plantula. Studi mirati ad approntare un protocollo per produrre piantine nel più breve tempo possibile hanno evidenziato che ottime piantine della cultivar Concerto, allevate in contenitori alveolari, si possono

Ottima emergenza e uniformità delle plantule

Piantine in contenitori alveolati a 25 giorni dall’emergenza

Piantine pronte per il trapianto

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impianto ottenere con l’impiego di urea e con la dose di azoto intorno a 250 mg/l. Inoltre la cultivar Opal mostra piantine più alte, di maggiore peso e area fogliare, con l’impiego di alveoli di maggiore dimensione (91 vs. 60) e con la dose più elevata di K (220 vs 100 mg/l). Recentemente è stata messa a punto la tecnica dell’innesto erbaceo di piantine di carciofo su cardo, entrambe propagate per “seme”, per ottenere resistenza a Verticillium dahliae. La densità di piante delle carciofaie si aggira sulle 7-10.000 piante per ettaro; le distanze in genere sono 100-130 cm tra le file e 80-130 sulla fila. Di solito le piante sono disposte a file semplici. Per facilitare le operazioni colturali in qualche azienda si adottano distanze di 160-180 cm tra le file e 60-80 nella fila; con la riduzione delle distanze tra le file, la produzione totale dei capolini aumenta, mentre il numero dei capolini e dei carducci per pianta diminuisce. La pacciamatura con film plastico non è in genere utilizzata; studi recenti hanno evidenziato che l’utilizzo della pacciamatura consente l’anticipo della produzione e l’aumento della produzione di capolini. Le carciofaie ottenute con piante propagate per “seme” sono allevate per 1 o al massimo 2 anni. Alcuni studi su piante allevate per 4 anni hanno evidenziato che la produzione non subisce sostanziali variazioni nei primi 3 anni di coltivazione, mentre al quarto anno è stata osservata la riduzione significativa della produzione. Alla luce di queste indicazioni e in considerazione dell’elevato costo delle piantine propagate per “seme”, potrebbe essere conveniente coltivare queste carciofaie per 2-3 anni in modo da ammortizzare le spese d’impianto.

Emissione di carducci da pianta capitozzata

Coltivazione di carciofo nel Foggiano

Foto R. Angelini

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il carciofo e il cardo

coltivazione Concimazione Alberto Graifenberg Giovanni Mauromicale

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coltivazione Concimazione Concimazione, epoca di somministrazione, dosi, produzione, qualità dei capolini La pianta di carciofo presenta ritmi di accrescimento intensi nell’arco del ciclo colturale, eccezione fatta per una più o meno breve stasi vegetativa durante il periodo gennaio-febbraio. Nelle aree dove le temperature invernali diurne non scendono al di sotto della soglia termica cardinale del carciofo, che è 8-9°C, i ritmi di accrescimento sono, invece, pressoché costanti, registrando punte di particolare intensità nei mesi autunnali (varietà autunnali) e tra febbraio e aprile (varietà primaverili). Per poter sostenere questi ritmi di accrescimento e raggiungere un buon livello produttivo, sia sotto l’aspetto quantitativo sia qualitativo, è necessaria, pertanto, un’idonea concimazione, opportunamente integrata dall’irrigazione. Un’insufficiente disponibilità di elementi nutritivi può causare, infatti, una riduzione dell’accrescimento e una produzione di capolini piccoli, con brattee divergenti e stelo fiorale corto ed esile. Un corretto programma di concimazione deve, ovviamente, assecondare i ritmi di asportazione degli elementi nutritivi della coltura e tenere conto delle caratteristiche del terreno, della sua dotazione in elementi fertilizzanti e sostanza organica, nonché delle condizioni meteoriche. Inoltre, è necessario tenere presente la precessione colturale e l’eventuale interramento dei residui colturali.

Conoscere il fabbisogno nutritivo della coltura

• Per conoscere il fabbisogno nutritivo

o eventuali carenze della coltura in un determinato momento, indicazioni utili possono essere dedotte dall’esame del lembo fogliare escludendo la nervatura centrale. In linea di massima una carciofaia di Violetto di Sicilia o Violetto di Provenza, nel corso di un ciclo annuale, asporta da 250 a 300 kg/ha di N, da 40 a 50 kg/ha di P2O5, da 350 a 400 kg/ha di K2O e 140-160 kg/ha di Ca, 50 kg/ha di S e 25-30 kg/ha di Mg. Queste significative asportazioni sono, ovviamente, sostenute da un apparato radicale robusto e sviluppato, in grado di esplorare con efficacia la massa di terreno a disposizione

Concimazione organica L’impiego di concimi organici, quando sono disponibili, è sempre consigliabile, in dosi variabili a seconda della natura del terreno e

Andamento del peso secco della biomassa epigea nelle cultivar Violetto di Provenza e Romanesco coltivate in Sicilia

Biomassa secca (g/pianta)

1400 1200 1000 800 600 400 200

Bella colorazione violacea delle brattee esterne dei capolini in Violetto di Sicilia, conseguenza di una concimazione ben equilibrata

0

Ott Nov Violetto di Provenza

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Dic Gen Romanesco

Feb

Mar

Apr


concimazione della dotazione in sostanza organica (S.O.). Per un buon letame maturo le dosi orientative possono oscillare tra 30 e 40 t/ha. La concimazione organica assume un ruolo preminente allorquando si utilizzano, nei terreni argillosi, acque irrigue a elevata conducibilità elettrica e ricche di sodio. In questo caso la somministrazione di letame, così come il sovescio di leguminose o l’interramento di residui vegetali, migliora la struttura e il pH, e consolida l’azione favorevole di eventuali correttivi inorganici, quali gesso, zolfo e carbonato di calcio, che hanno lo scopo di sostituire il sodio con il calcio nei siti di scambio ionico dei sistemi colloidali del terreno. In ogni caso, il concime organico va accuratamente distribuito in modo omogeneo sulla superficie del terreno e interrato uniformemente con le lavorazioni preparatorie.

Foto C. Cangero

Concimazione fosfatica e potassica La concimazione fosfatica e potassica, nonostante i risultati delle ricerche sull’argomento non siano sempre concordi, influenza particolarmente la precocità e migliora le caratteristiche di qualità dei capolini, soprattutto nei terreni carenti di questi elementi nutritivi. Sulla base dei risultati dell’analisi del terreno e avendo come riferimento un contenuto normale di P2O5 e K2O, possiamo riscontrare 3 casi: – dotazione normale di questi due elementi: sono sufficienti apporti di concime miranti a mantenere il livello di fertilità nel terreno (quota di mantenimento) e perciò uguali alla quantità di elemento asportato dalla coltura per il potassio e fino a una maggiorazione del 50% nel caso del fosforo, in considerazione

Carciofaia in piena produzione

Carciofaia con sviluppo equilibrato delle piante, conseguenza di una gestione corretta della concimazione

Foto M. Curci

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coltivazione dei processi di immobilizzazione cui questo elemento va incontro nel terreno; – dotazione elevata: per il potassio è consigliabile una dose pari al 50-70% di quella asportata, mentre, per il fosforo gli apporti possono essere aumentati fino al 90% delle asportazioni; – dotazione insufficiente: la concimazione di mantenimento (uguale all’asportazione della coltura) va opportunamente maggiorata per reintegrare anche la dotazione nutritiva del terreno. Le maggiorazioni possono raggiungere il 200% delle asportazioni nel caso del fosforo e il 120-130% nel caso di quelle del potassio. Il fosforo e il potassio vanno somministrati opportunamente interrati prima dell’impianto o della riattivazione estiva della carciofaia. Soprattutto nei terreni ricchi di calcare attivo e con pH superiore a 7, a causa dei processi di immobilizzazione cui va incontro, il fosforo va somministrato in quantità sensibilmente più elevata rispetto alle asportazioni. Ciò anche per prevenire i noti fenomeni di annerimento dell’apice delle brattee del capolino, con il nome di black tip. In una normale carciofaia e su un terreno tendenzialmente calcareo è consigliabile apportare fino a 8 quintali di perfosfato minerale (18-21% di P2O5) in un’unica somministrazione o frazionato in un paio di volte, curando in particolar modo il suo immediato interramento. Nei terreni acidi è invece consigliabile l’interramento delle scorie di defosforazione o scorie di Thomas (12-20% di P2O5), in quanto possiedono una reazione alcalina. Il potassio è un elemento in genere ben presente nei terreni coltivati a carciofo. Pertanto, l’uso dei concimi potassici si riduce al mantenimento di un buon livello della componente facilmente assimilabile dalla pianta. Quindi, 2-3 quintali di solfato di potassio, ugualmente interrato all’impianto o al risveglio della carciofaia poliennale, più 1-2 apporti in copertura (tra dicembre e febbraio dopo le piogge autunnali) con 1-1,5 quintali di nitrato di potassio possono garantire un buon risultato produttivo, compresa la ricercata colorazione violacea delle brattee esterne del capolino. Va tenuto anche presente che le massicce concimazioni con potassio potrebbero facilitare il dilavamento di altri elementi (calcio e magnesio) e quindi favorire alcune deficienze quali quelle di magnesio, per esempio. Il solfato di potassio (50-52% di K2O) è il concime potassico di maggior pregio. Infatti, l’apprezzabile presenza di zolfo (400 g/kg), la quasi completa assenza di cloro e il basso indice di salinità ne consigliano un impiego agevole e consono alla gran parte dei terreni coltivati a carciofo. Il cloruro di potassio (40-50% o 60-62% di K2O), per la presenza del cloro e l’elevato indice di salinità, è invece poco consigliabile, soprattutto quando si fa ricorso ad acque irrigue ricche di cloro e con alta conducibilità elettrica.

Contenuto normale in fosforo e potassio in rapporto alla costituzione del terreno Costituzione del terreno

K2O (ppm)

P2O5 (ppm)

Sabbioso (S > 60%)

102-144

25-30

Medio impasto

120-180

30-35

Argilloso (A > 35%)

144-216

35-40

Foto R. Balestrazzi

Perfosfato minerale

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concimazione Concimazione azotata La concimazione azotata risulta spesso un fattore decisivo per un ottimale accrescimento della pianta e, quindi, per il perseguimento di un buon risultato produttivo della coltura. L’azoto, infatti, è costituente fondamentale della materia vivente, entrando nella costituzione di proteine, lipidi complessi, nucleotidi e loro derivati (acidi nucleici, coenzimi, ATP), clorofilla ecc. Le piante reagiscono rapidamente alla concimazione azotata acquisendo un maggiore rigoglio vegetativo in conseguenza di un elevato ritmo di accrescimento e una colorazione fogliare più verde. L’eccessiva disponibilità di questo elemento nutritivo, tuttavia, ritarda l’ispessimento della parete cellulare, favorendo la formazione di tessuti teneri e acquosi, che sono maggiormente soggetti agli attacchi di funghi, batteri e insetti e ai danni determinati da condizioni meteorologiche sfavorevoli, quali siccità e abbassamenti termici. Al maggiore accrescimento vegetativo della pianta, indotto da un’abbondante concimazione azotata, spesso fa riscontro una diminuzione della precocità di produzione dei capolini e un ritardo nell’entrata in quiescenza della carciofaia a fine primavera-inizio estate. Questo elemento, a causa delle note perdite per dilavamento, provocate dalle irrigazioni e dalle piogge abbondanti, e per volatilizzazione sotto forma gassosa (che possono interessare in alcuni casi fino al 60-70% dell’azoto fornito), va somministrato in più riprese. I momenti più opportuni per le varietà autunnali di nuovo impianto a mezzo di ovoli coincidono con il dispiegamento

Foto R. Balestrazzi

Nitrato potassico

Quantità di azoto assimilabile (kg/ha) calcolata sulla base dell’azoto totale presente in terreni a diversa costituzione Tipo di terreno

Gestione dell’azoto

• La gestione dell’azoto richiede maggiore

Tenore in N totale (‰) 0,9

1,2

1,5

1,8

2,1

Sabbioso (S > 60%)

25

34

42

50

59

Medio impasto

23

31

39

47

55

Argilloso (A > 35%)

22

29

36

43

50

attenzione rispetto a quella degli altri elementi nutritivi, poiché l’eccesso dello ione nitrico nel terreno, rispetto alla capacità di assorbimento della coltura e della microflora terricola, può essere lisciviato dall’acqua di percolazione e inquinare la falda freatica compromettendo la potabilità delle acque, allorché vengono superate certe soglie. La concimazione azotata (dosi, epoche di somministrazione e tipo di fertilizzante) va governata con giudizio e oculatezza, tenendo conto anche della quota di azoto assimilabile e mineralizzato del terreno

Quantità indicative di azoto mineralizzato (kg/ha) in funzione del tenore in S.O. e della costituzione del terreno Tipo di terreno

Tenore in S.O. (%) 0,5

1

1,5

2

2,5

Sabbioso (S > 60%)

18

35

53

70

88

Medio impasto

12

24

36

48

60

Argilloso (A > 35%)

6

12

18

24

36

175


coltivazione della 6a-7a foglia (50 kg/ha di N), la differenziazione del capolino principale, che normalmente si ha tra la seconda metà di settembre e la prima decade di ottobre (60-70 kg/ha di N), la prima raccolta (60 kg/ha di N) e la fine delle basse temperature invernali (60-70 kg di N). Una quinta somministrazione con 50 kg/ha di azoto nitrico è consigliabile quando si vuole ottenere un’abbondante produzione di capolini per l’industria. In quest’ultimo caso, il concime va dato in corrispondenza della formazione dei primi capolini dai carducci (fine marzo-aprile) e supportato da alcune irrigazioni se il decorso stagionale è asciutto. Il concime azotato va scelto in funzione della tipologia del terreno e dell’andamento meteorico. In condizioni normali è consigliabile effettuare la seconda e la terza somministrazione di azoto impiegando, rispettivamente, nitrato di calcio (15,5% di N) e nitrato di potassio (13% di N). Nella prima somministrazione, oltre all’urea (46% di N), potrebbe essere utile impiegare il solfato ammonico (20-21% di N) per l’apporto di zolfo e per il suo potere acidificante, quanto mai opportuno quando si irriga con acqua salmastra. Il nitrato di ammonio (26-27% di N), soprattutto nei terreni calcarei, è bene interrarlo leggermente per evitare le perdite di ammoniaca per volatizzazione. Per le varietà primaverili, impiantate precocemente in luglio-agosto, le epoche e le quantità più opportune della concimazione con azoto sono: – al dispiegamento della 6a-7a foglia con 50 kg/ha di N; – alla differenziazione del capolino principale (prima metà di dicembre nelle regioni meridionali) con 70-80 kg/ha di N; – all’emergenza dei primi capolini dalla rosetta fogliare con 7080 kg/ha di N. Una quarta somministrazione di 50 kg/ha di N è consigliabile quando si vuole realizzare una buona produzione di carciofini per l’industria. Nelle carciofaie poliennali, la distribuzione di 3-4 q/ha di fosfato biammonico (18% di N e 46% di P2O5) al risveglio può assicurare una buona concimazione azotata e fosfatica di base in grado di assecondare la ripresa vegetativa delle piante. La somministrazione di azoto in copertura può essere effettuata seguendo gli schemi proposti in precedenza, a partire dal secondo intervento. Non sono consigliabili, comunque, apporti di azoto superiori a quelli asportati dalla coltura, che in linea di massima sono stimabili in circa 250 kg/ha di N. A confortare quanto ora asserito sono i risultati delle numerose ricerche sulla concimazione azotata del carciofo, i quali, nel loro complesso, hanno dimostrato che la produzione di capolini aumenta fino all’impiego della dose di 200-250 kg di N e che, al di sopra di questa, ulteriori aumenti di azoto sono inefficaci o negativi. La concimazione azotata non aumenta in misura significativa la concentrazione di N-NO3 sulle frazioni eduli del capolino, mentre ha un effetto inibitore sulla produzione di acidi caffeolchinici e flavonoidi dei tessuti delle

Foto R. Balestrazzi

Urea

Foto R. Balestrazzi

Solfato ammonico

176


concimazione

kg di concime

N

P2O5

K2O

a) Perfosfato minerale 20%

800

-

160

-

a) Solfato di potassio 50%

200

-

-

100

b) Nitrato ammonico 26,5%

200

53

-

-

c) Nitrato di calcio 15-16%

200

30

-

-

Urea 46%

80

37

d) Nitrato potassico 13-0-46%

100

13

-

46

Urea 46%

120

55

e) Solfato ammonico 20-21%

300

62

-

-

250

160

146

TOTALE

Produzione capolini (t/ha)

Programma di concimazione minerale consigliabile per varietà di carciofo a produzione autunnale, in terreni di medio-bassa fertilità e pH leggermente alcalino 19 16

13

10

0

150 200 300 400 Azoto somministrato (kg/ha)

Variazioni della produzione di capolini in rapporto alla dose di azoto somministrato alla coltura (Dati medi dei risultati delle ricerche sull’argomento effettuate da Autori diversi, da Elia e Conversa, 2007)

a) = all’impianto o al risveglio; b) = alla differenziazione della 6a-7a foglia della pianta nella carciofaia di 1° anno o dopo il risveglio nelle polienni; c) = alla differenziazione del capolino principale; d) dopo la prima raccolta; e) = alla fine dei freddi invernali.

piante, come accertato in ricerche condotte, rispettivamente, in Sicilia e in Germania. Altri macroelementi (calcio, magnesio, zolfo e ferro) Vengono indicati come macroelementi secondari poiché, generalmente, sono presenti nel terreno in quantità sufficiente a soddisfare le esigenze della coltura, per cui solo raramente è necessario intervenire con delle specifiche somministrazioni per aumentarne la disponibilità. Le asportazioni di questi elementi, seppure significative come nel caso del calcio (oltre 150 kg/ha) e dello zolfo (50 kg/ha), sono, infatti, normalmente reintegrate attraverso l’impiego di concimi quali perfosfati, solfato ammonico, solfato di potassio, nitrato di calcio ecc. che contengono macroelementi secondari e con le acque di irrigazione che, sovente, sono ricche di calcio e magnesio.

Concimazione azotata e trattamento con AG3

• La concimazione azotata

va opportunamente gestita in funzione anche della scelta degli interventi colturali. Per esempio, è sempre consigliabile apportare concime azotato in una forma facilmente disponibile per la pianta (nitrato) in corrispondenza di eventuali trattamenti con acido gibberellico (AG3). La quantità di azoto va commisurata alla concentrazione del fitoregolatore: in linea indicativa, per un trattamento con 40-60 ppm di AG3 bisognerebbe somministrare 50-60 kg di azoto

Concimi organo-minerali Un tempo definiti misti organici, sono prodotti ottenuti per rea­ zione o miscela di uno o più concimi organici con uno o più concimi minerali semplici oppure composti. Ricerche condotte in un’area cinaricola siciliana hanno messo in evidenza come la somministrazione, all’impianto della carciofaia e in copertura, dei concimi organo-minerali (contenenti N, P, K), in luogo di quelli minerali, abbia comportato un miglioramento sia della precocità 177


coltivazione Decorso della produzione in rapporto al tipo di concimazione nelle piante irrigate con acqua irrigua a bassa conducibilità elettrica

Numero di capolini/pianta

10 8 6 4 2 0

31-gen 31-feb 28-feb 15-mar 31-mar 15-apr 30-apr 15-mar

Concime minerale

Concime organo-minerale

Fonte: Ierna et al., 2006

di produzione sia del ritmo di emissione dei capolini durante l’intera stagione produttiva. La concimazione organo-minerale si è dimostrata in grado di ridurre gli effetti negativi della salinità sulla produzione di capolini, atteso che la sua efficacia è aumentata in seguito all’utilizzo di acqua irrigua con più elevata conducibilità elettrica (4,6 dS/m, invece di 1,6 dS/m).

Piante di carciofo della cultivar Madrigal trattate con acido gibberellico

Decorso della produzione in rapporto al tipo di concimazione nelle piante irrigate con acqua irrigua a elevata conducibilità elettrica

Numero di capolini/pianta

10

Carciofaia in coltura biologica con pacciamatura del terreno sulla fila e distribuzione dei concimi tramite la fertirrigazione

8 6 4 2 0

31-gen 31-feb 28-feb 15-mar 31-mar 15-apr 30-apr 15-mar

Concime minerale Fonte: Ierna et al., 2006

178

Concime organo-minerale


concimazione Concimazione fogliare e fertirrigazione La distribuzione dei concimi può essere effettuata anche per via fogliare o a mezzo di fertirrigazione. In entrambi i casi debbono essere utilizzati concimi perfettamente solubili. Pertanto, la scelta del prodotto deve essere particolarmente oculata, anche in considerazione del fatto che il mercato offre numerosi preparati, spesso decisamente costosi. L’impiego di concimi fogliari serve solo a correggere momentaneamente disfunzioni o carenze nutritive di microelementi e non ad alimentare sistematicamente le piante con macroelementi. In ogni caso, la correzione di eventuali deficienze di microelementi è bene effettuarla dopo aver analizzato il terreno e le foglie. A tal fine, è opportuno ricordare che l’eventuale integrazione fogliare ha un’efficacia solo momentanea e che per eliminare la carenza si deve intervenire con una correzione del terreno. Con la fertirrigazione si distribuiscono i concimi organici o minerali sciolti nell’acqua di irrigazione, aumentando notevolmente l’efficienza di entrambe le tecniche colturali. Negli ultimi anni, la diffusione della microirrigazione nella coltivazione del carciofo ha favorito l’interesse degli agricoltori verso questa tecnica. Un limite all’adozione delle fertirrigazioni nel carciofo è rappresentato dalla difficoltà di intervenire nei periodi invernali piovosi. La fertirrigazione, invece, è facilmente realizzabile durante i periodi estivi siccitosi nelle carciofaie risvegliate precocemente con l’irrigazione. Va visto anche con interesse il suo utilizzo in coltura biologica, dove il controllo delle piante infestanti a mezzo pacciamatura con film plastico non consente la distribuzione tradizionale dei concimi.

Fertirrigazione a mezzo di manichetta forata di giovani piante coltivate su terreno ricco di scheletro

Concimazione nelle varietà propagate per “seme” Può essere gestita in sintonia con i criteri esposti per le varietà a propagazione vegetativa. Tuttavia, in considerazione del fatto che lo sviluppo e la produzione individuale delle piante da “seme”, soprattutto se ibridi F1, sono superiori di un buon 20% rispetto a quelli delle piante delle varietà propagate per via vegetativa, sarebbe opportuno, in via indicativa, aumentare, con pari percentuale, le dosi degli elementi fertilizzanti somministrati. Lo schema di concimazione consigliato potrebbe essere simile a quello proposto per le varietà autunnali tradizionali, nel caso in cui le piante da “seme” vengano trattate con AG3 per ottenere una produzione alla fine dell’autunno, e a quello ipotizzato per le varietà primaverili tradizionali, nel caso che le piante da “seme” non siano trattate con AG3. In ogni caso, è consigliabile effettuare la prima somministrazione di azoto, sotto forma di solfato ammonico, in corrispondenza dell’impianto (prima della semina o del trapianto delle plantule), atteso che la pianta proveniente da “seme” sviluppa subito e più velocemente il proprio apparato radicale.

Ibrido di carciofo propagato per “seme”

179


coltivazione Elementi nutritivi, asportazioni e carenze L’esecuzione di una razionale concimazione richiede la conoscenza delle asportazioni degli elementi nutritivi, delle quantità degli stessi già presenti nel terreno e che verranno disponibili durante la coltura e infine, se possibile, anche dei risultati di prove sperimentali di concimazione nello stesso ambiente pedoclimatico. Per quanto riguarda le asportazioni, ossia le quantità di elementi nutritivi prelevati dalle piante dal terreno durante la coltura, esse saranno tanto maggiori quanto più elevata sarà la biomassa secca prodotta dalle piante per unità di superficie. La sostanza secca può oscillare in generale dal 4 al 20% della biomassa fresca in relazione alla specie e agli organi della pianta. La sostanza secca è costituita soprattutto da C (carbonio), O (ossigeno) e H (idrogeno) rispettivamente per circa il 45, 40 e 5%, che la pianta elabora attraverso la fotosintesi, assumendo il C e l’O dall’anidride carbonica e l’H dall’acqua, mentre la restante parte, quindi circa il 10%, è formata dai macro e microelementi nutritivi che la pianta asporta dal terreno.

Pianta non affetta da carenze

Macroelementi Azoto (N). L’azoto minerale presente nel terreno è prevalentemente in forma nitrica (NO3–), in quanto quella ammoniacale (NH4+), a una temperatura normale, viene rapidamente trasformata in nitrica. Una buona dotazione di N minerale è di 80-100 ppm (80-100 mg/kg di terreno essiccato all’aria). Nella sostanza secca delle piante, l’N può oscillare, in relazione alla specie e all’organo, mediamente da 1,5 a 3,5%. Esso è costituente di composti di base, come le proteine.

Pianta con sintomi da carenza di azoto

Azoto

• La carenza di questo macroelemento

si manifesta con una generale colorazione verde pallido delle foglie e con un progressivo ingiallimento a cominciare da quelle più vecchie basali, che successivamente disseccano. Il numero di capolini per pianta risulta ridotto e le loro dimensioni appaiono notevolmente più piccole, di colore violetto intenso. L’apparato radicale si presenta poco sviluppato. Inoltre si verifica un certo aumento della percentuale di sostanza secca nei tessuti. La carenza di N determina una riduzione della percentuale dello stesso nelle foglie con un aumento nelle medesime del K e un abbassamento di Ca e Mg

L’apporto equilibrato di azoto favorisce il rigoglio vegetativo, la colorazione verde intensa delle foglie e la produzione dei capolini

180


concimazione

Fosforo

• Un’accentuata carenza si manifesta

con una notevole riduzione dello sviluppo delle piante e con una colorazione verde cinerina delle foglie, ma senza quegli arrossamenti dei margini e della pagina inferiore, che caratterizzano questa carenza in molte specie orticole. I capolini risultano di dimensioni ridotte e di una colorazione violetta intensa con comparsa di bruciature e annerimenti degli apici delle brattee esterne (black tip). L’apparato radicale è costituito da un numero ridotto di radici fittonanti, con scarsissima formazione di quelle laterali, e presenta riflessi violacei. La carenza di P determina, nelle foglie, una riduzione della concentrazione dello stesso e un aumento del calcio

Piante con sintomi da carenza di fosforo

Fosforo (P). Il fosforo viene assorbito dalle piante principalmente come fosfato monovalente (H2PO4–) e anche, ma meno rapidamente, come fosfato bivalente (HPO42–). Il pH del terreno regola l’abbondanza di queste due forme, prevalendo H2PO4– sotto pH 7 e HPO42– al di sopra. Gran parte del fosforo, presente nel terreno, risulta insolubilizzato, se il pH non è compreso tra 6 e 7; una buona dotazione è di circa 30-40 ppm. Data la scarsa mobilità del fosforo nel terreno, il suo assorbimento da parte delle piante dipende anche dallo sviluppo dell’apparato radicale. La percentuale di P2O5 nella sostanza secca delle piante risulta mediamente di 0,7-1,7% e quindi più bassa di quella dell’N. Nelle piante il fosforo, essendo componente dell’ATP (AdenosinTriPhosphate), gioca un ruolo rilevante sulla trasmissione dell’energia e quindi è indispensabile nel processo fotosintetico e in altri processi metabolici. Potassio (K). Dopo l’azoto e il fosforo, di solito, l’elemento di cui i terreni sono maggiormente carenti è il potassio, anche se, essendo meno dilavabile dell’azoto soprattutto nei suoli limoargillosi e apportandone, in generale, con la concimazione una quantità superiore a quella asportata, i terreni lungamente coltivati e concimati ne sono abbastanza ricchi. Esso viene assorbito dalle piante come K+. Una buona dotazione del terreno si aggira su 150-200 ppm. Il contenuto di K2O nella sostanza secca dei tessuti della pianta in generale può variare dal 2 al 5,5%. Il potassio nella pianta gioca un ruolo rilevante su flusso e regolazione dell’acqua nei tessuti, avendo una notevole influenza, come elemento osmotico, sull’apertura e chiusura degli stomi. Come l’azoto e il fosforo, anche il potassio viene facilmente ridistribui­ to dagli organi maturi verso quelli più giovani, per cui, anche in questo caso i sintomi compaiono prima di tutto sulle foglie più vecchie e su quelle posizionate in basso.

