Il Grano - Utilizzazione

Page 1

Il grano botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato


il grano

utilizzazione Macinazione Maria Grazia D’Egidio, Maria Corbellini

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


utilizzazione Macinazione Introduzione

Contenuto proteico nella dieta di diverse fonti alimentari Fonte alimentare

%

Cereali Grano Mais Riso Orzo Altri

55 19 13 11 5 7

Legumi Soia Fagiolo Pisello Arachide

13 10 1 1 1

Tuberi Patata Cassava Igname

4,5 2 1 1,5

Piante da olio e ortaggi Colza Girasole Noce di cocco Pomodoro Cipolla, cavolo

3 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5

Piante da frutto

0,5

Prodotti animali Latte, formaggio, uova Carni Pesce

17 6 7 4

Altro

7

Circa 12.000 anni fa l’uomo scoprì come coltivare le piante e addomesticare gli animali, dando avvio a un processo che ha mutato il volto della terra e la vita di quasi tutti gli organismi che la abitano. In quel tempo la specie umana contava circa 3 milioni di individui, molti dei quali si cibavano principalmente di grano. Dopo 7000 anni di coltivazione di questo cereale, la popolazione ammontava a circa 100 milioni di persone e il contadino egiziano che viveva all’ombra delle prime piramidi era capace di produrre il triplo del cibo necessario per sostentare la sua famiglia. All’inizio dello scorso secolo, dopo altri 5000 anni di coltivazione, il 70% dell’energia alimentare consumata da 1,6 miliardi di individui derivava ancora dai cereali, soprattutto dal grano. Nel 2000 il 70% dei 2,5 miliardi di tonnellate di materia secca destinata all’alimentazione di 6 miliardi di persone era costituito da cereali, in primo luogo grano (21%), riso (16%) e mais (22%), quest’ultimo destinato in larga misura agli allevamenti zootecnici. Pur avendo perso qualche posizione, il grano è tuttora la principale fonte di proteine alimentari (il 19% del totale), superando gli alimenti di origine animale (carne, pesce, latte, formaggi, uova, complessivamente (il 17%) e i legumi (soia, fagioli, piselli, arachidi, complessivamente (il 13%). Macinazione La macinazione è il passaggio fondamentale della trasformazione del frumento in sfarinati e ha come obiettivo principale quello di separare l’albume amilaceo della cariosside dalle parti periferiche con il migliore rendimento possibile. Principale prodotto della macinazione del frumento duro sono le semole, mentre del frumento tenero sono le farine.

Produzione di sostanza secca nelle diverse fonti alimentari

6%

4%

3% 2%

Mais 22%

7%

246

Animali Tuberi

8% Altri 11%

Cereali (70%)

Grano 21% Riso 16%

Zucchero Legumi Ortaggi e meloni Frutta


macinazione La trasformazione del frumento in sfarinati prevede tre fasi fondamentali: la pulitura del grano, il condizionamento e la macinazione vera e propria.

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Pulitura. Ha lo scopo di allontanare materiale estraneo di natura minerale o vegetale; essa riveste grande importanza e deve essere condotta con una cura particolare, in quanto può influenzare la qualità dei prodotti semilavorati e finiti. I diversi sistemi di pulitura adottati hanno comunque dei dispositivi comuni, come quello di aspirazione per eliminare le impurità più leggere (paglie), quello di calibrazione per separare grani grossi da semi estranei di piccole dimensioni, spazzole per pulire la superficie del chicco e infine un dispositivo spietratore e separatore magnetico. Condizionamento. Fase in cui il grano viene bagnato con una sufficiente quantità di acqua, per facilitare il distacco delle parti esterne (tegumenti) dalla mandorla farinosa e la rottura della stessa. Tale fase ha lo scopo di ammorbidire l’involucro per evitarne la frammentazione e favorirne il distacco, di ridurre la durezza dell’albume per facilitarne la trasformazione in sfarinati e di ottenere un grado di danneggiamento dell’amido ottimale per le diverse destinazioni d’uso. Il condizionamento è influenzato dalla quantità di acqua aggiunta, dalla temperatura del trattamento e dalla durata del riposo del grano.

Molino “a ritrecine” o “a ruota orizzontale”

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Laminatoio a cilindri del 1890

Mulino “a ruota verticale” con spaccato degli ingranaggi di trasmissione del movimento alla macchina

247


utilizzazione Con l’idratazione il grano viene portato al 16-17% di umidità, con un tempo di riposo che oscilla dalle 12 alle 48 ore. La durata del riposo è definita sulla base dell’umidità iniziale del grano e del grado di maggiore o minore friabilità della mandorla. Per il frumento tenero, in particolare, il condizionamento è differenziato in funzione della durezza delle cariossidi (hardness). In genere per i grani hard sono richieste quantità di acqua e tempi superiori rispetto ai soft. Di conseguenza grani appartenenti a diverse classi di durezza dovrebbero essere macinati separatamente per ottimizzare il processo di molitura. Per questo motivo il parametro della durezza delle cariossidi viene sempre più preso in considerazione nelle transazioni commerciali e nello stoccaggio dei grani.

PRODOTTI DELLA MACINAZIONE Grano tenero

Grano duro

Farina

Semola

Farinette

Farinette

Crusca

Crusca

Cruschello

Cruschello

Macinazione. È costituita da due azioni: la frammentazione/dissociazione delle cariossidi e la separazione dei costituenti. La prima operazione, detta di rottura, permette di dissociare la mandorla centrale e i rivestimenti esterni, di frazionare le semole vestite e di ridurre la mandorla in farina; la seconda assicura la separazione della crusca e dei rivestimenti sulla base della granulometria e delle loro proprietà fisiche. L’apparecchiatura attualmente utilizzata per la macinazione del frumento è il laminatoio a cilindri, entrato in uso verso la fine del XIX secolo. Prima dell’introduzione dei molini a cilindri, la macinazione veniva realizzata mediante palmenti formati da due mole cilindriche, una fissa e l’altra rotante. Erano usati anche i molini a percussione, dotati di martelli o battitori rotanti, ancora oggi in parte utilizzati per polverizzare finemente in un solo stadio materiali diversi o rimacinare gli scarti della molitura. Il laminatoio a cilindri è costituito normalmente da coppie di cilindri; se la macchina comprende una sola coppia, si parla di laminatoio semplice, ma normalmente la situazione più diffusa comprende due o più coppie di cilindri, soluzione progettata per un notevole risparmio di spazio.

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Miscelatrice meccanica Gramola a molazza dei primi del ’900

248


macinazione Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Gramola a rulli conici

I laminatoi trasformano i chicchi di grano in sfarinati (dalla macinazione del frumento duro si ottengono principalmente le semole, dal frumento tenero le farine) con azioni di rottura, svestimento e rimacina. I laminatoi di rottura hanno la funzione di rompere e di schiacciare i chicchi di grano, e di staccare più o meno completamente la mandorla, che si frantuma, dai rivestimenti, che vengono rimossi sotto forma di crusca. L’operazione di rottura deve essere condotta gradualmente, al fine di evitare l’eccessiva frantumazione delle parti cruscali che altrimenti diventano di difficile separazione. Ogni operazione di rottura è seguita da un’operazione di separazione per setacciamento che permette di classificare i prodotti prima di inviarli sui cilindri successivi. Tale operazione è realizzata con il plansichter, dispositivo costituito da un insieme di setacci posti uno sull’altro e sottoposti a movimento al fine di assicurare un passaggio regolare di prodotti da un setaccio all’altro. I tessuti setaccianti possono essere di metallo o di seta, presentano maglie di forma quadrata attraverso le quali passano le particelle più fini del materiale da selezionare, mentre quelle più grosse finiscono per essere scartate. I cilindri dei laminatoi sono in ghisa e possono essere rigati o lisci; quelli rigati sono provvisti di scanalature o righe atte a recidere e a ridurre le dimensioni del materiale introdotto, quelli lisci invece agiscono per pressione o stiramento. I cilindri rigati sono costruiti in ghisa durissima e di maggiore resistenza di quella utilizzata per i cilindri lisci. I cilindri lavorano sempre in coppia; gli elementi di una coppia agiscono con velocità periferiche diverse, quindi si ha sempre un cilindro rapido e uno lento: se infatti le velocità fossero uguali, il materiale subirebbe un’azione di semplice schiacciamento. Nel caso della macinazione del frumento duro, le semole ottenute si separano dai frammenti cruscali ancora attaccati alle particelle di semola mediante la semolatrice, costituta da setacci inclinati sottoposti a movimento oscillatorio e da un sistema di aspirazione

Schema di laminatoio

Schema plansichter

249


utilizzazione che permette di separare le particelle sulla base delle loro proprietà (forma, taglia e densità).

