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le insalate Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Lo strumento più antico per la coltivazione delle insalate: il fuoco Gaetano Forni
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
storia e arte Lo strumento più antico per la coltivazione delle insalate: il fuoco In sintesi
Diceva un nostro grande filosofo vissuto a cavallo tra XVII e XVIII secolo, Giovambattista Vico: “Per conoscere un fatto, un processo, occorre conoscerne a fondo la genesi”. È intuitivo che la base di partenza dell’attività alimentare umana è stata la raccolta dei prodotti spontanei, scelti secondo un criterio di facilità e disponibilità di raccolta: in primis erbe, foglie, poi frutti, e per ultimi radici, tuberi, rizomi. Qualsiasi tipo di attività, di intervento umano che incrementi la produzione dei vegetali o migliori quelli commestibili rientra nell’ambito della coltivazione. Le prime attività di questo tipo sono costituite dal potenziamento e dalla riproduzione artificiale di processi naturali di cui l’uomo aveva constatato l’utilità. Così, negli ambienti aridi, o peggio desertici, l’osservazione, da parte dei raccoglitori, che presso sorgenti e fiumi le piante crescevano rigogliose ha suggerito loro l’idea di estendere l’effetto benefico dell’acqua ampliando l’area della sua diffusione sul terreno. Lo hanno notato già diversi anni fa archeologi illustri, tra cui K.J. Narr, che ha studiato i metodi adottati dai mesolitici Natufiani della Palestina per favorire la crescita dei cereali selvatici, come pure molti etnografi – seppure in riferimento a un ambito del tutto diverso, l’America precolombiana – a proposito di popolazioni raccoglitrici della California orientale e del Nevada, quali quelle di lingua utoazteca (i Paiute e i Shoshoni), che praticavano forme di protoirrigazione per aumentare la produzione di girasoli selvatici. Processi analoghi si sono rilevati a proposito degli incendi spontanei provocati dai fulmini. Essi determinano lo sviluppo di tenera vegetazione in parte commestibile (insalate) dal terreno e favoriscono lo sviluppo di freschi germogli dai tronchi e dai cespi abbrustoliti, ma ancora vivi, fornendo quindi abbondante alimento per gli umani e la selvaggina erbivora. Incendi che poi l’uomo ha cercato di provocare intenzionalmente. Anche in questo caso, si dispone di una ricca documentazione a livello preistorico ed etnografico, che verrà citata più avanti e che evidenzia come popolazioni considerate raccoglitrici (per quanto a questo riguardo in realtà non lo siano) abbiano incendiato e incendino tuttora steppe, macchie e boschi per “produrre” insalate per sé e foraggio per la selvaggina. Ciò, intendendo per “insalate” le erbe alimentari di grande consumo (escludendo quelle aromatiche, quelle da condimento ecc.), come le definiscono i principali dizionari ed enciclopedie. Si vedrà che la “coltivazione”, e quindi l’agricoltura, è iniziata con la produzione di insalate. Questo conferma che l’uomo tende a riprodurre, per così dire copiandoli, processi naturali vantaggiosi. Tra milioni di anni, il comportamento umano sarà identico? Per coerenza logica, sotto il
• Base di partenza dell’attività
alimentare dell’uomo è stata la raccolta dei prodotti vegetali scelti secondo un criterio di facilità e disponibilità di raccolta: erbe, foglie poi frutti e per ultimi radici, tuberi e rizomi
• La coltivazione ha portato a incrementi di produzione dei vegetali o al miglioramento qualitativo di quelli commestibili
• Gli incendi spontanei provocati
dai fulmini determinano lo sviluppo di tenera vegetazione in parte commestibile (insalate), così le popolazioni considerate raccoglitrici hanno poi incendiato steppe, macchie e boschi per “produrre” insalate per sé e foraggio per la selvaggina
• L’uomo tende a riprodurre,
copiandoli, i processi naturali vantaggiosi. Questa riproduzione consapevole di processi naturali vantaggiosi comporta attività embrionali di coltivazione e di allevamento, risalenti all’epoca in cui l’uomo ha conseguito una sufficiente padronanza del fuoco. Vale a dire, presumibilmente, qualche decina di migliaia di anni prima dell’inizio del Neolitico. Momento cui solitamente si attribuisce l’origine dell’agricoltura nel Vicino Oriente
• Ancora oggi i pastori, come i loro
predecessori della preistoria, danno fuoco ai boschi per estendere i prati (nei quali abbondano le erbe commestibili: le insalate) e i pascoli, segue
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insalate e il fuoco profilo etologico, si dovrebbe rispondere affermativamente, posto che le condizioni ambientali e gli esseri umani siano identici. L’unica difficoltà deriva dal fatto che l’uomo è soggetto a una duplice evoluzione: biologica e culturale. Quella culturale, come la storia dimostra, negli ultimi millenni è diventata molto rapida e si accelera progressivamente, mentre quella biologica è abbastanza statica. Ne deriva che la continuità sta nel tipo e nella struttura del comportamento, pur se condizionati dall’evoluzione del livello tecnico delle capacità umane. Quel che è praticamente certo, ai nostri fini, è che, sotto il profilo etologico, in varie regioni del globo, gli umani hanno appiccato incendi a steppe e boschi, dato che questa pratica è utile per la produzione di cibo, subito dopo la scoperta del fuoco e, a maggior ragione, da quando furono in grado non solo di conservarlo, ma anche di produrlo. Il che significa che si tratta di processi risalenti a più di un centinaio di migliaia di anni fa.
continua
a favore del proprio gregge. Già nell’antichità venivano promulgate norme per impedire che operazioni così delicate, che non di rado comportavano il rischio di estese devastazioni, si svolgessero senza alcun controllo. Attualmente la legge è molto rigorosa al riguardo, per i molteplici interessi coinvolti, ed è quindi estremamente raro che gli incendi dolosi siano provocati da pastori
Come producevano “insalate” gli aborigeni australiani Nella sua eccellente, sintetica monografia sulla paleoantropologia del popolamento australiano, pubblicata nella prestigiosa enciclopedia UTET, Vittorio Maconi sottolinea che l’Homo sapiens delle origini, con potenzialità intellettuali analoghe alle attuali, era ubiquitario nell’Eurasiafrica. Ciò avveniva tra i 25.000 e i 35.000 anni fa, quando, grazie alla successione delle epoche glaciali, si verificava un abbassamento notevole del livello marino e quindi una rilevante riduzione delle distanze tra le terre emerse che si frapponevano tra l’Asia sudorientale e l’Australia. In concomitanza con tali eventi ebbe inizio il popolamento di quest’ultima. Comunque, l’enorme distanza che separava l’Australia dagli epicentri culturali eurasiatici ha impedito un sostanziale sviluppo tecnologico delle popolazioni originarie lungo i millenni. Per questo l’economia degli aborigeni di quel subcontinente, illustrata dai primi esploratori, era mantenuto essenzialmente a un livello abbastanza prossimo, se non identico, a quello delle origini. Partendo da tale livello è facile non solo risalire a quello originario, ma soprattutto analizzare, studiare, valutare quelli immediatamente successivi. È evidente quanto questo dato sia importante, in quanto ci permette di studiare da vicino e, per così dire, toccare con mano questi eventi e situazioni primordiali. È quindi attraverso un’attenta analisi dell’economia alimentare degli aborigeni australiani, partendo dalle documentazioni offerteci dai primi esploratori per arrivare a quelle degli etnografi contemporanei, che potremo ricostruire il modo di produrre le insalate nella più antica preistoria. Circa l’economia alimentare degli aborigeni australiani, devo aggiungere, anche per motivi di gratitudine, che sono stato avvantaggiato nell’indagine dalla generosa collaborazione, negli anni ’60 del Novecento, del presidente della sezione etnografica del CNR australiano, il professor A.P. Elkin.
Foto R. Biasutti
Fotografia risalente alla prima metà del secolo scorso che documenta la rudimentale capanna di un Aborigeno australiano
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storia e arte Ma come descrivevano questo comportamento degli aborigeni australiani i primi esploratori? Sylvia Hallam scrive che uno di questi, Abel Tasman, il marinaio olandese che avrebbe poi dato il suo nome alla Tasmania, nel 1644 riferisce di aver rilevato “fuoco e fumi lungo tutta la costa (australiana)”. Un’incisione di C.A. Lesueur del 1802 illustra un’analoga visione delle coste della Tasmania. Essa è riprodotta dall’etnografo R. Jones, il quale meticolosamente documenta che gli aborigeni ancora oggi incendiano la boscaglia durante la stagione secca. In tal modo vengono eliminate tutta la vegetazione non resistente al fuoco e le spoglie morte come cortecce e rami, mentre gli alberi, gli eucalipti, si abbrustoliscono soltanto. Infatti questi subito dopo, e più efficacemente durante la stagione delle piogge, emettono nuove foglie e germogli. Analogamente, poiché l’incendio divampa rapidamente e in breve tempo si estingue, i semi delle erbe annuali sfuggono alla combustione e le radici di quelle poliennali non vengono danneggiate, cosicché, dopo le piogge, come gli eucalipti, rigermogliano, mentre i semi delle erbe annuali germinano: tra queste, anche quelle dotate di foglie commestibili, tenere, di gusto gradevole, che noi chiamiamo insalate. Con il passare del tempo si sono formati anche estesi pascoli in cui predominano le Poacee e proliferano gli animali erbivori, i canguri in particolare. È presumibile che tali radure si siano costituite anche dove la vegetazione originaria non era composta da piante adattate al fuoco, per esempio quella in cui predominava il sottogenere Nothofagus. Quindi gli aborigeni, dopo le piogge, su queste aree in cui, dopo l’incendio, si sviluppava una florida
Foto P. Viggiani
Spighe di grano selvatico. Nei fondovalle e negli altopiani a macchia steppica del Vicino Oriente, accanto a erbe mangerecce (insalate) si sviluppano anche frumento e orzo selvatici Anatolia sudorientale, nell’ambito della Mezzaluna Fertile: prateria steppica frammista a cespugli di specie di Quercus aridofile
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insalate e il fuoco vegetazione, molto appetibile anche per la selvaggina erbivora, potevano cacciare e catturare animali, con facilità e in abbondanza. Sia R. Jones sia S. Hallam ritengono che questa simbiosi tra uomo, erba, eucalipti e canguri, basata sugli incendi periodici, risalga ad almeno trentamila anni fa; epoca che secondo Vittorio Maconi, oltre ai succitati autori, le datazioni al radiocarbonio indicano come quella dell’arrivo dell’uomo in Australia. Non bisogna concludere che detta simbiosi sia frutto di una geniale trovata delle prime genti immigrate: senza dubbio, a parte la presenza umana, essa era già in parte preesistente in quel subcontinente, come sottolinea un altro paleontologo, il Goudsblom, per la presenza degli incendi spontanei, provocati dai fulmini o dall’autocombustione. L’uomo non ha fatto altro che inserirsi in questa situazione, potenziando e accentuando, e poi riproducendo artificialmente, il processo naturale. Una realtà analoga a quella australiana si è verificata ovviamente, ha scritto il mio grande maestro J. Harlan, negli altipiani del Vicino Oriente, oltre che in America. I primi pionieri europei in questo continente trovarono nel New England un paesaggio a parco: alberi molto radi su prati pressoché privi di sottobosco, o addirittura praterie sterminate abitate da mandrie di bufali; paesaggio dovuto alla pratica degli Indiani di appiccare il fuoco due volte all’anno, per aumentare la produzione non solo di insalate e altre erbe alimentari, ma anche del foraggio allo scopo di incrementare la popolazione bufalina. Dopotutto i moderni cowboys non fanno altro che continuare ad applicare questa tecnica di allevamento brado estensivo, sostituendo ai bisonti i bovini.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Dall’ignicoltivazione dell’insalata senza semina nel Paleolitico a quella con semina nel Neolitico A questo punto possiamo trarre una prima fondamentale conclusione: il fuoco, da strumento naturale, spontaneo, di sviluppo dei vegetali, in particolare di quelli erbacei (insalate), è diventato strumento artificiale, cioè incendio provocato appositamente dall’uomo per ottenere i medesimi effetti. Chiamiamo questo modo antichissimo (è il più antico) di coltivazione ignicoltivazione o, più brevemente, ignicoltura (dal latino ignis, fuoco). La mancata omologazione della preistoria recente dei popoli prelitterati con quella dei popoli letterati ha sempre creato distinzioni parzialmente false e generato una scarsa chiarezza concettuale, in particolare a proposito dell’origine ed evoluzione della coltivazione. È il caso, per esempio, della distinzione tra il semplice bruciare e il bruciare seguito dal seminare; sono entrambe operazioni d’ignicoltura, e quindi di coltivazione con il fuoco, ma la prima consiste semplicemente nel dare fuoco a una determinata area di bosco o boscaglia, al fine di produrre insalate, che crescono poi spontaneamente, per l’uomo e foraggio per gli animali erbivori.