Annerimento degli apici delle brattee esterne del capolino o black tip, fisiopatia determinata dalla carenza di fosforo. Il fenomeno avviene in prevalenza nelle piante ottenute da trapianto di piantine (carducci o ovoli) allevate in torba, a causa di un successivo ridotto sviluppo dell’apparato radicale in campo

181


coltivazione Contenuto di macroelementi nella sostanza secca (% nella s.s.) delle foglie di carciofo in carenza degli elementi principali

Potassio

• Una forte carenza di questo elemento

riduce lo sviluppo delle piante ma in misura minore rispetto a quelle di N e P. Le foglie si presentano di un verde cupo con bollosità e clorosi diffusa a iniziare dai margini. Le piante dimostrano una notevole sensibilità all’oidio. I capolini risultano molto verdi. L’apparato radicale è caratterizzato da un accentuato branching. La carenza di K riduce la concentrazione dello stesso nelle foglie e determina un aumento di quella dell’N

Tesi

N

P2O5

K2O

CaO

MgO

Testimone

2,72

1,58

5,86

1,82

0,86

Carenza N

1,41

1,69

6,1

1,54

0,61

Carenza P2O5

2,68

0,32

5,64

2,49

1,06

Carenza K2O

3,86

1,56

1,26

1,7

0,86

Calcio (Ca). È un elemento in generale fortemente presente nei terreni agrari italiani soprattutto nel Centro Sud. Il calcio viene assorbito dalla pianta come Ca++. Nei terreni raggiunge valori anche di 1000-1600 ppm. Valori alti comunque sono utili, soprattutto, se nell’acqua di irrigazione è contenuto il sodio, elemento che risulta antagonista del calcio per l’assorbimento. Il contenuto in CaO nei tessuti della pianta può variare da 0,6 a 5,5% sulla s.s. Il calcio è un componente essenziale delle pareti cellulari e quindi responsabile della stabilità dei tessuti. Occorre dire che sintomi di carenza di questo elemento possono essere presenti anche se il contenuto nel terreno è a livelli normali. La causa di questo disordine nutrizionale è un assorbimento limitato, per esempio per l’antagonismo con il sodio, o una irregolare distribuzione in seno alla pianta negli organi che hanno un basso livello di traspirazione, in quanto il calcio viene trasportato quasi completamente nello xilema e quindi con il flusso traspiratorio, e non ha luogo una sua ridistribuzione nel floema. Magnesio (Mg). Questo elemento, generalmente presente in misura sufficiente nei terreni italiani, può risultare carente nei terreni sabbiosi in zone particolarmente piovose. Si può verificare carenza di magnesio anche in terreni molto ricchi di potassio per fenomeni di antagonismo di assorbimento con questo elemento. Nei terreni, buoni valori sono di 40-50 ppm. Dalle piante viene assunto come Mg2+ ed è presente nella sostanza secca in percentuali medie di 0,7-1,2%. Il magnesio gioca un ruolo rilevante sulla fotosintesi, essendo componente della molecola della clorofilla, sulla sintesi delle proteine e sulla distribuzione degli assimilati nei tessuti delle piante. Zolfo (S). In generale è difficile che questo elemento sia carente nei terreni agrari. Dalle piante è assorbito come SO42– ed è contenuto nella sostanza secca in percentuali medie di 0,15-0,40%. Occorre comunque sottolineare che la forma SO42– è libera e quindi, come l’NO3–, facilmente dilavabile, per cui un’eventuale carenza si può avere soprattutto nei terreni

Carenza di potassio, che determina anche un’estrema sensibilità all’oidio

182


concimazione sabbiosi, in zone caratterizzate da forte piovosità. Lo zolfo, nella sua forma elementare, non viene assorbito dalle piante ma deve essere dapprima trasformato dai tiobatteri in SO42–: ciò avviene lentamente se la temperatura del suolo è inferiore ai 10 °C. Nella pianta è componente delle proteine contenenti amminoacidi solforati come cistina e metionina, di enzimi e di vitamine (Vit. B1 o tiamina).

Ferro

• La carenza determina la comparsa

di una leggera clorosi sulle foglie e una lieve increspatura in quelle più giovani. Le piante risultano inoltre più assurgenti. Sui capolini compare il black tip e sono caratterizzati da una più elevata percentuale di sostanza secca

Microelementi Ferro (Fe). È presente nel terreno nella forma ionica trivalente o cosiddetta ossidata (Fe+++) e in quella bivalente o ridotta (Fe++). Quest’ultima è maggiormente e più rapidamente assorbita dalle piante. Dotazioni ottimali si aggirano, in relazione al tipo di terreno, tra 3 e 6 ppm. Nelle piante è presente in molti enzimi ed è fondamentale per la sintesi della clorofilla. Nella sostanza secca raggiunge mediamente valori di 200-800 ppm. Rame (Cu). È un microelemento presente nel terreno nella forma monovalente ridotta (Cu+) e nella forma bivalente (Cu++), maggiormente assorbibile dalle piante; dotazioni ottimali si collocano tra 4 e 7 ppm in relazione al tipo di terreno, con i valori maggiori richiesti nei terreni ricchi di humus dove in parte viene fissato. Nelle piante è presente negli enzimi che determinano le ossidasi, che a loro volta sono coinvolte nel metabolismo dell’azoto. Nella sostanza secca i valori più frequenti sono tra 10 e 50 ppm. Boro (B). È presente nel terreno sotto forma libera di acido borico (H3BO3), rapidamente e passivamente assorbito dalle piante, e di ione borato (H4BO4–), asportato in minore quantità.

Sintomi di carenza di ferro

Rame

• Le piante presentano uno sviluppo molto ridotto con foglie piccole, di colore verde biancastro, con comparsa, in caso di carenza accentuata, del solo capolino principale che risulta piccolo, verdastro e teratologico

Sintomi di carenza di rame. Da notare il colore verde e la forma in parte teratologica del capolino

183


coltivazione Dotazioni ottimali si aggirano su 0,8-1,2 ppm, con i valori maggiori nei terreni argillosi e ricchi di humus. Il boro nelle piante svolge il ruolo importante di attivatore e disattivatore degli ormoni della crescita. Stimola anche il trasporto degli zuccheri. Nella sostanza secca delle piante è presente con valori da 15 a 100 ppm.

Boro

• Nella carenza di questo elemento

si osserva una pianta compatta, con stelo raccorciato e con foglie molto increspate. I capolini presentano gli apici delle brattee aperti e di colore verdastro e risultano più piccoli e anche teratologici

Molibdeno (Mo). È presente nel terreno in forma libera e assorbibile dalle piante come MoO4-- e nelle analisi del terreno viene riferito come molibdeno disponibile; giuste dotazioni si aggirano tra 0,2 e 0,4 ppm. Il molibdeno è componente sia degli enzimi, che trasformano i nitrati nelle cellule (in particolare la nitratoriduttasi ), quindi alla base della formazione degli amminoacidi, sia di quelli che favoriscono nelle leguminose l’azotofissazione. Nella sostanza secca delle piante è presente da 0,2 a 10 ppm. I sintomi di carenza compaiono sulle foglie più vecchie che risultano ispessite con macchie gialle ai margini. Talvolta si ha anche malformazioni delle foglie che assumono un aspetto ovoidale a cucchiaio. Manganese (Mn). È presente in generale nei terreni in quantità notevolmente superiori al fabbisogno delle piante; può, comunque, non essere disponibile per l’assorbimento nella forma libera e assorbibile dalle piante come Mn2+ a causa del pH troppo elevato del terreno o per l’eccessiva presenza di calcio, elemento antagonista per l’assorbimento. Dotazioni normali si situano tra

Carenza di boro. Da notare in particolar modo il raccorciamento dello stelo della pianta e il colore verdastro degli apici delle brattee del capolino

Molibdeno

• La carenza si manifesta attraverso

un ridotto sviluppo delle piante caratterizzate da un colore verde pallido e con stelo molto assurgente rispetto al vigore delle piante che appaiono filate, con internodi più allungati, come se fossero allevate in carenza di luce. Il capolino principale appare nettamente dominante rispetto ai secondari

Carenza di mobildeno. Da notare soprattutto l’eccessiva assurgenza dello stelo

184


concimazione

Manganese

• Le piante risultano molto espanse

e limitate in altezza, di un colore verde molto intenso. Le foglie più giovani presentano un lembo molto ampio. Si riscontra infine la presenza di black tip sui capolini

Carenza di manganese. Da notare il portamento espanso e il colore verde intenso delle piante

Carenza di zinco. Da notare la forma molto espansa delle foglie giovani superiori

2 e 4 ppm. Il manganese è componente di enzimi che attivano il processo di distensione cellulare e di quelli che stimolano la fotosintesi e la sintesi proteica. Nella sostanza secca delle piante è presente da 120 a 1350 ppm.

Zinco

• La carenza determina la formazione

di foglie giovani molto espanse con presenza di black tip sui capolini. Quelli secondari manifestano inoltre una colorazione molto rossastra

Zinco (Zn). I terreni, in generale, raramente soffrono della carenza di questo microelemento, la cui forma libera e assorbibile dalle piante è Zn2+ . Dotazioni normali sono tra 1 e 4 ppm. Come metallo pesante dosi superiori a 7 ppm nei terreni sabbiosi possono essere già fitotossiche per certe piante. Lo zinco è presente nella sostanza secca delle piante da 20 a 120 ppm. Esso influisce su diversi processi, come il metabolismo dell’azoto, l’assorbimento del fosforo e la formazione delle auxine.

Contenuto in macro e microelementi nella sostanza secca (s.s.) delle foglie basali di carciofo durante la coltura in carenza dei microelementi Tesi

% s.s.

N

P2O5

K2O

CaO

MgO

Fe

Cu

Mo

%

B

Mn

Zn

ppm

Testimone

9,93

2

1,9

5,6

5,5

1,7

316

48

1,3

26

143

133

Carenza Fe

8,73

2

1,2

5,2

5

1,6

222

40

1

24

203

113

Carenza Cu

8,09

2,2

1,4

5

5,1

1,9

528

38

2

18

153

70

Carenza Mo

11,1

1,7

1,3

3,1

4,2

1,7

313

34

0,3

23

123

95

Carenza B

10,8

2,1

1,9

4,3

4,4

1,5

328

36

1

11

100

75

Carenza Mn

10,42

2

2,3

5,6

4,9

1,5

385

45

2

36

80

85

Carenza Zn

10,14

2,1

2,6

4,7

4,3

1,3

280

41

0,5

35

110

70

185


coltivazione Biomassa fresca e secca e asportazioni degli elementi nutritivi in carciofo della cultivar Grato 1 Concentrazione degli elementi nutritivi nei tessuti in carenza di microelementi

Biomassa

• Per individuare, in modo più preciso,

Fresca

Secca

N

P2O5

K2O

CaO

MgO

q/ha

q/ha

kg/ha

kg/ha

kg/ha

kg/ha

kg/ha

Stelo con foglie

643

91

108

23

256

290

41

Carducci

266

21

72

18

74

47

10

Capolini

175

24

59

19

82

20

8

Totale biomassa epigea

1084

136

239

60

412

357

59

Incremento annuale radici

119

40

38

9

59

26

11

Totale pianta

1203

176

277

69

471

383

70

Parte epigea

l’origine del sintomo da carenza di un microelemento, risulta opportuno analizzare il contenuto di quest’ultimo nelle foglie basali, in quanto soprattutto in queste si verifica la riduzione della concentrazione del microelemento carente senza gravi riflessi sulla concentrazione dei macroelementi

Parte ipogea

Asportazioni Il carciofo è una pianta caratterizzata da una parte ipogea, detta anche ceppaia, costituita da un robusto apparato radicale sul cui colletto si differenziano le gemme che danno origine ai germogli, detti carducci. Di questi, nel carciofo Romanesco (tardivo) ne

Cultivar Grato 1 di cui sono state studiate le asportazioni di elementi nutritivi

186


concimazione viene lasciato in generale uno solo, mentre nel carciofo precoce si arriva anche a tre. Gli altri vengono eliminati mediante la cosiddetta scarducciatura. Nel caso della ricerca condotta sulla cultivar Grato 1 sono stati raccolti i capolini con uno stelo di 4-5 cm privo di foglie, mentre in quella sulla cultivar Locale di Mola, i capolini venivano tagliati con una parte rilevante di stelo provvisto anche di foglie. Sia il carciofo precoce (cultivar Locale di Mola) sia quello tardivo di tipo Romanesco (cultivar Grato 1) producono, ad analoga densità di impianto di circa 7000 pt/ha, una notevole quantità di biomassa fresca e secca, maggiore nel secondo rispetto al primo, nonostante il peso fresco dei capolini sia solo parzialmente diverso e quello secco identico. La maggior parte della biomassa è costituita, in entrambe le cultivar, dallo stelo principale con foglie. La biomassa fresca dei capolini rappresenta solo circa il 12-14% dell’intera biomassa prodotta dalla pianta. Il carciofo è caratterizzato quindi da un harvest index veramente basso. Nel carciofo tardivo si possono individuare 2 periodi di massimo accrescimento: il primo nel periodo di risveglio vegetativo, a fine estate, con lo sviluppo dei carducci, il secondo a fine inverno con la crescita dello stelo fiorale e l’inizio della formazione del capoli-

Foto N. Calabrese

Parcelle sperimentali

Biomassa fresca e secca e asportazioni degli elementi nutritivi in carciofo della cultivar Locale di Mola

Foto M. Curci

Biomassa Fresca

Secca

N*

P2O5*

K2O*

CaO**

MgO**

ql/ha

ql/ha

kg/ha

kg/ha

kg/ha

kg/ha

kg/ha

Fusto principale con foglie

456

51

116

16

144

142

21

Carducci

246

18

56

6

71

33

7

Parte epigea

Capolini e vegetazione asportati alla raccolta: capolini

151

24

50

8

66

16

7

steli

49

6

9

2

20

8

2

foglie

94

11

30

4

37

37

4

totale

294

41

89

14

123

61

13

Totale parte epigea

996

110

261

36

338

236

41

Parte ipogea

96

21

25

8

30

14

5

Totale pianta

1092

131

286

44

368

250

46

Prima di un nuovo impianto è opportuno effettuare l’analisi del terreno per l’esecuzione di una corretta concimazione

* Magnifico e Lattanzio (1976) ** Magnifico e Lattanzio (1981)

187


coltivazione Produzione di biomassa fresca e secca durante i vari periodi di sviluppo delle piante di carciofo della cultivar Grato 1

Fabbisogno nutritivo

• I periodi di maggior fabbisogno

di nutrienti sono quelli del risveglio vegetativo, con la produzione dei carducci, e di formazione dello stelo fiorale sino al completo sviluppo del capolino principale

370

q/ha

270

• La quantità di elementi necessari

per produrre 1 q di capolini sono, nel carciofo tardivo, di 1,6-0,4-2,7-2,2-0,4 kg e, nel precoce, 1,9-0,3-2,4-2,5-0,30 rispettivamente di N, P2O5, K2O, CaO, MgO. Nel precoce gli elementi nutritivi asportati dal terreno, con la raccolta dei capolini, risultano del 31% per l’N, del 32% per il P2O5 e del 33% per il K2O, mentre per il tardivo del 21% per l’N, del 27% per il P2O5 e del 17% per il K2O del totale assorbito dall’intera coltura. E quindi circa il 70-75% degli elementi rimane sul campo. Per quanto riguarda le asportazioni totali dei quattro microelementi riportate per il carciofo precoce, il ferro (Fe) rappresenta il microelemento più assorbito con circa 5 kg/ha, seguito da manganese (Mn), zinco (Zn) e rame (Cu) rispettivamente con 0,64, 0,28 e 0,17 kg/ha

170 70 –30

20/8 17/9

18/9 9/10

10/10 7/11 20/12 6/11 19/12 16/1

19/1 8/2

9/2 19/3

20/3 9/4

10/4 29/4

30/4 14/5

15/5 5/6

Periodi di formazione di biomassa Biomassa fresca

Biomassa secca

no principale. Il secondo rappresenta il periodo di massima produzione di biomassa fresca e secca. Nel carciofo precoce, invece, il periodo di massima formazione di sostanza fresca e secca nell’agro di Mola di Bari, in Puglia, si verifica all’inizio dell’inverno con la crescita dei fusti principali e la contemporanea emissione dei capolini. In relazione alle asportazioni, il carciofo è una pianta che assorbe una grande quantità di elementi nutritivi, in particolare modo K2O ed N, e questi elementi si trovano soprattutto nella parte epigea e, principalmente, nello stelo fiorale fornito di foglie, essendo questa la parte della pianta con produzione maggiore di sostanza fresca e secca. Passando ad analizzare il ritmo di assorbimento dei diversi nutrienti, si può rilevare come essi seguano l’andamento della produzione della biomassa fresca e secca e quindi il picco di maggior assorbimento si verifica con lo sviluppo dello stelo fiorale e la formazione del capolino principale, che per il carciofo Romanesco classico si ha verso la seconda metà di marzo. In questo periodo viene asportato circa un terzo del totale degli elementi assorbiti nell’arco dell’intero ciclo colturale. Le concentrazioni maggiori di N, P2O5 e K2O si verificano nei carducci e nei capolini, mentre quelle di CaO e MgO nello stelo fornito di foglie. La percentuale di N, P2O5 e K2O tende a ridursi verso la fine del ciclo colturale, mentre aumenta quella del CaO e rimane costante la concentrazione di MgO. 188


concimazione Asportazioni di alcuni microelementi in carciofo della cultivar Locale di Mola

Foto N. Calabrese

Fe

Mn

Zn

Cu

g/ha

g/ha

g/ha

g/ha

Fusto principale con foglie

2597

326

86

79

Carducci

1185

98

62

25

Parte epigea

Capolini e vegetazione asportati alla raccolta: capolini

230

63

70

19

steli

50

7

8

4

foglie

261

73

22

8

totale

541

143

100

31

Totale parte epigea

4323

567

248

135

Incremento annuale delle radici

873

78

28

31

Totale pianta

5196

645

276

166

Parte ipogea

Ottima produzione di capolini

Fonte: Magnifico e Lattanzio,1981

Assorbimento degli elementi nutritivi durante i vari periodi di sviluppo delle piante della cultivar Grato 1 130

kg/ha

80

30

–20 20/8 17/9 N

P205

18/9 9/10 K20

10/10 6/11 CaO

7/11 19/12 MgO

20/12 19/1 16/1 8/2 Periodi di asportazione

9/2 19/3

189

20/3 9/4

10/4 29/4

30/4 14/5

15/5 5/6


il carciofo e il cardo

coltivazione Irrigazione e salinità Vito Cantore, Francesca Boari

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


coltivazione Irrigazione e salinità Fabbisogni idrici e variabili irrigue Il carciofo è una specie in grado di completare il ciclo colturale sfruttando le sole acque meteoriche nella maggior parte degli areali di coltivazione italiani. Tuttavia, per fornire elevate produzioni di buona qualità, secondo un calendario di raccolta ben programmato, necessita di apporti idrici supplementari, poiché le precipitazioni non sempre sono sufficienti a soddisfare i fabbisogni idrici della coltura. La frequenza degli interventi irrigui e i volumi di adacquamento dovrebbero essere tali da garantire un accrescimento regolare della coltura, evitando l’insorgere di fenomeni di stress idrico che si ripercuotono negativamente sulla precocità e sulla pezzatura dei primi capolini. Inoltre, stress idrici durante il ciclo colturale potrebbero causare effetti negativi anche sulla formazione delle gemme dei rizomi, con ripercussioni deleterie sulla coltura dell’anno seguente. Il fabbisogno idrico o consumo idrico (ETc, quantità di acqua persa per evapotraspirazione in condizioni di disponibilità idrica ottimale) del carciofo può variare considerevolmente in relazione alle diverse tipologie di coltivazione. In particolare, la coltura forzata con il risveglio anticipato (giugno) e quella propagata per “seme”, normalmente trapiantata in luglio, presentano fabbisogni idrici più elevati di quella risvegliata tardivamente (settembre). Infatti, i fabbisogni idrici sono influenzati sia dalla domanda evapotraspirativa dell’ambiente, sia dallo stadio fenologico della coltura. Più in particolare, passando dai mesi estivi, quando ha inizio la

Misura degli scambi gassosi

Irrigazione per aspersione

Foto R. Angelini

190


irrigazione e salinità stagione irrigua con il risveglio delle piante, a quelli autunno-invernali e ai successivi primaverili, la domanda evapotraspirativa dell’ambiente tende prima a decrescere e successivamente ad aumentare; invece, il LAI (Leaf Area Index) della coltura e, quindi, la superficie traspirante aumentano progressivamente per decrescere solo verso la fine del ciclo colturale, con la senescenza delle foglie. Come conseguenza dell’andamento di questi due parametri, l’evapotraspirazione media giornaliera varia da 3 mm nel periodo agosto-ottobre, a 1,5-2 mm da novembre a febbraio, e a valori compresi tra 2 e 4 mm da marzo a maggio; per la coltura propagata per “seme”, che generalmente presenta una maggiore superficie fogliare, si raggiungono anche 6 mm nell’ultima fase del ciclo colturale. Nelle carciofaie poliennali i consumi idrici sono più elevati il primo anno e tendono a decrescere negli anni successivi come conseguenza della riduzione del vigore vegetativo e, quindi, della superficie fogliare. I consumi idrici totali, perciò, variano sensibilmente in relazione all’ambiente e alla modalità di coltivazione (modalità ed epoca di

Variabili irrigue

• Il volume di adacquamento (V) si calcola come segue:

V = S × s × h × (c-u) × ρ/(100 × Ei) dove, S = superficie da irrigare (ha) s = superficie interessata dall’umettamento (100% per l’irrigazione per aspersione; 60-70% per l’irrigazione a goccia) h = profondità raggiunta dalle radici (m) c = umidità del terreno alla capacità di campo (%) u = umidità del terreno al momento dell’irrigazione (%)

LAI, ETc ed E durante il ciclo colturale del carciofo propagato per “seme” in Italia meridionale

ρ = massa volumica apparente del terreno (Mg/m3) Ei = efficienza dell’irrigazione (0,7-0,8 per l’irrigazione per aspersione; 0,85-0,95 per l’irrigazione a goccia)

6 5

• Il volume stagionale di irrigazione

LAI

4

o fabbisogno irriguo (I) può essere calcolato per mezzo del bilancio idrico:

3

I = ETc – N + Pr + D

2

ETc = evapotraspirazione massima giornaliera della coltura (mm/giorno)

1 0

17-ago

17-ott

17-dic

17-feb

N = apporti idrici naturali (precipitazioni, falda)

17-apr

Pr = perdite di varia natura (ruscellamento, percolazione)

ETc, E (mm)

12

D = variazioni positive o negative dell’umidità del terreno e della vegetazione

9

• L’ETc può essere stimata con il metodo

6

evapotraspirometrico attraverso la conoscenza dei valori giornalieri della evapotraspirazione di riferimento (ET0):

3 0

dove,

28-ago E (evap. “classe A”)

ETc = Kc × ET0 dove, 27-ott ETc

26-dic

24-feb

Segue

25-apr

191


coltivazione

Continua Kc = coefficiente colturale che varia con il tipo di coltivazione e lo stadio di sviluppo della coltura. Come media mensile, nella coltura propagata agamicamente, aumenta da 0,5 dell’inizio del ciclo colturale, fino a 1,1 raggiunto a febbraio-marzo, per poi diminuire progressivamente fino a 0,8 nelle ultime fasi del ciclo. Nelle colture propagate per “seme”, invece, aumenta da 0,4 a inizio del ciclo, a 1,1 raggiunto nel mese di novembre, rimane stabile attorno a questo valore fino a marzo, quindi aumenta nuovamente fino a 1,5 nel mese di maggio

Impianto di fertirrigazione

impianto, epoca di risveglio, cultivar, età della carciofaia), con valori compresi tra 400 e 900 mm. Il limite di intervento irriguo ottimale per questa coltura risulta pari a un potenziale matriciale dell’acqua del terreno, nello strato maggiormente interessato dall’apparato radicale, variabile tra 0,05-0,1 MPa nel periodo estivo e tra 0,1-0,2 MPa nel periodo autunno-invernale; ciò corrisponderebbe a una perdita di acqua contenuta nel terreno pari, rispettivamente, al 20-30 e al 40-50% dell’acqua disponibile. Il turno irriguo (intervallo di tempo affinché la sommatoria dell’ETc giornaliera, a partire dall’ultima adacquata, al netto delle piogge utili, sia pari alla frazione limite di acqua persa dal terreno prima

L’ET0 può essere stimata: (i) utilizzando i valori di evaporazione (E) da evaporimetro di “classe A”, moltiplicati per il coefficiente di vasca (variabile in relazione alla ventosità, all’umidità dell’aria, al tipo di copertura del terreno intorno alla vasca; mediamente pari a 0,8 per l’Italia meridionale); (ii) con il metodo, oggi ritenuto più attendibile, di Penman-Monteith che richiede come dati di input temperatura e umidità dell’aria, radiazione solare e velocità del vento

Foto M. Curci

Rischio di gelate

• Il risveglio anticipato della carciofaia

per ottenere produzioni precoci aumenta il rischio di danni da freddo poiché, al sopraggiungere dei primi freddi invernali, la coltura presenta un eccessivo vigore vegetativo che la rende più suscettibile al freddo. Inizialmente viene danneggiata la cuticola delle brattee esterne, quindi l’intero capolino e, infine, l’intera pianta Carciofaia irrigata a goccia nel Brindisino

192


irrigazione e salinità indicata) può variare notevolmente in relazione alla stagione, alle caratteristiche idrologiche del terreno, al metodo irriguo e al volume di terreno maggiormente interessato dalle radici. Generalmente varia da 5 a 30 giorni, con la minor durata nei terreni sabbiosi, nelle prime fasi del ciclo colturale e con l’irrigazione a goccia. La durata maggiore, invece, si ha in presenza di terreni argillosi, durante l’inverno e con metodo irriguo per aspersione. Dopo la prima abbondante adacquata (1000-1200 m3/ha per terreni di tipo limoso-argilloso e irrigazione per aspersione, 400600 m3/ha con irrigazione a goccia, considerando il terreno in partenza asciutto), effettuata per favorire il risveglio della coltura, i volumi di adacquamento variano in relazione alla tessitura del terreno, al metodo irriguo e alla profondità degli apparati radicali (il carciofo presenta radici che, se non incontrano strati di terreno impervi, possono raggiungere anche un metro di profondità). Per terreni profondi, tendenzialmente argillosi, i volumi si aggirano intorno a 300-400 m3/ha nel periodo estivo-inizio autunno e a 500-700 m3/ha nel periodo successivo, con il metodo irriguo a pioggia, somministrati con turni irrigui medi di 8-10 e 20-30 giorni, rispettivamente. Con l’irrigazione a goccia, invece, nelle stesse condizioni i volumi di adacquamento e i turni irrigui saranno di oltre il 50% più bassi (130-200 m3/ha e 3-5 giorni nel periodo estivo-inizio autunno, 250-300 m3/ha e 9-14 giorni nel periodo successivo). La durata della stagione irrigua varia in relazione all’epoca di trapianto o di risveglio della carciofaia e all’andamento climatico. In generale, inizia con il risveglio o con il trapianto e si protrae fino a 10-15 giorni prima dell’ultima raccolta. In caso di disponibilità idriche limitate, si preferisce far risvegliare la carciofaia naturalmente Foto M. Curci

Danni da freddo Giovane impianto con irrigazione a goccia

193


coltivazione con le precipitazioni di fine estate, ottenendo una considerevole riduzione del fabbisogno idrico e irriguo; in questo caso la stagione irrigua inizia in settembre-ottobre. Il volume stagionale di irrigazione o fabbisogno irriguo varia in relazione al fabbisogno idrico e all’andamento pluviometrico e può essere calcolato per mezzo del bilancio idrico. Pertanto, nella stessa località e con le medesime condizioni colturali può variare sensibilmente in relazione alle precipitazioni totali e alla loro distribuzione durante il ciclo colturale. Generalmente sono necessari volumi stagionali di irrigazione compresi tra 2000 e 4000 m3/ha.