Foto R. Balestrazzi

Semola di grano duro

Proprietà degli sfarinati e metodi di valutazione I prodotti della macinazione del frumento duro, come prima accennato, sono semole e semolati; quelli del frumento tenero, le farine. La definizione e le caratteristiche delle diverse tipologie di sfarinati sono regolate da un’apposita legge (legge n. 580, del 4 luglio 1967 e successive modifiche) che disciplina la lavorazione e il commercio di cereali, sfarinati, pane e paste alimentari, stabilendo i limiti di alcuni parametri analitici. Dalla macinazione del frumento duro si ottengono: -“semola di grano duro” o semplicemente “semola”, prodotto granulare a spigolo vivo ottenuto dalla macinazione e dal conseguente abburattamento del grano duro, ripulito dalle sostanze estranee e dalle impurità; - “semolato di grano duro” o semplicemente “semolato” il prodotto ottenuto dalla macinazione e conseguente abburattamento del grano duro, ripulito dalle sostanze estranee e dalle impurità, dopo l’estrazione della semola; - “semola integrale di grano duro”, prodotto granulare a spigolo vivo ottenuto direttamente dalla macinazione del grano duro, ripulito dalle sostanze estranee e dalle impurità; - “farina di grano duro”, prodotto non granulare ottenuto dalla macinazione e conseguente abburattamento del grano duro, ripulito dalle sostanze estranee e dalle impurità. Dalla macinazione del frumento tenero si ottengono: - “farina di grano tenero” o semplicemente “farina”, prodotto ottenuto dalla macinazione e dal conseguente abburattamento del

Foto R. Balestrazzi

Foto R. Balestrazzi

Crusca

Foto R. Balestrazzi

Semola integrale Farina

250


macinazione grano tenero ripulito dalle sostanze estranee e dalle impurità. Le farine di grano tenero possono essere prodotte nei tipi “00”, “0”, “1”, “2”. - “farina integrale di grano tenero”, prodotto ottenuto direttamente dalla macinazione del grano tenero ripulito dalle sostanze estranee e dalle impurità. Vengono riportate a lato le caratteristiche di legge degli sfarinati di frumento duro e tenero commercializzati in Italia. I parametri considerati sono essenzialmente l’umidità, il contenuto in sostanze minerali (ceneri) e in proteine. L’umidità massima consentita per tutti gli sfarinati è 14,5%. Il tenore in sostanze minerali di una semola o farina può essere considerato come un indice della sua purezza, ossia della contaminazione da parte degli strati periferici, dal momento che gli strati esterni del chicco sono particolarmente abbondanti in sostanze minerali e che al contrario l’endosperma amilaceo ne contiene solo bassi livelli. Le caratteristiche chimicofisiche dei vari costituenti della cariosside determinano la qualità degli sfarinati e quindi dei prodotti finiti. La caratterizzazione qualitativa degli sfarinati richiede analisi chimico-fisiche e reologiche. Queste ultime sono analisi che in genere si effettuano attraverso la simulazione, con appositi strumenti, del comportamento degli impasti durante i processi di lavorazione. Le analisi chimico-fisiche consentono di determinare i componenti delle cariossidi e degli sfarinati (tenore in ceneri, contenuto proteico, contenuto in glutine, rapporto amilosio/amilopectina, contenuto in lipidi, composizione aminoacidica ecc.) e la tessitura delle cariossidi (hardness o durezza). Le analisi reologiche consentono di valutare la qualità del glutine (indice di glutine, indice di sedimentazione, alveografo di Chopin, farinografo di Brabender, estensografo, ecc.), le attività enzimatiche (indice di caduta di Hagberg, test amilografico ecc.), test sperimentali di panificazione e pastificazione. Di seguito vengono brevemente descritti, a esclusione delle analisi chimiche, alcuni dei metodi maggiormente utilizzati per la caratterizzazione qualitativa di farine e semole. Hardness o durezza delle cariossidi. Può essere determinata mediante misure della granulometria dello sfarinato integrale o delle farine secondo i metodi PSI (Particle Size Index) o NIR (Near Infrared Reflectance). Un altro metodo, proposto più recentemente, è basato sulla valutazione della resistenza che le cariossidi oppongono alla frantumazione (Single Kernel Characterization System, SKCS). I risultati vengono generalmente espressi da un indice compreso nell’intervallo 1-120 che aumenta all’aumentare della durezza. Volume di sedimentazione. È un metodo che consente di valutare sia la quantità sia la qualità delle proteine del grano e si basa sulle caratteristiche di rigonfiamento e flocculazione delle proteine in una soluzione di acido lattico. Esistono numerose versioni di tale metodo, le più utilizzate sono il test di Zeleny e il volume di sedimentazione in SDS. I risultati vengono espressi in ml con

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Mulino a cilindri con laminatoi e tubi di trasporto delle granaglie dai silos

SKCS per la determinazione della durezza del seme

251


utilizzazione Test di di sedimentazione sedimentazione ininSDS Test SDS Caratteristiche degli sfarinati (legge n. 580 del 4/7/1967 e sucessive modifiche) % su sostanza secca (umidità max 14,5%) Proteine Ceneri (N x 5,7)

FARINA Tipo e denominazione

min.

max.

min.

Farina 00

-

0,55

9,0

Farina 0

-

0,65

11,0

Farina 1

-

0,80

12,0

Farina 2

-

0,95

12,0

Farina integrale

1,30

1,70

12,0

SEMOLA Tipo e denominazione

valore che aumenta proporzionalmente al migliorare delle caratteristiche qualitative. Contenuto in glutine. La quantità di glutine viene determinata a partire dallo sfarinato (semola o farina), che viene impastato con una soluzione salina di cloruro di sodio al 2% e successivamente lavato con acqua allo scopo di eliminare l’amido e le proteine solubili. Il glutine umido così ottenuto può essere asciugato in stufa o con opportune piastre essiccanti. Il risultato viene espresso in percentuale sia come glutine umido sia come glutine secco. Indice di glutine. È un metodo che consente di valutare la qualità del glutine. Il glutine umido estratto è sottoposto a centrifugazione e spinto a passare attraverso un apposito setaccio in condizioni controllate. La percentuale di glutine che rimane sul setaccio dopo la centrifugazione è definita indice di glutine. Se il glutine è molto debole, passa interamente attraverso il setaccio e l’indice di glutine è 0; viceversa, se il glutine è molto forte non passa affatto e l’indice di glutine è 100. Indice di caduta di Hagberg o Falling number. È un metodo che consente di evidenziare difetti del grano dovuti a pre-germinazione delle cariossidi e quindi elevata presenza di α-amilasi che rendono gli impasti collosi. L’indice di caduta fornisce indicazioni sulla viscosità di una sospensione di farina in acqua. Il risultato, espresso in secondi, è inversamente proporzionale al contenuto in α-amilasi. Alveografo di Chopin. Consente di valutare il comportamento dell’impasto, ottenuto a idratazione fissa, quando viene sottoposto a deformazione mediante insufflazione di aria che lo trasforma in una bolla fino a provocarne la rottura. Contemporaneamente a tali trasformazioni si produce un tracciato dal quale si possono ricavare varie informazioni. L’area sottesa al tracciato indica la resistenza opposta dall’impasto alla deformazione, quindi la forza della farina (W); l’altezza della curva rappresenta la tenacità dell’impasto (P); la lunghezza della curva ne rappresenta l’estensibilità (L); il rapporto tra tenacità ed estensibilità ne esprime l’equilibrio (P/L).

% su sostanza secca (umidità max 14,5 %) Proteine Ceneri (N x 5,7) min.

Semola *

max.

min.

0,90

10,50

Semolato

0,90

1,35

11,50

Semola integrale

1,40

1,80

11,50

Farina

1,36

1,70

11,50

* valore granulometrico: massimo 25% di passaggio al setaccio con luce maglie di 0,180 mm

Glutomatic

252


macinazione Qualità nel grano: alveogramma Alveogrammi di grano tenero Area = W

P

Indici: P L P/L W

Forza (mm) Estensibilità (mm) Elasticità Lavoro (cm2 = erg)

Indici W = 350 P/L = 0,7

L

Grano di forza

Farinografo di Brabender. Misura e rappresenta graficamente le variazioni di consistenza di un impasto prodotte dalle diverse sollecitazioni meccaniche durante la fase di impastamento. L’assorbimento idrico (%) rappresenta la quantità di acqua massima assorbibile dalla farina per produrre un impasto a consistenza ottimale. Il tempo di sviluppo (min) rappresenta il tempo necessario perché la farina assorba la quantità di acqua ottimale e porti l’impasto a consistenza ottimale. La stabilità (min) rappresenta il tempo in cui la farina mantiene le condizioni ottimali di consistenza; ne consegue che tempi lunghi di stabilità corrispondono a caratteristiche di forza della farina, che assicurano un’elevata resistenza alla lavorazione e alla lievitazione. Il grado di caduta (U.B.) esprime la perdita di consistenza dell’impasto dopo un intervallo di tempo prefissato.