Romice (in alto) e Sonchus oleraceus sono alcune delle erbe spontanee mangerecce che crescono nei prati e che talora infestano gli orti
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storia e arte L’equivalente francese è il termine brûlis, mentre in italiano la pratica dovrebbe corrispondere grosso modo all’abbruciare (e quindi, con l’aggettivo sostantivato, ad [area] abbruciata) del classico dizionario agricolo cinqucentesco di Camillo Tarello, da lui intitolato Ricordo di agricoltura (Venezia, 1567). Invece, nel secondo tipo di coltivazione, innanzitutto il bruciare è accompagnato spesso dal taglio della vegetazione arborea, per una sua più completa eliminazione. Per usare termini tecnici internazionali, si tratta del generico swiddening, detto anche, con maggior precisione, slash and burn, ossia “taglia e brucia”: due operazioni cui segue la semina, preceduta da una lavorazione almeno rudimentale per omogeneizzare il suolo, effettuata con erpici. Distinzione profondissima e netta, non solo sul piano tecnologico (la prima si limita a incendiare, la seconda aggiunge il seminare), ma soprattutto temporale. L’abbruciata ha il suo polo d’origine nella preistoria più lontana, nel Paleolitico, la tecnica slash and burn nella preistoria più recente e nella storia. Cronologicamente infatti si connette con l’epoca degli strumenti da taglio, inizialmente di pietra, e quindi sostanzialmente prende origine nel Neolitico. Ma le motivazioni più significative per spiegare questo quadro concettualmente confuso sono state espresse da Guilaine. Questo autore, nelle prime righe dell’introduzione al volume collettaneo Pour une archéologie agraire, ha sottolineato il fatto che la forma mentis degli archeologi, essendosi foggiata sull’archeologia del “sito”, del “costruito” (capanna, tomba, ponte ecc.), stenta ad affrontare le difficoltà peraltro reali di un’archeologia di tipo territoriale, fuori del “sito”, come quella dell’agricoltura. Le considerazioni di Guilaine sono tanto più valide per l’ambito italiano, ove da sempre si tende a identificare l’archeologia (anche preistorica) con l’arte. Torniamo all’abbruciare preistorico, vale a dire alla coltivazione embrionale delle insalate. Sauer, Jones, Hallam e, soprattutto, Harlan evidenziano che questo tipo di attività, di economia, si è protratto per decine e, più verosimilmente, per centinaia di migliaia di anni, ancor prima del Neolitico, e prescindeva, come si è detto, dalla semina e dalla lavorazione del terreno. Ci si limitava, bruciando la boscaglia, a creare radure in cui i cespi delle erbe spontanee poliennali commestibili (insalate) e le insalate annuali, come pure i cereali selvatici spontanei, dopo le prime piogge, si riproducevano e si moltiplicavano in abbondanza. Qui occorre aggiungere che l’ignicoltura senza semina è compatibile solo con particolari situazioni: d’ambiente innanzitutto, per esempio aree ove non solo insalate e cereali crescono spontanei, quindi in climi adatti, ma la densità della popolazione umana è minima. Situazioni che si protrassero, come si è detto, anche per decine o addirittura centinaia di millenni e che, come ha sottolineato Harlan, si verificarono quasi esclusivamente nella preistoria. Questo avvenne per motivi diversi: oltre all’incremento demografico, alle variazioni climatiche, al progresso tecnico (si è ormai nel Neolitico, caratterizzato dalla pietra levigata), si verifica lo sbocco
L’ignicoltura nella tradizione europea: dipinto di Magnus von Weight (1883) conservato al National Museum of Finnland di Helsinki
L’ignicoltura nelle Alpi orientali austriache. Anche sulle Alpi Trentine, per esempio in Val di Sole, l’ignicoltura era praticata sino all’inizio del Novecento. Il conte Filippo Re, nobiluomo emiliano vissuto tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, documenta come l’ignicoltura fosse allora estesamente praticata su tutto l’Appennino settentrionale
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insalate e il fuoco in un’orticoltura in cui l’incendio è ancora la fase di partenza della coltivazione, e quindi si rimane pur sempre nell’ambito dell’ignicoltura, ma il terreno disboscato viene, almeno in forma rudimentale, lavorato alla zappa (e più tardi all’aratro) e poi seminato. Come si è visto, questo tipo di agricoltura è chiamato a livello internazionale slash and burn (taglia e brucia) o swidden (radurare), anche perché i Paesi dell’Europa settentrionale e centrale e del versante settentrionale delle Alpi, dove sono ubicate le università presso le quali in prevalenza sono state teorizzate l’archeologia, l’etnografia, le scienze preistoriche a impostazione moderna, sono prossime ai territori in cui l’agricoltura basata sul taglia e brucia è stata praticata sino a epoca recente: Paesi a clima fresco e umido in cui per disboscare era necessario, appunto per via dell’umidità, tagliare le fronde e lasciarle essiccare per poterle bruciare. Questa operazione invece non è necessaria nei Paesi aridi o semiaridi, come per esempio molti di quelli mediterranei. Nel Neolitico, il taglio veniva effettuato anche nell’Europa centrale e settentriona-
Ciclomorfi e fratte
• I ciclomorfi sono cerchi concentrici,
spesso incavati (in tal caso sono chiamati anche coppelle), talora raggiati, talora suddivisi in settori, che rappresentano un simbolo della fertilità. Possono riprodurre in forma più o meno stilizzata gli organi riproduttivi femminili, ma anche il sole, la polla d’acqua delle sorgenti, il falò (visto dall’alto), cioè il fuoco che, dopo l’incendio, fa crescere erbe commestibili (insalate) e virgulti nelle steppe e nelle boscaglie. Tali simboli sono diffusi dal Sahara alla Svezia. Dato il loro significato universale, compaiono nei molti contesti diversi
• Le fratte sono appezzamenti di
terreno boschivo di proprietà comune, disboscati con il fuoco, sui quali dopo l’incendio si sviluppavano molte erbe commestibili. Tali appezzamenti in epoche più recenti venivano coltivati. Le fratte venivano praticate periodicamente intercalando periodi di riposo, durante i quali avveniva il rimboschimento temporaneo. La mappa rappresentata nel punto f della figura a lato, risalente, secondo la datazione del Centro Camuno di Studi Preistorici, all’epoca di passaggio Bronzo-Ferro (1000 a.C. circa), rappresenta presumibilmente un paesaggio a fratte, di cui la più grande (quella punteggiata) è in fase di lavorazione. L’agricoltura delle fratte, allora predominante, era basata sull’assegnazione temporanea delle fratte, per sorteggio
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d
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Ciclomorfi e fratte: a), b) ciclomorfi rispettivamente delle Alpi centrali e occidentali; c) coppelle nelle incisioni rupestri scandinave; d), e) coppelle nelle incisioni rupestri galiziane; f) paesaggio a fratte in un’incisione rupestre della Valcamonica
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storia e arte
Erpice-rastro e ramo-erpice
• L’erpice-rastro a mano veniva utilizzato
a
in Svezia per interrare le sementi di insalate, cereali ecc. nei terreni combusti dal fuoco
• Il ramo-erpice in cima di abete si è
b
conservato in uso nell’Europa orientale fino alla rivoluzione industriale, ma in precedenza veniva impiegato anche nell’Europa centrale, come documentano i fossili linguistici antico-germanici: suoha, hoha, oltre all’antico slavo socha, ramo. Suoha e hoha infatti corrispondono al latino occa, erpice (da D.K. Zelenin, K. Moszinski, 1929, secondo R.E.F. Smith, 1959)
c
Erpici tradizionali in tutto legno, a traino animale, impiegati sino all’inizio del secolo scorso nell’area finno-scandinava e russo settentrionale: a) ramo-erpice, costituito da una cima di abete; b) ramo-erpice semplice, ottenuto da una cima di conifera; c) ramo-erpice composto, ottenuto combinando diverse cime di conifere
le, con accette di selce, ma è probabile che fosse spesso limitato all’incisione della corteccia, per impedire il flusso della linfa e provocare il conseguente disseccamento della fronda, che in tal modo diventava più facilmente incendiabile. Tale pratica è documentata già in Palladio (De re rustica, XII, 15) e ampiamente in diversi paleoagronomi quali E. Sereni e A. Steensberg. Sovente poi si seminava e si coltivava tra gli alberi disseccati e non abbattuti. Di queste fasi arcaiche di coltivazione con il fuoco permangono relitti glottologici di estrema importanza. Occorre infatti ricordare che addirittura i nomi di due grandi Paesi europei, Svizzera e Svezia, costituiscono il documento linguistico fossile dell’impiego del fuoco per radurare boschi, boscaglie, brughiere, ginestreti, ericeti, al fine di produrre, in modo temporaneo, solitamente periodico, dal Mesolitico-Neolitico, innanzitutto insalate o foraggio per gli anima-
Erpici-rastro rudimentali in tutto legno, impiegati tradizionalmente nell’area finno-scandinava e russo settentrionale
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insalate e il fuoco
Protoerpice
• Attrezzo principe dell’ignicoltura è il
a
ramo-erpice (twig-harrow), noto anche come protoerpice. Le tradizioni ignicole per la produzione di erbe commestibili (insalate), foraggio, la coltivazione di cereali ecc., si sono conservate in ambito finno-scandinavo, russo settentrionale e alpino sino all’inizio del Novecento. Protoerpici a mano venivano utilizzati nell’ignicoltura tradizionale delle fratte (swidden plots) in Finlandia, per spianare il terreno dopo l’incendio, come pure per interrare le sementi
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• In ambito sumerico (IV millennio a.C.)
si impiegavano protoerpici a rastrello (rastri) dopo l’incendio di sterpi e stoppie: l’attrezzo viene sempre rappresentato orizzontale, per indicare l’operazione di “va e vieni”, quindi di spinta e trazione; viceversa gli operatori non sono mai rappresentati in posizione eretta, con l’attrezzo alzato in aria, come sarebbe necessario per la percussione. Queste preziose documentazioni, rappresentanti l’operazione di rastratura, sono incise su sigilli di terracotta provenienti dall’area di Uruk e dalle regioni circumvicine
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e
Il protoerpice in chiave etnoarcheologica: a) dal ramo al proto-erpice, nelle Alpi orientali; b) protoerpici a mano utilizzati in Finlandia; c) protoerpici a rastrello (rastri) in ambito sumerico (3000 a.C. circa); d) erpici/rastro dell’età del Ferro incisi su roccia in Valtellina; e) rastri tradizionali usati nell’ignicoltura finnoscandinava
li, e poi, via via, con la lavorazione rudimentale del suolo, seminare e raccogliere cereali rustici (segale, farro, panico ecc.). Schweiz (Svizzera) e Schweden (Svezia) sono infatti i nomi che, semanticamente, corrispondono alla parola italiana fratta, derivata dal latino frango, cioè bosco “rotto”, “fratto” con il fuoco, per potervi praticare le coltivazioni temporanee, periodiche, di tipo ignicolo cui si è già accennato. Ciò è confermato dalla definizione di swidden data da Izikovitz, che ha introdotto questo termine in ambito accademico: “coltivazione di un appezzamento disboscato con il fuoco”. 33
storia e arte Storici, linguisti, paleoagronomi, quali Schneiter e Sigaut, oltre ad altri specialisti (etnografi, paleobotanici ecc.) hanno infatti posto in evidenza la derivazione del nome “Svizzera” (in tedesco Schwiz, Schweiz) dal gotico svith, poi suedan e Schwenden. Allo stesso modo “Svezia” (Schweden) deriva da svedja, termine a sua volta apparentato con il dialettale schwenden, e l’antico anglosassone swidden. Ovviamente, mentre gli uomini degli altipiani steppici circummesopotamici, durante la preistoria, praticavano gli incendi su grandi spazi, lo swiddening in Europa era effettuato anche su appezzamenti più circoscritti, ma le foto e i dipinti pubblicati da Steen sberg, relativi all’ambito scandinavo e a quello alpino, offrono l’impressione di estensioni senza limiti apparenti. Trattandosi di disboscamenti con il fuoco, spesso seguiti da semine, ovviamente erano necessari attrezzi tipo erpice (paraerpici, erpicoidi ecc.) per pareggiare il terreno. Steensberg li chiama twig-harrows, cioè “ramo-erpici”, “erpici-bastone”. Nei miei scritti sull’argomento li ho indicati anche con il termine di “proto-erpici”. Riferendosi in particolare alla documentazione alpino-stiriana, Steensberg aggiunge che è “affascinante l’immensa varietà di modelli di questi proto-erpici”. È opportuno precisare che necessariamente anche le genti preistoriche del Vicino Oriente che praticavano questa ignierpicecoltura (con semina), studiata in modo pionieristico e geniale da Lewis, dovevano usare questi proto-erpici. Dato che ovviamente erano di legno e il legno non si conserva nei climi aridi, ciò è bastato perché alcuni studiosi di preistoria, in genere avversi all’applicazione dei principi dell’etnoarcheologia, negassero l’esistenza sia di questi strumenti, sia di questa forma di economia di base nel Mesolitico-Neolitico del Vicino Oriente e non tenessero in alcun conto l’opera di Lewis, accusandola di mancanza o scarsità di documentazione. La Boserup, nella sua classica opera, scrive che il massimo di produttività per ora di lavoro impiegata nella messa a coltura si ottiene con il “taglia e brucia”. Bisogna tener presente infatti che l’incendio dell’appezzamento è un’operazione relativamente rapida, elimina preventivamente le erbe infestanti e utilizza l’accumulo di fertilità (residui di humus, oltre alle ceneri di quello combusto) di più di un decennio di bosco. L’agricoltura delle epoche neolitica, del rame e del bronzo dei trattati di preistoria, con la sua espansione, cui fanno riferimento Cavalli Sforza e collaboratori (in particolare Ammermann, ma anche, basandosi su schemi diversi di trasmissione culturale, Alinei) è ancorata a questo tipo di coltivazione.
Dal fuoco la Svezia e la Svizzera
• Da un sondaggio condotto
tra gente colta, in ambito universitario, quasi nessuno sapeva che il nome della Svezia (Schweden) deriva da schwenden, termine che, nell’antico nordico, significa “radura erbosa ottenuta disboscando con il fuoco”. Nella tradizione scandinava, che risale alla preistoria paleolitica, si incendiava il bosco, dopo aver inciso con pietre taglienti un anello circolare della corteccia. L’interruzione della circolazione della linfa provocava un disseccamento della fronda, che così poteva essere attaccata dal fuoco. Nei climi più secchi del Mediterraneo questa operazione era superflua
• Anche il nome
della Svizzera ha un’origine analoga a quella della Svezia: Schweiz (Svizzera) deriva infatti il suo nome da Schwyz, il nome di una delle tre regioni che nel 1291 si ribellarono all’imperatore d’Austria. Anche Schwyz deriva dal nome delle radure erbose chiamate in antico tedesco (gotico) Svith. Evidentemente queste radure erano molto diffuse in quella regione, per cui essa venne indicata come “regione delle schwytz” e poi semplicemente appunto Schwyz
Conclusioni: il fuoco strumento e matrice della vegetocoltura Il processo di genesi della coltivazione delle insalate, per la natura stessa di tutti i processi di genesi, è inevitabilmente polivalente: ciò significa che quando si impiega il fuoco come unico strumen34
insalate e il fuoco to di coltivazione e all’incendio non si fa seguire la semina – come (sottolinea Harlan) si è continuato a fare per molte decine di millenni, prima che si sviluppasse un’agricoltura nel senso completo del termine –, le erbe che si sviluppano spontaneamente dopo le piogge sono miste: insalate, cereali selvatici, erbe da foraggio ecc. Quindi orticoltura, cerealicoltura, foraggicoltura insieme. Non si tratta di una semplice attività di raccolta, perché questa prescinde da ogni altra operazione che abbia per fine l’incentivazione della produzione, mentre qui si incendia per produrre, per sviluppare diversi tipi di vegetali. L’incendio è un modo, un mezzo tecnico per coltivare. Il fuoco è quindi lo strumento impiegato per una vegetocoltura, neologismo di origine anglosassone con cui si indica una coltivazione mista. Bisogna però tener presente che i cereali selvatici come frumento e orzo sono presenti solo in alcune aree del Vicino Oriente, mentre le erbe commestibili di grande consumo, come le insalate (anche se non sempre si tratta della nostra cicoria o del tarassaco) sono presenti ovunque o quasi dove si è praticato in passato e talora si continua tuttora a praticare questo tipo di ignicoltura. Di conseguenza, è corretto sottolineare che la coltivazione dell’insalata è stata la prima delle coltivazioni e che il fuoco è stato il primo strumento coltivatorio. Certamente l’uomo primitivo, prima di possedere la capacità di conservare e poi di accendere il fuoco, e quindi servirsene per la coltivazione, era raccoglitore, in quanto raccoglieva insalate selvatiche nei prati e nella boscaglia. È una pratica che si è conservata sino a oggi, come è stato evidenziato nel volume di questa collana Uva da tavola. Con l’acquisizione della padronanza del fuoco, dalla raccolta delle insalate si è passati alla loro produzione mediante la coltivazione.