Foto N. Calabrese

Metodi irrigui Per il carciofo è molto diffuso il metodo irriguo per aspersione a bassa intensità di pioggia con impianti mobili o stanziali. Questi ultimi trovano utilità anche per l’irrigazione climatizzante (antigelo e per ridurre la temperatura e il deficit di pressione di vapore dell’aria responsabili dell’atrofia dei capolini). Per quest’ultimo scopo trova utile applicazione anche il metodo irriguo localizzato a bassa pressione a spruzzo. Tuttavia negli ultimi anni si è sempre più diffuso il metodo irriguo localizzato a goccia con ali disperdenti adagiate sul terreno lungo i filari, disponendo i gocciolatori a distanze variabili in funzione della tessitura dei terreni. Per evitare ostacoli alla meccanizzazione delle operazioni colturali si ricorre spesso alla sospensione, al di sopra della coltura, delle ali gocciolanti che vengono sostenute da apposite intelaiature,

Piantina in fase di attecchimento con irrigazione a goccia

Particolare dell’impianto di irrigazione a goccia Panoramica di una carciofaia irrigata con il metodo della irrigazione localizzata

194


irrigazione e salinità realizzate con pali di castagno e fili di ferro zincato, disposte parallelamente alle file. Con l’irrigazione a goccia è possibile ottenere un’elevata uniformità di distribuzione dell’acqua, un’elevata efficienza dell’adacquata, ridotte perdite e, conseguentemente, considerevole risparmio di acqua. Inoltre, l’irrigazione a goccia è il metodo irriguo da consigliare se si utilizzano acque salmastre per evitare i danni diretti dei sali sulle foglie. Recentemente è stata utilizzata, con risultati positivi, la subirrigazione che consiste nell’interramento a 25-40 cm di profondità delle ali gocciolanti, il cui materiale contiene microdosi di trifluralin per ostacolare l’intrusione dei peli radicali nei gocciolatori ed evitarne l’occlusione.

Foto N. Calabrese

Tolleranza alla salinità In molte località in cui si coltiva il carciofo, per l’irrigazione viene utilizzata acqua di falda che, per l’intrusione marina provocata dall’eccessivo emungimento dei pozzi, presenta un’elevata concentrazione di sali. La salinità della soluzione circolante rappresenta una condizione di stress per le piante. Infatti, l’eccessiva concentrazione di sali ostacola l’assorbimento idrico a causa dell’elevata pressione osmotica e determina l’accumulo fino a livello tossico di alcuni ioni nei tessuti della pianta. Pertanto, vengono alterati numerosi processi fisiologici (fotosintesi, conduttanza stomatica, traspirazione, attività enzimatiche ecc.) e si verificano squilibri nutrizionali per fenomeni di antagonismo ionico e modifiche morfologiche

Particolare dell’impianto di irrigazione per aspersione

Carciofaia irrigata per aspersione con ala piovana

Foto R. Angelini

195


coltivazione della pianta, che si ripercuotono negativamente sui processi di crescita e sulla produzione. Nel carciofo l’aumento della salinità influenza gli scambi gassosi, prevalentemente come conseguenza della riduzione della conduttanza stomatica. Pertanto, la fotosintesi netta, oltre un valore soglia di salinità del terreno (ECe = 4,9 dS/m), si riduce linearmente del 4,3% per ogni incremento unitario di salinità, mentre la traspirazione si riduce maggiormente; ciò, nel complesso, provoca un aumento dell’efficienza d’uso dell’acqua. A livello morfologico l’aumento della salinità riduce la superficie fogliare e l’altezza delle piante, per cui queste ultime tendono ad assumere un habitus vegetativo più compatto, tipico delle specie che in natura vivono in ambienti salini. Il numero di foglie per pianta non è influenzato in modo rilevante da questo tipo di stress, mentre il numero di carducci si riduce. Tuttavia, con livelli di ECe elevati (22 dS/m) il carciofo può presentare ancora 1-2 carducci vitali. Il rapporto tra parte epigea e parte ipogea (radici e rizoma) tende a diminuire con l’incremento della salinità, dimostrando una maggiore riduzione della parte aerea rispetto alle radici e ai rizomi. L’elevata salinità nella fase di risveglio determina un notevole ritardo dell’emergenza delle piante le cui foglie possono presentare necrosi marginali. A livello produttivo, secondo il modello classico di tolleranza alla salinità di Maas e Hoffman, il carciofo è una specie moderatamente tollerante, con una certa variabilità tra le cultivar. Infatti, presenta valori di soglia critica compresi tra 2,6 e 6,1 dS/m, di pendenza tra 5,4 e 11,5 % m/dS e di ECe50 (valore della ECe in

Modello di tolleranza alla salinità

• Il modello di tolleranza alla salinità

di Maas e Hoffman (1977) si basa sulla relazione tra produzione relativa ed ECe come di seguito riportato: y = 100 - b (ECe - a) dove: y (%) = produzione relativa (produzione rispetto a quella ottenibile senza stress salino) b = (m/dS) pendenza (coefficiente angolare della relazione lineare tra produzione relativa e salinità), che corrisponde alla riduzione della produzione relativa per ogni incremento unitario della ECe a (dS/m) = soglia critica (valore di salinità oltre il quale la produzione relativa si riduce linearmente) ECe (dS/m) = conducibilità elettrica dell’estratto di pasta satura del terreno

Misura della salinità

• Il parametro di riferimento della salinità

del terreno è rappresentato dalla conducibilità elettrica dell’estratto di pasta satura (ECe), espressa in dS/m, che si misura in laboratorio (metodo standard) o in situ attraverso sensori conduttimetrici Danni da salinità: clorosi e necrosi marginale delle foglie

196


irrigazione e salinità corrispondenza del quale la produzione si riduce del 50 %) variabili tra 9,5 e 14,5 dS/m. La riduzione della produzione totale di capolini che si osserva con l’aumento della salinità è determinata dalla riduzione del peso medio, per valori di salinità moderati, e anche del numero di capolini quando la salinità raggiunge valori più elevati. Questo aspetto non è di secondaria importanza per questa specie che in Italia normalmente viene commercializzata a numero e non a peso. A livello qualitativo la salinità determina l’aumento del contenuto di sostanza secca e della fibrosità dei capolini. Inoltre, può favorire l’atrofia del capolino e l’imbrunimento della parte mediana delle brattee interne. Il moderato grado di tolleranza alla salinità di questa specie è attribuibile principalmente alla modalità di traslocazione e accumulo degli ioni tossici nella pianta. Infatti, in condizioni saline, il carciofo assorbe quantità rilevanti di sodio che veicola e accumula prevalentemente nelle foglie vecchie. Nei tessuti in cui si verifica l’accumulo del sodio si manifesta contemporaneamente la riduzione del potassio. Pertanto, il rapporto Na/K aumenta sia per l’incremento del sodio sia per la riduzione del potassio. L’accumulo del sodio, così come per il cloro, risulta più alto nella lamina rispetto alla nervatura fogliare. Questo tipo di risposta al cloruro di sodio riconduce questa specie al comportamento delle piante alofite; pertanto, per analogia, si può considerare una specie ancestralmente alofita, come dimostra anche la distribuzione costiera delle popolazioni selvatiche di Cynara cardunculus e la capacità di accumulare fino a 140 g di Na/kg di sostanza secca nei tessuti delle foglie vecchie quando si accresce in condizioni permanenti di salinità. Questo meccanismo di inclusione dei sali nelle foglie vecchie sembra che aiuti la pianta a superare gli effetti dello stress salino in quanto permette alle giovani foglie di accumulare basse quantità di sali, compatibili con i processi di crescita. Pertanto, tra le specie orticole, il carciofo è una tra le più idonee a essere coltivata nei comprensori a rischio di salinità. Tuttavia, con gli elevati volumi di acqua richiesti dalla coltura forzata nel periodo estivo-autunnale si possono apportare al terreno quantità di sali tali da superare la soglia critica per questa specie, pregiudicando soprattutto le produzioni precoci per la riduzione della pezzatura e del numero di capolini e per l’aumento del rischio di atrofia dei capolini che, già elevato per il prodotto precoce, può essere accentuato dalla salinità. Inoltre, è da tenere presente che il notevole ritardo del risveglio vegetativo causato dalla salinità del terreno può vanificare l’impiego di cospicue risorse idriche per anticipare la produzione. Pertanto, nelle località in cui l’acqua per l’irrigazione è salmastra è preferibile non ricorrere al risveglio precoce e puntare alle produzioni tardive.

Lorca 14 Violin Violetto di Provenza

13

12 A106

Tolleranza alla salinità (ECe, dS/m)

11

10 Opal 9 Tolleranza alla salinità di alcuni genotipi

Il carciofo è una coltura che tollera discretamente la salinità

197


coltivazione Atrofia del capolino L’eccessivo anticipo del risveglio della carciofaia, per ottenere la produzione precoce, spesso determina l’insorgenza dell’atrofia del capolino, una fisiopatia che colpisce prevalentemente i capolini principali di cultivar precoci quali Catanese, Violetto di Provenza, Spinoso sardo, Spinoso di Palermo. La fisiopatia si manifesta con malformazioni del capolino (carciofi “ciechi” o “monaci”) che può presentare dimensioni ridottissime o normali, forma irregolare e brattee non completamente sviluppate, il cui margine è spesso imbrunito, probabilmente a causa dell’ossidazione dei polifenoli. Inoltre, si verifica la mancanza più o meno totale di abbozzi fiorali sul ricettacolo, la cui parte superiore appare in parte o completamente necrotica. L’atrofia è ascrivibile a squilibri nutrizionali che provocano la carenza di calcio nei capolini. Infatti, dal punto di vista fisiologico, questo elemento è un componente essenziale del “cemento” pectico-proteico della lamella mediana che, in caso di carenza, si decompone rendendo i tessuti suscettibili a fitopatie (soprattutto a opera di Botrytis e Erwinia spp.). Infatti, dopo l’iniziale imbrunimento del tessuto, la zona interessata diventa nera e marcescente. La carenza di calcio nei capolini, oltre che dalla scarsità dell’elemento nel terreno, può essere causata anche da antagonismo nell’assorbimento ionico dovuto alla salinità, dal regime idrico del terreno irregolare e da elevata domanda evapotraspirativa dell’ambiente, a cui concorrono principalmente la bassa umidità relativa dell’aria, elevate temperature (medie e massime giornaliere maggiori di 19-20 e 25-26 °C, rispettivamente) e ventosità.

Misura della salinità in situ

Foto V. Magnifico

Foto V. Magnifico

Sezione di capolino atrofico Capolino normale (a destra) e capolini con diversi gradi di atrofia

198


irrigazione e salinità La fase fenologica di maggiore sensibilità alle condizioni climatiche che favoriscono la fisiopatia è quella della transizione dell’apice caulinare dalla fase vegetativa a quella riproduttiva che, nelle carciofaie risvegliate anticipatamente, avviene circa 60 giorni dopo la prima adacquata. Situazioni di stress idrico derivanti da ridotta disponibilità di acqua nella rizosfera o da eccessiva domanda evapotraspirativa dell’ambiente non compensata sufficientemente dall’assorbimento idrico radicale o, maggiormente, la combinazione di tali fattori, determinano il flusso preferenziale della linfa grezza e del Ca2+ da essa veicolato verso gli organi a maggiore attività traspirativa (foglie espanse) a scapito dei capolini, che risultano calcio-carenti. Anche l’elevata salinità della soluzione circolante può contribuire ad aumentare la carenza di calcio sia per la competizione dell’assorbimento ionico sia per la riduzione della pressione radicale, che ha un importante ruolo nel regolare la traslocazione del calcio verso le brattee interne del capolino. La sintomatologia descritta può assumere rilievo diverso a seconda della combinazione tra elevata domanda evapotraspirativa dell’ambiente, stress idrico ed elevata salinità, e talvolta può interessare buona parte dei capolini principali. Per ridurre il rischio della fisiopatia bisogna limitare l’anticipo eccessivo del risveglio, soprattutto se l’acqua irrigua è salmastra, assicurare una buona disponibilità di calcio nel terreno e un regime idrico regolare. Una tecnica che può contrastare la fisiopatia è l’irrigazione climatizzante da effettuare quando si verificano condizioni di elevata domanda evapotraspirativa dell’ambiente.

Foto V. Magnifico

Foto V. Magnifico

Foto R. Angelini

Capolini atrofici Irrigazione per aspersione a bassa intensità di pioggia

199


il carciofo e il cardo

coltivazione Parassiti animali Gavino Delrio

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coltivazione Parassiti animali Foto R. Angelini

Introduzione Il carciofo è attaccato in Italia da un centinaio di specie di parassiti animali appartenenti a Nematodi, Gasteropodi, Insetti e Roditori. Sulla coltura è però presente un notevole complesso di nemici naturali che contribuiscono a limitare i danni dei fitofagi. L’importanza dei singoli fitofagi dipende dall’area di coltivazione del carciofo e dalle tecniche colturali adottate. L’anticipazione degli impianti, con messa a dimora degli ovoli a fine giugno e raccolta dei capolini a partire da fine ottobre, espone infatti la carciofaia agli attacchi più intensi di alcuni fitofagi (afidi, nottue) rispetto alle colture tradizionali con raccolta più tardiva. Gli insetti più dannosi, che richiedono abitualmente interventi fitoiatrici, sono gli afidi e alcuni lepidotteri come la nottua del carciofo e la depressaria dei capolini, ma sulle colture anticipate possono risultare importanti gli attacchi di Nottuidi polifagi. In alcune aree carcioficole possono essere riscontrati danni da fitofagi secondari (lepidotteri, coleotteri e ditteri) e da parte di molluschi Gasteropodi e arvicole.

Afidi e formiche su capolino di carciofo Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Capolino attaccato da Gortyna xanthenes Foto R. Angelini

Larva e danno di depressaria Adulto di punteruolo su stelo di carciofo

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parassiti animali Parassiti animali di principale interesse Afide nero (Aphis fabae) Di colore nero o grigio-nerastro, con adulti atteri di 2,5 mm. Ha come ospiti primari l’evonimo e il viburno, ma nelle condizioni climatiche mediterranee svolge soltanto l’anolociclo su diversi ospiti secondari, fra cui il carciofo, dove si succedono continue generazioni di virginopare. Le colonie dell’afide nero si localizzano sul carciofo alla base dei giovani capolini e sul loro peduncolo, ma possono anche attaccare la pianta nelle prime fasi vegetative deformando le foglie e rallentandone lo sviluppo.

Afide nero

• Nelle aree meridionali compie una serie ininterrotta di generazioni virginopare, con scomparsa delle forme anfigoniche

• Attacca numerosissime piante erbacee e arboree

• Le infestazioni nelle prime fasi vegetative rallentano lo sviluppo del carciofo

Afide verde-nerastro del carciofo (Brachycaudus cardui) È l’afide più comune e dannoso per i carciofi. Gli adulti sono lunghi circa 2 mm con l’addome verdastro e il dorso nero lucente, mentre gli stadi giovanili hanno una colorazione verde uniforme. Il comportamento biologico dell’afide risulta differenziato a seconda delle regioni. Nelle aree più fredde si ha un olociclo dioico fra un ospite primario (susino) e quelli secondari (diverse Composite). Nelle aree meridionali questa specie compie invece solo l’anolociclo e si evolve permanentemente su Carduacee spontanee e coltivate. Le popolazioni dell’afide verde-nerastro raggiungono la massima abbondanza in autunno e in primavera, insediandosi su tutti gli organi epigei con preferenza per l’asse del capolino e per le brattee basali. L’attacco sui capolini determina sviluppo stentato e deformazioni e ne compromette la commercializzazione. Numerosi nemici naturali contribuiscono a tenere a freno questo afide, le cui infestazioni sono però favorite da eccessi di concimazione azotata.

Colonia di Aphis fabae

Afide verde nerastro del carciofo

• È l’afide più comune e dannoso per il carciofo

• Il colore nero del dorso delle femmine

attere contrasta fortemente con il colore verde degli stadi giovanili

• Nell’Italia meridionale vive quasi esclusivamente sulle composite, con preferenza per le carduacee

• Il danno maggiore è dato dalle colonie che si insediano sull’asse dei capolini e sulle brattee basali

Carciofo attaccato da Brachycaudus cardui

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coltivazione Afide ceroso del carciofo (Dysaphis cynarae) È di colore verde-grigiastro per la secrezione cerosa polverulenta che ricopre il suo corpo. Si comporta da anolociclico sul carciofo e su altre Cinaree spontanee. Le colonie si insediano in parti della pianta riparate dalla luce diretta, come zona del colletto, foglie basali, foglioline apicali non ancora distese e brattee esterne dei capolini. Durante il periodo di riposo estivo della carciofaia, l’afide si può rinvenire intorno alla zona del colletto e sugli ovoli basali. In Campania e Sicilia sono particolarmente temute le infestazioni primaverili che possono causare gravi danni alle produzioni tardive.

Afide ceroso del carciofo

• È un afide anolociclico su carduacee spontanee e coltivate

• Infesta le parti basse della pianta,

ma anche le foglioline apicali e la base dei capolini

• È ritenuta una delle specie più dannose per le produzioni tardive del carciofo

Depressaria dei capolini (Depressaria erinaceella) È un lepidottero Depressariide che si evolve prevalentemente a carico del carciofo. L’adulto è una piccola farfalla dall’addome depresso, con ali anteriori subrettangolari (apertura alare di 20-25 mm) di colore bruno-ocra con tre macchie nerastre. Le larve giovani sono rossastre, mentre quelle mature (lunghezza 16-20 mm) prendono un colore verde con capo, scudo pronotale e anale neri. La depressaria ha una sola generazione all’anno con svernamento allo stadio di larva in attività trofica entro i capolini. Gli adulti sfarfallano da fine maggio a metà luglio e passano l’estate nascosti fra le anfrattuosità del suolo. La diapausa estiva termina a fine settembre, quando le farfalle riprendono a volare e si accoppiano. Le ovideposizioni sono effettuate nella pagina inferiore delle foglie e pur perdurando per circa un mese, risultano concentrate nella prima quindicina di ottobre. L’incubazione delle uova dura circa un mese, le larve neonate si dirigono verso il germoglio e, se la pianta è ancora sprovvista di capolini, penetrano nella nervatura principale di una foglia scavandovi una galleria. Raggiunta la parte prossimale della foglia, abbandonano la galleria e si intro-

Foglia infestata da Dysaphis cynarae

Depressaria dei capolini

• Compie una sola generazione all’anno • Le larve si sviluppano in inverno, scavando una galleria nella nervatura principale di una foglia e penetrando successivamente nei capolini

• I capolini attaccati non possono essere commercializzati perché estesamente divorati all’interno

• Gli adulti di depressaria passano

l’estate in diapausa riproduttiva, nascosti fra le anfrattuosità del terreno. In questo periodo le farfalle non volano e, se stimolate, compiono al massimo brevi salti

Adulto di Depressaria erinaceella

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Larva matura di Depressaria erinaceella


parassiti animali ducono nei capolini, le cui brattee esterne vengono irregolarmente intaccate. Le larve rodono le brattee più tenere all’interno del capolino e raggiunto il ricettacolo vi scavano una sorta di celletta. La maturità viene raggiunta alla fine di aprile e l’incrisalidamento avviene nel terreno. I capolini attaccati sono deturpati dalle erosioni alle brattee, estesamente divorati all’interno e imbrattati di feci; di scarsa entità risulta invece il danno alle foglie. Nottua del carciofo (Gortyna xanthenes) È un lepidottero Nottuide oligofago tipicamente infeudato al carciofo, del quale viene considerato l’insetto più dannoso. La farfalla ha ali anteriori (apertura alare di 38-52 mm) di colore nocciola, con una fascia bruna al margine distale e tre macchie color isabella orlate di bruno. La larva matura è lunga 4-5 cm, di colore giallo-ocraceo con capo, scudo pronotale, scudo anale e aree sclerificate segmentali di color castagno. La nottua del carciofo compie una sola generazione all’anno con svernamento da uovo o da larva di prima età. Gli adulti sono reperibili in settembre-novembre. Le uova sono deposte in piccoli gruppi sulle foglie, al colletto delle piante o lasciate sul suolo. La schiusura avviene scalarmente, dopo un periodo di tempo variabile da uno a più mesi, e le larve neonate si rinvengono in attività trofica in novembre (Sardegna) oppure in gennaio-febbraio (altre regioni meridionali). Le larvette minano la nervatura principale della foglia dall’apice verso la base e successivamente penetrano nello stelo principale, dove si alimentano del midollo scavando una galleria ascendente. Nella risalita le larve possono raggiungere la base dei capolini, nutrendosi del ricettacolo e delle brattee più tenere. In maggio-giugno le larve mature discendono lungo il rachide e si portano nel ciocco, dove attraversano in quiescen-

Capolino con fori di ingresso provocati da Depressaria erinaceella

Nottua del carciofo

• È ritenuto l’insetto più dannoso per il

carciofo, particolarmente sulle produzioni che maturano in marzo-giugno

• La specie compie una sola generazione all’anno

• In inverno e primavera le larve minano

la nervatura centrale di una foglia e successivamente scavano una galleria nello stelo principale

• In estate le larve si portano nel ciocco dove si impupano

• Le infestazioni aumentano Adulto di Gortyna xanthenes

progressivamente nelle carciofaie pluriennali fino a raggiungere anche il 100% delle piante

Larva di Gortyna xanthenes nello stelo di carciofo

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coltivazione za il periodo più caldo dell’estate. L’incrisalidamento avviene in settembre-ottobre, talora anche all’interno degli ovoli. Le infestazioni della nottua aumentano progressivamente nelle­ carciofaie poliennali fino a raggiungere il 100% delle piante. Il danno diretto ai capolini dipende dal periodo di raccolta ed è massimo quando il periodo di maturazione commerciale e quello di risalita delle larve lungo il fusto coincidono (marzo-giugno). Una specie affine è la nottua minore del carciofo (Gortyna flavago), con una distribuzione più settentrionale e un maggior numero di piante ospiti.

Vermi grigi

• Sono chiamate volgarmente così

le larve terricole di diverse specie di agrotidi, fra cui risultano comuni Agrotis ipsilon e A. segetum

• In estate le larve compiono erosioni al colletto delle giovani piante, causandone la morte

Nottua dei seminati (Agrotis ipsilon) e nottua delle messi (Agrotis segetum) Nottue fortemente polifaghe con larve terricole, chiamate volgarmente vermi grigi. L’adulto di A. ipsilon ha un’apertura alare di circa 5 cm e ali anteriori di colore brunastro con una caratteristica macchia a forma di Y, mentre quello di A. segetum è più piccolo. Le larve mature sono lunghe 4-5 cm e presentano un tegumento granuloso, di colore grigio scuro e punteggiato di nero. Queste nottue compiono nelle regioni meridionali italiane tre (A. segetum) o quattro (A. ipsilon) generazioni. Gli adulti di A. ipsilon compiono imponenti flussi migratori dall’Africa all’Europa e viceversa. Le uova vengono deposte sulle foglie basali di piante erbacee e sul terreno circostante. Le larve dei primi stadi si nutrono sulle piante durante il giorno, quelle più mature diventano lucifughe, restano nel terreno ed erodono il colletto delle piante di notte. L’attacco sul carciofo in estate può determinare gravi fallanze in seguito alla troncatura delle piante, mentre le larve più giovani possono danneggiare in autunno i germogli e i capolini in formazione.