Indici W = 180 P/L = 0,5 Grano da panificazione comune

Indici W = 100 P/L = 0,3 Grano da biscotti

Indici W = 250 P/L = 1,00 Grano squilibrato per eccesso di tenacità

Qualità nel grano: farinogramma

L’area sottesa al tracciato indica la resistenza opposta dall’impasto alla deformazione, quindi la forza della farina (W); l’altezza della curva rappresenta la tenacità dell’impasto (P); la lunghezza della curva ne rappresenta l’estensibilità (L); il rapporto tra tenacità ed estensibilità ne esprime l’equilibrio (P/L)

253


utilizzazione Test di panificazione. Consente di rappresentare nel modo più completo la qualità panificatoria dei grani. Il metodo maggiormente adottato a livello internazionale (AACC 10-10B) consente di valutare il volume e l’altezza di piccoli pani a cassetta ottenuti a partire da 100 g di farina. Il volume del pane è altamente correlato con tutti i parametri derivati dalle analisi chimico-fisiche e reologiche. Test di pastificazione. Si esegue su impianti pilota, utilizzando perciò limitate quantità di materiale (2-3 kg di semola), ricavando indicazioni sulla qualità del prodotto finito (pasta). La pasta ottenuta viene poi sottoposta a cottura, in condizioni ben definite, e valutata sulla base di tre parametri: collosità, nervo e ammassamento. La valutazione viene fatta generalmente con un saggio organolettico. Utilizzazione industriale Nel caso del frumento duro la quasi totalità degli sfarinati prodotti è destinata alla pastificazione, in quanto le semole di grano duro costituiscono la materia prima di elezione per la fabbricazione di paste alimentari; anche le farine di grano tenero possono essere ugualmente utilizzate per tale scopo, ma danno prodotti di qualità inferiore. Nel caso del frumento tenero gli sfarinati sono impiegati per una pluralità di prodotti, pertanto la destinazione d’uso è stabilita sulla base delle caratteristiche qualitative delle farine. Per rispondere adeguatamente alle variegate richieste dell’industria di prima e seconda trasformazione del grano tenero, è stata avvertita da tempo la necessità di differenziare i grani secondo la destinazione d’uso mediante l’utilizzo di alcuni indici qualitativi ritenuti di fondamentale importanza. La classificazione

Farinografo

Tracciato del farinografo

254

W

Farine per pasticceria Tartine Farine per biscotti Pasta sfoglia Babà Biscotti secchi Wafer Gallette

m. diretto m. indiretto

Farine “MEDIE” Farine “DEBOLI”

W > 310 farine di forza ottenute da grani hard esteri, utilizzate principalmente per impasti a lunga fermentazione (impasti con metodo indiretto con impiego di biga; prodotti da ricorrenza) 250 < W < 310 farine di forza ottenute da grani nazionali ed esteri, usate nella produzione di pani come rosetta, biove, baguette 160 < W < 250 farine di media forza usate per paste molli (pugliese, ciabatta, francese), paste dure (ferrarese) e per il rinfresco del lievito naturale W < 160 farine deboli, non idonee alla panificazione, adatte alla produzione di biscotti

Farine “FORTI”

Utilizzazione delle farine di grano tenero in funzione dei parametri alveografici

Farine per Farine per panificazione paste lievitate Rosetta Pandoro Maggiolino Panettone Ciabatta Colomba Biove Brioche Pasta dura Croissant Baguette Francesino


macinazione Classificazione qualitativa del frumento tenero Classe

Qualità del frumento

Parametri FF

FPS

FP

FB

Proteine (%)

>12,5

>11,5

>10,0

<11,0

Farinografo Stabilità (min)

>12

9-11

5-8

<4

Alveografo W (J10-4) P/L

>270 0,7-1,5

220-260 0,8-1,2

140-210 0,5-1,2

80-130 <0,5

Peso ettolitrico (kg/hl)

>75

>75

>75

>75

Falling Number (s)

>250

>250

>220

>220

• Merceologica: bassa percentuale

di semi spezzati, bassa presenza di impurità

• Tecnologica: quantità, qualità e

caratteristiche delle proteine di riserva

• Sanitaria: assenza di micotossine,

allergeni, sostanze antinutrizionali

prevede l’individuazione di cinque classi, ciascuna delle quali fa preciso riferimento alla destinazione d’uso del prodotto: frumento di forza (FF), frumento panificabile superiore (FPS), frumento panificabile (FP), frumento da biscotti (FB) e frumento per altri usi (FAU). La destinazione d’uso dei frumenti teneri è pertanto definita sulla base delle caratteristiche reologiche e tecnologiche degli sfarinati, oltre che di alcuni parametri chimici. Al fine di valorizzare la qualità della produzione nazionale, in assenza di norme ufficiali, sono state predisposte norme volontarie (norme UNI) per la classificazione dei frumenti duri e teneri e dei relativi prodotti trasformati.

Indice globale di qualità per frumento duro (IGQ) Per il frumento duro, destinato principalmente alla produzione di pasta, è stato definito a livello comunitario (Reg. CE 2237/2003) un indice di qualità basato su parametri merceologici e tecnologici. L’indice globale di qualità (IGQ) corrisponde alla somma degli indici rispetto alla media dei testimoni per i seguenti parametri cui sono assegnati diversi valori percentuali:

Destinazioni del frumento tenero Classe

Utilizzazione

Frumento di forza = FF

Prodotti ad alta lievitazione, panettoni

Frumento panificabile superiore = FPS

Pane tipo michetta, pasticceria

Frumento panificabile = FP

Pane comune, pan carrè

Frumento biscottiero = FB

Biscotti, prodotti a bassa lievitazione

• peso ettolitrico 10% • colore 20% • indice di glutine 30% • contenuto proteico 40%

Tutto quello che non è qui compreso ricade nella classe: Frumento per altri usi = FAU

Miscele o uso zootecnico

255


il grano

utilizzazione Trasformazione Maria Grazia D’Egidio, Maria Corbellini, Ester De Stefanis

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


utilizzazione Trasformazione Pasta L’origine della pasta ha le sue radici nell’antichità, quando l’uomo imparò a lavorare il grano macinato, impastarlo con acqua, spianarlo in impasti sottili che poi venivano cotti. Le prime indicazioni documentate dell’esistenza di qualcosa di simile alla pasta risalgono alla civiltà greca, ove con il termine loganon si indicava un foglio piatto e grande di pasta tagliato poi a strisce; da tale termine deriva la parola latina loganum. Furono comunque gli arabi a essiccare per primi la pasta, allo scopo di utlizzarla nelle loro peregrinazioni. Il più antico documento ritrovato sulla pasta, così come la intendiamo attualmente, è del geografo arabo Al-Idrisi (1154) e le prime testimonianze sulla produzione di pasta secca fanno attribuire a Trabia (Palermo), quindi alla Sicilia, l’avvio della cultura della pasta in Italia. Nel X secolo, durante la dominazione normanna, la Sicilia produceva sicuramente pasta in forma di fili (trjian) essiccata al sole e distribuita anche in altre zone meridionali. Nel XIII secolo, esistono indicazioni che in Liguria si produceva e commercializzava pasta secca; è comunque solo verso il 1600 a Napoli che si avvia in modo consistente l’introduzione della pasta nella cultura italiana e nel consumo popolare. Nella metà del 1800 l’industrializzazione della pasta lungo la costa napoletana è significativa. In ogni modo è stata l’introduzione dell’essiccamento artificiale o in ambienti condizionati a determinare una svolta importante nella produzione di pasta in tutte le regioni d’Italia e il passaggio dallo stadio artigianale a quello industriale. L’arte della pasta in Italia si è sviluppata nel tempo in tutte le culture locali regionali arricchendosi di nuove forme.

Formati di pasta più diffusi in Italia

Spaghetti

30,5%

Penne

25,8%

Rigatoni

8,8%

Maccheroni

7,4%

Fusilli

5,2%

Farfalle

2,7%

Bucatini

2,7%

Locale di essiccamento della pasta all’uovo in matasse

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

256


trasformazione L’ampia diffusione della pasta è in gran parte dovuta alla sua straordinaria versatilità, oltre che alla sua semplicità, che la rende idonea a essere utilizzata con una gran varietà di condimenti, da quelli più semplici a quelli più elaborati. I formati di pasta (secca e fresca) attualmente consumati in Italia sono oltre 300; tra questi ce ne sono 7 che nell’insieme coprono oltre l’80% del consumo di pasta a livello nazionale. La pasta è costituita da due soli ingredienti: semola e acqua. Nel processo di pastificazione la semola è idratata e miscelata in modo da formare un impasto che viene compresso e spinto, mediante una vite senza fine, in un canale di estrusione dal quale poi esce passando attraverso una trafila, dopo di che l’estruso viene tagliato ed essiccato. All’inizio del processo, quando la semola viene a contatto con acqua, si ha l’idratazione dei componenti di base della semola stessa (proteine e amido), e la formazione del reticolo glutinico che costituisce la struttura dell’impasto e che racchiude nelle proprie maglie le particelle di amido rigonfie. L’impasto viene lavorato fino all’ottenimento di un’idonea consistenza (pressione di circa 100-120 kg/cm2 o anche sotto vuoto), dopodiché è costretto a passare attraverso stampi (trafile) che conferiscono alla pasta la forma voluta (spaghetti, penne, fusilli ecc.). Le trafile possono essere in bronzo o in teflon; quelle in bronzo conferiscono alla pasta una superficie più ruvida e meno omogenea, di colore meno brillante, ma che trattiene meglio il condimento, quelle in teflon invece assicurano una superficie della pasta liscia, regolare, di colore più brillante. All’uscita della trafila la pasta presenta un contenuto di umidità di circa il 30%, che de-

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Torchietto artigianale da muro per la produzione di pasta con campana e trafila in bronzo Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Schema del processo di pastificazione