Incendio doloso in un lecceto della Basilicata
Fuoco, prati e insalate
• A proposito degli incendi estivi che
riempiono le pagine dei quotidiani, quasi mai si riferisce che, in qualche caso, si tratta di relitti di pratiche antichissime, risalenti nientemeno che al Paleolitico, alcune decine di millenni or sono. Allora si incendiavano i boschi perché le erbe tenere che germinavano dopo l’incendio, i germogli dei cespugli, attiravano frotte di animali erbivori: caprovini, cervi e così via, a seconda delle regioni, in tal modo facilmente catturabili. Alcune di queste erbe, le “insalate”, erano appetibili anche per l’uomo. Attualmente invece sono pastori che vogliono estendere le aree di pascolo per i loro greggi
Guardia forestale impegnata nel tentativo di estinguere un incendio. (Per gentile concessione del Corpo Forestale dello Stato, Ufficio Stampa, Centro Audiovisivo, Potenza)
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le insalate Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Insalate nella storia Renzo Pellati
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storia e arte Insalate nella storia L’uomo moderno (Homo sapiens) ha solo quarantamila anni di storia. In questo spazio di tempo, breve se confrontato con i periodi precedenti, l’uomo è stato il protagonista, soggetto e oggetto nello stesso tempo, di rivoluzioni, di cambiamenti radicali nel modo di vivere, che hanno messo a dura prova le sue capacità biologiche di adattamento. La grande rivoluzione nella storia dell’alimentazione ha avuto inizio diecimila anni fa con l’introduzione dell’agricoltura che, trasformando l’uomo da cacciatore e raccoglitore di prodotti vegetali spontanei in coltivatore e allevatore di animali, ha significato la fine del mondo paleolitico. In pieno Paleolitico l’uomo era soprattutto un grande cacciatore e la sua alimentazione, grazie alla ricchezza della fauna, allo sviluppo degli strumenti per la caccia e alla scarsa densità degli insediamenti, risultava ricca di carne, che forniva più del 60% dell’apporto calorico della dieta. Verso la fine del Paleolitico, a causa di alcuni cambiamenti climatici, dell’aumento della popolazione e della distruzione eccessiva della fauna, la quota di carne nell’alimentazione si ridusse parzialmente, mentre aumentò il consumo di vegetali spontanei, del pesce e dei molluschi. Gli ortaggi più importanti per gli uomini preistorici furono probabilmente le radici e le zucche, che erano protette dal suolo e da bucce resistenti. Con il sorgere dell’agricoltura il modello alimentare venne completamente capovolto: in pochi millenni la quantità della carne nella
Colore verde dell’insalata
• Quando si vuole indicare l’insalata
a foglie di solito si usa l’aggettivo “verde”, dal latino viridis, collegabile al verbo vivere, che significa “essere vigoroso, giovanile, vitale”. Anche il termine “verdura” deriva da “verde”. Tale precisazione è dovuta al fatto che il verde simboleggia il rinnovamento annuale della natura, la speranza, la freschezza, la longevità. È anche il colore delle piante, del “sangue vegetale”, la clorofilla, simbolo della vita naturale
• Forse per queste associazioni positive il verde è stato scelto da alcuni personaggi importanti. Amedeo VI di Savoia fu chiamato il Conte Verde, perché aveva scelto questo colore come segno distintivo non solo per gli abiti e le bardature dei cavalli, ma anche per le tappezzerie delle camere e le tende del campo
• In Francia Enrico IV fu detto il Vert
galant non solo perché iniziò ad alternare le solite abbuffate di carne con verdure (farciva tutto con aglio, con scarsi benefici per le dame con le quali si dimostrava galante). Infatti nutriva una vera passione per le scienze botaniche: aiutò giovani studenti e scienziati che si dedicavano alle scienze naturali, oltre ad aver fondato il Giardino botanico di Marsiglia
• Anche Luigi XIV imponeva a La
Quintinie, sovrintendente alle serre di Versailles, verdure di ogni genere per arricchire i menu di corte, pur essendo completamente all’oscuro delle vitamine, degli oligoelementi Cena in Emmaus, dipinto di scuola di Michelangelo Merisi da Caravaggio, Vienna, Kunsthistorisches Museum (© Bridgeman Art Library/Archivi Alinari Kunsthistorisches Museum, Vienna). L’insalata verde simboleggia la misericordia di Cristo
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insalate nella storia dieta si ridusse, mentre crebbero i consumi di alimenti vegetali coltivati che costituivano gran parte dell’apporto calorico, grazie soprattutto ai cereali. In Egitto, la conoscenza della fermentazione e lo sviluppo di vari tipi di cereali, oltre al grano, portarono alla scoperta del pane lievitato, che costituì un evento di fondamentale importanza per la nutrizione umana. Pane, birra, cipolle, porri, zucche, fave, datteri, fichi, uva formarono probabilmente la dieta base dei contadini nell’Egitto dinastico. Tra i residui rinvenuti in una tomba datata all’inizio del III millennio a.C. c’erano preparazioni a base di orzo (forse polente), quaglie, piccioni, pesci, carne bovina con ossa, pane di frumento, formaggio, vino e birra: cibi in quantità sufficiente per nutrire il defunto finché non avesse raggiunto “l’altro mondo”. Accanto ai cereali l’ulivo fu la prima grande pianta coltivata che servì a supplire alla scarsità di grassi animali e i Greci svolsero un ruolo chiave nel diffondere questo frutto nell’intera area mediterranea. Da alcune fonti (Giamblico, filosofo del IV secolo d.C.) risulta che il vitto degli antichi Greci era a base di polenta d’orzo, verdure cotte e crude, pesce salato, legumi, latte di capra, vino. La carne (montone, bue, lepre, pecora, capretto, uccelli) si trovava soltanto sulle tavole dei ricchi. L’impiego di altri vegetali diversi dai cereali rappresentò sempre un componente minore della dieta dei popoli dell’Antichità e i prodotti dell’orto servivano più che altro per soddisfare la fame dei diseredati e a rendere il menu meno monotono.
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e degli antiossidanti che questi prodotti della terra potevano offrire. Per dare un’idea dell’importanza dei prodotti dell’orto vale la pena ricordare che tra gli omaggi fatti da Luigi XIV al doge di Venezia e agli ambasciatori del Siam vi furono insalate, cavoli, fragole e pesche dell’orto di Versailles
• Nel capitolo dedicato al simbolismo
delle verdure del volume Il segreto dei cibi leggiamo: “Nella tradizione islamica il verde è il colore della salvezza materiale e spirituale, della saggezza e dei profeti. Nella tradizione cristiana il verde è il colore della mediazione tra il rosso del fuoco infernale e il blu del cielo, il traitd’union tra il mondo infero e quello celestiale. L’imperatore cinese Kuan era sempre vestito di verde. Cibele, la dea romana che personificava la terra, indossava abiti variopinti di cui il verde era il colore dominante. Il verde, in combinazione con il leone verde, il drago verde, indicava in Alchimia alcuni solventi capaci di liberare l’oro. Sempre presso gli alchimisti e gli occultisti riveste un ruolo importante la luce verde che si rinviene in natura nella combustione di diverse sostanze chimiche e come fenomeno luminoso estremamente raro da osservare al tramonto o al sorgere del sole”
Insalata dei Romani Maggiori notizie abbiamo sull’alimentazione nell’antica Roma, dato che disponiamo di numerosi scritti e reperti archeologici. Secondo questi documenti sarebbero stati i Romani a insegnare agli Etruschi l’utilizzo dei prodotti dell’orto. Infatti questi antichi progenitori, arrivati dall’Est, basavano la loro alimentazione quasi esclusivamente sulla carne e sui cereali e solo in seguito iniziarono a cibarsi di verdure e legumi, secondo l’uso dei Romani. Un procedimento inverso si verificò in Grecia dove, dopo l’arrivo dei Romani, prevalse il consumo di carne sulle verdure, fino ad allora di notevole utilizzo in cucina. Marco Gavio Apicio, per esempio, ci ha lasciato un ricettario della cucina imperiale romana (De re coquinaria) con un intero capitolo dedicato agli ortaggi e le sue ricette sono improntate al gusto dei Romani per i sapori forti, decisi, speziati e piccanti. Ecco perché l’autore suddetto dà un certo risalto a cime di rapa, cavoli, porri, cicoria, ortiche, cetrioli e cipolle. In genere le verdure venivano gustate solo a fine pasto (costituivano il cosiddetto “terzo servizio”) per ridar vigore all’appetito esausto con lattughe di Persia, cicorie, ruchette, germogli di vario genere, insaporiti con condimenti eccitanti e non sempre innocui, per provocare in alcuni casi anche il vomito, cui facevano ricorso i commensali particolarmente ingordi. 37
storia e arte Virgilio cita il moretum, una specie di torta rustica con un ripieno di ruta, santoreggia, coriandolo, sedano, porro, foglie di lattuga, rucola, menta, tutto pestato nel mortaio insieme a formaggio fresco. Ancora oggi nei pressi di Mantova, Modena, Reggio Emilia (più o meno nei luoghi in cui Virgilio nacque e trascorse la sua giovinezza) si gusta una torta rustica analoga chiamata “erbazzone” o “scarpazzone”. In Plinio si legge: “Tra i prodotti dell’orto piacciono soprattutto le verdure che non richiedono cottura e fanno quindi risparmiare legna, poiché sono un cibo sempre pronto e disponibile, da cui deriva il loro nome di ‘ëacetaria’”. Le verdure venivano anche innaffiate con garum e olio, arricchite di cumino e bacche di lentischio. Gli antichi Romani apprezzavano soprattutto la lattuga, di cui ancora oggi esiste una varietà detta “romana” con foglie allungate più o meno lisce (dette anche Bionda degli ortolani e Verde d’inverno). Alle sostanze lattiginose presenti nel cespo, a cui tra l’altro la pianta erbacea deve il suo nome (in latino lactuca), attribuivano virtù terapeutiche. Quando una legione impiantava il castrum, ossia l’accampamento militare fortificato, si prevedeva di integrare il rancio con l’insalata “di casa” e i soldati si davano da fare per coltivarla. Ancora oggi in Gran Bretagna si cerca di individuare gli antichi insediamenti romani vedendo se nei greens ci sono piante di lattuga inselvatichita. I patrizi dell’impero, in contrasto con l’austerità dei padri, divennero divoratori di specie animali pregiate, soprattutto uccelli e pesci d’allevamento, e questo orientamento contribuì a disperdere un patrimonio alimentare vegetale composto (secondo quanto scrive André in L’alimentation e la cuisine à Rome) da oltre duecento qualità di erbe commestibili, di cui non sappiamo più niente (della sola lattuga si conoscevano 12 specie, provenienti per esempio da Cappadocia, Cilicia, Cipro e Cadice).