• In autunno le larve giovani possono danneggiare i germogli e i capolini in formazione • La nottua dei seminati (Agrotis ipsilon) compie in primavera voli migratori dall’Africa e dall’Asia minore verso l’Europa per poi ritornare in autunno verso le aree di origine

Adulto di Agrotis ipsilon

Capolino attaccato da una larva di Agrotis segetum Piantina di carciofo attaccata da una larva di Agrotis ipsilon

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parassiti animali Nottua mediterranea o nottua del cotone (Spodoptera littoralis) È un Nottuide molto polifago che attacca colture ortive e floreali in serra e in pieno campo. Le farfalle hanno un’apertura alare di circa 4 cm, con ali anteriori brunastre e riflessi violacei, percorse da sottili linee paglierine. La larva matura (4 cm) ha una colorazione grigia o verde-gialla, con striature longitudinali giallastre o grigiastre e due macchie nere triangolari nel I e VIII urite. La specie svolge numerose generazioni all’anno con popolazioni che raggiungono la massima densità a fine estate. Le larve, che risultano gregarie nelle prime età, hanno un comportamento notturno e si riparano nel terreno durante il giorno. Sul carciofo le larve erodono le foglie e il germoglio centrale, ma possono penetrare anche nei capolini in formazione, che vengono totalmente distrutti.

Nottua mediterranea

• È una specie altamente polifaga,

particolarmente dannosa alle piante orticole in serra

• Le prime età larvali sono gregarie,

mentre gli ultimi stadi sono solitari e con comportamento notturno

• L’attacco sul carciofo avviene in

autunno, con erosioni sul germoglio centrale e penetrazione delle larve nei capolini in formazione

Nottua gialla del pomodoro (Helicoverpa armigera) È un Nottuide che compie in Italia 2-4 generazioni all’anno su numerose piante ortive e che può attaccare il carciofo nel periodo autunnale. L’adulto ha un’apertura alare di 3,5 cm, con ali anteriori giallastre attraversate da una leggera fascia trasversale più scura nella parte distale. La larva matura è lunga 3-4 cm, di colore variabile dal verde al castano, con sottili bande dorsali scure e due bande laterali giallastre. Le larve sono fillofaghe e si alimentano particolarmente sul germoglio centrale, ma possono attaccare anche i capolini in formazione sui quali mostrano un comportamento parzialmente endofitico, formando piccole cavità scavate dall’esterno. Capolino attaccato da una larva di Spodoptera littoralis

Nottua gialla del pomodoro

• Specie ad ampia diffusione mondiale, dannosa nelle regioni intertropicali per il cotone e il mais e, in Italia, per numerose piante orticole, soprattutto pomodoro

• Gli attacchi sul carciofo avvengono

in autunno e interessano le foglie e i capolini in formazione, che vengono perforati dalle larve

• Le larve mature hanno Adulto di Helicoverpa armigera

un comportamento aggressivo con tendenza al cannibalismo

Capolino attaccato da una larva di Helicoverpa armigera

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coltivazione Minatrice fogliare del carciofo (Agromyza apfelbecki) Dittero Agromizide infeudato a specie del genere Cynara. L’adulto è una piccola mosca grigia (4-4,5 mm); le larve sono apode, di colore giallo crema e lunghe 7 mm. Compie tre generazioni all’anno, in primavera-estate, in autunno e in inverno. Gli adulti praticano fori di nutrizione con l’ovopositore e depongono le uova nella pagina inferiore delle foglie, nella costola o in una nervatura principale. Le larve si sviluppano nel parenchima fogliare scavando gallerie a forma di chiazza. Danni rilevanti possono essere indotti su piante giovani solo dalla generazione autunnale. Su carciofaie impiantate in vicinanza di serre possono talora verificarsi attacchi di un altro Agromizide, la minatrice americana delle orticole (Liriomyza trifolii), che in estate può produrre disseccamenti delle foglie, determinando un grave ritardo vegetativo della pianta.

Minatrice fogliare del carciofo

• È un dittero infeudato al carciofo sul

quale compie tre generazioni all’anno

• Le larve scavano gallerie a chiazza nelle foglie

• Danni limitati possono manifestarsi solo in autunno e su piante giovani

Sferoderma o altica del carciofo (Sphaeroderma rubidum) È un coleottero Crisomelide infeudato a diverse Carduacee, ma particolarmente dannoso per il carciofo. L’adulto, lungo 2,5-4 mm, ha il corpo quasi emisferico di colore rosso vivo. La larva matura, di forma subdepressa e di colore bianco sporco, raggiunge una lunghezza di 6-7 mm. Lo sferoderma svolge una generazione all’anno, con una diapausa invernale allo stadio di larva nel terreno e una estiva a quello di adulto. Gli adulti compaiono in aprile e si alimentano bucherellando le foglie di carciofo. In estate si riparano nelle anfrattuosità del suolo e riprendono l’attività trofica in settembre, accoppiandosi e deponendo le uova sulle nervature fogliari. In ottobre-dicembre le larve scavano nel parenchima fogliare gallerie serpeggianti di dimensioni via via crescenti. Nel caso di forti infestazioni le mine possono occupare tutta la superficie delle foglie, che in bre-

Mine di Agromyza apfelbecki

Sferoderma del carciofo

• L’adulto ha un corpo emisferico di colore rosso vivo

• Svolge un’unica generazione all’anno • Le larve formano in autunno gallerie serpeggianti nelle foglie del carciofo

• Infestazioni molto forti possono

far seccare o marcire completamente le foglie Adulti di Sphaeroderma rubidum in accoppiamento

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Mine fogliari e larva di Sphaeroderma rubidum


parassiti animali ve tempo sono destinate a seccare o marcire. Attacchi autunnali molto intensi possono mettere a rischio il raccolto. Cassida del carciofo (Cassida deflorata) Coleottero Crisomelide riconoscibile per gli adulti (8-9 mm) dalla sagoma depressa, ovale e dilatata, di colore verde alla nascita e di colore giallo-testaceo nella fase riproduttiva. Anche la larva è depressa, con processi laterali sfrangiati e uno dorsale, che trattengono esuvie larvali ed escrementi, dandole una colorazione nerastra. La cassida ha una generazione all’anno, con svernamento allo stadio di adulto e sviluppo larvale in primavera. Gli adulti si alimentano bucherellando le foglie di carciofo e le uova sono deposte da aprile fino a metà giugno sulle foglie, in gruppi di circa 20 unità, coperti da un involucro formato dal secreto delle ghiandole colleteriche e da escrementi. Le larve rodono il lembo fogliare rispettando però le nervature e una delle epidermidi. I massicci attacchi di questa specie possono portare a intense defogliazioni; tuttavia le infestazioni sono concentrate alla fine della stagione di raccolta e i danni non risultano generalmente di grande importanza. Foto R. Angelini

Cassida del carciofo

• Adulti di colore verde con il corpo ovale appiattito e larve coperte da escrementi nerastri

• Compie una sola generazione all’anno in aprile-maggio

• Intense infestazioni possono portare a

una completa defogliazione delle piante alla fine della stagione di raccolta

Foto R. Angelini

Larva di Cossus cossus nel ciocco di carciofo

Rodilegno rosso Ovatura di Cassida deflorata

Adulto e danno di cassida

• Lepidottero polifago che attacca

diverse piante arboree ma può vivere anche su radici di piante erbacee a struttura legnosa

Parassiti animali di interesse secondario Rodilegno rosso (Cossus cossus) È un lepidottero Cosside che si evolve su diverse latifoglie, ma può svilupparsi anche su radici di bietola e ceppaie di carciofo. Le farfalle sono corpulente (apertura alare di 7-10 cm), con ali grigiastre attraversate da fini striature scure e sinuose. Le larve mature misurano 8-10 cm di lunghezza e sono di color rosso vinoso al dorso e giallo ai lati e al ventre. Gli adulti volano da maggio a settembre e le femmine depongono le uova in gruppetti di 15-30 elementi alla base del ciocco del carciofo. Le larve penetrano nelle ceppaie

• Le larve scavano gallerie nelle ceppaie di carciofo

• Compie una generazione in due anni, per cui può essere dannoso solo alle carciofaie pluriennali

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coltivazione scavando gallerie di alimentazione che possono interessare anche gli ovoli. Il ciclo di sviluppo viene completato in due anni, per cui l’insetto può essere dannoso solo alle carciofaie pluriennali.

Depressaria delle foglie del carciofo

Depressaria delle foglie del carciofo (Agonopterix subpropinquella) Lepidottero Depressariide infeudato a numerose Composite spontanee e al carciofo, su cui compie una generazione all’anno. Adulti con apertura alare di circa 2 cm, con ali anteriori di colore giallo-rossastro con una macchia grigiastra. Le larve mature (circa 2 cm) sono di colore verde o ocraceo con capo e scudo pronotale scuri. Gli adulti sfarfallano in primavera, passano l’estate in diapausa sessuale e ovidepongono in ottobre-novembre sulla pagina inferiore delle foglie. Le larve scavano inizialmente mine nelle foglie e da febbraio ad aprile diventano ectofitiche, unendo con fili sericei la lamina fogliare e rodendo il parenchima all’interno del ricovero. Il danno non è mai rilevante, tranne che su piante piccole e provviste di poche foglie.

• Compie una generazione all’anno • Le larve rodono il parenchima fogliare rispettando epidermide inferiore e nervature della foglia

• Il danno è generalmente irrilevante, tranne che su piante piccole

Piralide del granturco

• È ampiamente polifaga (oltre 200

piante ospiti) e può attaccare il carciofo in prossimità di campi di mais

• Le larve si riscontrano sul carciofo nel periodo autunnale

• I danni sui capolini raccolti in ottobre possono essere importanti

Adulto di Agonopterix subpropinquella

Larva di Agonopterix subpropinquella

Piralide del mais (Ostrinia nubilalis) Lepidottero Piralide estremamente polifago che può compiere danni notevoli su impianti anticipati di carciofo limitrofi a campi coltivati a mais. La femmina ha un’apertura alare di circa 30 mm e ali anteriori giallastre con linee trasversali dentate, mentre il maschio è più piccolo. La larva matura misura 25 mm, è di colore bianco-grigiastro con tre fasce longitudinali più scure ed è provvista, nei segmenti, di piccoli tubercoli piliferi. La piralide può riscontrarsi sul carciofo da metà settembre a novembre, comportandosi similmente alla depressaria. Le larve scavano gallerie ascendenti nella nervatura centrale e successiva-

Larva di Ostrinia nubilalis nella nervatura centrale di una foglia

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parassiti animali mente penetrano nei capolini insinuandosi fra le brattee. I danni, di scarsa importanza se localizzati sulle foglie, assumono particolare rilievo quando interessano anche i capolini di primo taglio, che raccolti in ottobre hanno il più elevato valore commerciale.

Brotolomia

• Nottua polifaga che attacca piante

Brotolomia (Phlogophora meticulosa) Nottua dannosa a piante da frutto e ortive, compreso il carciofo. L’adulto ha un’apertura alare di circa 5 cm, con ali anteriori a margine frastagliato, di colore nocciola rosato e munite di una grande V olivacea. Le larve sono di colore variabile dal verde al bruno rossastro. La specie svolge 2-3 generazioni annue e le larve sono attive sul carciofo in aprile-maggio e in autunno-inverno. L’attacco dei bruchi è rivolto alla parte centrale della pianta, dove rosicchiano i capolini, spesso svuotandoli prima ancora che siano spuntati dal germoglio principale.

Adulto di Phlogophora meticulosa

floreali e ortive ma anche piante da frutto

• Sul carciofo le larve si riscontrano in primavera e autunno

• Le larve rodono la parte centrale della pianta e possono divorare completamente i piccoli capolini

Larva di Phlogophora meticulosa

Plusia gamma (Autographa gamma) È un Nottuide fortemente polifago che compie 4-5 generazioni su piante ortive e industriali. Può compiere migrazioni dal Nordafrica all’Europa in primavera e di ritorno in autunno. La farfalla (apertura alare di 4-5 cm) presenta ali anteriori castanorossicce con un disegno argenteo somigliante alla lettera gamma. La larva matura è lunga circa 4 cm, di colore verde con linee longitudinali biancastre. Le larve sono fillofaghe e raramente causano seri danni al carciofo.

Adulto e larva di Autographa gamma

Plusia gamma

• Nottua polifaga su oltre 200 specie vegetali

• Le larve rodono le foglie del carciofo

Vanessa del cardo (Vanessa cardui) Ninfalide quasi cosmopolita, vivente su Carduacee spontanee e su carciofo. L’adulto è una bella farfalla di 6 cm di apertura alare, con colore di fondo rosa-arancio, ali anteriori con regione apicale scura cosparsa di macchie bianche e ali posteriori con una serie di cinque

e raramente risultano dannose

• È una specie che compie in primavera migrazioni dall’Africa con ritorno in autunno

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coltivazione

Vanessa del cardo

• È una farfalla diurna infeudata alle Carduacee

• Compie fino a tre generazioni all’anno con svernamento allo stadio di adulto nelle aree costiere mediterranee

• In qualche anno, sciami imponenti

in provenienza dall’Africa possono determinare intense defogliazioni primaverili-estive delle piante di carciofo Adulto di Vanessa cardui

• Gli adulti di vanessa sfarfallano

al mattino, spesso quasi contemporaneamente, emettendo un liquido anale (meconio) di colore rosso intenso che tinge le piante da cui le farfalle emergono. Questo fenomeno era anticamente noto come “piogge di gocce di sangue” e oggetto di superstizione popolare

ocelli nel margine esterno. La livrea del bruco è variabile, spesso di colore arancio-rosato, con numerose spine ramificate e giallastre. Presenta da due a tre generazioni all’anno, con adulti a partire da marzo-aprile. Le larve erodono le foglie riunendo i lembi con fili sericei e rispettando solo le nervature più grosse. La vanessa compare talora in sciami imponenti per immigrazioni dall’Africa e può produrre infestazioni primaverili-estive improvvise, che risultano però solo marginalmente dannose sulle carciofaie ormai avviate al riposo estivo.

Terellia del carciofo

Terellia del carciofo (Terellia fuscicornis) Dittero Tefritide che predilige il carciofo ma può svilupparsi anche su Silybum marianum e cartamo. La femmina è una mosca di piccole dimensioni (circa 1 cm) di colore giallo-ocraceo, con il VII segmento addominale (oviscapo) molto lungo. La larva matura misura 7-8 mm ed è apoda, di colore bianco crema. La terellia compie 1-2 generazioni all’anno deponendo fra le brattee dei capolini in pre-antesi. Le

• Mosca di piccole dimensioni che ovidepone fra le brattee dei capolini in pre-antesi • Le larve si nutrono degli acheni, svuotandoli completamente

• I danni riguardano solo il carciofo

Foto R. Angelini

da “seme”

Apion del carciofo

• Compie una generazione all’anno,

con sviluppo larvale in aprile-maggio

• Le larve scavano gallerie nelle

nervature principali delle foglie e negli steli

• Le gallerie larvali negli steli possono determinare uno sviluppo stentato dei capolini

Adulti di Terellia fuscicornis

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parassiti animali larve si nutrono degli acheni, che vengono perforati e svuotati. La specie può essere molto dannosa al carciofo da “seme”. Apion del carciofo (Ceratapion carduorum) Coleottero Apionide lungo 3-4 mm, di colore nero con elitre rivestite di una corta peluria biancastra. Compie una generazione all’anno, da fine marzo ai primi di giugno, ed estiva, e sverna da adulto. Le uova sono deposte da fine marzo a metà maggio nella nervatura principale della foglia o negli steli, in piccole cellette scavate con il rostro boccale. Le larve scavano gallerie che possono causare ingiallimenti fogliari e, quando si sviluppano negli steli, possono talora raggiungere la base dei ricettacoli, determinando uno sviluppo stentato dei capolini. Cleono del carciofo (Cleonis pigra) Coleottero Curculionide infeudato a varie Carduacee, lungo 1,5-2 cm, con il corpo nero rivestito da brevi setole di colore bianco crema. Sverna come adulto e compie 2 generazioni da marzo a ottobre. Le uova sono deposte in piccole fossette alla base delle costole delle foglie e in prossimità del colletto radicale. Le larve scavano gallerie nelle radici e determinano una stentata crescita della pianta e dei capolini.

Adulto di Ceratapion carduorum

Punteruoli del carciofo (Larinus cynarae, Larinus scolymi) Questi tozzi Curculionidi vivono a spese del carciofo e di altre Carduacee. Sono ambedue nerastri e rivestiti di una leggera tomentosità grigiastra. L. cynarae misura 11-16 mm di lunghezza, mentre L. scolymi è più piccolo (9-15 mm). Svernano come adulto e compiono una sola generazione all’anno. L. cynarae depone le uova tra le brattee a partire da maggio e fino ai primi di luglio. Le larve minano la base delle brattee per poi approfondirsi nel ricettacolo. L. scolymi ovidepone in luglio sui filamenti dei capolini e le larve compiono erosioni sugli acheni ancora

Cleono del carciofo

• Adulti di colore nero • Compie due generazioni all’anno in marzo-ottobre

• Le larve scavano gallerie nelle radici e causano una crescita stentata delle piante

Punteruoli del carciofo

• Curculionidi che attaccano le brattee

e il ricettacolo (Larinus cynarae) o gli acheni (Larinus scolymi) del carciofo

• Possono essere dannosi alle colture da “seme”

Adulto di Larinus cynarae

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coltivazione teneri senza penetrare nel ricettacolo. Il danno di queste specie riguarda soprattutto le colture destinate alla produzione di “seme”. Molluschi gasteropodi Sono segnalate come dannose al carciofo alcune chiocciole con conchiglia (Elicidi), come Theba pisana, Eobania vermiculata e Cantareus apertus, e alcune lumache o limacce che ne sono sprovviste, come Milax gagates (Milacide), Limax maximus (Limacide) e Deroceras agreste (Agriolimacide).

Monachella

• Chiocciola mediterranea che estiva

nel terreno, si riproduce in autunno e ha un’attività trofica nel periodo autunno-primaverile

• Le giovani chiocciole, che restano

Chiocciola naticoide o monachella (Cantareus apertus) È un Elicide tipicamente mediterraneo particolarmente apprezzato per il consumo alimentare, ma anche dannoso per il carciofo. Ha una conchiglia sottile, ovoide, obliquamente convessa e un po’ depressa, priva di foro columellare, di colore bruno-verdastro o marrone oliva. Le dimensioni arrivano a circa 3 cm di lunghezza, 2,5 cm di larghezza e 2 di altezza. La chiocciola, che può vivere 3-4 anni, raggiunge la maturità sessuale a due anni dalla nascita. Le chiocciole opercolate estivano nel terreno e dopo le prime piogge autunnali si portano sulle piante di carciofo, provocando erosioni e fori sulla lamina fogliare. Gli accoppiamenti avvengono a partire da settembre, seguiti (fino a gennaio) da ovideposizioni nel terreno. L’incubazione delle uova dura 1-2 mesi e le chiocciole neonate si alimentano sulle foglie, senza mai scendere dalla pianta. Le chiocciole giovani causano erosioni trascurabili sulle foglie, ma possono danneggiare gravemente i capolini, deturpando la superficie esterna della brattee con intaccature superficiali nastriformi e biancastre.

in continuazione sulle piante di carciofo, possono causare un grave danno estetico sui capolini deturpando le brattee esterne con erosioni superficiali biancastre

• La monachella deriva il suo nome

dall’opercolo bianco, fortemente bombato che assomiglia alla cuffia inamidata usata un tempo dalle suore. Quando viene toccata emette una grande quantità di schiuma e produce un gorgoglio intermittente abbastanza rumoroso. La sua carne è delicata e saporita, tanto da renderla una delle chiocciole più apprezzate dai buongustai dell’Italia meridionale

Limaccia grigio-nera (Milax gagates) È una limaccia (lumaca) lunga 6-8 cm, di colore nerastro al dorso con suola del piede grigia, fornita di una cospicua carena dor-

Limaccia grigio-nera

• Presenta una carena dorsale e una

conchiglia interna a forma di scudo ovale

• La limaccia resta nascosta nel terreno durante il giorno e si alimenta di notte sulle foglie e i capolini

• Il danno più grave è rappresentato

dalle perforazioni ampie e profonde sui capolini Adulto della chiocciola Cantareus apertus

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parassiti animali sale longitudinale e di una conchiglia interna a forma di scudo ovale allungato. La maturità sessuale viene raggiunta in circa 20 mesi; le uova sono deposte nel terreno e schiudono dopo 30-40 giorni. La limaccia è attiva di notte e nelle giornate nuvolose con alta umidità relativa, mentre di giorno si rintana sotto le pietre o altri rifugi. Si nutre con avidità delle foglie e dei capolini, su cui determina perforazioni ampie e profonde. Anche un’altra limaccia molto simile, di colore nero, Milax nigricans, può essere dannosa per il carciofo in alcune regioni italiane. Difesa da insetti e molluschi La protezione integrata del carciofo si basa su mezzi colturali, su alcuni interventi meccanici e su trattamenti insetticidi. Le rotazioni e lo spianto annuale della coltura riducono le popolazioni di fitofagi legati all’apparato radicale (per es. nematodi, larve di Pentodon punctatus, Cleonis pigra, Gortyna xanthenes, Cossus cossus). La distruzione dei capolini attaccati dalla depressaria durante la fase di raccolta manuale e l’eliminazione della parte epigea delle piante a ciclo pluriennale prima che le larve della nottua del carciofo raggiungano la base del rachide possono dare un notevole contributo al controllo di questi due parassiti “chiave”. Il rischio di danno da parassiti animali, che dipende dalla forzatura delle piante e dall’epoca di produzione, rende tuttavia generalmente necessario il ricorso alla lotta chimica. I principali parassiti si riscontrano soprattutto in autunno ed è in questo periodo che vanno effettuati gli interventi insetticidi e molluschicidi, tenendo conto della scalarità della raccolta e orientandosi su prodotti specifici e a breve intervallo di sicurezza. L’impiego di mezzi di rilevamento degli adulti può dare un aiuto decisivo per stabilire la necessità e il periodo di intervento contro i lepidotteri dannosi.

Adulto della limaccia Milax gagates

Danni su un capolino causati da Milax gagates Erosioni sulle brattee di un capolino causate da giovani chiocciole

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il carciofo e il cardo

coltivazione Roditori Enrico de Lillo

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


coltivazione Roditori Introduzione Le caratteristiche organolettiche del carciofo rendono la pianta molto gradita ai roditori. Le innovazioni colturali adottate negli ultimi anni in carciofaia, pur migliorando alcune fasi produttive, hanno purtroppo favorito l’azione dannosa delle arvicole. Nel primo anno di impianto i danni causati dalle arvicole sono in genere molto contenuti, non prevalenti rispetto ad altre cause e abbastanza localizzati in aree limitate e sparse del campo. Già nel secondo anno di produzione, il danno da arvicole tende a essere quello prevalente (esperienze di campo, nel Foggiano, hanno evidenziato una mortalità delle piante coltivate inferiore all’1% nel primo anno di produzione, fino anche al 6-7% nel secondo anno di produzione). Le arvicole rodono le radici del carciofo e, più frequentemente, scavano una galleria nel mezzo del fusto, a cominciare dal terreno e per tutta la sua lunghezza raggiungendo, spesso, la base del capolino. In seguito a questa attività, la pianta subisce un rapido disseccamento. Tipicamente, il disseccamento interessa più piante di carciofo vicine lungo la fila. Raramente si possono osservare sintomi di erosione direttamente sul capolino.

Arvicola del Savi

• Le caratteristiche morfologiche distintive della specie sono: corpo lungo poco meno di 10 cm a cui si aggiungono circa 3 cm di coda; peso, al massimo, di 20 g; muso arrotondato; occhi piccoli; orecchie ridotte e poco visibili in quanto nascoste dal pelo delle guance; mantello di colorazione grigiastra tendente al rossiccio, più scuro nella parte dorsale posteriore; zampe relativamente corte; coda provvista di peli corti e sottili

Arvicola del Savi (Microtus savi) Questo roditore è incluso nel gruppo dei topi campagnoli definiti a coda corta. Tale specie è distribuita su tutto il territorio italiano, dal mare fino a quote montane, con l’eccezione della Sardegna. Questa arvicola è adattata alla vita sotto terra e compie rapidi e brevi spostamenti sul terreno soprattutto quando è protetta dalla vegetazione (erbe infestanti e piante di carciofo), dall’oscurità e da altre coperture; è incapace di arrampicarsi sugli alberi o compiere salti

L’individuo appare tanto tozzo e massiccio a riposo quanto allungato e snello durante corsa e vari spostamenti

Apertura utilizzata dall’arvicola

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roditori superiori alla lunghezza del suo corpo. Questo roditore è attivo per tutto il giorno, con maggiore intensità nelle prime ore serali e nelle ultime ore della notte. Come molti roditori, l’arvicola del Savi ha elevata capacità riproduttiva determinata dall’alto numero di individui nati per parto e dalla rapidità con cui questi conseguono la maturità sessuale. In un anno la femmina può avere fino a 5 parti e una media di 20 neonati. Questi sono svezzati al 15° giorno e diventano indipendenti dalla madre a circa 3 settimane di vita. L’arvicola realizza il proprio nido in camere sotterranee collegate da un complesso sistema di gallerie. Le camere sono destinate anche all’accumulo di cibo, da consumarsi durante i periodi di minore disponibilità alimentare, oppure fungono da ricoveri nei momenti di inattività. Il sistema sotterraneo di camere e gallerie è vario per struttura e profondità in funzione delle caratteristiche del suolo, della copertura vegetale e delle stagioni. La profondità regolarmente esplorata è compresa di norma tra 10 e 30 cm. Le gallerie comunicano con l’esterno tramite aperture, dette anche capi, che assumono, in genere, la forma di un becco di clarino della dimensione di pochi centimetri. Le aperture si dicono fresche quando sono usate frequentemente. Si riconoscono in quanto l’arvicola ha cura di mantenere l’accesso perfettamente pulito e di recidere nettamente le erbe cresciute nelle sue vicinanze. Le aperture non più utilizzate mostrano, invece, evidenti segni di decadimento. Per meglio distinguere le une dalle altre è sufficiente chiudere gli accessi con terra e attendere qualche giorno per verificare se le aperture verranno ripristinate. L’arvicola del Savi predilige terreni a tessitura di medio impasto, piuttosto calcarei e profondi, con un sottosuolo permeabile in modo tale da consentire una buona tenuta delle gallerie e delle camere, che tende ad abbandonare temporaneamente per portarsi in superficie allorché allagate in seguito a piogge e irrigazioni.