Fasi di impasto e formazione del prodotto

Miscelazione Impastamento Gramolatura Estrusione

Pasta fresca (umidità 30% circa) Essiccamento

Incartamento Essiccamento Raffreddamento

Pasta secca (umidità massima 12,5%) Pressa continua

Confezionamento

257


utilizzazione ve essere allontanata fino a ottenere un’umidità massima fissata per legge al 12,5%. L’essiccamento rappresenta una fase molto delicata nel processo di fabbricazione delle paste (soprattutto nel caso delle paste lunghe) e deve essere condotto in maniera controllata al fine di assicurare l’allontanamento dell’umidità anche dalle parti più interne oltre che dalle zone superficiali. La prima fase dell’essiccamento è nota con il termine di incartamento e corrisponde all’allontanamento dell’umidità dagli strati superficiali, che induriscono; segue poi il riequilibrio dell’umidità su tutta la superficie (rinvenimento) e quindi l’essiccamento finale. Le condizioni del ciclo di essiccamento possono variare per temperatura, tempo e umidità e vanno scelte anche in funzione del formato di pasta. Vanno comunque distinte due tipologie fondamentali di essiccamento: a basse e ad alte temperature. Le basse temperature rappresentano le condizioni tradizionalmente applicate fin dall’origine nell’essiccamento della pasta (intorno ai 40 °C); attualmente i cicli a bassa temperatura adottati arrivano fin verso i 55-60 °C. Con il termine alte temperature si intendono cicli che prevedono il raggiungimento di temperature al di sopra dei 75-80 °C. Mentre con le basse temperature il ciclo di essiccamento procede allo stesso modo dall’inizio alla fine, con le alte temperature le condizioni sono molto più variabili e ci sono almeno tre fattori

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Locale di essiccamento degli spaghetti

Essiccamento della pasta a Gragnano, in una cartolina edita a Napoli nel 1918

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

258


trasformazione importanti: tempo, temperatura e umidità, che possono essere variati e che influenzano profondamente il prodotto finale. I tempi di essiccamento con l’impiego delle alte temperature risultano notevolmente abbreviati (per esempio, per il formato spaghetti 5-6 ore, anziché 18-20); oltre a una riduzione dei tempi, le alte temperature hanno un effetto significativo anche sulla qualità del prodotto finito, determinandone una migliore tenuta alla cottura. A bassa temperatura, l’essiccamento può essere considerato una semplice operazione fisica di allontanamento dell’acqua, mentre quello ad alta temperatura è un’operazione “attiva” che determina una profonda trasformazione delle proprietà chimicofisiche degli impasti. Le proteine del glutine con le alte temperature subiscono una coagulazione durante la fase di essiccamento, con conseguente irrigidimento del reticolo proteico che impedisce ai granuli di amido di rigonfiarsi eccessivamente e di fuoriuscire durante la cottura della pasta. In Italia la pasta può essere fabbricata a partire esclusivamente da frumento duro (legge di purezza). La libera circolazione dei prodotti tra i Paesi dell’Unione Europea rende comunque possibile la circolazione di pasta prodotta anche in altri Paesi a base di frumento tenero o di miscele di frumento duro e tenero. La materia prima deve essere chiaramente indicata in etichetta. Dal punto di vista legale (legge 580/67 e successive modifiche), si definisce pasta di semola di grano duro e pasta di semolato di grano duro “il prodotto ottenuto dalla trafilazione, laminazione e conseguente essiccamento di impasti preparati esclusivamente con semola e semolati di grano duro e acqua”.

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Vecchie trafile

Schema di una linea di produzione di pasta lunga

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

259


utilizzazione Caratteristiche di legge della pasta alimentare Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Ceneri Tipo e denominazione

Pressa con impastatrice, XX secolo

Proteine (N x 5,7)

Acidità in gradi*

min.

max.

min.

max.

Pasta di semola di grano duro

-

0,90

10,50

4

Pasta di semolato di grano duro

0,90

1,35

11,50

5

Pasta integrale di semola di grano duro

1,40

1,80

11,50

6

Pasta all’uovo

0,85

1,10

12,50

5

* Il grado di acidità è espresso dal numero di cm3 di soluzione alcalina normale occorrente per neutralizzare 100 g di sostanza secca

Qualità della pasta La qualità in Paesi tradizionalmente consumatori, come l’Italia, è data soprattutto dalla sua tenuta in cottura. Tale caratteristica dipende dalla tessitura della pasta, cioè dall’insieme delle caratteristiche geometriche e dalla composizione fisico-chimica, e viene generalmente espressa da 3 parametri: collosità, nervo e ammassamento. La collosità è la patina superficiale aderente sulla superficie della pasta dopo la cottura; essa influenza anche le caratteristiche di scioltezza della pasta (ammassamento). Il nervo rappresenta la Formati diversi di pasta

Foto R. Balestrazzi

260


trasformazione resistenza della pasta stessa allo schiacciamento e alla masticazione. La qualità in cottura di una pasta è legata essenzialmente alle caratteristiche della materia prima (contenuto in proteine e qualità del glutine) e alle condizioni del processo produttivo. Essa è inoltre influenzata dalle condizioni di cottura, in particolare dal rapporto acqua-pasta e dai tempi di cottura. Sempre a fini qualitativi, vengono presi in considerazione altri parametri come l’aspetto e il colore, importanti però più da un punto di vista esteriore e commerciale che di qualità intrinseca. L’aspetto della pasta è dato dalla tessitura superficiale ed è negativamente influenzato dalla presenza di puntature e fessurazioni. Le fessurazioni si producono sulla superficie della pasta secca a causa di una non perfetta conduzione o di eventi negativi nella fase di essiccamento. Le puntature hanno diverse origini: bianche sono dovute a insufficiente idratazione nella fase di mescolamento; brune sono dovute a insufficiente purificazione delle semole nella fase di macinazione e quindi alla presenza di particelle di crusca; nere sono dovute a impurità e difetti del grano, come la presenza di semi estranei o attaccati da parassiti. La tessitura superficiale della pasta può essere rugosa o liscia ed è determinata essenzialmente dal tipo di trafila utilizzato nella fabbricazione (bronzo o teflon). Il colore di una pasta dipende dalla quantità di pigmenti carotenoidi presenti nella semola e dai fenomeni ossidativi che avvengono a opera di enzimi endogeni (come la lipossigenasi) nel corso del processo di pastificazione.

Foto R. Balestrazzi

Penne

Foto Archivio Storico Barilla, Parma

Reparto di essicamento delle pastine nello stabilimento Barilla nel 1932

261


utilizzazione Tipologie di pasta L’industria di pastificazione produce quantitativi di pasta differenti in base alla tipologia del prodotto e la produzione maggiore è rivolta alla pasta secca di semola, che detiene un ruolo leader in ambito sia nazionale sia estero, rappresentando circa il 90% della produzione totale annua. Di seguito vengono riportate le principali categorie di pasta esistenti.

Produzioni e consumi in Italia L’Italia si colloca al primo posto nella graduatoria dei Paesi produttori e consumatori di pasta, con una produzione annua intorno a 3.000.000 t e un consumo pro capite di 28 kg

Pasta secca di semola La pasta secca in Italia può essere preparata solo con semola di grano duro e acqua; qualsiasi aggiunta anche se parziale di grano tenero costituisce una frode, a differenza di altri Paesi dove, invece, ne è consentito l’uso. Paste prodotte in altri Stati membri della comunità europea e contenenti grano tenero possono essere vendute sui nostri mercati, ma devono riportare in etichetta la

Foto R. Angelini

Produzione di pasta per il mercato nazionale ed estero Quantità (tonnellate)

Valore (milioni di Euro)

Produzione totale

2.735.800

2260

Mercato nazionale

1.386.400

1400

Esportazioni*

1.349.400

861

Produzione totale

179.175

392

Mercato nazionale

98.830

290

Esportazioni*

80.345

102

8310

40

100.313

214

98.000

464

pasta fresca ripiena

47.000

300

pasta fresca all’uovo

11.900

51

pasta fresca di semola

13.200

40

gnocchi

25.900

73

Pasta secca di semola

Pasta secca all’uovo

Pasta secca farcita Vari formati di pasta secca di semola

Mercato nazionale Esportazioni* Pasta industriale fresca

Tipologie di pasta

Mercato nazionale

In Italia esistono oltre 300 formati industriali di pasta in commercio, a cui si associano spesso tradizioni specifiche in differenti città o regioni

Fonte UN.I.P.I. (Unione Industriale Pastai Italiani)

262

*comprese paste fresche.


trasformazione presenza di grano tenero. Come detto, il ciclo produttivo della pasta secca consiste essenzialmente nel miscelare semola e acqua, quindi l’impasto ottenuto, portato al giusto grado di omogeneità, viene spinto nella trafila e poi essiccato per eliminare l’acqua in eccesso. La pasta destinata al commercio deve rispettare i limiti di legge per specifiche caratteristiche (umidità, proteine, ceneri, acidità). Per la pasta secca si possono fare grandi suddivisioni per forma e dimensione: pasta lunga, pasta corta, pastina per minestra, e un’ulteriore grande ripartizione in pasta liscia e pasta rigata. All’interno della categoria paste lunghe sono poi possibili ulteriori raggruppamenti in base alla sezione: paste a sezione cilindrica (piena come nel caso degli spaghetti o forata come nei bucatini, perciatelli, ziti ecc.), paste a sezione rettangolare (tagliatelle, taglierini, fettuccine) e paste a sezione ellittica o lenticolare (linguine, trenette). Questa notevole varietà di forme è conferita al prodotto dalla fase di trafilazione: esistono trafile per produrre pasta lunga e altre per produrre pasta corta. La trafila possiede specifiche caratteristiche per ogni formato di pasta e sono i fori della trafila a conferire le forme peculiari all’impasto. La tradizione dice che le trafile sono prevalentemente di bronzo anche se, negli ultimi decenni, molte aziende le hanno sostituite con quelle rivestite in teflon, con risultati differenti per il prodotto che ne esce.