Etimologia della parola “orto”
• Il termine “orto” può derivare sia dal
latino hortus sia dalla radice celtica ghorto-; in greco chortos significa un luogo recintato con animali e letamaio
• Dalla parola “orto” deriva “ortolano”,
con cui gli antichi Romani indicavano i prodotti dell’orto, mentre noi usiamo questo sostantivo per indicare chi coltiva l’orto. Apicio infatti chiama porcellus hortulanus il maialino da latte cucinato con le erbe dell’orto. Chi coltivava l’orto, o vendeva i prodotti dell’orto, veniva chiamato olitor, termine che deriva da olere, profumare, dato che caratteristica degli ortaggi è proprio di emanare aromi
• Dal termine gard, che nella lingua
germanica antica significava “recinzione, cintura”, derivano il francese jardin e il tedesco Garten. In ladino viene utilizzato il termine Werzon
• A Milano gli ortolani avevano il loro
mercato al “Verziere” e i verzeratt erano i grossisti che avevano il posteggio al Verzè o Verzee: qui i milanesi trovavano ogni tipo di erbe: primizie, varietà tardive, odorose, officinali. A Milano, via Verziere esiste tuttora nella parte antica della città. La Piazza delle erbe ricorre in molte città italiane
Orto nel Medioevo e nel Rinascimento Le invasioni barbariche portarono fame e carestia: si mangiava soltanto ciò che cresceva nei villaggi. L’orto contadino costituì una realtà economica importante diffusa capillarmente. Poteva definirsi un “ambiente integrato” con l’abitazione e le sue pertinenze; spesso era recintato, circondato da siepi, quindi chiuso e privato. L’eventuale sua violazione presso i Longobardi comportava una pena pecuniaria: l’editto di Rotari, leges Longobardorum, del 643, prevedeva il pagamento di 6 soldi a carico di chi fosse entrato nell’orto di un altro per rubare. L’orto permetteva di raccogliere gli ortaggi poco prima di cucinarli evitando la conservazione e gli sprechi: veniva prelevata di volta in volta solo la quantità di verdure sufficiente per il pasto della giornata. Il padrone del terreno inoltre non richiedeva monete so-
• Nell’Italia centrale si usava
l’espressione “foie mestiche” per indicare le erbe miste (cicoria, bietola e quant’altro disponibile nell’orto). Le “foie cotte” ovviamente sono le erbe miste scottate in acqua. “Misticanza” è inoltre sinonimo di insalata mista
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insalate nella storia nanti per l’affitto. La vendita di verdure da parte di ambulanti era limitata a pochi rioni dei grandi agglomerati urbani e fatta oggetto di continue gabelle. Con tali limitazioni al popolo minuto era possibile solo la raccolta di erbe spontanee nei campi, fuori dalle mura: di qui il termine affibbiato ai napoletani di “mangia foglie”, sinonimo di condizione misera e di precarietà. Il simbolo alimentare del potere era la carne. A Roma sopravvivono molte denominazioni che ricordano gli orti della città: via degli Ortaggi, via degli Orti di Alibert, via degli Orti di Cesare, via degli Orti di Trastevere, contrada dell’Ortaccio. Gli ortolani erano riuniti in una confraternita che aveva la sua sede nella chiesa di Trastevere, Santa Maria dell’Orto, presso le sponde del Tevere che erano coltivate a orti. La produzione dell’orto era sempre legata al concetto di fertilità: bisognava compiere una serie di riti, preoccupandosi di seguire la luna e il calendario. Il Carnevale rappresentava la nascita del nuovo anno e il risveglio della fertilità della terra; in questo periodo avevano inizio i lavori agrari propiziatori per una buona annata. Le ricorrenze di alcuni santi e il Venerdì Santo coincidevano sempre con una certa fase lunare, che rappresentava una visione rituale del tempo: la Settimana Santa non era solo una ricorrenza sacra, ma il periodo ideale per seminare, quello con la luna migliore. A occuparsi dell’orto erano le donne, che si servivano di arnesi tipicamente femminili (forbici e coltelli), mentre il sistema classico per raccogliere le foglie dell’insalata e gli ortaggi era quello di racchiudere tutto nel grembiule. Gli interventi maschili consistevano nel realizzare la recinzione dell’orto, intervenire con la zappa per facilitare i passaggi, cacciar via i rospi, eliminare le erbacce infestanti, mettere le canne per le verdure rampicanti (fagioli). Queste attività manuali durarono secoli e si può dire che sopravvissero fino alle restrizioni imposte dall’autarchia: era diventata famosa la canzone di Maramao “pan e vin non ti mancava, l’insalata era nell’orto e una casa avevi tu”. Nel volume La cucina del Piemonte di Felice Cunsolo si legge: “Giovanni Giolitti si riposava dalle fatiche del Governo coltivando un orto che aveva nel paese di Cavour (provincia di Torino). Dell’insalata raccolta, una parte la tratteneva per uso di casa, il resto la mandava in regalo agli amici. Questa insalata divenne celebre il giorno in cui un poeta, aspirante al cavalierato, le dedicò i versi seguenti: L’insalata del Presidente, è gradita immensamente, oh se a qualche fogliolina si attaccasse una crocettina!”. Nel periodo medievale molto importanti furono le comunità conventuali che avevano piccoli (o grandi) orti, dove i fratelli coltivavano piante utili alla salute. Gli orti botanici si chiamavano “giardini dei semplici”, dove i semplici erano i medicamenti che venivano estratti dalle piante (medicamentum simplex), espressione dell’empirismo di una medicina popolare.
Scene di vita di un borgo tardo-medievale: La bottega dell’ortolano, Castello di Issogne, Valle d’Aosta (© Archivio Scala, Firenze - per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
Taraxacum officinale (tarassaco) nel Rinascimento era un componente dell’insalata mista
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storia e arte Il primo giardino di questo tipo che costituì la base per la creazione di un vero e proprio corso universitario nacque a Padova, grazie a Francesco Bonafede, che nel 1533 maturò l’idea di dare una valenza scientifica agli orti delle piante curative; il 7 luglio 1545 fu stilato il contratto d’affitto del terreno, che era di proprietà dei monaci benedettini di Santa Giustina. Il 31 luglio dello stesso anno, per decreto del Senato Veneto, nasceva il primo “orto dei semplici”, a uso dell’università. Cesare Bisantis (Accademia Italiana della Cucina) scrive nel quaderno La cucina dell’orto: “Nel 1997 l’Unesco giudica l’orto di Padova Patrimonio mondiale dell’umanità con la seguente motivazione: il giardino botanico di Padova è all’origine di tutti i giardini botanici del mondo e rappresenta la culla della scienza, degli scambi scientifici e della comprensione delle relazioni tra la natura e cultura. Ha largamente contribuito al progresso di numerose discipline scientifiche moderne e segnatamente della botanica, medicina, chimica, ecologia, farmacia, e perché no (aggiungiamo noi) della gastronomia. Nel nostro paese gli orti botanici sono 37 sparsi su tutto il territorio e presenti ovunque ci sia una sede universitaria, cui si devono aggiungere 19 giardini alpini, 12 giardini tematici e 3 arborati per un patrimonio globale di 71 istituzioni che tutti ci invidiano”. Molto importante è anche l’orto botanico di Firenze (terzo al mondo per antichità), denominato “giardino dei semplici”, iniziato il 1o dicembre 1545 sotto Cosimo I de’ Medici e tuttora in uso. Un altro suggestivo “orto dei semplici” si trova invece vicino a Rio, nell’isola d’Elba: chiamato eremo di Santa Caterina, sorge nei pressi di un antico tempio fenicio o etrusco, restaurato con l’aiuto del Dipartimento di Scienze botaniche dell’Università di Pisa.
Scarpazzone o erbazzone
• Questa torta di erbe deve il nome al fatto
che i fusti delle bietole e degli spinaci venivano chiamati “scarpe”, in quanto sostenevano il vegetale. C’è però chi sostiene che il nome derivi da un episodio riguardante un nobile della casa dei Correggio il quale, bloccato dalla pioggia durante una battuta di caccia, si rifugiò in una casa di campagna; la moglie del colono gli offrì quel poco che aveva potuto preparare sul momento, vale a dire una frittata di erbe e formaggio, condita con lardo e cipolla, senza involucro di pasta. Il nobile apprezzò talmente il piatto che affrancò il colono battendogli come d’uso la spalla con una scarpa
• La ricetta ha riferimenti storici perché
nel Libro de arte coquinaria, scritto da Maestro Martino di Como e ripreso dal Platina nella sua opera De honesta voluptate et valetudine, a proposito della herbolata de maio (maggio) si legge: “Piglia altrettanto cacio (una libra e mezza) e bietole in buona quantità e altre erbe. Tutte queste erbe pistarai insieme molto bene premendone fora il suco, le aggiungerai al formaggio, mettendo con esse meza libra di bono strutto, overo di butiro fresco e fa che tutta questa composizione sia ben mescolata in un vaso che metterai sopra la brace. Facto questo haverai apparecchiata in la padella una pasta sottile e metterli dentro queste cose sopra dicte dandoli il focho temperatamente ad ascio di sotto e di sopra”
Insalate nei ricettari Nel corso del Rinascimento aumenta il numero dei grandi cuochi che pubblicano le loro ricette e i loro consigli sull’impiego delle insalate a tavola. Citiamo per primo Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che fu al servizio di tre papi (Pio II, Paolo II e Sisto IV) ed è conosciuto anche come umanista: in tarda età fu nominato prefetto della Biblioteca Vaticana. Il Platina è autore di un vero trattato di gastronomia, De honesta voluptate e valetudine, in cui delinea un quadro abbastanza completo del patrimonio della cucina italiana, anche se si sofferma soprattutto sulla Lombardia (era nato a Cremona) e sull’Italia Centrale (Toscana e Stato pontificio), con riferimenti anche alla Sicilia e alla Liguria. L’autore dedica ampio spazio ai vari modi di condire le insalate iniziando proprio con termini didattici: “L’insalata mista si prepara con lattuga, lingua di bue, menta, finocchio, prezzemolo, crescione, origano, cerfoglio, cicoria, tarassaco e altre erbe aromatiche, tutte ben lavate, scolate e condite con sale, olio e aceto”. Della rucola dice: “adoperata nella confezione delle vivande, le rende molto fragranti”. In pratica, è lo stesso uso che
• Per venire ai giorni nostri, riportiamo la
ricetta dell’erbazzone al forno proposta da Gianni Franceschi e Riccardo segue
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insalate nella storia se ne fa oggi, sebbene in passato la rucola fosse ritenuta un eccitante. Così scriveva Columella, il grande agronomo romano: “La rughetta che si pianta accanto a Priapo protettore degli orti spinge a Venere i mariti pigri”. Il Platina suggeriva anche di utilizzare la lattuga per la preparazione di una minestra: “Prendi la parte interna della lattuga e falla cuocere con uova e agresto, come la zucca”. L’agresto era un condimento di sapore acido, preparato con succo di uva acerba. Sull’arte di condire le insalate va segnalato il Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe, di tutti frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano, scritto in Inghilterra nel 1614 da Giacomo Castelvetro, esule dall’Italia perché seguace delle idee protestanti: non voleva finire nelle reti dell’inquisizione romana. Castelvetro non si limita a elencare, stagione per stagione, tutti i prodotti offerti dalla Madre Terra, ma approfondisce anche tutto ciò che riguarda le modalità di preparazione, le tecniche di coltivazione, i condimenti con cui insaporire le insalate. Facendo appello alle proprie abitudini alimentari italiane, cerca di persuadere inglesi e tedeschi a gustare le insalate e le verdure iniziando dalla pulizia: “Bisogna lavarle bene, cambiando l’acqua. Poi vanno asciugate con panni di lino, o fatte sgocciolare a fondo nel caso siano state bollite. Si procede quindi a condire con sale, olio in abbondanza e poco aceto o succo di limone, completati da un po’ di pepe”. Ammonisce inoltre di “non fare come di tedeschi e altre straniere generazioni le quali, appresso avere un po’ poco l’erbe lavate, in un mucchio le mettono nel piatto e su vi gittano un poco di sale e non molto olio, ma molto aceto, senza mai rivolgerla, non avendo eglino altra mira che di piacere all’occhio: ma noi Italici abbiam più riguardo di piacere a monna bocca”. In altre parole, Castelvetro promuove presso le classi più abbienti norme ben precise: “Insalata ben salata, poco aceto e ben oliata e chi contro a così giusto comandamento pecca, è degno di non mangiar mai buona insalata”. Non solo, ma “bisogna guardarsi, come tanti stranieri fanno, dal mettere l’aceto prima dell’olio, perché l’erbe di già abbeverate d’aceto, non possono pigliar l’olio; se poi non si mescolano, la maggior parte di quelle si rimangono pura erba, buona da dare a’ paperi”. Un curioso commento ancora citato ai giorni nostri sostiene infatti che per ottenere una buona insalata un avaro deve pensare all’aceto, un prodigo all’olio, un saggio al sale, un giudizioso al pepe, mentre il compito di rimestare il tutto deve essere affidato a un pazzo. I grandi cuochi descrivono ovviamente le preparazioni più adatte per le tavole delle grandi famiglie, che disponevano in abbondanza di selvaggina e carni di vario tipo. Tuttavia nelle grandi occasioni non mancavano di includere piatti più plebei e ortaggi fantasiosi (le foglie di piselli e le ortiche) per arricchire e variare il menu. Per esempio, Cristoforo di Messisbugo (scalco alla corte degli Estensi, a Ferrara), in occasione del banchetto organizzato
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Barbieri Manodori nel volume La Cucina Reggiana, duemila anni a tavola, 2005
• Ingredienti per la pasta: 200 g di farina
00, una noce di strutto, due cucchiai di olio extravergine di oliva, un pizzico di sale. Ingredienti per il ripieno: 1,5 kg di spinaci o biete, qualche cipollotto fresco, prezzemolo, 50 g di lardo, olio e burro q.b., qualche spicchio di aglio schiacciato, abbondante parmigiano reggiano grattugiato, sale e, se piace, un po’ di pepe macinato
• Preparazione: mettere la farina a fontana
e impastare con lo strutto, l’olio e un po’ d’acqua fino a quando la pasta è liscia e compatta; lasciarla riposare per qualche tempo sotto un panno e dividerla in due parti. Tirarla sottile con il matterello e utilizzarne una parte tagliata a disco per foderare il fondo e le pareti di uno stampo molto basso, unto con un po’ d’olio o strutto. L’altra parte della pasta, tirata più sottile, verrà avvolta sul matterello infarinato. Srotolata con attenzione, servirà a ricoprire il ripieno che frattanto sarà deposto nello stampo
• Per il ripieno, sciogliere in una padella
il lardo ben battuto, l’aglio schiacciato, i cipollotti e il prezzemolo tritati finemente. Rosolare con olio e burro e unire le bietole o gli spinaci già lessati e ben strizzati e tagliuzzati. Aggiungere il sale e lasciare insaporire. Questa operazione è indispensabile per togliere alla verdura la sua acquosità. A cottura ultimata aggiungere il formaggio e mescolare. Levare la verdura così condita dalla padella e riempire lo stampo fino all’orlo. Mettere in forno a circa 200 °C per una buona mezz’ora
• Lo scarpazzone va consumato tiepido per esaltarne i sapori e la fragranza
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storia e arte il 20 maggio 1529 in onore di Ercole II d’Este e di suo fratello il Cardinale Ippolito II, arcivescovo di Milano, preparò un’insalata d’erba e cedri, frittate verdi e fiori e addirittura una “lattuca candita con altre frutte”. In un altro menu (14 febbraio 1548), preparato nel corso del Carnevale del Duca di Ferrara, il Messisbugo inserì tra le vivande un’insalata di “cime di radicchio ed endivia con ramponzoli ed altre mescolanze”. E per la Quaresima il cuoco prevedeva minestre di lattuga, involtini di verza ripieni, torte di torsoli di verze e prezzemolo, spinaci “in sapore” cioè cotti con miele, zafferano, uva passa, olio, aceto e chiodi di garofano. Ci sono anche libri che, oltre a illustrare pregi, caratteristiche, virtù e segreti dell’insalata, ne esaltano le caratteristiche dietetiche. Per esempio Salvatore Massonio, medico aquilano, letterato e studioso di scienze fisiche, nel 1627 pubblicò un trattato dal titolo strano, di origine greca, L’archidipno, ovvero dell’insalata e dell’uso di essa, un vero e proprio elogio di questo alimento, che riempie lo stomaco dei “mai sazi contadini, senza eccessiva spesa”. Quest’opera dimostra come già nei primi lustri del XVII secolo vi fossero uomini di penna disposti a rivalutare un cibo che da sempre la nobiltà di toga e di spada disprezzava, ritenendolo “un vile pastume per popolo basso e servi della gleba”. L’uomo degno di portare l’ermellino o l’armatura doveva cibarsi di carne (pesce solo nei giorni di digiuno imposti da Madre Chiesa). Un contrasto, quello tra carnivori e vegetariani, mai sopito nei secoli e in parte valido ancora oggi per ragioni non solo salutistiche, ma anche ambientali.