Che cosa mangia l’arvicola del Savi

• Ha regime alimentare tipicamente

vegetariano. Consuma una varietà di radici, fittoni, rizomi, semi, bulbi e germogli di piante spontanee e coltivate. Mangia anche frutta, quando disponibile, e rode la corteccia di piante arboree (spesso melo al Nord e agrumi al Sud) e arbustive a livello del colletto, sia sotto sia sopra la superficie del terreno, causando danni, spesso irreparabili

Danni da arvicole su carciofo

Steli di graminacee recisi in prossimità di un’apertura delle gallerie

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coltivazione Questa specie è comune nei prati naturali, negli incolti e anche nei terreni coltivati caratterizzati da scarse o nulle lavorazioni. In campi con queste caratteristiche si nota come la rete di gallerie sotterranee rimanga indisturbata, l’alimento fresco sia quasi costantemente disponibile e gli individui corrano meno rischi di essere cacciati dai predatori quando escono dai loro rifugi. Difesa dai roditori Il controllo delle arvicole non è assolutamente agevole e una quota di danno non può essere esclusa. Alcuni efficaci interventi di una conduzione antica della carciofaia, come le periodiche lavorazioni del terreno con la coltura in atto e la sua irrigazione per scorrimento, rendevano impraticabile, per tempi più o meno lunghi, la rete di gallerie necessarie per la vita sotterranea delle arvicole procurando loro stress. Le strategie attuali di gestione della carciofaia non consentono più l’adozione di queste pratiche. Interventi di buona pratica agricola sono di tipo preventivo e consistono in: evitare nuovi impianti presso colture fortemente infestate dalle arvicole; limitare al minimo le aree incolte che possono conservarne le popolazioni; eseguire un espianto tempestivo delle carciofaie a fine ciclo evitando di lasciare questi terreni abbandonati per lungo tempo. Pur essendo preda di numerosi carnivori, il controllo naturale delle arvicole è insoddisfacente. Non sono previsti specifici protocolli di introduzione di predatori, mentre possono essere utili interventi di carattere generale volti al mantenimento di condizioni ambientali favorevoli al ripopolamento naturale. Spesso gli agricoltori usano trappole a caduta o trincee con le quali catturano individui che sono poi soppressi, lasciati morire di sete o annegati. L’efficacia di questi mezzi è sempre modesta rispetto all’impegno richiesto e non sono noti criteri per l’ottimizzazione nella distribuzione in campo delle trappole. Purtroppo, altri tipi di trappola non sembrano essere convenientemente applicabili. Foto N. Calabrese

Erosioni della corteccia di Medicago arborea e franco di ciliegio

Pianta di carciofo attaccata da arvicola

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roditori Recentemente si è diffusa la pratica dell’interramento di lamiere lungo il perimetro della carciofaia per ostacolare il passaggio delle arvicole dall’area esterna alla lamiera a quella interna e coltivata. Purtroppo, questo investimento si è dimostrato spesso poco efficace in quanto l’arvicola può superare la barriera in vario modo e attraversare fessure inferiori al centimetro. Il controllo chimico dei roditori è eseguito prevalentemente con rodenticidi a effetto ritardato incorporati in esche solide o liquide, pronte all’uso o da preparare. I rodenticidi causano la morte del roditore dopo alcune ore dall’ingestione, anche come effetto di un’assunzione ripetuta. Le arvicole avvelenate sono indotte ad allontanarsi dalle gallerie in seguito al senso di asfissia provocato da emorragie interne. Le esche avvelenate devono essere distribuite in modo che l’arvicola possa venire facilmente in contatto con esse. Pertanto, vanno poste nelle aperture fresche delle gallerie, le quali devono essere occluse da terra. Dopo qualche giorno dalla distribuzione è opportuno procedere alla verifica dei punti trattati e all’eventuale ricollocazione delle esche. La distribuzione selettiva dell’esca tossica è possibile fino a quando il terreno è ispezionabile, cioè sgombro da erbe infestanti e con ridotta estensione delle piante di carciofo. L’applicazione di questa strategia di controllo non ha effetti appariscenti al momento della sua esecuzione, ma consente di contenere la popolazione iniziale delle arvicole e ritardare la comparsa di danni significativi. Va comunque esclusa qualsiasi forma di distribuzione non selettiva (per es. a spaglio, lontano dalle aperture) delle esche avvelenate. Andrebbe invece verificata l’efficacia dell’applicazione di mangiatoie (tubi a T capovolto) usate in altri agro-ecosistemi. Un certo interesse suscitano le sostanze repellenti. Alcune di queste (pannelli di ricino, calciocianammide ecc.) richiedono approfondimenti di indagine e studi sperimentali che possano chiarire definitivamente l’interazione con le arvicole nonché le modalità di distribuzione.

Rudimentale trappola a caduta con il suo ospite

1 cm

Foro di fuga da un box di allevamento Barriere in lamiera

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il carciofo e il cardo

coltivazione Malattie Francesco Salvatore Marras Matteo Cirulli

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


coltivazione Malattie Introduzione Le malattie crittogamiche del carciofo sono state oggetto di un’ampia ed esauriente relazione di Antonio Ciccarone in occasione del 1° Congresso Internazionale di Studi sul Carciofo, a Bari, nel 1967. Nonostante da allora siano trascorsi ben oltre quarant’anni si può senz’altro affermare che nel frattempo la ricerca in questo settore non ha fatto registrare sostanziali progressi, se non per quanto riguarda la lotta contro alcune delle principali fitopatie della composita. Pertanto, qui viene oggi proposta una disamina delle malattie economicamente più rilevanti con particolare riferimento agli aspetti epidemiologici salienti e alle possibili strategie di lotta.

Malattie del carciofo

• Il carciofo costituisce una delle

produzioni orticole di maggiore rilievo per l’Italia meridionale. L’esame della situazione fitopatologica mette in evidenza che alcuni problemi sono tuttora irrisolti anche perché sono pochi i fungicidi registrati su tale coltura. Le malattie del carciofo più pericolose sono quelle causate da patogeni del terreno, in particolare i marciumi del colletto e la verticilliosi, a causa, soprattutto, della propagazione, essenzialmente di tipo agamico (ovoli e carducci), di questa composita

Oidio o mal bianco o nebbia (Leveillula taurica f.sp. cynarae – forma conidica Ovulariopsis cynarae) Il fungo responsabile di questa patologia è comunissimo in tutti i Paesi carcioficoli del bacino del Mediterraneo ove può causare danni ingenti. In Italia la malattia appare particolarmente grave nelle colture primaticce, che sono oggigiorno le più diffuse per l’alto reddito ricavabile dalla raccolta precoce dei capolini. Le prime infezioni si manifestano di norma verso la prima decade di settembre, raggiungendo la massima intensità nel mese di ottobre e nella prima decade di novembre. Col sopraggiungere

Foto I. Ponti

Sezione di un cleistotecio di L. taurica f.sp. cynarae

Esito di un grave attacco di mal bianco Foto I. Ponti

50µ

Conidio di Ovulariopsis cynarae

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malattie

Oidio o mal bianco o nebbia

• Tra le malattie dell’apparato aereo

l’oidio è la più pericolosa. Colpisce in modo grave le colture precoci durante la formazione dei capolini nel periodo autunnale. La sua incidenza si attenua nella stagione invernale per poi riacutizzarsi in primavera sulle colture tardive

• Gravi attacchi riducono

considerevolmente la produzione

Pagina inferiore di foglia di carciofo cosparsa di cleistoteci (forma perfetta) di L. taurica f.sp. cynarae

• La forma perfetta del fungo (cleistoteci)

è piuttosto rara. Essa si differenzia in estate sulla pagina inferiore delle foglie in fase di disseccamento, in concomitanza di temperature piuttosto alte e scarse precipitazioni

della stagione invernale, via via che la temperatura si abbassa, il parassita attenua la virulenza ma poi ricompare, nuovamente in forma grave, all’inizio della primavera, questa volta nelle colture tardive. Si riscontra nelle carciofaie, sia annuali sia poliennali, sulle foglie adulte. Le foglie colpite mostrano sulla pagina inferiore chiazze di forma indefinita, ricoperte da efflorescenza biancastra, che col tempo si necrotizzano a iniziare dalla parte centrale. Le porzioni di tessuto fogliare infetto possono confluire tra loro determinando l’avvizzimento del lembo fogliare e un caratteristico accartocciamento dello stesso verso l’alto lungo la nervatura principale. La pianta produce nuove foglie a tutto svantaggio dell’accrescimento e della maturazione dei capolini. Il fungo può danneggiare o distruggere gran parte dell’apparato fogliare, riducendo considerevolmente la produzione nei casi più gravi.

Esiti di attacchi di mal bianco da Leveillula taurica f.sp. cynarae sulla pagina superiore

Sintomi della malattia nella pagina inferiore con efflorescenza della forma conidica Ovulariopsis (Oidiopsis) cynarae

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coltivazione Peronospora (Bremia lactucae) La peronospora è considerata una malattia che compare sporadicamente, di solito in primavera, su piante giunte ormai alla fine del loro ciclo, più raramente durante il periodo autunno-vernino, in condizioni di umidità elevata e temperatura mite. Tuttavia, da alcuni anni a questa parte, la fitopatia si presenta con frequenza e intensità via via crescenti anche in autunno, poco prima o durante il periodo di produzione dei capolini. È verosimile che questa nuova situazione sia da imputare ai più recenti indirizzi colturali miranti a un maggiore investimento per unità di superficie e a una forzatura sempre più spinta in termini di concimazione e di irrigazione, senza peraltro escludere la comparsa di ceppi del patogeno più virulenti. Si è del parere che la diffusione e la pericolosità della Bremia non siano state sempre valutate a pieno, dal momento che le sue infezioni vengono spesso confuse dai carcioficoltori con quelle indotte da Leveillula taurica f.sp. cynarae, verso la quale sono normalmente indirizzati i trattamenti chimici. Le infezioni si manifestano sulle foglie sotto forma di maculature da prima clorotiche, poi brune e seccherecce, cui corrispondono sulla pagina inferiore, solo ai margini, le fruttificazioni del parassita. La conservazione del patogeno avviene solitamente sotto forma di micelio presente sulle piante colpite o su residui vegetali. In condizioni ambientali favorevoli questo micete riprende la sua attività vegetativa e patogenetica producendo degli sporangi in gra-

Peronospora

• La peronospora, che un tempo

si sviluppava in primavera con carattere endemico, compare oggigiorno di frequente con intensità elevata anche nel periodo autunnale. Al suo sviluppo hanno contribuito senz’altro le mutate condizioni colturali, quali investimento per unità di superficie e forzature sempre più spinte in termini di concimazione e di irrigazione. I suoi attacchi vengono spesso confusi dai carcioficoltori con quelli di oidio, per cui non sono sempre contrastati da trattamenti chimici appropriati

Foto I. Ponti

Foglia di carciofo con sintomi di peronospora da Bremia lactucae

In corrispondenza delle aree colpite si differenzia, sulla pagina inferiore, una tenue muffetta bianca

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malattie Foto I. Ponti

Foto I. Ponti

Evasione del patogeno nella pagina inferiore della foglia

Il primo sintomo dell’attacco peronosporico si manifesta sulla pagina superiore della foglia con aree giallastre tendenzialmente circolari

do di germinare e penetrare negli stomi, per poi invadere gli spazi intercellulari del mesofillo fogliare. A fine incubazione, la cui durata varia in relazione alle condizioni termoigrometriche ambientali, compaiono nuovi sporangiofori e sporangi in grado di dare avvio a successive infezioni.

Danno ai capolini

• I capolini infetti possono

successivamente andare incontro a fenomeni di marcescenza per l’insediamento di altri miceti quali Botrytis cinerea, Fusarium roseum e Aschochyta hortorum

Foto I. Ponti

Foto I. Ponti

Sporangi di Bremia lactucae

Le foglie colpite ingialliscono progressivamente fino a disseccare

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coltivazione Marciume dei capolini (Botrytis cinerea) Il marciume dei capolini era concordemente ritenuto, sia in Italia sia in diversi altri Paesi carcioficoli, di scarsa importanza in pieno campo ma assai temibile dopo il raccolto. In quest’ultimo decennio, però, esso è andato estendendosi nelle carciofaie in forma sempre più grave fino ad assumere oggigiorno proporzioni allarmanti. I sintomi della malattia consistono in marciume e imbrunimento dei capolini che, in seguito, si ricoprono di una muffa grigiobrunastra. Non v’è dubbio che l’insorgenza degli attacchi botritici sia correlata col verificarsi di lesioni sui capolini per le cause più disparate, quali attacchi di Bremia lactucae, insetti, molluschi; a nostro avviso, però, la causa principale di tali lesioni è rappresentata dagli improvvisi abbassamenti termici. In conseguenza di questi sbalzi, infatti, sulle brattee si formano areole necrotiche, localizzate di solito intorno alla base della spina, e spesso lacerazioni dell’epidermide cui segue talvolta il distacco della stessa. Attraverso dette lesioni il patogeno si instaura con facilità nei tessuti del capolino provocandone il marciume in tempi anche relativamente brevi, in concomitanza di periodi con umidità elevata e specialmente con temperatura mite. Un altro fattore, non meno importante, che ha contribuito a far aumentare l’incidenza del marciume dei capolini in pieno campo è rappresentato dalla mutata tecnica colturale del carciofo.

Capolino di carciofo con evidenti fruttificazioni di Botrytis cinerea

Marciume dei capolini

• L’esposizione dei capolini alle gelate

del periodo autunno-vernino provoca aree necrotiche e lacerazioni dell’epidermide sulle brattee, favorendo la penetrazione del patogeno nei tessuti del capolino che, in tempi relativamente brevi, marcisce. Attacchi anche lievi in pieno campo possono trasformarsi in ingenti perdite di prodotto quando, alla raccolta, i capolini vengono posti nelle cassette per essere spediti verso le località di smercio Pianta di carciofo i cui capolini mostrano sintomi di marciume da Botrytis cinerea

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malattie Da diversi anni, infatti, si tende a ottenere produzioni sempre più precoci, oltre che meno scalari, perché più remunerative. Ciò si consegue, da un lato, con un sempre maggior anticipo nella messa a coltura della carciofaia (sia che si tratti di nuovo impianto sia di risveglio di quella vecchia); dall’altro, attuando una forzatura molto spinta mediante forti concimazioni (specialmente azotate), frequenti irrigazioni e, più di recente, impiego di fitoregolatori quali l’acido gibberellico. Ne consegue che la maggior parte dei capolini, per giunta resi più teneri dalle citate cure colturali e quindi più vulnerabili, viene a maturazione in dicembre-gennaio, proprio nel periodo in cui si verificano le predette condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo della malattia. Infine, è ovvio che gli effetti dell’alterazione possono risultare assai gravi dopo la raccolta dei carciofi, allorché questi vengono posti nelle cassette per essere spediti verso le località di smercio. È sufficiente, infatti, che vi sia qualche capolino con un’infezione incipiente perché questa si trasmetta facilmente a quelli adiacenti, data la stretta contiguità esistente fra loro. Ciò, non di rado, può determinare la perdita di intere cassette di prodotto. Lo sviluppo di queste infezioni è inoltre favorito, in modo preminente, dalla temperatura e dall’umidità elevate che si creano nella massa accatastata in seguito all’attività respiratoria dei tessuti vegetali, la quale prosegue ancora per alcuni giorni dopo che l’organo è stato reciso dalla pianta.

Foto N. Calabrese

Capolini affetti da Botrytis cinerea

Foto N. Calabrese

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coltivazione Marciumi del colletto (Sclerotinia sclerotiorum, Sclerotium rolfsii e Rhizoctonia solani) I marciumi del colletto costituiscono oggigiorno il problema fitopatologico più rilevante per le colture primaticce. Possono manifestarsi in forma grave già nelle colture di primo anno soprattutto quando il carciofo succede a se stesso o ad altre specie (per es. la barbabietola da zucchero) sensibili ai predetti agenti di marciume. Tuttavia anche le carciofaie impiantate su terreno vergine possono essere gravemente colpite se gli ovoli provengono, fatto del resto assai comune, da carciofaie infette. Ovviamente la loro incidenza aumenta di anno in anno nelle colture poliennali, sino a indurre una perdita notevole di piante che talvolta può raggiungere punte dell’80%. I marciumi si manifestano, in genere, dai primi d’agosto a tutto novembre; vale a dire dalla nascita dei carducci fino al momento in cui le infezioni fungine sui cardi adulti vengono contenute dall’abbassarsi della temperatura, per il sopraggiungere della stagione invernale. In tutti e tre i marciumi i primi sintomi consistono in un appassimento e rilassamento delle foglie più esterne che ingialliscono, si adagiano sul terreno e, infine, si disseccano. Il fenomeno si estende via via alle foglie più interne, quindi anche quelle giovanissime del cuore si raggrinzano e si disseccano. Un attento esame del pedale delle piante avvizzite permette di diagnosticare facilmente i tipi di marciume. Infatti, appena al di sotto del livello del suolo, in prossimità della zona del colletto, si osserva la marcescenza della porzione basale dei piccioli fogliari e, tutt’attorno, la presenza di una muffa: ora bianco-candida, molto rigogliosa, con sclerozi neri, grossi fino a 1 cm; ora bianca, ad accrescimento tipicamente raggiato, con numerosissimi sclerozietti tondeggianti, di colore caffellatte, del diametro di 2-3 mm; ora bianco-grigiastra e d’aspetto vellutato, poi bruno-rossastra e ra-

Marciumi del colletto

• I marciumi del colletto sono causati

da funghi che tendono ad accumularsi nel terreno anno dopo anno fino a raggiungere livelli tali da rendere antieconomica la coltura. Le carciofaie, una volta poliennali, attualmente sono biennali e, in non pochi casi, solo annuali proprio per le fallanze spesso ragguardevoli causate da questi patogeni già al secondo anno di impianto. Tuttavia anche le coltivazioni impiantate su terreno vergine possono essere gravemente colpite se gli ovoli provengono, fatto del resto assai comune, da carciofaie infette

Pianta colpita al colletto da Sclerotium rolfsii. Si possono osservare il micelio e gli sclerozi del patogeno

Sezione radiale di caule di carciofo dove sono evidenti il micelio cotonoso e gli sclerozi di Sclerotinia sclerotiorum

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malattie

Pianta di carciofo attaccata da marciume da Sclerotinia sclerotiorum. Si osserva al colletto il micelio cotonoso del fungo

gnatelosa, cosparsa di minuscole formazioni pseudo-scleroziali a seconda che si tratti rispettivamente di S. sclerotiorum, di S. rolfsii o di R. solani. Dato il completo ammarcimento dei tessuti del colletto in tutti e tre i casi, il cespo di foglie si stacca con grande facilità dalla parte ipogea della pianta. In seguito alla morte del cardo primario la pianta reagisce ricacciando altri carducci che, a loro volta, possono essere ugualmente attaccati e mortificati, e così via fino all’esaurimento delle gemme; sicché le coltivazioni sembrano costituite da piante disetanee e appaiono, specialmente quelle vecchie di qualche anno, come zone più o meno estese di terreno incolto. Tutti e tre gli agenti di marciume possono causare la morte di numerose piante. D’altra parte, mentre S. rolfsii e R. solani sono particolarmente temibili nei mesi estivi, durante i quali entrambi trovano il loro optimum di temperatura, S. sclerotiorum appare decisamente più virulenta all’approssimarsi dell’autunno, in periodo meno caldo. Accade talvolta che carciofaie colpite durante l’estate dai primi due funghi siano attaccate successivamente dal terzo. Un fattore di notevole importanza, che influenza enormemente lo sviluppo dei funghi, soprattutto R. solani e S. rolfsii, è lo stato igrometrico del suolo. In condizioni di umidità elevata questi funghi esaltano il loro parassitismo e possono distruggere rapidamente le piante su ampie estensioni. Circa l’influenza esercitata dalla natura del terreno, si rileva, nel complesso, che mentre S. rolfsii è particolarmente diffuso nelle carciofaie situate in terreni sciolti e ben aerati, R. solani predomina in quelli argillosi e piuttosto compatti; del tutto indifferente appare invece S. sclerotiorum.

Ovolo di carciofo colpito da Sclerotium rolfsii con micelio e sclerozi del fungo

Tracheoverticilliosi (Verticillium dahliae, V. alboatrum) L’avvizzimento causato principalmente da Verticillium dahliae, e in minor misura da V. alboatrum, è considerato tra le più importanti malattie terricole del carciofo; esso è diffuso nelle maggiori aree di

Pianta di carciofo con sintomi di marciume basale da Rhizoctonia solani

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coltivazione Presenza di Verticillium dahliae nei carducci di piante di carciofi con diverse intensità della malattia. Dati medi di campi naturalmente infetti

Tracheoverticilliosi

• V. dahliae è un patogeno polifago in grado

di attaccare numerosissime specie di piante sia erbacee (pomodoro, melanzana, melone, fragola, carciofo ecc.) sia arboree (olivo, pesco, mandorlo, albicocco, frassino, acero ecc.). Il patogeno ha la capacità di sopravvivere nel terreno come saprofita, utilizzando come fonte di nutrimento residui vegetali di piante coltivate o spontanee, oppure mediante strutture specializzate di resistenza, dette microsclerozi, in grado di rimanere vitali nel terreno per oltre dieci anni

Sintomi sulle piante madri

Isolamenti positivi da carducci (%)

Gravi

30

Leggeri

25

Assenti

10

coltivazione di questa pianta dove, in non pochi casi, rappresenta la maggiore avversità, determinando pesanti effetti sia sul mantenimento sia sulla diffusione della coltura. La tracheoverticilliosi presenta un ampio areale geografico di distribuzione dall’Europa all’Asia, America e Africa. La malattia è stata osservata per la prima volta nel 1929 in Italia su alcune carciofaie nei pressi di Roma. Dopo circa trentacinque anni la malattia è stata nuovamente segnalata in una carciofaia del Lazio e in Francia. Successivamente sono state osservate numerosissime carciofaie soggette a tracheoverticilliosi, e la gravità e l’estensione dei danni provocati sono motivo di grande preoccupazione per gli agricoltori e gli operatori del settore. Il patogeno penetra nella pianta attraverso le radici in corrispondenza di ferite causate da operazioni di trapianto, nematodi, insetti o dalla stessa emissione delle radici laterali. Raggiunti i vasi legnosi il patogeno li aggredisce e vi si sviluppa determinando la disfunzione del sistema vascolare al quale necessariamente conseguono l’appassimento e il successivo avvizzimento fogliare. La tracheoverticilliosi del carciofo si manifesta inizialmente in campo su singole o poche piante; in seguito la malattia si diffonde

• Spesso V. dahliae è presente in forma

latente nel materiale di propagazione vegetativa (ovoli o carducci) del carciofo quando questo venga prelevato da piante, anche prive di sintomi di malattia, coltivate in un campo infetto. Questa è considerata una delle vie più subdole e difficilmente controllabili di diffusione della malattia in terreni non contaminati dal patogeno

Sintomi di tracheoverticilliosi su carciofo

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malattie

Conidioforo (a) e microsclerozi (b) di Verticillium dahliae

determinando ampie zone di fallanza. Le piante di carciofo colpite mostrano sviluppo stentato e taglia ridotta e, nei casi più gravi, muoiono. I sintomi in campo possono comparire in qualsiasi fase del ciclo vegetativo, ma più frequentemente all’inizio della primavera e in estate dopo la forzatura della ripresa vegetativa. Le prime manifestazioni sintomatologiche appaiono sulle foglie basali che progressivamente si afflosciano, ingialliscono e infine disseccano. La malattia solitamente si estende anche alle foglie più giovani, che perdono turgore e si accartocciano verso l’alto esponendo il verde argento della pagina inferiore prima di disseccare anch’esse. Accomuna la tracheoverticilliosi ad altre affezioni causate da patogeni vascolari la possibile asimmetria della manifestazione sintomatologica esterna, in quanto i sintomi possono interessare un settore della ceppaia o della pianta o una metà del lembo fo-

Imbrunimenti dello xilema in sezioni trasversali di fusti di carciofo causati da infezioni di Verticillium dahliae

Carciofi resistenti alle tracheoverticilliosi

• La ricerca di carciofi resistenti alla

tracheoverticilliosi è un’attività che ha impegnato alcuni riceratori del Dipartimento di Biologia e Patologia vegetale dell’Università degli Studi di Bari da circa un ventennio. La solitaria ricerca portata avanti da tale ristretto gruppo di studiosi ha consentito di individuare alcune valide forme di resistenza, tanto che alcuni cloni selezionati non hanno manifestato alcun sintomo esterno nel corso di un triennio di coltivazione su terreno contaminato. Nello stesso periodo tutte le piante di cloni di carciofi suscettibili hanno espresso in modo grave i sintomi della malattia

Piante di un clone di carciofo suscettibile alla verticilliosi (parcella in primo piano) a confronto con piante di un clone resistente (parcella in secondo piano) coltivate su terreno artificialmente inoculato col patogeno

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coltivazione

Marciume radicale batterico

• Il marciume radicale batterico causato

da Erwinia carotovora subsp. carotovora è una malattia nota da tempo ai carcioficoltori. Appare di rilevanza fitopatologica notevole nelle colture attuate nei terreni argillosi, soprattutto asfittici e mal drenati

• Si manifesta con appassimento

e successivo avvizzimento dell’intera pianta, cui corrisponde dapprima un rammollimento del tessuto midollare delle radici e del caule e poi una liquefazione del medesimo a seguito dell’attacco di batteri putrefacenti ubiquitari

Pianta attaccata da Erwinia carotovora subsp. carotovora dove si può osservare il rammollimento della zona midollare

• Attualmente, questa malattia

gliare in relazione alla porzione del sistema vascolare colonizzata dal patogeno. Le piante malate che sopravvivono non producono o, se lo fanno, differenziano capolini deformi o di dimensioni ridotte. Sulla sezione trasversale dello stelo delle piante malate, sono visibili alterazioni cromatiche di colore bruno-nerastro distribuite in modo puntiforme o continuo sull’intera corona vascolare.

• La fitopatia si manifesta con la massima

Marciume radicale batterico (Erwinia carotovora subsp. carotovora) Il marciume radicale batterico, da tempo ben noto ai carcioficoltori, interessa quasi esclusivamente le colture poliennali. L’infezione avviene di norma nell’apparato radicale attraverso le ferite che l’orticoltore provoca tagliando gli steli, ormai secchi, delle

è in espansione; infatti oggigiorno sono colpite anche le colture di primo impianto, con molta probabilità in seguito all’utilizzo di ovoli provenienti da carciofaie infette intensità proprio nelle colture anticipate attuate in terreni argillosi, asfittici, nel periodo tra luglio e settembre, per poi attenuarsi gradualmente a mano a mano che la temperatura si abbassa, sino a essere pressoché completamente contenuta col sopraggiungere dei freddi invernali

Foto R. Angelini

Marciumi su piante adulte di carciofo causati da Erwinia carotovora

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malattie piante costituenti la coltura dell’anno precedente. Esso si manifesta sin da fine luglio-primi di agosto, alla nascita dei carducci, più o meno nello stesso periodo in cui compaiono i marciumi del colletto. I primi sintomi della malattia si avvertono nell’apparato aereo delle piante. Questo va soggetto a un progressivo appassimento, raggrinzimento e disseccamento, che ha inizio nelle foglie esterne ma che rapidamente interessa anche le foglie centrali. Al momento in cui negli organi aerei appaiono le prime manifestazioni di appassimento, nei tessuti del colletto e nella parte superiore del fittone e delle radici secondarie non si riesce a rilevare macroscopicamente alcun cenno di alterazione. La parte distale del fittone, invece, appare completamente marcia. Più tardi, quando il fogliame incomincia a disseccarsi, sulla parte superiore del fittone si osserva un marciume, più o meno esteso, della zona midollare, in corrispondenza del quale i tessuti assumono un colore bruno-chiaro e una consistenza flaccida. Infine, tutto l’apparato radicale degenera in un marciume bruno che negli ultimi stadi emana odore sgradevole. Un ruolo di primaria importanza nelle infezioni e nella diffusione della malattia è rivestito dalle irrigazioni estive. È l’acqua, infatti, il veicolo che trasporta il patogeno da pianta a pianta e da appezzamento ad appezzamento, senza peraltro escludere l’eventualità che una qualche azione in merito possa essere esplicata anche da larve di insetti che albergano sul carciofo. Anche la temperatura influisce notevolmente sulla gravità della malattia, dal momento che il batterio ha un optimum di sviluppo fra 30 e 35 °C.