Foto R. Angelini

Tipologie di pasta corta

Pasta secca all’uovo In base alla normativa vigente nel nostro Paese, la pasta secca all’uovo può essere prodotta esclusivamente con semola di grano duro, alla quale si devono aggiungere almeno quattro uoFoto R. Balestrazzi

Spaghetti

La preparazione della pasta all’uovo appartiene alla tradizione del nord Italia e dell’Europa centrale, verosimilmente per il fatto che in tali zone era presente essenzialmente grano tenero, che imponeva di aggiungere uova all’impasto per ottenere prodotti di qualità accettabile

Pasta all’uovo

263


utilizzazione va intere di gallina, prive di guscio, per un peso non inferiore a 200 grammi di uovo per ogni chilogrammo di semola. Le uova possono essere sostituite da una corrispondente quantità di ovoprodotto liquido fabbricato unicamente con uova intere di gallina e rispondente a precisi dispositivi di legge (decreto n. 65, 4 febbraio 1993). Inoltre la pasta all’uovo messa in vendita non deve superare i valori previsti dalla normativa per determinati parametri qualitativi (umidità, ceneri, proteine, acidità, estratto etereo, steroli) e deve essere messa in commercio con la sola denominazione di pasta all’uovo. Nel ciclo produttivo di questi alimenti la presenza dell’uovo comporta un’attenzione particolare agli aspetti igienico-sanitari, che vanno tenuti sotto controllo sia nei processi di lavorazione dell’uovo stesso (dalla sgusciatura, al processo di omogeneizzazione, pastorizzazione e refrigerazione fino al trasporto al pastificio, dove la temperatura dei silos di conservazione deve oscillare tra 0 e 4 °C), sia durante il processo di produzione della pasta. Quest’ultimo, in realtà, non differisce sostanzialmente da quello della pasta secca, se non per alcuni accorgimenti necessari a evitare l’innalzamento della carica batterica (uso di acqua fredda o a temperatura ambiente durante l’impasto, più frequente pulizia degli impianti) e “l’arrossamento” della pasta durante l’essiccazione (temperature di essiccamento inferiori di 10-15°C rispetto a quelle della pasta di sola semola). Un altro aspetto fondamentale per le caratteristiche qualitative della pasta all’uovo è la qualità dell’uovo. Per tradizione l’industria italiana utilizza uova di qualità superiore, provenienti da galline allevate correttamente in termini di spazio e condizioni igienico-sanitarie, e alimentate con mangimi selezionati contenenti pigmenti naturali; pertanto, durante la lavorazione non ricorre all’aggiunta di pigmenti naturali o artificiali come avviene in altri Paesi. La produzione delle uova in Italia supera abbondantemente i fabbisogni.

Pastina

Foto R. Angelini

Varie tipologie di pastine all’uovo

Pasta secca farcita Questa tipologia di prodotto (ravioli, cappelletti, tortellini ecc.) è presente sul mercato con quantitativi più limitati rispetto alle categorie precedenti. La pasta all’uovo farcita, tipica della gastronomia dell’Italia centro-settentrionale, si propone sulla nostra tavola con una varietà di ingredienti più o meno ricercati e di ripieni tipici di ogni regione: dal brasato, prosciutto, formaggio del Nord al ripieno di pesce della Liguria. Due grandi famiglie classificate sotto il termine generico di “tortelli” e “ravioli” raccolgono l’insieme di queste preparazioni. Tradizionalmente la produzione di queste paste avveniva a livello casalingo e, quando è subentrata, la produzione industriale ha praticamente riprodotto su larga scala la preparazione manuale, dalla scelta del ripieno alla sfoglia. Infatti le tortellinatrici, macchine di pre-

Foto R. Angelini

Pasta secca farcita

264


trasformazione cisione per la preparazione di questi prodotti, sono provviste di “manine” che dosano il ripieno e lo avvolgono nella sfoglia. La produzione industriale tramite idonei processi di pastorizzazione ed essiccamento assicura prodotti ripieni secchi igienicamente sicuri che, rispetto alla preparazione casalinga, possono essere conservati per un tempo maggiore (circa 4 mesi).

Foto R. Angelini

Pasta fresca La cucina italiana presenta un’ampia gamma di prodotti di pasta fresca ripiena e non: ravioli, agnolotti, tortelli, trofie, orecchiette, gnocchetti sardi, tagliatelle, cavatelli ecc. e, girando di regione in regione, a volte si può notare come dello stesso formato esistano modi differenti di preparazione: un esempio sono i ravioli, che in Emilia sono tipicamente con ripieno di carne mentre in molte altre regioni con ripieno di ricotta e spinaci; oppure, più semplicemente, può capitare che nelle diverse regioni formati di pasta simili vengano chiamati in modo differente (fettuccine e tagliatelle). Sono di pasta fresca la maggior parte delle paste alimentari cosiddette “tipiche”, cioè prodotti che rappresentano le specialità regionali, e in alcuni casi addirittura locali, e che ogni regione ha un suo modo di preparare in base alla materia prima che tradizionalmente aveva a disposizione: semola di grano duro, metà semola e metà farina bianca, farina integrale, farina di grano saraceno. Gli esempi sono tantissimi e per ricordarne solo alcuni: pizzoccheri-Lombardia in particolare Valtellina, trofie e corzetti-Liguria, testaroli-Toscana, pisarei e garganelli-Emilia Romagna, strangozzi-Umbria, orecchiette-Puglia, strozzapreti-Basilicata, maccheroni inferrettati-Calabria, cavatiddi-Sicilia, malloreddus-Sardegna. Un tempo per ottenere i diversi formati si ricorreva a un’attrezzatura artigianale oggi difficilmente reperibile, ma sostituibile con gli attuali arnesi di cucina; in ogni caso è con queste paste che si preparano ottimi primi piatti che sono il fiore all’occhiello della cucina italiana, per i quali siamo conosciuti in tutto il mondo. Una curiosità: le lasagne sono tra le prime preparazioni di pasta conosciute e già i cuochi medievali le tenevano in grande considerazione. Per la produzione delle paste fresche la legge prevede le stesse normative delle precedenti tipologie, eccetto per l’umidità, l’acidità (non deve superare il limite di 7 gradi) e la possibilità di usare farina di grano tenero. I dispositivi di legge sono differenti per le paste fresche in vendita allo stato sfuso rispetto a quelle messe in commercio in appositi imballaggi preconfezionati, soprattutto per quanto riguarda la “durabilità” che, nel caso delle paste sfuse, non può essere superiore a cinque giorni dalla data di produzione. Nel caso delle paste preconfezionate, per le quali la normativa ammette un tenore di umidità non inferiore al 24%, è previsto un trattamento termico equivalente almeno alla pastorizzazione che, permettendo una maggiore conservazione

Tipologie diverse di pasta fresca Foto R. Angelini

Pasta fresca

Pasta fresca all’uovo

265

Foto V. Bellettato


utilizzazione del prodotto nel tempo, ne consente anche la vendita in posti più lontani. In entrambi i casi la conservazione di questi prodotti, dalla produzione alla vendita, va fatta a temperatura non superiore a 4 °C. Appartengono alla categoria dei prodotti freschi le paste “stabilizzate”, le quali, a differenza delle precedenti, essendo state sottoposte a specifici trattamenti termici e ad appropriate tecnologie di produzione, possono essere trasportate e conservate a temperatura ambiente. Il D.P.R. n. 187 del 9 febbraio 2001 (modificazione della legge n. 850 del 4/7/1967) descrive in dettaglio le normative per la produzione di pasta fresca così come quelle per le altre tipologie. Per tutti i tipi di pasta appartenenti a questa categoria, la qualità del prodotto dipende fondamentalmente dall’attenzione che l’impresa, artigiana e non, pone agli elementi caratterizzanti il processo produttivo: gli ingredienti, le attrezzature, le tecniche di lavorazione adottate, i controlli posti in essere durante le lavorazioni. Paste speciali Negli ultimi anni si sta assistendo a una crescente diffusione di questo tipo di pasta, in grado di soddisfare le sempre maggiori esigenze del consumatore in termini di novità e di gusto. Vengono identificate come “speciali” le paste alimentari prodotte con semola di grano duro e contenenti ingredienti alimentari diversi dagli sfarinati di grano tenero. Appartengono a questo gruppo prodotti nel cui impasto sono ammessi: malto, glutine, germe di grano, proteine idrosolubili del latte, verdure, prodotti ortofrutticoli e loro derivati, funghi eduli e tartufi, aromi naturali, spezie, piante o parti di piante aromatiche commestibili. Generalmente questi ingredienti vengono aggiunti o per migliorare la qualità in cottura della pasta oppure per incrementare il suo valore nutrizionale e anche per differenziare il prodotto per sapore e/o colore. Le paste speciali devono essere vendute con la denominazione pasta di semola di grano duro, specificando l’ingrediente utilizzato e, nel caso di più ingredienti, quello o quelli caratterizzanti il prodotto. Oltre alle norme igienico-sanitarie previste per la pasta secca, le paste speciali contenenti uovo devono rispondere anche ai requisiti previsti dalla normativa specifica per la pasta all’uovo. Queste disposizioni si applicano soltanto alle paste prodotte in Italia, pertanto è possibile trovare in commercio prodotti diversi, fabbricati in altri Paesi comunitari. In questa categoria sono incluse anche le paste integrali o arricchite di altri cereali, per la cui produzione è necessaria l’autorizzazione dell’organo competente per la presenza, che deve essere dichiarata in etichetta, di caratteristiche nutrizionali particolari (fibre, sali minerali, vitamine ecc.) che possono ottemperare specifiche esigenze nutrizionali. Il decreto legge n. 111 del 27/1/1992 ne regola la produzione.