Un giudizio del XV secolo sulla lattuga
• Michele Savonarola nel Libreto de tutte
le cosse che se magnano scrive: “La latuca è più fredda de la indivia, la se pone freda e humida in secundo. Tosto se padiscono e conferisse al stomaco caldo, al figato caldo e quella, manzata cum l’aceto, move l’apetito. Ma meiore è quella che ha bullito alquanto et anco meglio è quella che non è lavata. E sua buona compagnia è il petrosemolo che molto correze s’el g’è nocumento. E dice Galieno che non trovando remedio che ’l potesse fare dormire, manzava la latuca dopo pasto cum uno pocho de pipere, e di ciò trovà gran zovamento, e io nel’infirmi me l’ò ben provato. Genera el sangue bono e, dice Avicena, temperato”
Carlo Cane (1618-1688), Pranzo di caccia, Castello Sforzesco, Milano. In evidenza, l’insalata mista con uova sode (© 1990, Archivio Scala, Firenze)
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insalate nella storia Citazioni storiche di alcune specie Con il termine “insalata” si intende normalmente l’insieme delle verdure crude o cotte che vengono condite con sale, olio, aceto e altri ingredienti. La genericità del termine è dovuta all’etimo, dal latino insalare, ossia “salare”. In un’accezione più stretta si intendono invece le piante erbacee commestibili, spontanee o coltivate. Vengono diversamente classificati altri ortaggi quali pomodori, carciofi, verze, carote, patate, ravanelli, peperoni, asparagi. Da includere nella categoria delle insalate sono invece la rucola, la lattuga, la cicoria, il crescione, il radicchio, il tarassaco, la valeriana. Rucola Oggi è di gran moda, ma era già apprezzata dagli antichi Romani. Originaria del bacino del Mediterraneo e dall’Asia occidentale, la rucola (Eruca sativa) deriva il suo nome dal latino eruca, “bruco”, a causa del suo gambo peloso. Il Regimen sanitatis salernitanum (la famosa Scuola salernitana del XII secolo) ne citava il potere curativo per gli occhi. Occorre infatti ricordare che anticamente non si conosceva dal punto di vista bromatologico la sostanza responsabile del sapore e di conseguenza non se ne conosceva neppure l’azione sull’organismo, per cui fiorivano le più strane teorie. Michele Savonarola infierisce su quella selvatica: “fa dolore di capo, aguza el sangue, imperò colerici e sanguinei da lei se guardi. Multiplica la ventosità e fa abundare il lacte”. In pratica, la mette nel numero “de’ cativi cibi”. Dioscoride ritiene la rucola, se mangiata cruda in grandi quantità, un potente afrodisiaco. Oggi si sa che il suo aroma è dovuto a un particolare glucoside che esercita un’azione di stimolo sulla produzione del succo gastrico. Quindi è giusto consumarla allo stato crudo, mescolata ad altre foglie verdi di primo taglio per esaltarne il sapore ottenendo così un piatto ricco di gusto e di buon valore nutritivo. Per alcuni piatti tipici regionali la rucola viene utilizzata anche cotta e in Puglia è usata per condire i cavatieddi o cecatelli, un tipo di pasta diffuso nelle regioni meridionali simile alle conchigliette. Anche se viene chiamata (erroneamente) “rucola selvatica”, la ruchetta (Diplotaxis muralis), dalle foglie lanceolate, è botanicamente diversa dal genere a cui appartiene la rucola. Esiste anche una rucola palustre (o barbarea, o erba barbara), che cresce in luoghi ombrosi e umidi.
Pietro Longhi (1702-1785), Negli orti dell’estuario (1759), Cà Rezzonico, Venezia: una gentildonna condisce l’insalata (© Cameraphoto/Archivio Scala, Firenze)
Lattuga La lattuga è una delle verdure più antiche utilizzate nell’alimentazione dell’uomo. Le sue molte varietà derivano da un unico filone originario dell’Asia e del Mediterraneo, risalente a circa 5000 anni fa. Sono databili intorno al 3000 a.C. alcune immagini trovate in una tomba egizia, raffiguranti lattughe con foglie lunghe. Le prime descrizioni di lattughe coltivate portano la firma di Teofrasto (III
Giuseppe Arcimboldi (1527-1593), L’ortolano (1590), olio su tavola, Museo Civico Ala Ponzone, Cremona (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
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storia e arte secolo a.C.), ma ne parlano anche Columella e Plinio. Ancora oggi una varietà di lattuga viene detta “romana”. Dal Mediterraneo la lattuga si diffuse in tutta l’area latina, però veniva consumata soprattutto cotta. Solo nel Settecento cominciò a essere gustata cruda, in Francia e in Inghilterra. Nel Medioevo si credeva che un normale piatto di lattuga calmasse i nervi e favorisse il sonno, credenza che del resto è sopravvissuta fino ai giorni nostri. In realtà, le foglie di Lactuca virosa emettono un lattice conosciuto come “lactucario” (dal latino lactuca che significa latte) sotto forma di gocce irregolari, giallo-brunastre, di sapore amaro, usate per falsificare l’oppio. Le cultivar della lattuga sono numerose e tra queste ricordiamo le lattughe a cappuccio (hanno la testa compatta che ricorda il cavolo cappuccio), la regina di maggio, la regina dei ghiacci (con foglie croccanti), il cavolo di Napoli e le trocadero (con sfumature rosa). Tra le lattughe da taglio citiamo la riccia verde da taglio, quella bionda d’Austria, i lattughini. Tra le lattughe romane troviamo la bionda degli ortolani e la verde d’inverno. La lattuga era citata tra le erbe amare che gli ebrei erano tenuti a mangiare nei banchetti pasquali, in ricordo dell’esodo e delle privazioni sofferte dai loro padri nel deserto.
Consigli di un gourmet
• John Evelyn, socio fondatore della Royal
Society inglese ed esperto orticoltore, scrisse un libro nel 1699 sul tema “insalate” intitolato Acetaria: a discourse of sallets. Grande spazio veniva dato alla lattuga, ritenuta rinfrescante, sedativa, con influssi benefici su morale, temperanza e castità. L’autore suggerisce anche le modalità con cui preparare un’ottima insalata dicendo: “È necessario che ogni erba debba sostenere la sua parte, senza essere sopraffatta da un’altra erba di sapore più forte, in modo tale da mettere in pericolo il sapore e la virtù naturale del resto. Ciascuna deve essere al proprio posto, come le note di una musica, in cui non deve apparire alcuna forzatura o stonatura. E pur ammettendo qualche discordanza (per meglio distinguere e illustrare il resto), suonando tutte le note più vivaci, e talora le più gentili, deve riconciliare tutte le dissonanze e fonderle in una piacevole composizione
Cicoria e indivia belga Egizi, Greci e Romani conoscevano molto bene le virtù alimentari della cicoria. Questo ortaggio (Chicorium intybus) è sempre stato apprezzato per il gradevole sapore amaro provocato da una sostanza oggi definita come acido cicorico o di-caffeil-tartarico, che può aiutare la digestione. In passato, grazie a questo sapore
Lattuga a foglia di quercia verde e rossa
Foto R. Angelini
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insalate nella storia amaro, era impiegata a fini medicamentosi ed è infatti citata nei papiri dell’antico Egitto. Plinio, riallacciandosi alle credenze “egizie”, dava anche dettagli farmacologici un po’ confusi: “Il succo della cicoria, mescolato a olio di rosa e aceto, calma il mal di testa, mentre se viene bevuto insieme con vino calma i dolori al fegato e alla vescica; cotta in acqua provoca il flusso mestruale”. Ne esistono diverse varietà: a foglie verdi o da taglio per il consumo fresco e crudo (pan di zucchero, bianca di Milano), a foglie e steli per cottura (puntarelle, catalogna), a radici per sola cottura. Durante la Seconda guerra mondiale, quando il caffè era introvabile, si usavano i fittoni della radice di cicoria per preparare una bevanda amara “fac-simile”. Nell’immaginario collettivo ancora oggi la cicoria viene ritenuta utile in numerosi disturbi: depurativa per sangue, reni e fegato, viene anche applicata sul viso (cotta e pestata) per una maschera rinfrescante e decongestionante. La cicoria selvatica, unita a una purea di fave secche e olio extravergine di oliva, costituisce un piatto molto saporito consumato in Basilicata e Puglia, la “incapriata”.
Pungente ortica
• Tra le erbe da insalata, l’ortica è sempre
stata apprezzata, dopo la cottura, per il piacevole aroma che emana. Un raffinato goloso come Vittorio Alfieri pretendeva frequentemente in tavola la minestra di ortiche, anche se la stagione non era favorevole. Oggi i cuochi blasonati, rivalutando le tradizioni popolari, hanno riportato sulle nostre tavole frittate, minestre e risotti all’ortica, un’erba che in passato aveva suscitato curiosità per la sua attività urticante. L’ortica infatti (Urtica urens) deriva il suo nome dal latino urere, che significa “bruciare”, e i popoli antichi, non conoscendo le sostanze chimiche responsabili di questa sua fastidiosa caratteristica, le attribuivano una serie di proprietà strane e contrastanti. Si diceva che l’ortica poteva essere usata come emostatico, cicatrizzante, antireumatico, antianemico. Apollodoro la consigliava con brodo di tartaruga contro le salamandre. Ildegarda di Bingen sosteneva che liberasse lo stomaco dal muco. Secondo il naturalista Fania avrebbe facilitato l’espulsione del catarro intestinale e la tosse
Indivia belga La cicoria più nota è quella di Bruxelles, comunemente chiamata “insalata belga” o “indivia belga” (Chicorium endivia). Si tratta di uno dei pochi vegetali di cui si conosca la data di nascita. Infatti nel 1850 un contadino residente nei dintorni di Bruxelles notò che alcune radici di cicoria selvatica, rimaste abbandonate in cantina, al buio, avevano prodotto dei germogli allungati con foglie bianco-giallastre. Il contadino utilizzò in cucina queste foglie e le trovò gustose. Di conseguenza volle ripetere l’esperimento e si mise a coltivarle regolarmente. Il prodotto fu notato sul mercato e un botanico (Brézier) studiò il fenomeno, migliorò il prodotto e iniziò a produrlo in quantità notevoli. Questo tipo di insalata ben presentata, nuova e dal sapore originale superò ben presto i confini della zona di coltura e giunse al grande mercato parigino delle Halles. Ed è proprio sulle rive della Senna, dopo un ulteriore affinamento colturale, che il ricercato ortaggio prese il nome di endive e trasformò la Francia nel primo produttore europeo di “indivia” (che non è un’indivia, bensì una varietà di cicoria).
• Oggi si sa che la fragile peluria delle sue
foglie, al minimo contatto, cede sostanze urticanti come l’acido gallico, l’acido formico e alcuni mediatori chimici tipici delle reazioni allergiche
• In realtà l’ortica è un ingrediente
Radicchio Un’altra varietà di cicoria notissima è il radicchio, caratterizzato dal colore rosso di varie tonalità: il più pregiato è quello di Treviso (Indicazione Geografica Tipica), che può presentare foglie di colore rosso intenso con nervatura principale bianca molto accentuata oppure rosso vinoso intenso serrate e avvolgenti il cespo. Esiste inoltre il radicchio di Castelfranco Veneto (derivato dall’incrocio tra il rosso di Treviso e l’indivia scarola), quello di Verona (più corto del trevisano) e quello di Chioggia, riconoscibile per la caratteristica forma a palla.
ricercato in cucina (usando i guanti per maneggiarla), soprattutto i germogli teneri. In erboristeria la radice di questa pianta trova impiego come diuretico e può aiutare a prevenire l’ipertrofia prostatica
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storia e arte Le prime notizie riguardanti gli orti di Chioggia e Sottomarina risalgono al Seicento e in queste aree il radicchio era già coltivato nel Settecento. Tuttavia il radicchio rosso di Chioggia attuale è frutto di selezioni che, partendo dal “variegato” di Castelfranco Veneto, hanno permesso di ottenere, intorno al 1950, quello che oggi è chiamato “rosa di Chioggia”, di gusto piacevole perché influenzato dalla vicinanza del mare (viene utilizzato per preparare la torta ciosota). Vale la pena ricordare che il radicchio non nasce rosso. Bisogna sottoporlo a un trattamento che consiste nel trasferire le piante in ambiente privo di luce perché perdano la tonalità verde per assumere quella vinosa, che definisce il prodotto quando viene commercializzato. Tale pratica (detta forzatura) consiste nel porre le piante in apposite vasche dove l’acqua bagna le radici, ma non le foglie. In mancanza di luce non può verificarsi la fotosintesi clorofilliana e pertanto la pianta si decolora per poi assumere la caratteristica tonalità. La storia dice che il radicchio di Treviso è stato messo a punto dal vivaista trevisano Wan den Borre, sottoponendo una cicoria da fiore trovata nel parco di Villa Albrizzi di Preganziol al procedimento già parzialmente usato nei Paesi Bassi. Il radicchio viene cucinato ai ferri, con la pancetta affumicata (radicio fumegà viene definito nel dialetto locale) e nel famoso risotto che fa parte del menu tradizionale trevisano.