Sezione di caule di carciofo colpito da Erwinia carotovora subsp. carotovora dove è avvenuta la liquefazione del tessuto midollare a causa dell’attacco secondario di batteri putrefacenti Piante di carciofo colpite da Erwinia carotovora subsp. carotovora

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coltivazione Difesa dalle malattie La lotta contro l’oidio è legata, ancora oggi, all’impiego di prodotti endoterapici, disponibili in una vasta gamma e di efficacia notevole. I trattamenti devono essere iniziati alla comparsa delle prime macchie di oidio e proseguiti a seconda dell’andamento climatico e dello stadio vegetativo della pianta. È consigliabile non limitarsi all’impiego di un solo prodotto, ma orientarsi verso una rotazione di principi attivi diversi, al fine di evitare la comparsa di quei fenomeni di resistenza che si possono verificare con i fungicidi sistemici. Per la peronospora si prevedono interventi preventivi con composti a base di rame (specialmente poltiglia bordolese); oggigiorno, però, possono essere effettuati con efficacia al momento della comparsa dei primi sintomi della malattia con antiperonosporici sistemici. Il marciume dei capolini, data l’impossibilità di intervenire sui fattori climatici che favoriscono gli attacchi di B. cinerea, può essere contrastato con soli mezzi chimici. La lotta contro i marciumi del colletto è quanto mai problematica stante l’elevata polifagia dei patogeni e la capacità dei loro sclerozi di conservarsi a lungo vitali nel terreno. Grande importanza ha comunque, al fine di contenere gli attacchi e la diffusione dei patogeni nelle carciofaie, l’applicazione di pratiche e accorgimenti colturali che consentano un regolare e vigoroso sviluppo delle piante. Bisogna pertanto evitare di forzare troppo la coltura con concimazioni eccessive, rincalzature anticipate e irrigazioni troppo frequenti. L’acqua, soprattutto, deve essere distribuita in modo assai razionale, in particolare nei mesi estivi, al fine di impedire un eccesso di umidità attorno alle piante. Molto utile è inoltre l’impiego di una rotazione adeguata che eviti il ritorno troppo frequente del carciofo o di altre piante suscettibili sullo stesso terreno. Ma, oltre a ciò, è innanzitutto necessario che gli ovoli impiegati per i nuovi impianti siano perfettamente sani o

Esito finale di foglia colpita da mal bianco (Leveillula taurica f. sp. cynarae)

Capolino di carciofo in cui è evidente sulle brattee l’inizio del marciume da Botrytis cinerea Sezione radiale di un capolino in marcescenza da Botrytis cinerea

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malattie sottoposti a disinfezione. E poiché accade di frequente che quelli prelevati in campo non lo siano, è assolutamente indispensabile procedere alla loro disinfezione. La prevenzione, basata sull’impianto della carciofaia su terreni esenti dal patogeno utilizzando materiale di propagazione di accertata sanità, rappresenta attualmente la più sicura indicazione per la lotta contro la tracheoverticilliosi del carciofo. Infatti, l’efficacia dei mezzi disponibili per la disinfezione del terreno, quali la fumigazione con dazomet e la solarizzazione, è parziale e condizionata da diversi fattori, quali l’entità dell’inoculo presente e/o le condizioni ambientali (climatiche) che insistono nel corso dei trattamenti. Inoltre, la localizzazione del patogeno all’interno del sistema xilematico lo rende praticamente irraggiungibile dall’azione dei fitoterapici anche sistemici. La stessa pratica agronomica degli avvicendamenti colturali risulta di complessa applicabilità in considerazione della polifagia e della prolungata sopravvivenza del patogeno nel terreno. Mezzi di lotta quali formulati di microrganismi antagonisti, nuovi disinfettanti del terreno, induttori di resistenza sistemica e varietà di carciofo resistenti alla tracheoverticilliosi potranno offrire in futuro nuove opportunità per la difesa del carciofo da questa devastante avversità, ma non hanno al momento ancora superato la fase sperimentale. Per il marciume radicale batterico non si conoscono al momento attuale mezzi di lotta curativi di sicura efficacia ed economicamente convenienti. La lotta, pertanto, si basa essenzialmente su interventi preventivi. È necessario, anzitutto, attuare nei terreni contaminati colture al massimo triennali e impiegare, per i nuovi impianti, ovoli provenienti da carciofaie non infette. È opportuna, in ogni caso, la disinfezione dei medesimi. Validissime sono, infine, tutte quelle misure di carattere agronomico suggerite per la lotta contro i marciumi del colletto.

Difesa dai marciumi del colletto

• La lotta chimica contro i marciumi

del colletto fornisce risultati modesti sia per la resistenza degli sclerozi non germinanti all’azione dei principi attivi sia per la mancanza di prodotti efficaci. Il miglioramento della lotta contro questa fitopatia può essere ottenuto con mezzi che consentano l’attacco diretto degli sclerozi e, di conseguenza, la riduzione della densità di inoculo nel terreno. Tale obiettivo può essere realizzato con mezzi biologici e in particolare di iperparassiti quali Coniothyrium minitans utile allo scopo, ma specifico contro Sclerotinia sclerotiorum

Funghi antagonisti naturali

• Studi recenti hanno preso

in considerazione la possibilità di somministrare al terreno antagonisti (particolarmente efficaci contro S. rolfsii si sono dimostrati un isolato di Trichoderma viridae e uno di T. citrinoviridae) tramite il compost derivato da sanse di olive; tuttavia devono essere definiti i parametri del processo che consentano un’adeguata colonizzazione del compost da parte degli antagonisti. In ogni caso, l’utilizzo di tali mezzi biologici non permette una riduzione adeguata del danno. La riduzione della densità di inoculo è un processo lento e graduale i cui effetti benefici si potranno percepire solo nel corso degli anni in un periodo di tempo tanto maggiore quanto più elevato è il grado di contaminazione del terreno

Pianta di carciofo colpita da marciume del colletto

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il carciofo e il cardo

coltivazione Virosi Donato Gallitelli, Tiziana Mascia

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


coltivazione Virosi Introduzione In una recente rassegna curata da Martelli e Gallitelli, sono state elencate 24 specie virali isolate da carciofo, appartenenti a dieci generi e una alla famiglia Rhabdoviridae. Gran parte di esse è stata rinvenuta in Europa o in Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, mentre una minoranza di reperti ha riguardato il Brasile (Artichoke latent virus, Tobacco streak virus, Tobacco rattle virus), gli USA (California) (Artichoke curly dwarf virus, Artichoke latent S virus, Tomato infectious chlorosis virus, Tomato spotted wilt virus), l’Argentina e l’Australia (Tomato spotted wilt virus). Solo in alcuni casi si tratta di virus che infettano in modo specifico il carciofo, mentre la maggioranza è patogena di un numero più o meno elevato di altre specie, coltivate e spontanee. Caratteristica comune a più agenti infettivi è, invece, la frequente asintomaticità delle infezioni o, nei casi in cui è visibile una risposta sintomatologica, questa è spesso condizionata dalla presenza di più virus nella medesima pianta, da fattori ambientali, dalle tecniche colturali e dalla varietà di carciofo. In questa sede sono fornite indicazioni sugli aspetti eco-epidemiologici delle principali virosi che infettano il carciofo e sulle possibilità di intervento.

Caratteristiche dei fitovirus

• I fitovirus o virus delle piante sono entità

infettive la cui forma matura consiste di particelle di forma sferica o più o meno allungata e flessuosa, costituite da acido nucleico racchiuso e protetto da un involucro proteico. L’acido nucleico costituisce il genoma e la parte infettiva del virus e può essere DNA o RNA, a singolo o doppio filamento. La gran parte dei fitovirus possiede un genoma costituito da RNA a singolo filamento: una molecola fortemente soggetta a mutazioni, il che giustifica la grande variabilità esistente tra questo gruppo di patogeni delle piante. L’involucro proteico o capside virale racchiude e protegge l’acido nucleico dall’attacco di enzimi ed è fondamentale sia per il movimento del virus all’interno della pianta, sia per la sua trasmissibilità da un ospite all’altro

Artichoke latent virus (ArLV) Tra i virus che infettano in modo specifico il carciofo, ArLV è di gran lunga il più diffuso in tutte le aree di coltivazione della

• Per svolgere il proprio ciclo vitale,

i fitovirus hanno bisogno di una cellula ospite viva e, pertanto, sono da considerarsi patogeni obbligati. Tuttavia, le particelle virali sono sufficientemente stabili per restare a lungo infettive in varie matrici, anche morte, come i residui vegetali o il terreno

Foto N. Calabrese

Carciofaia in ottimo stato fitosanitario

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virosi specie ma non sono descritti sintomi chiaramente associabili al patogeno, anche perché sono frequenti le infezioni miste che possono aggravare o mascherare le eventuali alterazioni direttamente imputabili al solo ArLV. ArLV è una specie del genere Potyvirus, famiglia Potyviridae, che, oltre che con il materiale di propagazione vegetale, è trasmessa per stiletto da afidi delle specie Myzus persicae, Brachycaudus cardui e Aphis fabae. La trasmissione per stiletto è un fenomeno molto specifico, mediato dalla proteina di rivestimento del virus o da una particolare proteina, definita componente helper e propria dei Potyvirus. Il prolungarsi del periodo di saggio causa la riduzione dell’efficienza di trasmissione perché le particelle virali adsorbite sono facilmente rimosse, così che il periodo di infettività dei vettori è dell’ordine di una o due ore. Tuttavia l’infettività è perduta più rapidamente se i vettori effettuano ulteriori punture di saggio, mentre persiste anche fino a 24 ore se essi non hanno la possibilità di accedere alle piante. Così, i principali responsabili della diffusione dei virus trasmessi in modo non persistente non sono gli afidi che colonizzano la coltura ma, piuttosto, quelli che la visitano occasionalmente. La trasmissione di ArLV è molto efficiente, tanto che, per il carciofo, sono state stimate percentuali di reinfezione del 75% nell’arco di un solo anno. Il virus è stato trovato nei tegumenti seminali e nei cotiledoni di un 5-10% di semi e, successivamente, sulle prime foglie vere. Il reperto non sorprende perché diversi sono i Potyvirus trasmessi attraverso il “seme”. L’infezione sostenuta dal solo ArLV è latente, così come enuncia lo stesso nome della specie. È stato però descritto un generale deperimento delle piante infette, accompagnato da significativa riduzione del numero e delle dimensioni dei capolini che, spesso, si presentano anche con le brattee parzialmente divaricate. Le perdite di produzione possono oscillare tra il 40 e il 50%, anche per effetto di un sensibile ritardo nella maturazione delle varietà rifiorenti che ne condiziona l’adeguato piazzamento sul mercato. La diagnosi è possibile anche su piantine molto giovani, specie se effettuata con approcci basati sulle proprietà degli acidi nucleici, come l’ibridazione a macchia (dot blot) o la reazione a catena della polimerasi (Polymerase Chain Reaction, PCR) standard o in tempo reale. La PCR è una tecnica utile a rilevare, anche in un solo saggio, infezioni miste, ma il protocollo di reazione e il disegno dei primer vanno attentamente calibrati perché è possibile l’amplificazione preferenziale di un virus e il mascheramento del segnale generato dagli altri. Infine, poiché la distribuzione del virus nelle piante infette è molto variabile, anche l’epoca di campionamento è importante ai fini dell’attendibilità dei risultati del saggio. È stato accertato che l’epoca migliore per prelevare i campioni è compresa tra settembre e novembre.

Trasmissione delle particelle virali per punture di afidi

• Più propriamente detta non persistente,

si realizza allorché gli afidi effettuano rapide punture di saggio sulle piante, per selezionare quelle ospiti. Le particelle virali sono acquisite e inoculate nell’arco di 10-20 secondi, durante i quali gli insetti mediante lo stiletto perforano la cuticola, la parete e la membrana delle cellule epidermiche e del mesofillo, poi ritirano lo stiletto lasciando la membrana intatta. Durante la fase di ingestione, le particelle virali sono trascinate con il succo cellulare e restano adsorbite alla cuticola degli apparati boccali dalla quale possono altrettanto facilmente distaccarsi durante la fase di salivazione

Difesa da Artichoke latent virus (ArLV)

• Le possibilità di intervento diretto

sono scarse perché la lotta ai vettori, ancorché possibile, è spesso poco efficace. La modalità di trasmissione di tipo non persistente vanifica, infatti, l’azione di un qualunque insetticida sul vettore che può trasmettere il virus prima di subirne l’effetto letale. La lotta si dovrebbe basare sull’impiego di germoplasma sano per i nuovi impianti

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coltivazione Artichoke Italian latent virus (AILV) In Puglia, le infezioni di AILV, un tempo sporadiche, sono ora molto frequenti. Nel corso di un recente monitoraggio effettuato in provincia di Brindisi su varietà rifiorenti, non sono state trovate piante in cui non fosse presente AILV e, frequentemente, in infezione mista con ArLV. Il virus è stato anche trovato nel Lazio e in Campania, su varietà tardive, per cui i saggi per il rilevamento di questo virus dovrebbero ormai entrare fra quelli effettuati, di routine, su carciofo. Il virus è una specie del sottogruppo B del genere Nepovirus, famiglia Comoviridae, trasmesso dai nematodi Longidorus apulus e L. fascians. I nematodi acquisiscono le particelle virali con l’ingestione del citoplasma di una cellula infetta così che esse restano adsorbite – almeno nelle specie del genere Longidorus – tra lo stiletto e la sua guaina guida. Con analogo meccanismo le particelle virali sono distaccate dai siti di adsorbimento e trascinate nelle cellule vegetali con il flusso salivare immesso nelle piante durante le successive fasi di alimentazione. Sia le forme larvali sia quelle adulte possono acquisire e trasmettere il virus che, però, è perduto in occasione della muta perché viene eliminato anche lo strato interno della parte anteriore del tubo alimentare, dove sono trattenute le particelle virali. La capacità vettrice è riacquisita allorquando il nematode si alimenta nuovamente su una pianta infetta e, in assenza di muta, permane per circa 2-3 mesi. Tuttavia, per la velocità con la quale si diffondono le infezioni virali veicolate da nematodi non si ritiene che l’incremento della frequenza di reperti sia imputabile a trasmissione naturale. Anche sulla base di un monitoraggio effettuato nel terreno di carciofaie interessate da AILV, durante il quale non sono stati trovati nematodi delle specie citate, si è spinti a ritenere che le ragioni siano da individuare nell’uso di germoplasma infetto (carducci e ovoli), inconsapevolmente selezionato dagli agricoltori e impiegato per la realizzazione dei nuovi impianti. In effetti, le piante sono sostanzialmente asintomatiche anche se il virus è molto aggressivo su altre composite come, per esempio, su cicoria, dove non è infrequente la presenza di accentuate alterazioni cromatiche. In alcuni casi, la comparsa di giallumi leggeri e la perdita di simmetria delle foglie, che possono presentare anche margini frastagliati sono state imputate all’infezione di AILV. Come ArLV, anche AILV è stato identificato nei tegumenti seminali e nei cotiledoni di un 5-10% di casi, e anche questo dato non sorprende perché la trasmissibilità attraverso il “seme” rientra tra le caratteristiche peculiari dei Nepovirus.

Trasmissione di AILV

• Le specie coinvolte appartengono

all’ordine Dorylaimida, sottordine Dorylaimina, superfamiglia Dorylaimoidea, famiglia Longidoridae, sottofamiglia Longidorinae, genere Longidorus. Restando al di fuori della radice, questi nematodi si alimentano attraverso uno stiletto tubolare che viene inserito in corrispondenza dell’apice vegetativo e della zona di allungamento delle radici. Il danno, oltre che nella trasmissione di virus, consiste nella riduzione dell’accrescimento radicale a causa dell’azione trofica

Difesa da Artichoke Italian latent virus (AILV)

• Come per ArLV, le possibilità di intervento sono limitate alla diagnosi preventiva e all’uso di germoplasma sano. Interventi di disinfestazione del terreno per combattere i nematodi non sono consigliabili perché, come si è detto, la diffusione rapida dell’infezione è operata dagli stessi agricoltori che, inconsapevolmente, usano materiale di propagazione infetto per i nuovi impianti

Artichoke mottled crinckle virus (AMCV) A differenza di quelle dei due virus trattati in precedenza, le infezioni di AMCV sono letali per il carciofo che sviluppa una malattia a cui è stato dato il nome di arricciamento maculato. Le piante evidenziano accentuata riduzione di taglia, forti deformazioni, foglie a frattura vitrea ed estesi giallumi che, spesso, interessano 234


virosi

Eco-epidemiologia di AMCV

• I Tombusvirus sono entità altamente

infettive che raggiungono elevatissime concentrazioni nelle cellule epidermiche delle piante attaccate e che, per questo motivo, possono essere facilmente trasmesse per contatto. Dal suolo, il virus può trasferirsi alle piante sane senza necessità di vettori rendendo problematico il reimpianto, anche dopo lunghe rotazioni. Nella coltura, la malattia presenta una distribuzione a chiazze, tipica delle virosi trasmesse attraverso il terreno. Il virus è stato trovato anche nei sedimenti argillosi di corsi d’acqua

Ricacci di una ceppaia di una pianta infetta da AMCV

l’intera pianta. A inizio primavera, le piante infette tendono a ricacciare, ma i nuovi getti sono esili, malformati e interessati da giallume. I capolini sono prodotti in numero esiguo e, spesso, sono caratteristicamente ripiegati da un lato. AMCV è una specie del genere Tombusvirus, famiglia Tombusviridae ed è endemico in diversi Paesi del Mediterraneo. Si trasmette attraverso il terreno che raggiunge con i tessuti infetti e nel quale resta attivo per diversi anni. L’endemismo della malattia è da collegare con le modalità di trasmissione e, soprattutto, con il fatto che, quando non uccide la pianta, l’infezione provoca sintomi tanto gravi da dissuadere gli agricoltori dall’utilizzarne il materiale per l’impianto della nuova coltura. La diagnosi, oltre che su base sintomatologica può essere effettuata con reagenti di tipo sierologico o mediante ibridazioni con acido nucleico. I reagenti sierologici vanno impiegati con cautela a causa della possibilità di ottenere risultati

Giallumi, laciniature fogliari e distorsione del capolino in una pianta infetta da AMCV Distorsione dei capolini in pianta infetta da AMCV

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coltivazione positivi con altre specie virali dello stesso genere con le quali AMCV è imparentato. Difesa da Artichoke mottled crinckle virus (AMCV)

Tomato spotted wilt virus (TSWV) TSWV è una specie del genere Tospovirus, famiglia Bunyaviridae ed è tra i virus di più recente segnalazione su carciofo. È un virus ubiquitario e polifago, tanto che la gamma di ospiti suscettibili comprende un migliaio di specie in diverse famiglie botaniche e include colture di rilevante importanza economica come peperone, lattuga, pomodoro, melanzana, patata, tabacco, cicoria, endivia e carciofo. TSWV è trasmesso in modo persistente propagativo dal tripide Frankliniella occidentalis che, comunque, non è il suo unico vettore. Il virus è acquisito solo dalle neanidi di prima e seconda età ma non dagli adulti, che possono solo trasmettere il virus acquisito in precedenza dalle neanidi e successivamente moltiplicatosi nell’insetto. Gli adulti non possono acquisire nuovo virus, anche se si alimentano su piante infette, per una particolare conformazione del canale alimentare. In questo caso, il virus è semplicemente ingerito ma non sembrerebbe rilevante ai fini della trasmissione, anche se è stata paventata la possibilità che le particelle virali presenti nelle deiezioni degli insetti possano stabilire nuove infezioni, penetrando nell’ospite attraverso ferite o aperture naturali. Gli individui adulti possono continuare a trasmettere il virus per tutta la durata della loro vita; in media 35-40 giorni. Non sono riportati casi di trasmissione transovarica alle successive generazioni di individui viruliferi, ma la loro permanenza in campo, anche dopo l’espianto della coltura, espone al rischio di infezioni anche le colture successive. Numerosi sono stati gli isolamenti italiani, a partire dal 1992. Come in altre essenze, anche nel carciofo il fenotipo della

• Per la lotta, si può solo ricorrere a

lunghe rotazioni perché la persistenza dell’inoculo nel terreno rende poco utile il ricorso a germoplasma sano di cui, tuttavia, è consigliabile l’impiego per il nuovo impianto al termine della rotazione

Eco-epidemiologia di TSWV

• Nelle condizioni dell’Italia meridionale,

il virus è trasmesso da Frankliniella occidentalis nel periodo primaverileestivo e da Thrips tabaci in quello autunno-invernale. Le uova deposte nelle foglie e nelle brattee schiudono in 2-14 giorni, in dipendenza della temperatura, e le neanidi di prima età iniziano immediatamente l’alimentazione sulla stessa pianta, dalla quale, se infetta, possono già acquisire il virus. Anche le neanidi di seconda età possono acquisire il virus che continua a replicarsi e può essere trasmesso per tutta la vita dall’adulto dell’insetto

Evidenti malformazioni fogliari e ridotto accrescimento di una pianta infetta da TSWV

Necrosi delle nervature osservabile in una foglia di carciofo infetta da TSWV. La necrosi delle nervature provoca arresto della distensione del lembo fogliare con conseguente curvatura dell’asse fogliare

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virosi malattia indotta da TSWV è necrotico e spesso uccide la pianta. I soggetti infetti mostrano taglia ridotta e vistose distorsioni fogliari verosimilmente dovute a estesa necrosi delle nervature che è facilmente visibile contro luce. La necrosi che interessa il tessuto internervale inizia con piccole macchie che, in seguito, si estendono a porzioni sempre più consistenti della foglia. Le porzioni necrotizzate spesso si distaccano, dando luogo a estese lacerazioni del lembo fogliare. I capolini delle piante infette, pochi e di dimensioni ridotte, presentano necrosi delle brattee anche se, secondo alcuni, l’eziologia di questa sintomatologia è controversa. Sembra, infatti, che anche squilibri nutrizionali possano indurre sintomi analoghi. L’unico modo per risalire all’eziologia dell’alterazione è quello di effettuare saggi di laboratorio con diagnostici specifici per il virus. TSWV si conferma il virus più dannoso per la composita sia per danni diretti, evidenti sin dal primo anno d’infezione, sia per danni indiretti ad altre colture limitrofe, per le quali la presenza di fonti d’inoculo più o meno permanenti rappresenta un elevato fattore di rischio. La diagnosi è possibile sia su base sierologica, sia attraverso ibridazione di acidi nucleici, inclusa la PCR sia in formato standard, sia real time. Tuttavia, il virus è poco stabile nei tessuti vegetali raccolti e conservati a +4 °C, per cui è consigliabile effettuare il saggio entro due o tre giorni dalla raccolta del campione.

Necrosi delle brattee su capolino di una pianta infetta da TSWV

Altri virus che infettano il carciofo In aggiunta ai casi trattati, vi sono poi reperti da considerare minori come quelli di Cucumber mosaic virus (CMV), Pelargonium zonate spot virus (PZSV) e Turnip mosaic virus (TuMV), anche se i risvolti epidemiologici delle infezioni su carciofo possono essere rilevanti per altre colture orticole come, per esempio, il pomodoro. CMV è trasmesso da circa 80 specie di afidi in modo non persistente ed è un virus ubiquitario e polifago la cui gamma di ospiti naturali si estende a oltre 1000 specie in circa 70 famiglie botaniche. È stato trovato in associazione ad ArLV e TSWV in piante in cui la sintomatologia di TSWV era, ovviamente, prevalente. PZSV è un virus che è stato segnalato per la prima volta su pelargonio, da cui ha derivato il nome ma che, in seguito, si è rivelato importante per il pomodoro a causa del fenotipo necrotico delle infezioni. Vi è una sola segnalazione su carciofo che ha riguardato piante della cultivar Romanesco interessate da nanismo e maculatura clorotica a carico delle foglie. I dati eco-epidemiologici sul virus indicano che è trasmesso attraverso il polline trasportato passivamente da tripidi e in Diplotaxis erucoides, anche attraverso il “seme”. La presenza di TuMV su carciofo va segnalata per la peculiarità del dato. Il virus è tipicamente infeudato alle crucifere, sulle quali, soprattutto il cep-

Difesa da Tomato spotted wilt virus (TSWV)

• Le possibilità di controllo della malattia

in campo sono, di fatto, inesistenti. La lotta ai tripidi è difficoltosa, anche per la tendenza di questi insetti a insediarsi nelle parti più protette della pianta. Il numero di ospiti naturali del virus rende inesauribili le fonti di inoculo anche se l’accurata eliminazione di erbe spontanee, prima del trapianto della coltura, potrebbe apportare sensibili benefici. Il ricorso a varietà resistenti, qualora identificate, potrebbe risolvere momentaneamente il problema. Per il pomodoro, l’impiego di varietà resistenti ha portato alla selezione di ceppi definiti RB (resistance breaking) capaci, appunto, di superare la resistenza conferita dal gene Sw5

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coltivazione po cabbage responsabile della malattia nota come maculatura anulare nera, provoca danni di un certo rilievo. I ritrovamenti italiani sono stati due, uno in Sardegna e uno in Puglia e, in entrambi i casi, su varietà rifiorenti. Il virus è un Potyvirus trasmesso da afidi in modo non persistente. Di un certo interesse per le condizioni italiane può anche risultare la segnalazione di infezioni di Tomato infectious chlorosis virus (TICV), genere Crinivirus, famiglia Closteroviridae, su colture californiane di carciofo. La presenza di tali infezioni è stata correlata a movimenti consistenti del vettore naturale del virus: l’aleurodide Trialeurodes vaporariorum. Noto in USA sin dal 1993, TICV è stato segnalato su piante di pomodoro coltivate in Liguria, Sardegna, Lazio e Campania e, considerando l’ubiquitarietà del vettore, è stato incluso nella lista di allerta della EPPO come patogeno emergente, con potenziali ricadute economiche fortemente negative. Per queste ragioni, ne sarebbe auspicabile un monitoraggio nelle aree cinaricole nazionali.