Tipologia di pasta speciale

Prodotti speciali “simil pasta” Recentemente sono stati messi in commercio prodotti che, riprendendo la definizione di Barilla, sono “simil pasta” cioè nell’aspetto si presentano come la pasta alimentare ma in realtà sono stati realizzati con cereali diversi dal frumento duro. Questi alimenti, in base alla presenza o meno di glutine nel cereale, si possono raggruppare in paste contenenti glutine e paste prive di glutine, più adatte a consumatori con particolari patologie

266


trasformazione Pane Il pane è uno degli alimenti più diffusi al mondo e la sua storia appare strettamente correlata allo sviluppo delle moderne civiltà. Inizialmente l’uomo impastava con acqua il prodotto della frantumazione grossolana del grano e poneva l’impasto al sole prima di mangiarlo. Venne poi introdotta la cottura su pietre roventi e solo successivamente gli impasti vennero fermentati. Il processo di panificazione fu perfezionato nel corso dei secoli in parallelo con il miglioramento delle tecniche di macinazione, fino all’utilizzo di farine sempre più raffinate e di lieviti selezionati. Data la sua importanza nell’alimentazione umana, il pane ha anche assunto un rilevante valore simbolico in molte religioni. L’enorme diffusione ha portato a un’elevata variabilità di forme e ricette tra i vari Paesi, in Italia in particolare, come dimostrato da un recente studio effettuato dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale (INSR) che ha censito circa 200 tipi di pane. Nonostante tale enorme variabilità, i fondamenti della panificazione sono comuni e riassumibili nelle seguenti fasi principali: impasto, lievitazione e cottura.

Museo del Pane, Castello Bolognini, Sant’Angelo Lodigiano. Primo museo nazionale di tal genere, si snoda in cinque sale in cui sono presentate le varie fasi del ciclo grano-farina-pane. Significativa la sala che espone, perfettamente conservate, oltre 500 forme di pane di origine nazionale, europea ed extraeuropea

Impasto. In questa fase alla farina setacciata posta nell’impastatrice si aggiunge acqua in quantità variabile dal 40 al 65% del peso della farina, in funzione della sua qualità e del metodo di panificazione adottato. L’acqua e l’energia dell’impastatrice favoriscono l’aggregazione degli ingredienti e, in breve tempo, attraverso la formazione del glutine, l’impasto passa da una prima fase non strutturata e collosa a una seconda fase strutturata ed elastica. Contemporaneamente l’acqua idrata anche i granuli d’amido, solubilizza il sale e gli altri eventuali ingredienti e attiva le funzioni enzimatiche.

Foto R. Balestrazzi

Processo di panificazione: fase di impasto

267


utilizzazione

Riposo dei pani dopo la formatura

Lievitazione. In questa fase l’impasto aumenta di volume per lo sviluppo di anidride carbonica ed etanolo in conseguenza della degradazione dei carboidrati da parte dei lieviti (Saccharomyces cerevisiae). La fase iniziale è caratterizzata dalla moltiplicazione dei lieviti, per cui la fermentazione parte lentamente per aumentare poi progressivamente e raggiungere la massima produzione di anidride carbonica dopo alcune ore. Oltre alla quantità di lievito, anche la temperatura degli impasti influenza l’attività fermentativa, infatti temperature degli impasti superiori a 28 °C sono adatte a fermentazioni brevi (11,5 ore), temperature tra 25 e 27 °C a fermentazioni intermedie (2-4 ore) e temperature tra 23 e 35 °C a fermentazioni lunghe. Per evitare essiccamenti superficiali, durante la lievitazione l’impasto viene mantenuto a temperatura e umidità controllate; inoltre, per favorire l’eliminazione dell’anidride carbonica in eccesso, esso viene rilavorato e modellato alcune volte. Al completamento della lievitazione l’impasto è ricco di gas e il glutine che si è formato è sufficientemente elastico e in grado di trattenerli. A questo punto l’impasto si divide in parti di dimensioni variabili a seconda del tipo di pane scelto, umidificato superficialmente e lasciato riposare per un breve periodo allo scopo di assumere la forma definitiva. È una fase molto importante ai fini dell’ottenimento di pani regolari nella forma, con porosità della mollica uniforme e buone caratteristiche della crosta.

Foto R. Balestrazzi

Cottura. Questa fase è condotta nel forno a temperatura compresa tra 180 e 220 °C per un tempo variabile secondo le dimensioni dei pani. I forni, generalmente a riscaldamento indiretto, sono umidificati al fine di evitare rotture della pellicola superficiale e quindi della crosta. L’attività all’interno dei pani è frenetica, continua la produzione di gas fino al momento in cui il lievito e gli enzimi vengono denaturati dal calore. Il volume aumenta ancora per l’espan268


trasformazione sione del gas e per la pressione del vapore acqueo e dell’etanolo, contemporaneamente l’amido viene parzialmente gelatinizzato e il glutine coagula. A questo punto non c’è ulteriore aumento di volume, si forma la crosta e continua l’evaporazione dell’acqua fino a cottura ultimata. Dopo la cottura i pani sono lasciati raffreddare su appositi supporti con varie modalità. In questa fase l’aspetto più importante riguarda il mantenimento di standard igienici elevati, in quanto il raffreddamento in condizioni di umidità e temperatura non adeguate può favorire lo sviluppo di muffe e batteri sui pani. Secondo la definizione di legge (legge n. 580 del 04/07/1967 e successive modifiche), il pane è il prodotto ottenuto dalla cottura, totale o parziale, di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito, con o senza aggiunta di sale comune (cloruro di sodio). La legge prevede che possa essere messo in commercio anche pane ottenuto da cottura parziale, pane surgelato o pane ottenuto mediante completamento di cottura di pane parzialmente cotto, purché tali caratteristiche vengano espressamente dichiarate in etichetta e i prodotti vengano venduti in imballaggi preconfezionati e in comparti separati da quelli del pane fresco. Possono essere impiegati sfarinati di grano sia tenero sia duro. Il pane comune di grano tenero viene descritto in funzione della farina utilizzata come ingrediente base, per cui si identificano le seguenti tipologie: pane di tipo 00, pane di tipo 0, pane di tipo 1, pane di tipo 2 e pane di tipo integrale. Il pane comune di grano duro può essere prodotto con semola o con semolato (rimacine di semola), e viene denominato rispettivamente pane di semola e pane di semolato. Il contenuto massimo di acqua nel pane varia in funzione della pezzatura: deve essere inferiore al 29% per pani di 70 g e può raggiungere il 40% per pezzature superiori a 1000 g. Nel caso del pane integrale è tollerato un aumento di umidità del 2% per ogni pezzatura. Nella produzione del pane comune è vietato aggiungere altri ingredienti; solo per esigenze tecniche di produzione sono ammessi farine di cereali maltati, estratti di malto, a e b-amilasi e per casi particolari la spalmatura con alcuni grassi. Alcuni ingredienti aggiuntivi possono invece essere utilizzati per la produzione di pane speciale, che deve essere tenuto in appositi scaffali, separato dal pane comune. Ogni scaffale deve essere fornito di cartellini che indicano il tipo di pane, il relativo prezzo e gli ingredienti utilizzati. Nella maggior parte dei casi (86%) la panificazione viene effettuata a livello artigianale in numerosi laboratori o forni capillarmente dislocati sul territorio nazionale; tuttavia negli ultimi anni è aumentata la quota di panificazione industriale, anche come conseguenza dell’enorme sviluppo della grande distribuzione organizzata. Il processo di panificazione, sia esso di tipo artigianale o industriale, ha subito nel tempo alcune modifiche ma nel nostro Paese rimane prevalentemente di tipo discontinuo per cui le fasi di impasto, lievitazione e cottura rimangono nettamente separate e sono realizzate con macchinari distinti.

Incisione della pellicola superficiale

Introduzione dei pani nel forno

Tipologie di pane comune

• Grano tenero - Tipo 00 - Tipo 0 - Tipo 1 - Tipo 2

• Grano duro

- Pane di semola - Pane di semolato

269


utilizzazione I metodi di panificazione possono essere diretti o indiretti a seconda che i vari ingredienti vengano miscelati contemporaneamente nella fase di impasto o in momenti diversi. Il metodo diretto prevede l’impasto simultaneo dei vari ingredienti con acqua, fino al raggiungimento di una consistenza ottimale. Dopo la lievitazione l’impasto viene diviso, formato e modellato in funzione del tipo di pane desiderato e lasciato di nuovo riposare fino al momento della cottura. La durata complessiva del processo varia in funzione di vari fattori, per esempio il tipo di impastatrice, la quantità di lievito e la forza della farina. I metodi indiretti, in cui i vari ingredienti sono aggiunti in tempi diversi durante i cosiddetti “rinfreschi degli impasti”, sono essenzialmente i seguenti: metodo con impasto lievito (biga) e metodo con lievito naturale o madre acida.