Religiosi, filosofi, medici e insalate
• Già nell’antico Egitto i sacerdoti
si astenevano dalla carne durante il periodo di servizio alle divinità. In altre parole, l’impiego preminente delle verdure per la nutrizione umana veniva considerato benefico per l’anima. Si sosteneva che il consumo di carne introducesse nell’uomo gli spiriti malvagi e le anime degli animali uccisi. Il problema dell’astinenza dalla carne si pose fin dalle origini del cristianesimo e il monachesimo occidentale inizialmente fu profondamente permeato da queste direttive. Con il passare del tempo, però, lo slancio degli ideali iniziali si indebolì e i benefici di questa pratica furono messi in dubbio
• I filosofi antichi erano soprattutto
Tarassaco Il tarassaco (Taraxacum officinale) è una pianta erbacea nota anche come “dente di leone” perché ha il margine delle foglie seghettato o dentato più o meno profondamente. Si tratta di una delle piante selvatiche migliori, essendo dotato di un leggero sapore amaro piuttosto gradevole. Ha diversi nomi: piscialetto (per l’attività diuretica), insalata matta, dente di cane. In fitoterapia è utilizzato per le proprietà della sua radice, atta a favorire l’eliminazione della bile (colagogo). Le foglie esterne, più coriacee, si possono consumare cotte, quelle tenere si gustano in insalata con olio e aceto. Il tarassaco è diffuso in tutta Europa, nei prati e nei campi, e ne esistono molte varietà, con foglie ovali più o meno strette e infiorescenze di color giallo intenso. In Francia è frequentemente condito con lardo fritto. Mistral, nel suo vocabolario della lingua provenzale, dice: “nous fau uno gaio salado, de douceto, de repounchoun, de cicoureio e de cresson” (sentiamo la necessità di una gustosa insalata di dolcetta, di dente di leone, di cicoria e di crescione).
maestri di vita e l’obiettivo delle loro scuole era quello di trasformare la vita dei loro discepoli. Pitagora, il filosofo fondatore della scuola pitagorica nell’antica Crotone (532 a.C.), era un vegetariano convinto: si cibava di erbe e ortaggi che coltivava nell’Orchatos, l’orto sacro del tempio dedicato a Hera Lacinia dai coloni greci, distante pochi chilometri dalla città. Pitagora riteneva che le erbe (e la lattuga in particolare) avesse la funzione di congiungere gli uomini agli dei. I suoi discepoli seguivano quindi una dieta di stampo ascetico astenendosi da tutte le carni, dal pesce e dalle uova, ritenuti di ostacolo alla vigilanza e alla purezza del pensiero. Anche i cinici che facevano capo a Diogene si attenevano a una dieta vegetariana rigorosa.
Valeriana Conosciuta con vari nomi (soncino, gallinella, dolcetta, lattughino, sarzet), viene raccolta nei campi allo stato spontaneo come “valerianella” (Valerianella olitoria). Le foglie, non lanuginose, arrotondate, ovali, formano un piccolo cespo e si consumano crude, con-
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insalate nella storia dite preferibilmente con limone o poco aceto. La nouvelle cuisine ne ha introdotto l’uso come guarnizione di antipasti, specialmente con scampi o frutti di mare cotti al vapore. La valeriana è nota come tranquillante naturale perché a differenza dei sedativi chimici non dà sonnolenza né assuefazione. Tuttavia, questa attività sul sistema nervoso centrale è propria del rizoma, che si raccoglie in autunno da piante di almeno 2-3 anni essiccate all’ombra, da cui il farmacista ottiene una polvere (con cui si confezionano pillole), l’infuso, la tintura, l’estratto fluido da somministrare in gocce: l’olio essenziale contiene acido valerianico, l’estere isovalerianico del borneolo e altri principi attivi. Quindi non c’è da temere che le foglie utilizzate in insalata abbiano un effetto sedativo.
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Stesso discorso vale per gli stoici, che raccomandavano l’impiego del cibo “omogeneo all’uomo”, vale a dire quello fornito dalle piante e ricavato dagli animali senza però ucciderli
• Plutarco nel trattato Del mangiar carne lancia filippiche contro “quelli che imbandiscono mense di corpi morti e corrotti; danno nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano”
Vegetarianesimo: presente e passato Ancora oggi molte persone identificano la dieta vegetariana con un’alimentazione basata solo su insalate e ortaggi di vario tipo. Ovviamente non è così. Ci sono diete vegetariane permissive (ovo-latto-vegetariane) e altre restrittive, che comportano la totale astensione dai cibi di origine animale: tra queste ultime le diete “vegan”, termine che deriva dalla contrazione della parola inglese vegetarian, mentre l’analogo italiano sarebbe “vegetaliano” (dal latino vegetalis), a base soltanto di verdure, cereali, legumi, semi, frutta fresca e secca, alghe. Esistono poi anche i granivori (gruppo molto ristretto, che si ciba solo di cereali), i fruttariani (solo frutta fresca e secca), i crudisti (solo alimenti crudi, anche di origine animale) e infine coloro che seguono la dieta macrobiotica. Quest’ultima (dal greco macros, lungo, e bios, vita, quindi dieta per assicurarsi una lunga vecchiaia) è stata inventata dal giapponese George Ohsawa
• Di parere opposto è Galeno, uno
dei luminari della scienza medica nell’antica Roma; infatti, parlando “delle facoltà naturali”, sostiene che gli esseri umani non traggono nutrimento dalle erbe, quanto dalla carne. Su quest’ultima le nostre facoltà hanno dominio pressoché completo: essa viene assimilata, modificata e trasformata in utilissimo sangue. Le sostanze vegetali invece sono superflue, scivolano via attraverso l’apparato digerente e solo in piccolissima parte confluiscono nelle vene e nel sangue
Foto R. Angelini
• Nel 1773 ebbe molto successo un libro
sul vitto pitagorico ovvero erbaceo: Il cuoco galante, scritto dal benedettino pugliese Vincenzo Corrado nel 1773, dopo aver studiato a Napoli. L’autore dedicò la sua opera ai nobili e ai letterati i quali “applicati allo studio e alle scienze poca digestione fanno e perciò hanno bisogno di cibi delicati come sono le erbe, tanto usate e raccomandate dal celebre filosofo Pitagora. Le quali erbe, condite poi secondo l’insegnamento del Corrado, riescono di maggior gusto al palato di tali nobili e letterati non meno che agli altri”
Valeriana
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storia e arte il quale sosteneva l’ambivalenza di ogni cosa, di ogni stato d’animo. In altre parole, ogni cosa possiede due poli, chiamati rispettivamente yin e yang, che sono forze antagoniste e complementari: giorno-notte, uomo-donna, guerra-pace, freddo-caldo, dolceamaro. Chi sa mantenerle in equilibrio conserva una buona salute. Ohsawa era un filosofo, e non aveva nozioni di fisiologia, per cui aveva elaborato un regime alimentare basato sulla fantasia, pericoloso per la salute se protratta nel tempo. Questa dieta bandisce pomodori, patate, melanzane e raccomanda invece lattuga, verza, porri, rape e ceci; approva il formaggio di capra ma non lo yogurt; permette di consumare il pesce, ma non le uova e il latte. La disciplina alimentare proposta da Ohsawa è stata definita “un’accozzaglia di strani precetti” e il Food Council dell’Associazione Medica americana l’ha ufficialmente condannata, dopo alcuni casi di morte verificatisi tra i suoi più rigidi seguaci. La storia e l’evoluzione dell’uomo ci hanno dimostrato la grande flessibilità e capacità di adattamento dell’organismo umano, in grado di modificare l’alimentazione in base ai cambiamenti delle esigenze, delle abitudini, del clima, delle necessità fisiche. I nostri antenati, che sono stati cacciatori e raccoglitori per almeno centomila anni, ottenevano le calorie necessarie alla vita quasi esclusivamente dalla carne. Successivamente, dopo la rivoluzione agricola (avvenuta circa diecimila anni fa), le granaglie diventarono il nutrimento principale del genere umano.
Vegetariani famosi
• Secondo Plutarco, l’uomo non si nutre
certo di leoni o lupi per autodifesa, ma al contrario uccide creature innocue, mansuete, prive di pungiglioni e di zanne, le quali vengono così private del sole, della luce e della durata naturale della vita, alla quale hanno diritto per il fatto di essere nate
• Leonardo da Vinci si chiede: “Or non
produce natura tanti semplici frutti che tu ti possa saziare?”. E aggiunge: “verrà il giorno in cui gli uomini giudicheranno l’uccisione di un animale come essi giudicano oggi quella di un uomo”
• Jean-Jacques Rousseau, avendo
osservato che generalmente gli animali carnivori sono più crudeli e violenti degli erbivori, ne dedusse che una dieta vegetariana avrebbe reso gli uomini meno aggressivi
Mondo vegetale e mondo animale Oggi le società scientifiche che si occupano di nutrizione umana concordano nell’affermare che, per una buona salute, l’alimenta-
• Benjamin Franklin diventò vegetariano
all’età di sedici anni, quanto si accorse che questo tipo di alimentazione gli procurava una maggior chiarezza intellettuale e facilità nell’apprendere. Nella sua autobiografia egli definisce il consumo di carne “un delitto senza giustificazione”
Foto R. Angelini
• Richard Wagner, convinto della sacralità
della vita, considerò il vegetarianesimo come l’alimentazione naturale dell’uomo che lo allontana dall’aggressività e lo riavvicina al paradiso perduto
• Gandhi scrisse: “Bisogna correggere la
falsa credenza che la dieta vegetale ci renda deboli, passivi e abulici. Sento che il nostro progresso spirituale ci porterà inevitabilmente a smettere di uccidere gli altri animali per soddisfare esigenze materiali” Lattuga di tipo classico
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insalate nella storia zione deve essere equilibrata nell’apporto dei vari principi nutritivi conosciuti (proteine, lipidi, carboidrati, vitamine, sali minerali, fibra) e basarsi su cibi provenienti dal mondo sia vegetale sia animale, assunti in opportune dosi. La fisiologia della nutrizione ci ha insegnato che l’uomo è onnivoro, perché da una parte è dotato di parti anatomiche adatte a raccogliere, addentare, masticare i cibi di origine animale, e dall’altra ha una lunghezza dell’intestino 7-10 volte maggiore rispetto alla statura corporea, in un rapporto più simile a quello riscontrabile negli erbivori (12-18 volte) che non nei carnivori (4 volte). La lunghezza del tubo digerente, nel regno animale, è generalmente proporzionale alla quantità di fibre vegetali (cellulosa) presenti nella dieta. I vegetariani integralisti ritengono che l’uso della carne sia nocivo; contro questa opinione si potrebbe far notare che se gli alimenti di origine animale fossero dannosi, l’uomo non possederebbe nel suo organismo i meccanismi per digerirli. Va detto chiaramente che si può vivere al meglio da latto-ovo-vegetariani o da onnivori (in entrambi i casi si può salire sul podio olimpico e aspirare alla longevità), mentre la scelta esclusivamente vegetariana non può essere ritenuta scientificamente valida in tutti i casi. Scrive Eugenio Del Toma, presidente onorario dell’ADI (Associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica): “la riscoperta dei cibi vegetali ha il pregio di riequilibrare un’alimentazione dove le carni, gli insaccati, i formaggi, i sughi elaborati, i cannelloni e i ravioli, i dolciumi e tanti altri cibi ipercalorici occupano ormai quasi tutto lo spazio nutrizionale a spese di molte varietà di verdure e di frutta”.
Prezzemolo onnipresente
• Oggi il prezzemolo è un ingrediente
irrinunciabile della cucina mediterranea, utilizzato per insaporire e decorare numerosi piatti, ma in passato non era così. Gli antichi Greci e Romani lo usavano come medicinale con proprietà diuretiche ed emmenagoghe. Ancora nel secolo scorso, nelle campagne, le ragazze incinte ne ingerivano forti quantità per abortire, rischiando l’avvelenamento. In realtà le radici e i frutti essiccati contengono un olio essenziale ricco di apiolo, una sostanza ad azione eccitante sulla muscolatura liscia dell’utero
• Quasi certamente il prezzemolo del
passato aveva dimensioni maggiori rispetto a quello odierno, dato che faceva parte delle piante ornamentali. Lo dice anche il nome: petroselinum deriva infatti dal greco petrus (pietra) e selinon (sedano), traducibile quindi come “sedano delle rocce”. Veniva impiegato anche per fare corone da donare ai vincitori delle gare ginniche. In cucina era temuto perché poteva essere scambiato con piante velenose, tipo la cicuta minore
Foto R. Angelini
• La sua diffusione come condimento
non iniziò dal Mediterraneo, bensì dalla Germania, da cui si diffuse nel resto d’Europa. Nel Rinascimento, con l’invenzione della stampa e con il tramandarsi, su carta, delle ricette dei grandi cuochi (Il Platina, Cristoforo di Messisbugo, Bartolomeo Scappi), il prezzemolo iniziò a diffondersi nelle cucine dei nobili e dell’alta società
Lattuga cappuccina o trocadero
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le insalate Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Insalate nella letteratura, nella pittura e nella cultura Margherita Zalum Cardon
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
storia e arte Insalate nella letteratura, nella pittura e nella cultura Onore alla lattuga
L’uso di insalate ed erbe di campo in ambito alimentare si può far risalire ai tempi più antichi della storia umana: già i Babilonesi, a quanto pare, si nutrivano di erbe condite con olio, aceto e sale. D’altro canto, non si deve dimenticare che la cultura di questo popolo doveva essere raffinatissima, non solo nel campo botanico e agronomico, ma anche in quello ingegneristico e idraulico: espressione unitaria di tutti questi saperi così evoluti sono i leggendari giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico, la cui reale collocazione è oggi contestata da alcuni studiosi, ma di cui a più riprese nel corso dei secoli sono state tentate ricostruzioni ipotetiche. Essi si basavano su un complesso e dispendioso sistema idraulico per convogliare l’acqua ai piani superiori della struttura, permettendo così la fioritura rigogliosa delle piante provenienti da habitat diversi a dispetto dell’arido clima. Sicuramente, accanto a varie altre specie “esotiche”, anche alberi da frutto e molte altre piante commestibili avranno trovato il loro posto, coltivati in disposizioni atte a valorizzarne le qualità ornamentali. Dell’antichissimo uso delle insalate nell’alimentazione dei popoli mediterranei fa fede anche un interessante rilievo di epoca romana, raffigurante una bottega di erbivendola con tutte le merci in esposizione, che non differisce molto dalle moderne botteghe di frutta e verdura! In latino le insalate sono chiamate acetariae appunto dall’abitudine di condirle con aceto, oltre che con olio. La parola insalata deriva invece da in salare, cioè “condire con sale”. Queste definizioni generali implicitamente rimandano al fatto che sono molte le varietà di erbe generalmente indicate con questo termine. Sin dall’antichità, oltre che per l’alimentazione, le erbe di campo e le insalate sono studiate anche per le loro proprietà medicinali: esse sono descritte in tutti i principali trattati medici e gli erbari dell’antichità, tra cui il Codex Aniciae Julianae, conosciuto anche come Codex Vindobonensis, la copia illustrata più antica e più pregiata del trattato medico del greco Dioscoride, De materia medica, scritto nel I secolo d.C. Si tratta del più antico erbario conservato fino a oggi e di un autentico capolavoro dell’arte della miniatura del VI secolo: la sua importanza è dovuta all’estremo naturalismo con il quale sono dipinte le piante, gli animali e gli altri soggetti, un vertice artistico che non verrà più raggiunto fino al Rinascimento. Il Codex era stato regalato verso il 512-513 dal popolo di Costantinopoli ad Anicia Giuliana (figlia dell’imperatore d’Occidente Anicio Olibrio e di Placidia, figlia dell’imperatore Valentiniano III, e nipote di Galla Placidia) per ringraziarla della costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna. L’ultimo proprietario del codice a Bisanzio, divenuta intanto Istanbul, era l’ebreo Moise Hamon, medico di Solimano il Magnifico.