Come funziona la PCR

• La PCR o reazione a catena della

polimerasi è un tipo particolare di ibridazione molecolare che avviene in fase liquida e che si basa su una reazione ripetuta ciclicamente per 35-40 volte attraverso fasi di denaturazione, appaiamento e allungamento. La reazione è resa possibile dall’uso di un particolare enzima (DNA polimerasi) che si attiva durante la fase di allungamento e resiste alla temperatura di 95 °C, necessaria durante la fase di denaturazione. Questo particolare enzima termoresistente si chiama Taq polimerasi ed è stato isolato dal batterio termofilo Thermus aquaticus. Il ripetersi ciclico della reazione porta a un aumento esponenziale di ciò che si vuole rilevare: nel caso trattato in questa nota, è l’acido nucleico del virus presente nelle piante infette

Alterazioni a eziologia virale incerta Infine è necessario fare un breve cenno alle alterazioni cromatiche di colore giallo vivace che, in alcune occasioni, si osservano sulle piante di carciofo. A oggi, le cause non sono ben definite e solo in alcuni casi è stata dimostrata la presenza di particelle virali nei tessuti infetti. Nella rassegna curata da Martelli e Rana, sono state descritte due malattie, una definita maculatura anulare gialla e un’altra maculatura gialla. Mentre l’eziologia della maculatura anulare gialla è stata identificata nell’infezione di un Nepovirus del gruppo C, denominato Artichoke yellow

Maculatura gialla di sospetta eziologia virale (sopra e a lato). Nei tessuti di queste piante sono state trovate infezioni miste di virus, senza riuscire ad associare nessuno di essi al sintomo presente sulle foglie

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virosi ringspot virus (AYRSV), alla maculatura gialla sono stati trovati associati virus diversi e quasi sempre in infezione mista. Oltre ai descritti ArLV e AILV, sulle piante interessate da maculatura gialla sono stati identificati Broad bean wilt virus (BBWV), Bean yellow mosaic virus (BYMV) e Cynara virus (CraV). BBWV e BYMV sono virus tipicamente infeudati alle leguminose, anche se il primo vanta una gamma di ospiti naturali piuttosto vasta. Si tratta, nel complesso, di virus rinvenuti sporadicamente e di scarsa incidenza nelle condizioni italiane, mentre possono essere importanti in altri contesti geografici come la Francia, dove sono state stimate perdite di prodotto per oltre il 40% imputabili a BBWV. In base a quanto riportato, appare evidente che la condizione sanitaria del carciofo è seriamente compromessa da agenti infettivi virali che rendono sempre più incerto il futuro della coltura, anche in considerazione della crescente attività di importazione da altre aree di coltivazione della specie. Le possibilità di intervento si focalizzano soprattutto sulla disponibilità di germoplasma sano che, oltre a garantire il recupero delle varietà tipiche regionali, sul lungo periodo potrebbe portare a una riduzione degli inoculi mantenendo in campo la coltura per non più di un biennio e rimpiazzandola con nuovo germoplasma sano. La possibilità di individuare genotipi resistenti è condizionata dall’enorme variabilità genetica della specie; tuttavia le attuali possibilità offerte dai marcatori molecolari e da altri approcci più complessi, come il sequenziamento del genoma, potrebbero portare alla più facile identificazione di caratteri associati a livelli di resistenza utile nei confronti delle infezioni virali.

Diagnosi e identificazione dei fitovirus

• Nella diagnostica moderna, sono

sempre più frequentemente richiesti il rilevamento delle infezioni virali e l’identificazione del virus responsabile quando i sintomi non sono visibili. Per queste finalità si utilizzano oggi tecniche che sfruttano le caratteristiche dell’acido nucleico o quelle del suo involucro proteico. Nel primo caso si usa l’ibridazione molecolare che prevede il riconoscimento tra due filamenti di acido nucleico attraverso la complementarietà delle basi. Nel secondo caso si utilizzano le caratteristiche antigeniche dell’involucro proteico, per cui si parla di diagnosi sierologica. La diagnosi mediante ibridazione molecolare si basa su riconoscimento tra una molecola “bersaglio” (l’acido nucleico del virus) e una molecola “sonda” recante un marcatore. Nella diagnosi sierologica si sfrutta, invece, il riconoscimento tra antigene (la particella virale, in questo caso) e anticorpo. La tecnica sierologica oggi più in uso è l’ELISA (Enzyme-Linked Immunosorbent Assay): un saggio molto sensibile che consente anche la quantificazione dell’antigene

Maculatura anulare gialla associata all’infezione di AYRSV

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coltivazione Interazioni virus-pianta A seguito dei progressi nella comprensione di come sono disposti ed espressi i geni della maggior parte dei virus che infettano le piante, l’interesse dei ricercatori si è ora spostato sugli aspetti dell’interazione fra virus e ospite, con particolare riferimento ai meccanismi attraverso i quali si sviluppano sintomi e malattia. Gran parte di tali studi è condotta su piante modello come Arabidopsis thaliana, una crucifera dotata di un genoma di piccole dimensioni e completamente noto. Sono diffusamente utilizzate anche varie specie di Nicotiana, tra cui il tabacco, che sono piante infettate da un gran numero di virus, molto diversi. Su tali piante-modello è anche possibile effettuare trasformazioni genetiche così da poter studiare, nel dettaglio, la funzione di singoli geni del patogeno, avendoli isolati dal contesto della pianta infetta nella quale, a vari livelli, agiscono anche tutti gli altri geni virali. A tale proposito va però specificato che il comportamento del singolo gene può variare se messo in condizione di esprimersi da solo rispetto al più ampio e armonico contesto di un complesso processo infettivo. Si va infatti chiarendo che soprattutto i fattori definiti “di patogenicità”, coinvolti, cioè, nella induzione della malattia, assolvono a più di una funzione, e che tali funzioni possono essere rivelate solo in presenza del virus in replicazione attiva nella pianta ospite e non già attraverso un gene singolarmente espresso. Un’alternativa alla transgenesi è quella basata sull’uso di vettori virali, cioè virus il cui corredo genetico è stato modificato per portare all’interno della cellula ospite geni di un altro virus in modo da poterne studiare la funzione. Questo tipo di approccio, definito “transiente” presenta il vantaggio, rispetto a quello transgenico, di essere più flessibile perché uno stesso vettore virale può essere usato per veicolare geni differenti ma, comunque, non risolve il problema della

Trasformazione genetica

• Per trasformazione genetica

o transgenesi si intende l’integrazione stabile di una sequenza di DNA nel genoma di una pianta. Da questa operazione si ottengono piante note come transgeniche o OGM. In agricoltura, la transgenesi è generalmente proposta per conferire vantaggi alle piante come un incremento della produttività o del livello di resistenza ai patogeni, ma può anche essere un valido sistema di studio genico oggi utilizzato da molti laboratori di ricerca

Piantine di carciofo Brindisino risanato esitate dall’attività di premoltiplicazione e pronte per la distribuzione ai vivaisti

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virosi mancanza di un contesto di infezione. Anche se il vettore virale genera un processo infettivo, spesso asintomatico, esso è però diverso da quello del virus da cui è stato prelevato il gene che si vuole studiare attraverso l’espressione transiente. Altre indagini sono invece condotte direttamente sulle piante di interesse agrario nella prospettiva che da tali studi possano anche derivare informazioni utili per combattere la malattia. Queste piante, di cui non è noto, o è noto solo in parte, il genoma, rendono più complicati gli approcci sperimentali ma spesso portano, per puro caso, alla scoperta di aspetti di un certo interesse, soprattutto applicativo. Nel caso del carciofo, è stata appunto casuale la scoperta che piante infette da due virus differenti come Artichoke latent virus (ArLV) e Artichoke Italian latent virus (AILV), sottoposte a risanamento mediante coltura in vitro di apici meristematici, risultassero risanate da ArLV ma non da AILV. Per risanare le piante anche da AILV si è dovuto fare ricorso a un doppio trattamento consistente nella coltura di apici meristematici preceduta o seguita da un trattamento di termoterapia, cioè di esposizione delle piante ad alta temperatura. La coltura in vitro di apici meristematici è stata proposta come tecnica utile al risanamento del carciofo ma, se buoni risultati

Espressione “transiente”

• A differenza dell’espressione genica

costitutiva realizzata con la transgenesi, quella transiente è un tipo di espressione che non produce una pianta transgenica, ma che consente di effettuare studi sulla funzione di specifici geni trasportati momentaneamente da un vettore all’interno della pianta. Per queste finalità, sono spesso usati vettori virali per la loro capacità di invadere sistemicamente l’ospite e consentire la valutazione del gene in tessuti diversi della pianta

Protocollo per il risanamento da infezioni virali di varietà rifiorenti di carciofo mediante coltura di apici meristematici e termoterapia in vivo e in vitro Pianta infetta Termoterapia in vitro Prelievo dell’apice meristematico Insediamento (30 giorni) Moltiplicazione (30 giorni)

Termoterapia in vivo Acclimatazione dei carducci a 30 °C (30 giorni)

Prelievo dell’apice meristematico

Prelievo dell’apice meristematico

Moltiplicazione mediante tre subcolture (90 giorni)

Moltiplicazione mediante tre subcolture (90 giorni) Radicazione (45 giorni)

• Si è visto che la coltura di apice

Esposizione dei carducci a 38 °C (150 giorni)

Esposizione degli espianti della prima subcoltura a 38 °C (15 giorni)

Insediamento (30 giorni)

Problema della perdita di precocità meristematico, ancorché non sempre efficiente nel risanare il carciofo dalle infezioni virali, produce, come effetto collaterale, la perdita delle caratteristiche di precocità delle cultivar rifiorenti. Questo effetto indesiderato sembra essere il risultato dell’eccessivo numero di subcolture in terreni agarizzati ricchi di ormoni a cui sono sottoposti gli espianti per incrementarne il numero. Il problema sembra risolvibile se si contiene in due o tre il numero di subcolture

Insediamento (30 giorni)

Radicazione (45 giorni) Acclimatazione (30-40 giorni) Tempo totale necessario circa 358 giorni

Acclimatazione (30-40 giorni) Tempo totale necessario circa 280 giorni

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coltivazione sono stati ottenuti da tempo con alcune varietà tardive, solo di recente si è potuto affermare altrettanto per quelle rifiorenti, dove solo il ridotto numero di subcolture ha permesso di superare il problema della perdita di precocità. La coltura di apici meristematici prevede l’utilizzazione di poche decine di cellule prelevate dal meristema apicale del germoglio: in pratica, una porzione di tessuto compreso tra i 300 e i 500 μm, definita cupola meristematica o, più propriamente, cono vegetativo. Si tratta, cioè, di tessuto costituito da cellule non ancora differenziate rispetto alla funzione. La coltura di apici meristematici può portare alla rigenerazione di piante risanate, poiché è stato dimostrato che anche i tessuti meristematici possono contenere particelle virali, come nel caso delle piante infette da Nepovirus. Il processo attraverso il quale il virus è eliminato dalle piante ottenute da tessuti meristematici non è ancora chiaro, ma i progressi sullo studio del silenziamento genico postrascrizionale (PTGS) come risposta di difesa alle infezioni virali sembrano suggerire che tale meccanismo possa essere coinvolto. Il PTGS o silenziamento dell’RNA è una scoperta piuttosto recente e, nella pianta sana, serve a regolare il ricambio degli RNA che trasportano l’informazione genetica (mRNA) al di fuori del nucleo della cellula, perché possa essere tradotta in proteina funzionale o strutturale. Il PTGS è stato anche identificato come sistema attivato dalla pianta per difendersi dall’attacco di patogeni, tra cui i virus. Il segnale che attiva il PTGS è la formazione di una molecola di RNA a doppio filamento (dsRNA) che mette in moto un enzima denominato DICER che ha il compito di frammentare il dsRNA. Ogni frammento

Visione della parte di una serra adibita a premoltiplicazione del germoplasma risanato riservata all’allevamento delle piante madri

Piante madri esitate dal protocollo di risanamento. La serra in cui sono mantenute è protetta da rete antiafidi 14/10, è provvista di vestibolo e il piano di appoggio dei vasi è costituito da uno strato di circa 20 cm di ghiaietto, sul quale è appoggiato un telo di plastica nera spessa

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virosi è reclutato da un altro complesso enzimatico denominato RISC, che lo utilizza per effettuare la scansione degli RNA cellulari. Il frammento complementare a quello trasportato dal RISC è specificatamente identificato tra tutti gli RNA cellulari e degradato. I fitovirus, che per esigenze della loro replicazione devono passare attraverso la formazione di un dsRNA, sono attivatori e bersaglio del PTGS. Per contrastare il PTGS, i virus codificano specifiche proteine denominate soppressori del silenziamento, che lo neutralizzano attraverso diversi meccanismi. Per questo motivo, i virus sarebbero in grado di infettare le piante, pur essendo queste dotate di un sistema di difesa così efficiente come il PTGS. Ritornando ad AILV e ArLV e al loro differente comportamento rispetto al risanamento mediante coltura di apici meristematici, va detto che esistono sostanziali differenze rispetto alla loro capacità di contrastare il PTGS. ArLV è un Potyvirus e, come tale, possiede un potente soppressore del silenziamento, la proteina HC-Pro, che utilizza anche come mediatore della trasmissione attraverso afidi. Tuttavia ArLV è eliminato attraverso la coltura di apici meristematici: come mai? La risposta risiederebbe nel fatto che la proteina HC-Pro non sarebbe in grado di sopprimere il PTGS di tipo sistemico come, appunto, quello che opererebbe a livello di apice meristematico. Peraltro ArLV è stato trovato nei cotiledoni di embrioni di carciofo dove pure sono presenti tessuti meristematici apicali. Secondo studi recenti, il segnale del PTGS non sarebbe in grado di entrare nei tessuti meristematici, ma sarebbe bloccato esattamente al confine fra questi e il tessuto differenziato immediatamente adiacente. Quindi l’ipotesi più probabile è che ArLV sia degradato dal PTGS immediatamente prima di entrare nel tessuto meristematico e, comunque, in un tessuto in cui HC-Pro non è attiva o è poco attiva. Secondo altre opinioni, l’esclusione di ArLV dal meristema apicale sarebbe un

RNA virale Replicazione virale dsRNA DICER RISC RISC

RISC RNA virale RNA virale degradato

Schema secondo cui opera il PTGS. L’RNA virale è reso bicatenario (dsRNA) così che si produce un filamento (di colore rosso) complementare al filamento iniziale. Il dsRNA è riconosciuto dal DICER che lo taglia in frammenti di 21-26 nucleotidi. Ciascuno di questi frammenti è riconosciuto dal RISC, che li separa e li guida verso l’RNA bersaglio a cui si appaia per complementarietà. IL RISC degrada il doppio filamento nella zona di appaiamento

Particolare dei saggi per l’accertamento dello stato fitosanitario con il metodo dell’impronta di tessuto. La superficie di taglio di una foglia è appoggiata su una membrana in grado di fissare gli acidi nucleici. La membrana viene poi saggiata con un apposito reagente

Risultato dell’ibridazione di una serie di impronte di tessuto. Nella fila in alto i campioni sono stati riconosciuti dalla sonda nucleica e hanno prodotto segnali di colore grigio scuro che indicano la presenza di un’infezione. Nella fila sotto i campioni sono negativi

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coltivazione fatto legato a un’esclusione operata dai plasmodesmi piuttosto che il risultato del PTGS. Per quanto riguarda AILV, si ricorda che è un Nepovirus e anche se non è nota l’organizzazione del suo genoma, per analogia con altri due virus dello stesso genere studiati sotto questo profilo, Tomato black ring virus (TBRV) e Tobacco ringspot virus (ToRSV), potrebbe non possedere soppressori del silenziamento. Dati recenti suggeriscono che su tabacco, le infezioni di AILV iniziano con una sintomatologia molto violenta che regredisce entro tre settimane dall’inoculazione, così che la nuova vegetazione è sostanzialmente priva di sintomi ma non del virus che vi permane, anche se a livelli più bassi rispetto alle foglie sintomatiche. La remissione dei sintomi (recovery, secondo gli autori anglosassoni) è un fenomeno che spesso si osserva nelle piante infette da virus e pare che possa essere concomitante all’attivazione del PTGS da parte dell’ospite come risposta di difesa all’infezione. La recovery accompagnata da riduzione del titolo virale nei tessuti infetti è una caratteristica delle infezioni sostenute da alcuni Nepovirus come TBRV, mentre per altri, come ToRSV, la condizione di recovery non è associata a una riduzione dell’accumulo del virus. È stato anche proposto che i Nepovirus possano colonizzare attivamente i tessuti meristematici dove arriverebbero eludendo il PTGS grazie all’abbattimento del titolo virale precedente avvenuto nei tessuti interessati da recovery. Questo potrebbe essere il motivo per cui AILV non è eliminato attraverso la coltura di apice meristematico. Nel caso di ToRSV, è stato invece proposto che la sua capacità di evadere il silenziamento potrebbe essere messa in relazione con la localizzazione cellulare dei suoi siti di replicazione (il reticolo endoplasmico) o delle sue modalità di movimento da cellula a cellula (attraverso la formazione di strutture tubuliformi nella cui composizione entra una proteina virale), anche se analoghi siti e strategie di movimento sono utilizzati da altri virus sensibili al silenziamento come lo stesso TBRV. Il PTGS presenta anche interessanti aspetti applicativi. Attraverso l’espressione transiente cui si è accennato in precedenza, è, infatti, possibile veicolare nella pianta sequenze complementari a specifici tratti del suo genoma in modo da silenziarle. La mancata espressione del gene corrispondente fornirebbe informazioni utili circa la sua funzione nella pianta e nell’interazione di questa con il virus. Questo tipo di approccio, ormai diffusissimo in tutti gli studi di espressione genica, è definito VIGS per VirusInduced Gene Silencing. Ugualmente poco chiaro è il meccanismo attraverso il quale la termoterapia porterebbe al risanamento. Sono state formulate diverse ipotesi, generalmente focalizzate sulla sensibilità dei virus alle alte temperature. Queste lo degraderebbero o ne rallenterebbero la replicazione e il movimento, così che gli apici vegetativi e, soprattutto la cupola meristematica non sarebbero interessati

Dopo capitozzatura della pianta madre, le condizioni di allevamento favoriscono la rapida emissione di carducci: in media 8-10 per pianta

Sviluppo dell’apparato radicale dei carducci prodotti dalla pianta madre dopo capitozzatura

244


virosi dall’infezione. Volendo individuare un meccanismo molecolare, si potrebbe ipotizzare una più efficiente azione di silenziamento e una più debole risposta del virus sul versante della soppressione. Esistono dati sperimentali che indicano che a 15 °C il silenziamento è inattivo o poco attivo, mentre è molto attivo tra 25 e 27 °C, ma non si sa quale possa essere l’effetto di temperature superiori. È anche possibile che il risanamento mediante termoterapia possa essere il risultato di un’azione congiunta sia sul virus, sia sulle cellule vegetali che, a causa dell’esposizione al calore, potrebbero risultare fortemente compromesse nella loro funzionalità. A seguito della termoterapia le cellule appaiono, infatti, di dimensione doppia rispetto alla condizione normale con vacuoli più grandi che occupano quasi completamente il lume cellulare. In tali cellule, la replicazione virale è fortemente compromessa, con il risultato che i pochi gruppi di cellule meristematiche che, sopravvivendo al trattamento termoterapico, riescono a generare germogli, sarebbero sostanzialmente privi di infezione virale. Quindi, il risanamento attraverso termoterapia avverrebbe su base puramente probabilistica tra il numero di cellule non compromesse dal trattamento e la possibilità che in tali cellule l’infezione virale non sia più presente o non vi sia mai giunta a causa del PTGS operato nei tessuti immediatamente adiacenti. Un recente studio sulle modalità attraverso le quali anche la crioterapia determinerebbe il risanamento da infezioni virali porterebbe ad analoghe conclusioni chiamando in causa il danno cellulare che si verifica al momento della fusione dei cristalli di ghiaccio formatisi nella cellula al momento dell’esposizione a bassa temperatura. Uno degli aspetti più interessanti, ma sul quale non vi sono ancora risposte, riguarda la domanda se la sintomatologia, e quindi il danno che l’ospite riceve a seguito dell’infezione virale, sia solo accidentale o se sia invece funzionale a qualche vantaggio per il patogeno.

Termoterapia

• È una tecnica che consiste nell’esporre

piante intere o espianti derivanti dal vitro a 37-38 °C per un tempo variabile da uno a oltre sei mesi. Dopo il trattamento, l’apice meristematico è prelevato e posto in coltura. La termoterapia può anche essere applicata prima di prelevare l’apice meristematico

Ricacci dalla ceppaia di piantine esposte a termoterapia per 6-7 settimane. Dai ricacci è prelevato l’apice meristematico che è posto in coltura

Foto N. Calabrese

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il carciofo e il cardo

coltivazione Flora spontanea Pasquale Viggiani

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


coltivazione Flora spontanea Foto M. Curci

Introduzione La particolare epoca di impianto della carciofaia, nel pieno della stagione estiva, rende questa coltura diversa dalle altre ortive da pieno campo, anche dal punto di vista della diffusione delle erbe infestanti. Generalmente le lavorazioni di preparazione del letto di semina consentono di rinettare il terreno all’atto dell’impianto, così come il diserbo di pre-trapianto, nel caso si utilizzino carducci, o di pre-emergenza, nel caso si utilizzino ovoli. In assenza di diserbo la prima tipologia di infestazione che apparirà nella coltura comprende le specie annuali che nascono, grazie soprattutto all’irrigazione, durante la stagione estiva. A questo tipo di flora seguirà quella della stagione autunno-invernale che invaderà la carciofaia all’inizio della produzione e che verrà sostituita dalle specie che nasceranno durante la primavera e l’estate nell’anno successivo all’impianto. Intanto anche le specie poliennali e quelle perenni avranno l’opportunità di insediarsi nella carciofaia, specialmente nelle zone del Centro-Nord nelle quali la durata della coltura si protrae più a lungo di quella delle altre zone d’Italia. In definitiva nel corso della vita della carciofaia si possono prevedere le tre seguenti tipologie di flora selvatica: a) flora estiva dell’anno di impianto e di quelli successivi; b) flora autunno-primaverile dell’anno di impianto e successivi; c) flora annuale o poliennale che si sviluppa prevalentemente negli anni successivi a quello di impianto, durante tutte le stagioni.

Carciofaia infestata da senape selvatica nel Brindisino

Foto R. Angelini

Tappeto di acetosella gialla in una carciofaia del Brindisino Carciofaia fortemente infestata

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flora spontanea Flora presente nel primo anno e in quelli successivi, durante l’estate Nome italiano

Famiglia botanica*

Ciclo vegetativo

Amaranto

Amarantacee

Annuale

Cocomero asinino

Cucurbitacee

Perenne

Farinello

Chenopodiacee

Annuale

Grespino

Composite (=Asteracee)

Annuale

Ortica minore

Urticacee

Annuale

Pomidorella comune

Solanacee

Annuale

Porcellana comune

Portulacacee

Annuale

Sanguinella comune

Graminacee (=Poacee)

Annuale

Flora presente prevalentemente negli anni successivi a quello di impianto, durante tutte le stagioni

Flora presente nel primo anno e in quelli successivi, dall’autunno alla primavera Nome italiano

Famiglia botanica*

Ciclo vegetativo

Avena selvatica

Graminacee (=Poacee)

Annuale

Becco di gru

Geraniacee

Annuale (Biennale)

Caglio

Rubiacee

Annuale

Centocchio comune

Cariofillacee

Annuale

Crisantemo selvatico

Composite (=Asteracee)

Annuale

Erba stella

Crucifere (=Brassicacee)

Annuale

Falsa ortica

Labiate (=Lamiacee)

Annuale

Fumaria

Papaveracee

Annuale

Loglio

Graminacee (=Poacee)

Annuale-Biennale

Poligono degli uccellini

Poligonacee

Annuale

Scagliola

Graminacee (=Poacee)

Annuale

Senape selvatica

Crucifere (=Brassicacee)

Annuale

Nome italiano

Famiglia botanica*

Ciclo vegetativo

Acetosella gialla

Oxalidacee

Perenne

Aspraggine volgare

Composite (=Asteracee)

BiennalePerenne

Bietola marittima

Chenopodiacee

Biennale

Cardo campestre

Composite (=Asteracee)

Perenne

Cardo mariano

Composite (=Asteracee)

Biennale

Fiorrancio selvatico

Composite (=Asteracee)

AnnualeBiennale

Malva selvatica

Malvacee

Perenne

Ruchetta violacea

Crucifere (=Brassicacee)

Annuale

Saeppola canadese

Composite (=Asteracee)

Annuale

Vilucchio comune

Convolvulacee

Perenne

Zigolo infestante

Ciperacee

Perenne

* Graminacee e ciperacee rientrano nella classe delle monocotiledoni e sono conosciute nella pratica con il nome di malerbe a “foglia stretta”; tutte le altre famiglie elencate appartengono alla classe delle dicotiledoni dette, in gergo, malerbe a “foglia larga”

* Graminacee e ciperacee rientrano nella classe delle monocotiledoni e sono conosciute nella pratica con il nome di malerbe a “foglia stretta”; tutte le altre famiglie elencate appartengono alla classe delle dicotiledoni dette, in gergo, malerbe a “foglia larga”

Queste tre tipologie floristiche assumono connotazioni specifiche diverse, a seconda della zona geografica, con il prevalere di alcune specie sulle altre nel corso dell’anno di impianto o durante gli anni successivi, nelle diverse stagioni considerate. In una serie di indagini floristiche svolte negli ultimi tre anni è stato possibile suddividere il territorio italiano a maggiore vocazio247


coltivazione Composizione % delle tre tipologie floristiche nei cinque comprensori identificati

Foto C. Cangero

100,0 90,0 80,0 70,0 60,0 50,0 40,0 30,0 20,0 10,0 0,0

Lazio e Toscana

Infestanti del gruppo a

Sardegna Infestanti del gruppo b

Puglia Nord e Campania

Puglia Sud e Basilicata

Sicilia e Calabria

Infestanti del gruppo c

ne per la coltura del carciofo in cinque comprensori, tutti diversi fra loro per assortimento floristico. I cinque comprensori sono: – Toscana e Lazio insieme; – Puglia Nord (province di Foggia e di Bari) e Campania insieme; – Puglia Sud (province di Brindisi, Taranto e Lecce) e Basilicata; – Sardegna; – Sicilia e Calabria. Dal punto di vista floristico complessivo le regioni che si assomigliano di più fra loro sono la Toscana, il Lazio e la Sardegna, dove la frazione più sostanziosa dell’infestazione è formata da specie del gruppo b, fra le quali prevalgono frequentemente il lo-

Infestazione di amaranto comune e sanguinella nell’Oristanese

Infestazione di centocchio comune nella valle dell’Ofanto Infestazione di senape selvatica e malva ai piedi dell’Etna

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flora spontanea glio, la falsa ortica e la senape selvatica, oltre all’avena selvatica e all’erba stella in Toscana e Lazio e al centocchio e alla fumaria in Sardegna. Sulle due coste tirreniche, tra le infestanti del gruppo a, sono molto diffuse due specie di amaranto: amaranto comune e amaranto blitoide; in particolare quest’ultimo si sta diffondendo nelle carciofaie di tutta l’Italia, ma costituisce veri e propri tappeti erbosi in quelle laziali. In Sardegna un’altra specie estremamente diffusa è la sanguinella comune. Anche nelle carciofaie campane e in quelle pugliesi settentrionali prevalgono le specie del gruppo b sulle altre: fra tutte il centocchio e la fumaria, il poligono degli uccellini e il caglio e, localmente, il cocomero asinino; il massimo rappresentante delle specie del gruppo c, invece, è il vilucchio. L’assortimento floristico è molto diverso nella parte meridionale del territorio pugliese, dove, a lungo andare, prevalgono le specie del gruppo c, come l’acetosella gialla, il fiorrancio selvatico e lo zigolo infestante. Nelle coltivazioni di carciofo siciliane e calabresi, infine, la frazione della flora di tipologia b e quella di tipo c non si discostano di molto dal punto di vista quantitativo: la prima comprende prevalentemente avena selvatica, senape selvatica, scagliola e fumaria; la frazione floristica di tipo c si compone per la massima parte di acetosella gialla, bietola marittima, malva selvatica e vilucchio.