METODI DI PANIFICAZIONE

DIRETTO Gli ingredienti vengono aggiunti e impastati nello stesso momento

DISCONTINUO Il processo si compone di fasi distinte effettuate utilizzando diversi macchinari

INDIRETTO Gli ingredienti vengono aggiunti e impastati in più riprese

Metodo con impasto lievito. Noto anche come metodo Poolisch, è basato sull’utilizzo di lievito compresso ottenuto da colture di lieviti selezionati. In una prima fase, una parte degli ingredienti principali (lievito, acqua e farina) viene miscelata per formare l’impasto preliminare (biga), che si presenta piuttosto liquido in quanto farina e acqua sono presenti in rapporto 1:1. La prima fase ha una durata variabile (10-20 ore), in funzione di vari fattori tra cui predominano la quantità di lievito e il tipo di pane. In questa fase avviene una rapida moltiplicazione dei lieviti, a spese però di un’aliquota totale della farina tale da mantenere la possibilità di recuperare le caratteristiche meccaniche dell’impasto nella seconda fase, quando si aggiungono le quantità residue di lievito, farina e acqua e, se previsto, il sale ed eventuali altri ingredienti. L’impasto risultante viene lasciato lievitare di nuovo (30-45 minuti) quindi diviso, formato e dopo un ulteriore riposo di circa un’ora, viene infornato e cotto. Questo tipo di processo indiretto di panificazione, rispetto al diretto, richiede un maggiore tempo di lavorazione, ma consente di risparmiare la quantità di lievito impiegato e soprattutto di ottenere pane con caratteristiche organolettiche migliori.

CONTINUO Il processo si compone di varie fasi effettuate in serie in un unico impianto

Metodo con lievito naturale o madre acida. Si basa sull’impiego di una parte dell’impasto del giorno precedente conservata in luogo refrigerato. Nell’impasto sono presenti, oltre ai lieviti saccaromiceti, anche batteri vari, tra cui predominano i lattici che favoriscono l’acidificazione dell’impasto e quindi l’attività fermentativa dei saccaromiceti, mentre ostacolano lo sviluppo di altri batteri nocivi. Il processo prevede una serie di impasti successivi (rinfreschi) a partire dall’effettuazione di un primo impasto, utilizzando la madre acida (circa 2% della farina totale), una piccola quantità della farina totale (4%) e l’acqua necessaria per raggiungere la consistenza ottimale. L’impasto viene lasciato fermentare per 6-8 ore e poi rinfrescato con aggiunta di altra acqua e farina (circa 16% della farina totale). A questo impasto, dopo la fermentazione (6-8 ore), vengono aggiunti la farina residua, l’acqua necessaria e, 270


trasformazione se previsto, il sale per produrre l’impasto finale che, dopo formatura e riposo, verrà cotto in forno come precedentemente descritto. L’utilizzo di lievito naturale prolunga l’attività degli enzimi proteolitici, favorisce lo sviluppo di sostanze aromatiche e ostacola la formazione di muffe. Rispetto all’utilizzo di lievito compresso, a fronte di una maggiore durata del processo, si ottiene pane più fragrante, più digeribile e conservabile più a lungo. Le nuove tecnologie basate sull’impiego del freddo in panificazione hanno consentito, negli anni più recenti, di migliorare la qualità della vita dei panificatori soprattutto attraverso la riduzione delle ore di lavoro notturno. L’abbassamento termico, che può spingersi fino alla surgelazione, richiede l’impiego di apposite celle di fermalievitazione in cui si controlla la fermentazione regolando l’attività dei lieviti, che diminuisce al diminuire della temperatura fino a bloccarsi al di sotto di 4 °C. La modulazione della temperatura consente di preparare impasti che verranno cotti il giorno successivo in tempi variabili in funzione delle esigenze del singolo produttore, a livello sia artigianale sia industriale. Per ottenere prodotti di buona qualità, è indispensabile che la fase di abbattimento della temperatura sia rapida, in modo da ottenere la formazione di numerosi cristalli di ghiaccio di piccole dimensioni che non alterano le caratteristiche tecnologiche degli impasti.

Prodotti salati Foto R. Balestrazzi

Pane tipico e pane speciale Il pane è l’alimento più antico e più diffuso che ha assunto nel tempo anche significati spirituali e sociali, come dimostrato dal suo simbolismo in molte religioni o dalle proprietà che gli vengono attribuite in alcune tradizioni popolari. Al tempo di Roma antica si conoscevano già numerosi tipi di pane, in genere ottenuti dal farro, che si differenziavano per il contenuto in crusca. Nel corso degli anni, parallelamente al miglioramento dei sistemi di molitura e all’evoluzione genetica del grano, si sono sviluppate, nelle varie zone geografiche, diverse tipologie di panificazione che hanno determinato l’attuale enorme variabilità di tipi e forme. Nelle regioni del nord Italia il pane è prevalentemente ottenuto da farine di grano tenero, mentre in alcune regioni del centro e soprattutto del sud Italia viene anche utilizzata la semola di grano duro. Negli anni più recenti si è assistito da un lato alla valorizzazione, recupero e in alcuni casi anche alla certificazione, di alcuni tipi di pane (pani tipici) e dall’altro lato allo sviluppo di nuove ricette basate su ingredienti non tradizionali, allo scopo di diversificare ulteriormente il prodotto per renderlo più appetibile e quindi più remunerativo (pani speciali). Per quanto riguarda i pani tipici, attualmente alcuni risultano certificati con marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta), come per esempio in Puglia “il pane di Altamura”, o con marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) come per esempio in Emilia Romagna “la coppia ferrarese” o nel Lazio “il pane casereccio di Genzano”. Si tratta di pani tradizionali, strettamente legati al territorio di produzio-

Foto R. Balestrazzi

271


utilizzazione ne, che vengono prodotti secondo precisi disciplinari e presentano come caratteristica comune la lievitazione naturale che favorisce lo sviluppo di aromi particolari e li rende più digeribili e meglio conservabili. Indipendentemente dalla certificazione, si assiste a un ritorno di interesse da parte dei consumatori verso i pani tradizionali che evocano in genere concetti di migliore qualità. A corollario di ciò sono sorte anche associazioni finalizzate a promuovere la conoscenza degli aspetti culturali legati alla panificazione, per esempio l’associazione denominata “Le città del pane” che allo scopo organizza mostre, seminari e altri eventi che vedono generalmente la partecipazione di un pubblico numeroso. A tale associazione partecipano attualmente 42 comuni dislocati lungo tutta la penisola, compresa la parte insulare, a dimostrare la grande variabilità che caratterizza la panificazione italiana. In ogni regione, ma anche all’interno di esse, si annoverano numerosi tipi di pane. Diverso è il contesto relativo ai pani speciali. Si ricorda che nella produzione del pane comune è ammesso esclusivamente l’impiego di farina, acqua, lievito e sale e di eventuali coadiuvanti tecnologici che hanno lo scopo di migliorarne la qualità. Gli ingredienti aggiuntivi ammessi, precisamente elencati in un’apposita lista, sono i seguenti: estratti di malto, farina di cereali maltati, a e b-amilasi, zuccheri, enzimi naturali, paste acide essiccate purché prodotte con ingredienti naturali, farine pregelatinizzate di frumento, glutine e amidi alimentari. Per tali sostanze, se sono propriamente utilizzate come coadiuvanti tecnologici, la legge non prevede l’obbligo di elencazione in etichetta, in quanto il loro impiego non configura il pane come speciale. Infatti l’impiego di estratti di malto o di farina di cereali maltati favorisce la scissione dell’amido in zuccheri che rappresentano il substrato ideale per i lieviti, per cui migliora la lievitazione e di conseguenza il volume del pane. Funzioni analoghe esplicano gli altri enzimi, mentre l’impiego degli zuccheri contribuisce a migliorare sia l’attività dei lieviti sia il gusto e il colore del pane. Altri coadiuvanti quali il glutine sono utilizzati per migliorare le prestazioni di farine deboli. Nella produzione del pane speciale propriamente detto, oltre agli ingredienti di base (sfarinati di grano, acqua, lievito, sale) e ai coadiuvanti tecnologici, possono invece essere impiegati burro, olio di oliva, strutto, latte, zibibbo, uve passe, fichi, olive, anice, origano, cumino, sesamo e ogni altro tipo di ingredienti alimentari di origine vegetale (per esempio spinaci, cioccolata, peperoncino, pomodoro ecc.). Nel caso di pane speciale per impiego dei grassi (burro, olio d’oliva, strutto) si ottiene un prodotto più fragrante e conservabile più a lungo. L’aggiunta di grassi agli impasti viene percepita dal consumatore come migliore fragranza ma rappresenta anche un miglioramento per il panificatore in quanto i grassi, fungendo da lubrificanti, migliorano la lavorabilità degli impasti e favoriscono la formazione di un’alveolatura fine e regolarmente diffusa nella mollica.