• Lo scrittore latino Svetonio racconta un
curioso episodio di cui è protagonista la più comune delle insalate. A quanto pare, l’imperatore Augusto attribuì la propria guarigione da una pericolosa malattia alla lattuga, pianta molto apprezzata sin dalla più remota antichità. Per tale ragione, fece scolpire una statua ed erigere un altare a questa nobile pianta
Insegna di bottega di un’erbivendola, arte romana, III sec. d.C., Museo Ostiense, Ostia Antica (© 1990 Archivio Scala, Firenze per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
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letteratura, pittura e cultura Nella capitale turca, subito dopo la metà del Cinquecento, lo scopre l’ambasciatore dell’imperatore Ferdinando I d’Austria, Augherius de Busbecq; dopo una lunga trattativa, il figlio di Hamon lo vende all’imperatore Massimiliano II d’Austria e il codice è così portato a Vienna, dove ancora oggi è conservato. Esso è il capostipite degli innumerevoli erbari e tacuina sanitatis realizzati nel corso del Medioevo. Le piante commestibili, e le erbe di campo in particolare, sono coltivate nell’antichità e fino a tutto il Medioevo, come già si è detto, anche a scopi ornamentali: ne fanno fede vari trattati di giardinaggio e agronomia del tardo Medioevo e della prima età moderna: sia l’opera Ruralium commodorum di Pietro de Crescenzi, sia altre meno conosciute attestano come le “gentili herbette” facciano spesso bella mostra di sé nei giardini prima di essere colte e utilizzate in ambito culinario o farmacologico. Infatti, non è ancora maturata la distinzione concettuale tra “giardino” e “orto” come li intendiamo oggi: l’uno riservato alle piante puramente ornamentali, l’altro destinato a quelle utili. Né sono ancora conosciute in Europa molte delle piante ornamentali che sono oggi assai diffuse e che provengono dalle Americhe o dall’Oriente. Se è vero, infatti, che con la scoperta delle Americhe sono arrivate nel nostro continente molte piante che hanno rivoluzionato il nostro sistema colturale e hanno avuto un enorme impatto anche sull’economia (il girasole, il mais, il tabacco, il pomodoro, la patata), è anche vero che sono state scoperte nello stesso periodo moltissime specie prive di utilità ma interessantissime per le qualità decorative: forma e dimensioni dei fiori, ricchezza cromatica e via dicendo. Esse sono presto entrate nei giardini europei trasformandoli in modo irrevocabile e spezzando quella continuità tra giardino, orto e campi, tra utilità e bellezza, che aveva dominato sino ad allora. La scoperta di nuovi continenti e nuovi territori, e della ricchissima flora che li caratterizza, scatena negli europei del Cinquecento un interesse incontenibile per tutte le meraviglie della natura, la cui esuberante ricchezza è celebrata in vario modo anche nelle opere d’arte: tra le prime espressioni di questa nuova sensibilità per la realtà naturale ci sono le scene di mercato dei pittori fiamminghi, nei quali per la prima volta questo soggetto acquisisce una straordinaria, seppure non ancora completa, autonomia figurativa: una delle conquiste maggiori raggiunte dall’arte nel corso del Rinascimento è forse proprio l’attenzione per la realtà in tutti i suoi aspetti. Non più solo i soggetti sacri sono considerati degni di essere rappresentati, ma anche una moltitudine di soggetti profani e legati alla vita quotidiana; a questo traguardo si giunge anche grazie allo straordinario progresso tecnico dell’arte, alla capacità degli artisti di riprodurre con estrema fedeltà la natura in tutti i suoi aspetti, rendendo in modo molto accurato le varie qualità delle superfici, delle materie ecc. Emblematiche del periodo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento sono anche le fantasiose composizioni di Arcimboldo,
La raccolta della lattuga (c.29r), Tacuinum Sanitatis, Codex Vindobonensis, Series Nova 2644, Oesterreichische Nationalbibliotek, Vienna (© 1998 Archivi Alinari, Firenze)
Giuseppe Arcimboldo (1527-1593), La Primavera, Museo del Louvre, Parigi (© Archivio Scala, Firenze)
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storia e arte tipiche espressioni dell’ambigua e lambiccata cultura manierista da un lato e del virtuosismo dell’artista dall’altro. Queste composizioni consistono in illusionistiche raffigurazioni di teste allegoriche formate da frutta e verdura tipiche delle varie stagioni dell’anno o da altri elementi iconografici riconducibili al soggetto rappresentato. Esse rimandano al complesso rapporto tra uomo e natura che si instaura nel periodo rinascimentale e rispecchiano la costante ricerca del significato e dell’identità nascosta delle cose, anche attraverso la fitta rete di rimandi simbolici e di relazioni di similitudine e differenza che formano la base della cultura di quest’epoca. Non si deve tuttavia dimenticare che in questa stessa epoca si colloca anche la nascita delle moderne scienze della natura: la stessa ricerca di identità della realtà naturale è condotta, su un diverso piano, da una folta schiera di studiosi, guidati dall’ambizioso desiderio di documentare e catalogare tutta la realtà. Essi sottopongono ad accurato scrutinio tanto i numerosi esemplari esotici che arrivano da terre lontane quanto piante e animali domestici: così, se Ulisse Aldrovandi non può fare a meno di menzionare la “lactuca pulcherrima” nella sua straordinaria enciclopedia naturalistica, altri suoi colleghi fanno effigiare le piante da artisti specializzati nella rappresentazione di soggetti naturalistici e ne pubblicano le immagini a beneficio di un più vasto pubblico. L’immagine tratta dall’opera Phytobasanos (1592) di Fabio Colonna rimanda all’ambito delle prime ricerche dei Lincei, il gruppo di eletti studiosi e amanti di cose naturali radunato intorno al principe Federico Cesi che, tra i primi in Europa, concepisce il progetto di un’istituzione dedita esclusivamente allo studio della natura ed elabora un progetto di indagine e classificazione organica di tutta la realtà naturale.
Gli afrodisiaci di Caterina de’ Medici
• La storia ricorda poche regine più
potenti, influenti e longeve, oltre che prolifiche, di Caterina de’ Medici. Eppure, al suo arrivo in Francia, ella parve non riscuotere alcun successo: tutt’altro che avvenente (secondo le cronache del tempo gli altezzosi cortigiani francesi l’avevano soprannominata “grassa bottegaia fiorentina”), fu sposata da Enrico II per ragioni di stato, ma per ben dieci anni dopo le nozze la coppia non riuscì a concepire figli, tanto che si giunse vicini al suo ripudio. Per questo la regina, di cui è nota la fortissima superstizione, fece ricorso a tutte le arti in suo possesso: tra quelle che considerava più potenti ed efficaci c’era l’uso di molti cibi che – a torto o a ragione – riteneva afrodisiaci, come funghi, fave, cipolle; anche sedano e scalogno rientravano nella lunga lista. Al suo arrivo a Parigi, Caterina aveva portato con sé da Firenze uno stuolo di servitori, tra cui anche molti cuochi e pasticceri che, impegnati nella titanica impresa di salvare le sorti della propria sovrana, fecero conoscere alla sfarzosa ma ancora poco evoluta corte francese le più raffinate usanze fiorentine, introducendo l’uso della forchetta insieme a molte ghiotte ricette…
Joachim Bueckelaer (1530-1573 ca.), Venditrice di verdure, olio su tavola, Musée des Beaux-Arts, Valenciennes, Francia (© René-Gabriel Ojéda/RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari)
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letteratura, pittura e cultura Il Phytobasanos (letteralmente “tortura delle piante”) è un’opera giovanile di Colonna, nella quale tuttavia si riscontrano in nuce alcuni degli elementi fondanti del nuovo metodo di studio della natura, cioè l’accurata osservazione diretta dei singoli specimen e la classificazione delle piante in base alle caratteristiche dei fiori e dei semi. Ma uno degli aspetti più innovativi di questa stagione di studi, che si trova già pienamente affermato in questo testo, è l’uso dell’immagine come strumento imprescindibile di analisi e documentazione scientifica; l’estensivo impiego di questo strumento di ricerca, applicato in ogni ambito del sapere da parte di naturalisti e scienziati di tutta l’Europa, consente la fioritura, breve ma estremamente significativa, di uno straordinario filone di pittura naturalistica, che solo di recente è stato rivalutato e apprezzato in tutta la sua importanza. L’opera di Colonna ne è una pietra miliare, essendo la prima in cui è impiegata l’incisione in rame, anziché su legno, per tradurre a stampa i disegni realizzati, con grande maestria, dall’autore stesso. Dal clima di fervido interesse per la natura che caratterizza questo periodo e che pervade tutti gli ambiti della società e tutti gli aspetti della cultura prende origine la natura morta, in cui appunto fiori, frutta, verdura e animali sono assoluti ed esclusivi protagonisti delle rappresentazioni. Si tratta di un genere figurativo sofisticato ed elitario, spesso intessuto di valori simbolici e allegorici, un genere che per così dire nasce già adulto, frutto della maestria sovrana di pittori abituati a muoversi nelle corti più raffinate dell’epoca. Esso, pur fiorendo contemporaneamente in tutto il continente europeo, assume caratteristiche diverse in relazione ai differenti contesti geografici, come ben dimostrano le opere che qui presentiamo.