Infestazioni di vilucchio presso Margherita di Savoia

Descrizione delle specie Acetosella gialla (Oxalis pes-caprae). Questa specie viene spesso confusa con il trifoglio; essa, infatti, ha foglie composte ognuna da tre segmenti cuoriformi, punteggiati di color ruggine, che si ripiegano in basso durante la notte o prima dell’arrivo di una pioggia. Il sapore di aceto delle foglie e la tonalità citrina dei bellissimi fiorellini ispirano il nome italiano. Anche il nome latino ricorda l’acidità delle foglie e la loro ricchezza in acido ossalico (dal greco oxys=acutopungente e hals=sale), mentre l’aggettivo latino pes-caprae associa la forma delle radici a quella degli zoccoli delle capre. In realtà la radice di questa pianta consiste in una serie di tuberetti legati fra loro da un sottile ma tenace rizoma.

Diffusione di acetosella gialla nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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coltivazione Amaranto (Amaranthus spp.). Il nome si riferisce alla persistenza dei frutti sulla pianta, anche dopo che questa matura (dal greco: a=non e maraino=avvizzisco). Le due specie più diffuse nelle carciofaie italiane sono: a. comune (A. retroflexus) e a. blitoide (A. blitoides); la prima deve il nome latino alle infiorescenze recline all’indietro (retroflexus), mentre l’aggettivo blitoides origina dal greco bliton=con foglie edibili. L’edibilità degli amaranti viene sfruttata ancora attualmente nei Paesi tropicali: le foglie giovani si usano come verdure, mentre dai semi si ottiene un’ottima farina panificabile.

Diffusione di amaranto nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Amaranto blitoide

Amaranto comune

Aspraggine volgare (Picris echioides). I nomi, italiano e latino, si riferiscono al sapore amaro delle foglie (dal greco picris=amaro); queste ultime sono cosparse di pustole biancastre, al centro delle quali si inseriscono setole coriacee, che conferiscono alla lamina fogliare un aspetto ruvido e irsuto (echioides). I fiori compaiono verso la fine della primavera; sono gialli, a forma di ligula, riuniti in grossi capolini con brattee spinulose alla base. I frutti sono piccoli e rugosi, simili a piccoli vermi: questa caratteristica era ricordata nel nome latino della specie, ormai in disuso: Helminthia (invece di Picris), cioè “scatola di vermi”.

Diffusione di aspraggine volgare nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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flora spontanea Avena selvatica (Avena sterilis). Le avene sono conosciute sin dall’antichità; il nome pare derivi dal sanscrito avasa e sottolinea l’uso come foraggio che ne facevano i popoli antichi. Queste piante sono state accostate spesso, da poeti e scrittori, alle vicissitudini umane, come nel Colloquio sentimentale del poeta Paul Verlaine, che così recita: “Nel vecchio parco gelido e deserto sono appena passate due forme… Andavano così tra l’avena selvatica, e le loro parole le udì solo la notte”, e gli fa eco il nostro D’Annunzio, nell’Alcyone (La spica). “... Ma la vena selvaggia, ma il ciano cilestro, ma il papavero ardente, con lei cadranno, ahi, vani su le secce...”.

Diffusione di avena selvatica nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Becco di gru (Erodium spp.). Il frutto è composto da un’appendice appuntita, come il becco di una gru o di un airone (dal greco erodium = airone), formata dall’insieme di molti “becchi” allungati e sottili che portano alla base un seme. A maturità l’appendice del frutto si sfilaccia, i becchi si staccano, indipendenti, attorcigliandosi a cavaturacciolo, cadono sul terreno e, in base alle variazioni di umidità dell’aria, si allungano (srotolandosi) e si accorciano (riarrotolandosi), in un movimento lento ma progressivo, mediante il quale si conficcano nel terreno e trasportano così i semi alla profondità adatta per la loro germinazione. Le specie più diffuse sono b. d. g. comune (E. cicutarium) e b. d. g. malvaceo (E. malacoides).

Diffusione di becco di gru nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza Becco di gru comune

Becco di gru malvaceo

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coltivazione Bietola marittima (Beta vulgaris-maritima). Lungo i litorali e all’interno delle regioni centro-meridionali si trova spontanea la bietola marittima, componente del gruppo delle bietole (o barbabietole), conosciuto sin dai tempi più antichi, quando le popolazioni europee le raccoglievano spontanee o le coltivavano per utilizzare le foglie o le radici a scopo alimentare. Le bietole hanno generalmente radice ingrossata, fusto eretto e liscio e foglie glabre; tranne che per la radice, la bietola marittima è diversa dalle altre bietole perché ha fusto adagiato sul terreno e, in qualche caso, particolarmente ingrossato e ispido di peli.

Diffusione di bietola marittima nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Borsa del pastore (Capsella bursa-pastoris). Il nome italiano ricorda i piccoli frutti, simili nella forma alle borse degli antichi pastori. Lo scrittore inglese William Coles, nel suo Adamo nell’Eden scrisse: “Queste ‘borse’ sono assimilate ad una piccola tasca (in latino capsella) piena di semi; sono cuoriformi e a maturità si aprono spontaneamente e lasciano cadere i semi in esse contenuti.” La specie mostra una grande variabilità nella grandezza e nel portamento, nella forma delle foglie e nel colore dei fiori: a piante piccolissime si affiancano piante alte anche quaranta centimetri; il margine delle foglie può essere più o meno inciso e i fiori hanno cinque petali generalmente bianchi.

Diffusione di borsa del pastore nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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Foto R. Angelini


flora spontanea Caglio o attaccaveste (Galium spp.). I pastori greci lo usavano per far cagliare il latte: è a questo che si riferiscono i nomi caglio e Galium (dal greco gala=latte). Il nome attaccaveste ricorda, invece, la capacità di queste piante di attaccarsi ai vestiti e al mantello degli animali, grazie ai minuscoli uncini che la ricoprono. Tale caratteristica è particolarmente spiccata nella specie più diffusa, il G. aparine (dal greco apairo=porto via), che ha piccoli frutti globosi inseriti su peduncoli dritti. Un’altra specie, diffusa prevalentemente nel Sud Italia, è il caglio coriandolino, il cui nome latino è G. tricornutum (dal latino tri=tre e cornutus=cornuto), poiché i frutticini sono raggruppati a tre a tre su peduncoli incurvati che sembrano corni.

Diffusione di caglio nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Cardo campestre o stoppione (Cirsium arvense). Dei due nomi italiani, il primo si riferisce alla spinosità delle foglie, mentre il secondo rimarca la grande diffusione di queste piante, che un tempo nascevano sulle stoppie dopo la raccolta del grano. Il nome latino deriva da una parola greca (kirsós) che indica le varici e sottolinea l’uso terapeutico che di questa specie facevano gli antichi per curare tali alterazioni. Le piante si riproducono prevalentemente tramite gemme radicali, in quanto esse generano, per lo più, fiori di un solo sesso, quindi l’impollinazione e la conseguente formazione del seme risultano compromesse.

Diffusione di cardo campestre nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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coltivazione Cardo mariano (Silybum marianum). Questa pianta ha grandi foglie verdi screziate di bianco, da quando, si dice, alcune gocce di latte sfuggirono alla Madonna (mariano-marianum), mentre allattava Gesù Bambino. Il termine cardo forse deriva dalla parola greca ardis (punta dello strale), con riferimento alle solide spine che ricoprono i margini delle foglie o le brattee del capolino; silybum, infine, pare derivi dal greco sìlybon, usato dagli antichi per indicare i cardi in genere. Pianta conosciuta e coltivata da molto tempo a scopo alimentare e come pianta officinale; i preparati di cardo mariano e l’infuso delle foglie vengono impiegati per curare molte patologie umane, in particolare per depurare il fegato.

Diffusione di cardo mariano nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Centocchio comune o stellaria (Stellaria media). Il primo nome italiano si riferisce ai numerosissimi fiorellini bianchi che hanno forma di stella, come si evince anche dal secondo nome italiano e dal nome latino. Anche i piccolissimi semi sono ricoperti di microscopiche verruchette stellate. La stellaria è una pianta prostrata sul terreno ed è poco appariscente, ma è presente praticamente durante tutto l’anno. Le piante sono usate per farne insalate o frittate, ma anche in erboristeria per alleviare piccole patologie. A volte la stellaria forma veri e propri tappeti erbosi nelle carciofaie.

Diffusione di centocchio comune nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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flora spontanea Chenopodio o farinello (Chenopodium spp.). Il primo nome italiano e il nome latino derivano dal greco antico e rievocano la forma delle foglie, simile a quella delle zampe delle oche: dal greco khen=oca e podion-pus=piede. Le foglie sono ricoperte, specie sulla pagina inferiore, da uno straterello farinoso: a ciò si riferisce il secondo nome italiano; sin dai tempi più antichi erano usate in cucina e attualmente si utilizzano nella cucina dei Paesi tropicali. In Italia si trovano frequentemente due specie: il c. bianco (Ch. album) e il c. rosso (Ch. rubrum), il primo specialmente nel Centro e nell’Italia peninsulare, il secondo nelle due isole maggiori.

Chenopodio bianco

Diffusione di chenopodio o farinello nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Chenopodio rosso

Cocomero asinino o sputaveleno (Ecballium elaterium). Il secondo nome italiano si riferisce alla proprietà che hanno i frutti maturi di espellere violentemente i semi, misti a mucillagini velenose; questa caratteristica è messa in luce anche dal nome scientifico, di derivazione greca (ekballein=lanciare). L’aggettivo specifico riprende, invece, la pericolosità di questa pianta, dal greco elatér=stimolo, che può provocare gastroenteriti, con vomito e diarrea, aborto ecc. Sin dai tempi antichi però le sono state riconosciute anche proprietà medicinali, tanto che Teofrasto la consigliava per curare la scabbia delle pecore e qualche malattia dell’uomo.

Diffusione di cocomero asinino nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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coltivazione Crisantemo selvatico (Chrysanthemum). Dall’inizio della primavera nelle carciofaie, per lo più dell’Italia meridionale, si notano spesso macchie di un brillante colore giallo-dorato: sono i crisantemi selvatici (in greco: chrysós=oro e ánthemon=fiori). Le due specie di crisantemi che si trovano più frequentemente nelle carciofaie sono il c. campestre (Ch. segetum, da segés, segétis=dei seminati) e il c. giallo (Ch. coronarium, perché i fiori sono coronati di ligule giallo oro). La prima specie prevale nelle colture siciliane, la seconda in quelle pugliesi, ma entrambe estendono la loro presenza in Sardegna e sulla costa tirrenica peninsulare.

Diffusione di crisantemo selvatico nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Crisantemo campestre

Crisantemo giallo

Erba stella (Coronopus squamatus). Questa pianta, dai minuscoli fiori bianchi, ha portamento appressato al terreno con le foglie disposte a formare una specie di stella: a ciò si riferisce il nome italiano. Il nome latino coronopus si riferisce alla forma delle foglie a “zampa di cornacchia” con la lamina allungata e il margine molto inciso. L’aggettivo squamatus rievoca invece la “scagliosità” dei piccoli frutti. Nei Paesi centro-europei la chiamano “crescione porcino”, a cagione del sapore che ricorda quello del crescione (Nasturtium officinale). Fino a non molto tempo fa era raccolta e utilizzata in insalata anche dai popoli mediterranei come pianta officinale.

Diffusione di erba stella nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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flora spontanea Falsa ortica (Lamium spp.). Da febbraio a settembre si può apprezzare la bellezza dei fiori che hanno foglie rugose come quelle dell’ortica, ma non urticanti. I fiori hanno la corolla saldata in una “gola” che ha all’estremità due labbra; a tali conformazioni sono dovuti il nome latino Lamium e quello della famiglia (Lamiacee o Labiate). Nelle carciofaie sono diffuse due specie: la f. o. reniforme (L. amplexicaule) e la f. o. purpurea (L. purpureum); il nome della prima specie ricorda la forma delle foglie superiori e il loro rapporto con il fusto (lo abbracciano, essendo prive di picciolo), la seconda specie è così detta per avere le foglie superiori picciolate e quasi sempre arrossate.

Diffusione di falsa ortica nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza Falsa ortica purpurea

Falsa ortica reniforme

Fiorrancio selvatico (Calendula arvensis). Pianta dai fiori gialloarancio, che fiorisce nel corso di un lungo arco di tempo, dall’autunno alla primavera, pare con maggiore intensità all’inizio dei mesi, cioè alle kalendae di Roma antica. Questa specie, che produce semi aculeati dalla forma caratteristica e variabile (ricorda a volte una falce di luna e altre un anello bitorzoluto), è conosciuta e utilizzata come pianta medicinale sin dall’antichità. Pare che la prima pianta sia nata dalle lacrime di Afrodite alla notizia della morte del suo amante più bello, Adone. Per questo motivo nel linguaggio dei fiori la calendula rievoca tristezza e dolore.

Diffusione di fiorrancio selvatico nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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coltivazione Fumaria o fumosterno (Fumaria officinalis). Le lunghe frequentazioni tra questa specie e l’uomo, nell’arco dei secoli, sono legate alle sue particolarità che rievocano l’idea del fumo. Secondo alcuni il fumo sarebbe quello che si sprigiona dalle radici appena strappate, che emanano un lezzo gassoso; secondo altri è l’aspetto che fa sembrare l’intera pianta come una nuvoletta gassosa; altri ancora dicono che il contatto della linfa della pianta con gli occhi fa lacrimare questi ultimi, proprio come il fumo. Meglio sarebbe identificare questa specie con i suoi bellissimi e strani fiorellini rosa, composti su lunghi racemi apicali, e valutare le sue proprietà medicinali (officinalis) sfruttate sin dall’antichità.

Diffusione di fumaria nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Grespino comune (Sonchus oleraceus). Il nome latino ricalca quello greco (sonkos) e pare si riferisca al fusto vuoto di queste piante, mentre l’aggettivo oleraceus deriva dall’uso “come ortaggio” (dal latino oler=verdura e aceus=simile). Il nome italiano è di derivazione incerta, ma le proprietà culinarie di questa pianta sono ricordate anche in molti nomi dialettali. Plinio il Vecchio, nel racconto della sfida tra Teseo e il Minotauro, afferma che Teseo prima di affrontare il mostro acquistò forze mangiando un piatto di grespini. Oltre al grespino comune, nelle carciofaie si trova anche il grespino spinoso (S. asper).

Diffusione di grespino nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza Grespino comune

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Grespino spinoso


flora spontanea Loglio (Lolium spp.). Il nome italiano ricalca quello latino riferito alla famosa zizzania (Lolium temulentum) di biblica memoria. Le tre specie di Lolium che, invece, si trovano ancora nei campi di carciofo, sono: l. comune (L. perenne), loglietto (L. multiflorum) e l. rigido (L. rigidum); la seconda specie è la più diffusa delle tre, la prima si trova prevalentemente nell’Italia centrale, la terza nelle colture siciliane e, in particolare, in quelle pugliesi. I Lolium, riconoscibili specialmente per la lucentezza delle foglie, sono piante coltivate da sempre come foraggere. Negli ultimi tempi però hanno acquisito fama negativa come specie allergeniche.

Diffusione di loglio nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Malva selvatica (Malva sylvestris). Le proprietà emollienti della malva sono ricordate nel suo nome (dal greco malakòs=molle). Cicerone, nelle sue Epistulae (43-48 a.C.) narra di un’indigestione per averne mangiata molta. Orazio nelle Odi (23 a.C.) si accontenta di nutrirsi così: “… Me pascunt olivae, me cichorae levesque malvae…”. Plinio il Vecchio ne canta le virtù nella sua Naturalis historia (77 d.C.). Arriviamo così al ’900, quando il poeta decadente e patriota Aleardo Aleardi, nei suoi Canti (1864), rivolgendosi alla colta signorina inglese Evelina Yates, dice: “Vedrai Venezia… Pietosa larva di città superba… cene, teatri e provocanti maschere. E ricinta d’elleboro e di malva. L’ebete fronte…”. Foto R. Angelini

Diffusione di malva selvatica nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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coltivazione Ortica minore (Urtica urens). L’acido formico contenuto nelle microscopiche ampolle alla base dei peli che ricoprono le foglie e i fusti è una delle sostanze che provocano il bruciore che si avverte quando si strofinano queste piante (dal latino ùrere=bruciare). Con l’ortica si preparano gustose minestre, si intrecciano tessuti o si approntano estratti e cataplasmi per curare diverse patologie: queste piante sono considerate astringenti, depurative ed emostatiche, tanto che c’è ancora qualche persona anziana che si diletta a camminare a gambe nude nei campi di ortica per attivare la circolazione del sangue e lenire i dolori reumatici.

Diffusione di ortica minore nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Poligono degli uccellini (Polygonum aviculare). Il nome italiano di questa specie ricalca perfettamente quello latino e deriva da due parole di origine greca: (poly=molti, gony=ginocchi), con riferimento alla presenza di nodi sul fusto che lo articolano come fossero ginocchia; questa caratteristica è messa in luce anche dall’altro nome italiano con cui è conosciuta (centonodi) e da molti nomi dialettali italiani. Gli uccellini (aviculare, dal latino avis=uccello) c’entrano perché sono molto ghiotti dei minuscoli semi prodotti dalla pianta (almeno, così pare). Pianta ubiquitaria per eccellenza, si trova in quasi tutte le colture.

Diffusione di poligono degli uccellini nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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Foto R. Angelini


flora spontanea Pomidorella o erba morella (Solanum nigrum). La pomidorella è così chiamata perché produce bacche simili a quelle del pomodoro ma molto più piccole e di colore nero quando sono mature. Di questa pianta si sono sfruttate le virtù medicinali e quelle “magiche” (un filtro medievale per trasformare animali era a base di erba morella, belladonna, sangue di pipistrello, pelle di rospo, urina di rana e altre nefandezze del genere). Quanto alle sue virtù medicinali, come tutte le solanacee è psicoattiva, ma attenzione! Plinio, nella sua Naturalis historia (21, 180) afferma che l’erba morella=morion è più veloce dell’oppio nel procurare la morte.

Diffusione di pomidorella comune nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Porcellana comune (Portulaca oleracea). Il nome latino sottolinea la modalità con cui si aprono le sue piccole capsule, con una portula apicale, e l’uso in cucina che se ne è sempre fatto, dal latino oleracea=da orto. Le sue foglie carnosette hanno sapore insipido o leggermente salato. Il nome italiano è forse dovuto al fatto di essere molto ricercata dai maiali. Nel basso Medioevo e fino al XVIII secolo si pensava che, sfalciata con altre erbe e messa sulla soglia della porta, fosse capace di sbarrare il passo al Maligno. In un ricettario delle streghe per partecipare al sabba bisognava ungersi con diverse erbe tritate, fra le quali: portulaca, loglio, josciamo, papavero rosso e nero, lattuga e belladonna. Foto R. Angelini

Diffusione di porcellana comune nelle principali regioni produttrici di carciofo

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Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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coltivazione Ravanello selvatico (Raphanus raphanistrum). Questa pianta è conosciuta e utilizzata da tempi immemorabili. Plinio e Democrito ne ricordano le proprietà afrodisiache. Anche in epoche successive si ha testimonianza dell’uso in cucina di questa specie. Radici e foglie sono utilizzate crude o cotte, in frittate: hanno proprietà rubefacenti, antiemorroidarie, coleretiche e depurative; mangiarne troppe però può portare a danni renali e intestinali. Ma non a tutti piace; alcuni ritengono che abbia sapore scialbo, come pensavano i napoletani dell’Ottocento, che coniarono il nomignolo “ravanello” per indicare individui scialbi e boriosi.

Diffusione di ravanello selvatico nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Ruchetta violacea (Diplotaxis erucoides). I semi disposti in doppia (dal greco diplús=doppio) serie (dal greco taxis=serie) all’interno dei frutti caratterizzano il nome latino. Questa pianta fa parte di un insieme di specie denominato “rucola”, come si arguisce dall’aggettivo erucoides e dal nome italiano. I Romani le attribuivano qualità magiche e le utilizzavano nei filtri amorosi. Ovidio nel II libro della sua Ars amatoria la chiamava herba salax o erba lussuriosa (… ex horto quae venit, herba salax…). Columella nel Liber decimus del De re rustica sosteneva: “L’eruca eccita a Venere i mariti ‘pigri’” (“… Priapo excitet ut Veneri tardos eruca maritos”).

Diffusione di ruchetta violacea nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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flora spontanea Saeppola canadese (Conyza canadensis). È una delle specie che prende il sopravvento verso la fine del ciclo della carciofaia, eppure fino a duecento anni fa non era ancora presente in Italia. Importata dall’America del Nord (come il nome sottolinea), pare con un carico di bestiame o di fieno, si è diffusa velocemente grazie ai suoi microscopici frutti appesi a un pappo leggerissimo che funziona come un vero paracadute; sfruttando tale conformazione si pensa che la sua diffusione sia cominciata dai greti ferroviari con lo spostamento d’aria provocato dal passaggio dei convogli e, più tardi, lungo strade e autostrade.

Diffusione di saeppola canadese nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Sanguinella comune (Digitaria sanguinalis). I termini riferiti al sangue nel nome ricordano il colore rosso che assumono foglie, fusti e infiorescenze; secondo altri il sangue menzionato è quello che fuoriesce dalle narici in cui si è infilata una parte di infiorescenza. Certa è, invece, l’origine del nome latino Digitaria, per l’infiorescenza formata da rametti disposti come le dita (in latino digitus) di una mano. Nei nomi dialettali compaiono spesso termini che rievocano il sangue: sanguinaria in Toscana, erba sanguignòra in Piemonte, sanguinela in Emilia; ma anche nomi che si riferiscono alla forma dell’infiorescenza: piota d’gal in Piemonte, cornajoela nel Pavese, fòrcule in Friuli, piede di pullo nel Napoletano. Foto R. Angelini

Diffusione di sanguinella comune nelle principali regioni produttrici di carciofo

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Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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coltivazione Scagliola o falaride (Phalaris). Nelle carciofaie italiane si possono trovare tre specie: scagliola cangiante (Ph. brachystachys), sc. minore (Ph. minor) e sc. sterile (Ph. paradoxa), che è la più diffusa. Il nome Phalaris è dovuto alla lucentezza delle glume di queste piante (da faleròs=lucente, candido). Il nome Phalaris o Falaride era anche quello di un tiranno di Akragas (l’odierna Agrigento), vissuto attorno al 570 a.C., tristemente famoso per aver fatto arrostire i suoi nemici nella pancia di un bue di bronzo arroventato e per aver scritto delle lettere filosofiche la cui attribuzione segnò una controversia nell’ambito della letteratura inglese di fine ’700 tra un giovane accademico (Charles Boyle) e il bibliotecario del re (Richard Bentley).

Diffusione di scagliola o falaride nelle principali regioni produttrici di carciofo

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Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza Phalaris minor

Phalaris brachystachys Phalaris paradoxa

Senape selvatica (Sinapis arvensis). Sono le prime piante a fiorire nelle colture di carciofo e il giallo dei fiori si espande a macchie negli appezzamenti, confondendosi, nel Meridione, con quelle più ampie dell’acetosella gialla. Questa specie è utilizzata come alimento sin dai tempi più remoti. Della pianta veniva consumato tutto, dalle radici ai semi che, opportunamente trattati, rientrano nella preparazione delle mostarde e delle salse piccanti. I fiori entrano a far parte nella lista dei 38 fiori di Bach: l’essenza dei fiori macerati al sole combatterebbe la depressione e il pessimismo.

Diffusione di senape selvatica nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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flora spontanea Vilucchio comune (Convolvulus arvensis). Questa pianta si avvilucchia intorno a supporti inerti o vivi; il nome latino e quello italiano sottolineano tale portamento (dal latino convolvere=avvolgere) e la sua avanzata tra la vegetazione che le sta attorno, con caparbietà e convinzione: è questo il significato che si dà al suo fiore. Tale caratteristica ha reso il vilucchio una delle piante più citate da poeti e scrittori: “Viene col soffio della primavera un lugubre risucchio d’assorbite esistenze; e nella sera, negro vilucchio, solo il tuo ricordo s’attorce e si difende…” (Eugenio Montale, Le occasioni, Bassa marea); “… Che sarà della sua vita, un vilucchio avvoltato alla sua fede?” (Giovanni Pascoli, I canti di Castelvecchio).

Diffusione di vilucchio comune nelle principali regioni produttrici di carciofo

Foto R. Angelini

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

Zigolo infestante (Cyperus rotundus). Abita le regioni più calde dei tropici ma si spinge anche alle latitudini meridionali, nei terreni più caldi e umidi; in Italia infesta specialmente le colture arboree pugliesi e siciliane e si trova frequentemente anche nelle carciofaie pugliesi e campane. Il nome latino deriva da quello greco antico: kýpeiros. Pianta molto competitiva, specialmente lungo le fasce fluviali, si diffonde nei campi grazie a un apparato radicale rizomatoso e a piccoli bulbi. La sua presenza in Italia è stata registrata da parecchio tempo, tanto da essere diventata pianta mangereccia.

Diffusione di zigolo infestante nelle principali regioni produttrici di carciofo

Diffusione assente o sporadica discreta presenza elevata presenza

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