Prodotti dolci

Pani tipici Un recente studio effettuato dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale ha censito circa 200 diversi tipi di pani tipici. Si va dal Piemonte con la biova piemontese o i grissini, attraverso tutte le altre regioni, fino ad arrivare alla Sicilia con il pane del dittaino e alla Sardegna con il pane carasau

Vari formati di pane

272


trasformazione Una categoria particolare di pani speciali è rappresentata dal pane surgelato o dal pane ottenuto mediante completamento di cottura di pane parzialmente cotto, che sta avendo notevole diffusione soprattutto nella grande distribuzione, in quanto il consumatore può trovare pane fresco, appena sfornato, a tutte le ore del giorno. In questo caso la legge prevede che vengano espressamente dichiarate in etichetta le modalità di produzione; inoltre, i pani devono essere posti in vendita in imballaggi preconfezionati e in comparti separati da quelli del pane fresco. Non va dimenticato che per la produzione di pane, sia fresco sia ottenuto mediante completamento di cottura, possono essere utilizzate miscele di vari sfarinati di origine vegetale come avena, segale, farro, castagne, patate e simili. Tali sfarinati alimentari possono essere anche miscelati con gli sfarinati di grano e tutti devono figurare nell’elenco degli ingredienti. In ogni caso il pane ottenuto dalla miscelazione di due o più sfarinati deve indicare nella denominazione lo sfarinato caratterizzante utilizzato, come per esempio “pane di segale”, indipendentemente dalla quantità percentuale utilizzata.

Vendita del pane speciale

• Nella denominazione di vendita del

pane speciale è obbligatorio fare riferimento all’ingrediente utilizzato e, nel caso di più ingredienti, a quelli caratterizzanti

• Il consumatore distingue il pane

speciale dal pane comune dalla obbligatorietà di essere posto in vendita in scomparti differenziati, corredati di apposite etichette

Foto R. Balestrazzi

Prodotti da forno Con tale definizione si intendono tutti quei prodotti ottenuti a partire da sfarinati di cereali e altri ingredienti che, analogamente al pane, derivano da un processo che comprende le fasi di impasto, lievitazione e cottura. Gli ingredienti principali sono rappresentati da farina di grano tenero o altri cereali, lievito e grassi di varia origine, con l’aggiunta di sale, zucchero, emulsionanti, conservanti e altri eventuali specifici delle varie ricette. Esiste un’ampia gamma di prodotti da forno che comprende grissini, fette biscottate, cracker, biscotti, merendine fino ai vari prodotti di pasticceria. In mancanza di un sistema univoco di classificazione, si fa generalmente riferimento alla presenza o assenza di zucchero (dolci, salati) oppure al volume specifico (soffici, secchi). La sofficità di questi prodotti dipende dall’aumento di volume degli impasti dovuto alla lievitazione, spesso di tipo chimico, o all’aria che viene inglobata dall’impasto quando viene lavorato in condizioni particolari. I grassi come burro, strutto, oli vegetali idrogenati e olio d’oliva, svolgono un ruolo essenziale a livello tecnologico favorendo la formazione del glutine, le interazioni tra i vari ingredienti, la formazione di un’alveolatura fine e regolare della mollica, ma sono anche importanti ai fini della conservazione dei prodotti. I grassi sono presenti nei prodotti da forno tradizionali in quantità variabile, in genere intorno al 25-30% in prodotti di pasticceria o biscotti, e in quantità minore, dal 5 al 10%, per prodotti tipo cracker, grissini e fette biscottate. Negli ultimi anni sono stati sviluppati nuovi prodotti da forno caratterizzati da minore contenuto in grassi che meglio rispondono alle esigenze dei consumatori più attenti al contenuto calorico degli alimenti.

Foto R. Balestrazzi

Prodotti da forno

273


il grano

utilizzazione Usi non alimentari Salvatore Moscaritolo

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


utilizzazione Usi non alimentari Impiego del grano per la produzione di energia

Vantaggi delle biomasse

• Fonte rinnovabile per la produzione

Fino a ora, la stabilità economica e la ricchezza di un Paese risiedevano nella capacità di garantire l’autosufficienza alimentare della popolazione; a questo si è affiancata oggi la necessità di garantire l’autosufficienza energetica. Il continuo processo di industrializzazione che ormai sta avvenendo in tutto il globo fa sì che ogni anno la domanda energetica sia sempre maggiore e tale richiesta ha effetto sia sul costo dell’energia sia sulla drastica diminuzione delle riserve energetiche di origine fossile, fonti non rinnovabili da cui deriva la quasi totalità dell’energia utilizzata nei Paesi maggiormente industrializzati. L’utilizzo di tali materiali in quasi un secolo ha portato a una molteplicità di problematiche, che vanno dalla dipendenza economica di molte nazioni verso quei Paesi detentori di giacimenti petroliferi fino ai cambiamenti climatici. Da ciò nasce la necessità di ricorrere a fonti di energia alternative, come quelle rappresentate dall’utilizzo delle biomasse per lo sviluppo di biocombustibili, che insieme alle attuali energie eoliche e solari potrebbero diventare un’alternativa realistica ai combustibili fossili. I vantaggi ottenibili dall’utilizzo delle biomasse non sono solo economici, in quanto esse, oltre a essere fonti di energie rinnovabili, avranno effetti positivi a livello sia sociale sia ambientale. Il biossido di carbonio emesso dagli impianti termici alimentati a biomasse è equivalente a quello assorbito dai vegetali durante il processo fotosintetico e pertanto i vantaggi rilevabili vanno dalla riduzione dell’effetto serra alla riduzione delle piogge acide, dato che le matrici organiche presentano un basso tenore di zolfo. Ulteriori opportunità derivanti dall’utilizzazione delle biomasse consistono nell’impiego dei residui di lavorazione come ottimo fertilizzante, nell’abbondanza della matrice organica a disposizione, nella facilità di estrazione energetica e soprattutto nella possibilità di utilizzare aree marginali o inutilizzate. A oggi, dalle biomasse si ricava in media il 15% circa degli usi energetici primari nel mondo. L’utilizzo di tale materia prima mostra però un forte grado di disomogeneità. I Paesi in via di sviluppo utilizzano maggiormente questa fonte energetica mediante la combustione di legno, paglia e rifiuti animali, per un totale di bioenergia pari al 38% del proprio fabbisogno totale. Differente è invece l’utilizzo delle bioenergie da parte dei Paesi industrializzati, che contribuiscono appena con il 3% degli usi energetici primari.

di energia

• Benefici ambientali (riduzione

dell’effetto serra e delle piogge acide)

• Possibile utilizzazione dei residui della lavorazione per la produzione di fertilizzanti organici

Ripartizione di bioenergia nel mondo 40

38%

% di bioenergia/fabbisogno nazionale

35 30 25 20 15%

15 10 5 0

3,2%

Paesi USA in via di sviluppo

3,5%

CE

Mondo

274


Usi non alimentari Le attuali stime indicano che gli USA ricavano il 3,2% della propria energia dalle biomasse, l’Europa il 3,5%, con punte del 18% in Finlandia, 17% in Svezia, 13% in Austria, mentre l’Italia ne utilizza soltanto il 2,5%. Forte è stato l’impegno della Commissione Europea nell’incentivare l’utilizzo di tali risorse, sia sovvenzionando molti progetti di ricerca per lo sviluppo di nuove biotecnologie sia varando misure di sostegno atte a incentivarne l’uso, come per esempio la Direttiva CE 2003/30 che impone di utilizzare il 2% di biocarburanti in miscela con i normali carburanti, prevedendo di raggiungere il 5,75% entro il 2010. Molte sono le materie prime utilizzate per la produzione di bioenergie, come i materiali lignocellulosici, i rifiuti urbani, le eccedenze agricole, nonché i residui delle coltivazioni e delle lavorazioni di aziende e industrie agroalimentari. Particolare importanza rivestono le coltivazioni delle oleaginose e dei cereali tra cui il frumento, in quanto già sperimentate e utilizzate per la produzione di energia elettrica e di biocarburanti per il riscaldamento e per l’autotrazione. Tra i diversi biocarburanti sperimentati quelli maggiormente utilizzati sono l’etanolo e il biodiesel. Il primo è utilizzabile nei motori a benzina e proviene dal processo di fermentazione alcolica dei prodotti zuccherini e amidacei come grano, mais, canna da zucchero, sorgo e patate, mentre il secondo, utilizzato nei motori diesel, deriva principalmente dalle colture oleaginose come colza, soia e girasole, e prevede sia un processo di estrazione sia uno di fluidificazione. I biocarburanti vengono già utilizzati in alcuni Paesi del Sudamerica, sia in miscela ai normali carburanti sia puri in motori precedentemente tarati; nell’Unione Europea la maggior parte dei veicoli in circolazione è in condizione di usarli senza alcun problema, purché in miscela con gli attuali carburanti. Le tecnologie industriali per la produzione di bioetanolo e biodiesel sono note già da tempo, ma il principale ostacolo alla loro diffusione sono i costi di produzione della materia prima, che con gli attuali processi in uso risultano più elevati rispetto a quelli ordinari di origine fossile. Tale divario potrà essere superato grazie agli aiuti fiscali da parte dei singoli Paesi, con interventi mirati su tutta la filiera agroenergetica, in modo da far sviluppare filiere agricole non alimentari totalmente destinate alla produzione di bioenergia, utilizzando principalmente le aree marginali o addirittura in disuso.

% di bioenergia/fabbisogno nazionale

Utilizzazione di bioenergie in alcune nazioni europee 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0

18%

17% 13%

2,5% Finlandia Svezia Austria Italia

Frumento ed energia

• Il grano può essere utilizzato come

materia prima per la produzione di energia elettrica e di biocarburanti per riscaldamento e autotrazione

• Il grano, attraverso il processo di

fermentazione alcolica degli zuccheri e dell’amido, dà origine all’etanolo, utilizzabile come carburante per i motori a benzina

275


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.