Chondrilla, stampa dall’opera Phytobasanos di Fabio Colonna, Muséum national d’Histoire naturelle, Bibliothèque centrale, Parigi (© Muséum national d’Histoire naturelle, Dist. RMN/image du MNHN, bibliothèque centrale/distr. Alinari)
La nascita della Caesar’s salad
• Stando a quanto narra la leggenda, la
famosa Caesar’s salad fu inventata a Tijuana negli anni ’20. Il cuoco di origine italiana Cesare Cardini si ritrovò sprovvisto di ingredienti proprio in occasione della festa del 4 luglio e creò questo piatto con le poche cose che aveva in cucina: lattuga romana, crostini di pane e tocchetti di parmigiano, conditi con olio, limone, aglio, uovo e salsa Worchestershire. Dal suo inventore ha preso il nome la ricetta, divenuta rapidamente famosa non solo in tutti gli Stati Uniti, ma un po’ ovunque nel mondo
Matteo Rosselli (1578-1650), Cena in Emmaus, olio su tela, Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera (© Blauel/Gnamm Artothek/ Archivi Alinari)
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storia e arte Non è infrequente, in questi stessi decenni, trovare splendidi brani naturalistici anche in opere di maggior respiro, come la Cena in Emmaus di Matteo Rosselli, in cui le stoviglie tipiche di una frugale cena sono descritte con accuratezza e, con l’aspetto di oggetti legati alla ferialità e la gamma cromatica smorzata, fanno da contrappunto visuale ed emotivo all’episodio sacro che si sta svolgendo. In questo periodo il richiamo dei temi naturalistici è tale da consentire l’affermazione professionale di numerosi pittori che si dedicano esclusivamente a questi soggetti e che si conquistano un posto di rilievo all’interno delle corti. È il caso del francese Nicolas Robert che, oltre a molte altre famose opere a soggetto floreale, realizza per Gastone d’Orléans il primo nucleo dei celebri Vélins, le magnifiche tavole botaniche e zoologiche su pergamena, la cui realizzazione non ha conosciuto interruzioni sino ai nostri giorni, originariamente parte del tesoro reale francese e poi custodite presso il Muséum National d’Histoire Naturelle di Parigi. L’originalità, la rarità e l’unicità di questi dipinti si debbono alla sintesi perfetta tra bellezza e rigore nella raffigurazione di ciascun soggetto. La diffusione di questi magnifici manufatti artistici favorisce e accompagna la diffusione della conoscenza delle piante stesse, così che molte di esse sono messe a coltura anche in Paesi e regioni ove prima non erano frequenti, anche grazie al supporto offerto dall’enorme progresso delle tecniche agronomiche e colturali che si verifica tra Cinquecento e Seicento; quest’ultimo è stimolato dal desiderio, anzi dalla volontà, di coltivare con successo le in-
Robert Nicolas (1614-1685), Chicorioum sylvestre, Muséum national d’Histoire naturelle, Bibliothèque centrale, Parigi (© Muséum national d’Histoire naturelle, Dist. RMN/image du MNHN, bibliothèque centrale/distr. Alinari) Tommaso Salini (ca. 1575-1625), Natura morta, Castello Sforzesco, Milano (© Archivio Scala, Firenze)
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letteratura, pittura e cultura numerevoli piante esotiche importate dai quattro angoli del globo. Accade così che John Evelyn, celebre memorialista e scrittore del XVII secolo, nonché membro fondatore della Royal Society di Londra e una delle massime autorità inglesi sul giardino, scriva nel 1699 l’opera Acetaria. A discourse of Sallets, per promuovere la coltivazione e il consumo di questi vegetali tra i propri connazionali. Nella prefazione al suo testo egli rivendica l’attenzione per un soggetto apparentemente umile e legato alla fatica manuale come quello della coltivazione dell’orto-giardino, rilevando che, sin dai tempi più antichi, principi e condottieri non hanno mai disdegnato la cura delle piante, anzi spesso hanno promosso e caldeggiato questo “learned pleasure” pur in mezzo alle più ardue preoccupazioni politiche, di governo o di guerra. Nonostante gli sforzi di Evelyn, la diffusione del consumo di insalate non vede un significativo miglioramento; tuttavia, alcune varietà si trovano ritratte nel Curious Herbal di Elizabeth Blackwell, un’opera concepita per illustrare una serie di piante esotiche coltivate nel Physick Garden di Chelsea (anche se poi vi rientrano specie ordinarie, come appunto l’insalata). La storia di questo testo è assolutamente singolare: la giovane scozzese sposa un cugino, Alexander Blackwell, la cui promettente carriera di medico viene interrotta bruscamente dalla necessità di lasciare la città natale, Aberdeen, a causa di incombenti accuse di esercizio abusivo della professione. A Londra Blackwell tenta di stabilire una tipografia, ma anche qui i suoi affari non vanno come dovrebbero, in quanto egli non è iscritto alla corporazione e non ha svolto i necessari anni di apprendistato. Elizabeth, ritrovatasi presto sola, con un bambino da accudire e il marito in prigione per debiti, decide perciò di mettere a frutto il proprio talento artistico e si incarica della realizzazione delle tavole botaniche di cui il giardino botanico di Chelsea aveva bisogno. Le sorti economiche della famiglia Blackwell, tra mille vicissitudini, non miglioreranno mai, ma l’opera di Elizabeth sarà sempre ricordata tra i pilastri della storia dell’illustrazione botanica. Lontano da contenuti esotici, il quadro di Camille Pissarro riconduce l’osservatore nella tranquilla sfera delle mansioni quotidiane della vita di campagna. Nei dipinti dell’artista, uno dei padri fondatori dell’Impressionismo francese, si trovano spesso rappresentati i temi della vita rurale, qui rappresentata dai grandi cespi d’insalata: essi sono posti in primo piano, in aperta e programmatica contrapposizione all’eccesso di pathos e di “pittoresco” che dilaga nella pittura in voga in quei decenni. Pissarro rigetta ogni artificio e ogni aspirazione alla grandeur e preferisce al contrario toni smorzati, soggetti ordinari, un’atmosfera lirica e delicata, intessuta di libertà e poesia; egli trasforma in prassi costante del mestiere l’abitudine di dipingere direttamente all’aperto, riducendo al minimo o addirittura rinunciando del tutto alla rielaborazione in studio dei suoi soggetti, cosa che conferisce una straordinaria freschezza a
John Evelyn e la rivalutazione della lattuga
• Acetaria. A discourse of Sallets è forse la
prima opera “enciclopedica” sull’insalata scritta nei tempi moderni. Fu pubblicata a Londra nel 1699 da John Evelyn, diarista e studioso dagli interessi poliedrici, nonché membro fondatore della Royal Society di Londra. Dedicata all’allora presidente della Royal Society stessa, essa contiene la descrizione di (quasi) ogni possibile pianta commestibile, insieme alle sue caratteristiche e proprietà medicamentose, a consigli su come gustarla meglio, sulla coltivazione e via dicendo. A proposito dell’aglio, per esempio, vi si dice che, benché italiani, spagnoli e altri popoli mediterranei lo mangino in gran quantità, esso è assolutamente sconsigliabile: ne è prova il fatto che nei tempi passati (così riferisce Evelyn) esso era utilizzato come parte delle punizioni inflitte a coloro che avevano commesso i più orrendi crimini
Elizabeth Blackwell (ca. 1757-1782), Cetriolo, incisione a colori, tavola 4 del volume A Curious Herbal, pubblicato nel 1782, Collezione Privata (© Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
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storia e arte
Galileo Chini, Natura morta (© 2011 Archivio Scala, Firenze)
Camille Pissarro (1830-1903), Il taglio della siepe, Galleria d’arte moderna, Firenze (© Archivio Scala, Firenze - per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
tutte le sue opere e che, come ben sappiamo, porterà alla nascita dell’Impressionismo come corrente pittorica autonoma. Il realismo dei pittori francesi di questa generazione dilaga ben presto in Europa, come dimostrano il piccolo dipinto a olio di Theodor Schmidt, in cui tornano protagonisti figure e momenti della più umile quotidianità, e la ben più tarda Natura morta di Galileo Chini. Quest’ultimo artista ha avuto un percorso umano e artistico molto articolato: in giovane età si dedica alla realizzazione di ceramiche, fondando a Firenze una piccola manifattura la cui produzione si rivela in grado di rinnovare il panorama nazionale promuovendo una più diretta ed esplicita adesione all’art nouveau; in seguito si dedica alla pittura ad affresco e alla scenografia, affermandosi come pittore ufficiale della Biennale di Venezia, stabilendo importanti collaborazioni con Puccini e contribuendo anche in questi ambiti all’abbandono degli ormai superati sfarzi barocchi. Verso la fine della sua lunga parabola artistica, tuttavia, Chini riprende in mano temi e motivi stilistici conosciuti nella giovinezza, quando aveva frequentato i macchiaioli, e si dedica alla realizzazione di piccole composizioni dal tono intimo e pacato, spesso con soggetti paesaggistici. Negli stessi decenni in cui la pittura viene rivoluzionata dagli impressionisti, l’agricoltura e la botanica vedono un enorme progresso, favorito tra l’altro dall’attività della Vilmorin-Andrieux & Cie, una società dedita alla produzione e al commercio di semenze nata nel secolo precedente e rapidamente divenuta la più importante del settore a livello mondiale, anche grazie all’importantissi-
Champin Elisa Honorine (?-1871), Coutance Joséphine (IXX secolo), Album Vilmorin, Muséum national d’Histoire naturelle, Bibliothèque centrale, Parigi (© Muséum national d’Histoire naturelle, Dist. RMN/image du MNHN, bibliothèque centrale/distr. Alinari )
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letteratura, pittura e cultura mo lavoro di ricerca sull’ereditarietà e sugli incroci svolto da Louis Vilmorin. A partire dal 1850, nel momento di maggiore espansione commerciale, la società dà avvio alla pubblicazione di una serie di tavole botaniche, che sono inviate annualmente ai clienti a mo’ di strenna, in cui sono rappresentate moltissime specie orticole. Le immagini sono ogni volta commissionate ad artisti di alto livello, specializzati nelle rappresentazioni botaniche: si tratta quasi sempre di pittori formatisi presso il Jardin Royal des Plantes di Parigi; un buon numero di queste tavole si deve a Elisa Champin. Oltre ad avere un indubbio valore artistico, queste tavole sono oggi assai interessanti perché attestano l’esistenza e le caratteristiche di molte varietà di verdura, frutta e legumi oggi scomparsi. A ben più tragici sfondi riconducono invece le fotografie storiche che documentano la creazione degli orti di guerra in tutte le piazze italiane e dunque anche in alcuni dei luoghi più significativi delle nostre città. Essi sono la conseguenza della politica di autarchia varata dal regime fascista verso la metà degli anni ’20 e divenuta poi sempre più rigida, con l’obiettivo di ridurre al massimo le importazioni di frumento e di altri generi alimentari. Quando a questo si aggiungono le ristrettezze imposte dall’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, diventa necessario mettere a coltura ogni piccolo spazio, per garantire la sopravvivenza della popolazione. Concludiamo questo nostro rapido percorso con una visione di orti-giardini ben più riposanti: quelli del castello di Villandry, nella valle della Loira. Il castello, l’ultimo dei grandi edifici costruiti sulle rive del fiume francese nel corso del Rinascimento, è stato realizzato per Jean le Breton, ministro delle finanze di Francesco I. Dopo una serie di vicissitudini, il castello è acquistato nel 1906 dal dottor Joachim Carvallo, un brillante medico di origine spagnola che dedica tutta la vita al suo recupero e rinnovamento. Egli promuove anche un accurato restauro dei giardini, basato sullo studio delle fonti antiche, che sfocia nella ricreazione di un giardino francese del XIV secolo. L’intera superficie è divisa in più terrazzamenti, nei quali trovano posto un giardino d’acqua, un labirinto, un giardino ornamentale decorato con bossi e tassi lavorati a topiaria, che formano una serie di forme geometriche e simboliche, un giardino dei semplici ove sono coltivate piante aromatiche e medicinali. Quel che più interessa è però lo straordinario potager nel quale, riportando in vita la pratica tradizionale del Medioevo e probabilmente di tutte le epoche precedenti, le diverse varietà di insalata, insieme a tutte le altre verdure e alberi da frutto, sono coltivate secondo raffinati schemi ornamentali che danno vita a complessi giochi di alternanze cromatiche e di forma e che prevedono un’accurata manutenzione durante tutte le stagioni al fine di non far venire mai meno l’effetto decorativo della vista d’insieme. È qui recuperata e riportata in vita quell’antica unità tra “utile” e “bello” che per tanti secoli ha caratterizzato il rapporto tra uomo e natura nel mondo occidentale.
Orti di guerra (© 2011 Cinecittà Luce/Archivio Scala, Firenze)
Castello di Villandry (© Collection JeanBaptiste Leroux, Dist. RMN/Jean-Baptiste Leroux/distr. Alinari)
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le insalate Foto © Archivio Scala, Firenze
storia e arte Insalate da Oscar Marco Spagnoli
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
storia e arte Insalate da Oscar Una scena che da sola varrebbe un Oscar vede protagonista un piattone di insalata servito da una coppia di camerieri di eccezione come Stanlio & Ollio. L’insalata è, infatti, “celebrata” in tanti film, ma nel momento in cui a Stanlio & Ollio viene chiesto di servirla undressed ovvero, in inglese, “scondita”, ma con il doppio senso di “senza vestiti”, la storia del cinema vive una delle sue situazioni più insolite ed esilaranti. In From Soup to Nuts del 1928 i due sono una coppia di camerieri inesperti, mandati da un’agenzia per un catering in una casa dell’alta borghesia. Viene loro chiesto di servire l’insalata senza il dressing, ovvero priva di condimento, e così il povero Stanlio, spogliatosi, si presenta ai commensali undressed scatenando un putiferio. Più di ottanta anni dopo, l’insalata è ancora il piatto forte di Hollywood, davanti e dietro alla macchina da presa. Le attrici, in particolare, ossessionate dalla dieta, sono sempre alla ricerca di varianti ipocaloriche di questa pietanza che, senza dubbio, regna sovrana nella Mecca del cinema anche secondo una delle sue bibbie, l’Hollywood Reporter, che ha addirittura stilato la classifica delle cinque migliori insalate della capitale californiana del cinema, secondo una tradizione ormai quasi secolare.
Nascita di una leggenda hollywoodiana: la Cobb Salad
• La Cobb Salad è nata a Hollywood
al Brown Derby Restaurant quando una notte del 1937 Bob Cobb, il proprietario, voleva farsi uno spuntino. Con lui c’era Sid Grauman, il fondatore del celebre teatro che ospita ancora oggi alcune tra le principali anteprime cinematografiche. Cobb prese una serie di ingredienti e diede così vita alla celebre insalata che include bacon, avocado e uova sode. Quando il giorno dopo Grauman ordinò una Cobb salad fu l’inizio di una vera e propria leggenda hollywoodiana
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insalate da Oscar Del resto, nel suo libro Hollywood Dish, lo chef Akasha Richmond, proprietario a Culver City del ristorante biologico Akasha, racconta come già Marilyn Monroe vivesse quasi esclusivamente di insalate e come Paul Newman e Natalie Wood adorassero le insalate guarnite di gamberetti. In particolare Newman avrebbe fatto una vera e propria fortuna mettendo la sua faccia su una collezione di dressing, condimenti che nel corso degli anni sarebbero diventati molto popolari. Secondo alcuni, addirittura, uno degli onori più alti che si possa ricevere a Hollywood dopo l’Oscar, il Golden Globe, l’Emmy e il Grammy è quello di vedere un’insalata portare il proprio nome. L’editore re degli scandali, Larry Flynt, sempre secondo l’Hollywood Reporter, si è visto recentemente intitolare un’insalata dal costo di 27 dollari, tutta a base di gamberetti, verdure, uova sode e vinaigrette di Chianti: un ibrido tra la celebre Cobb salad e i frutti di mare di cui Flynt sarebbe particolarmente ghiotto. Secondo alcuni l’insalata più famosa, adorata da Elizabeth Taylor e Leonardo Dicaprio, è quella creata da Jean Leon nel 1956. Per quanto possa sembrare insolito, la formula resta segreta... Chi ha potuto gustarla presso il ristorante Teatro alla Scala, pagando 16 dollari, dice che è composta da lattuga, salame, mozzarella e ceci, cui possono essere aggiunti tacchino, tonno e altre guarnizioni. Ci sarebbe però un ingrediente segreto che nessun imitatore, almeno fino al momento di andare in stampa, sarebbe stato in grado di decifrare... Lavorano ancora oggi nel campo della ristorazione gli eredi di quel Cesare Cardini che inventò la leggendaria Caesar Salad in un ristorante di Tijuana, nel 1924. E dopo Clark Gable e Jean Harlow non solo Los Angeles, ma anche il resto del mondo si è inchinato dinanzi a questa insalata che, oltre al celebre e particolarissimo dressing, include lattuga, crostini e parmigiano a scaglie. Bruce Springsteen in persona sarebbe pazzo della ricetta originale che comprendeva anche, per soli 17 dollari, aglio tritato e olio extravergine d’oliva, la cui esatta marca e provenienza sono un segreto custodito meglio di quello degli alieni di Roswell. Extraterrestri che, forse, erano arrivati sulla terra nel 1947, perché prevedevano che solo un anno dopo alla Polo Lounge del Beverly Hills Hotel, Neil McCarthy avrebbe inventato un’insalata destinata a durare nel tempo più di tanti matrimoni delle celebrità di Hollywood. Il piatto, che costa ben 24 dollari, prende il nome dall’avvocato Neil McCarthy, che voleva un’insalata con ingredienti molto particolari: insalata iceberg, lattuga romana, bietole, formaggio cheddar, pancetta affumicata, uova sode, pollo alla griglia, pomodori e aceto balsamico. Jackie Collins è la sua più grande fan. Come spesso capita, però, non c’è unanimità sull’origine di questo piatto, che secondo alcuni sarebbe stato inventato a qualche chilometro di distanza, presso il Regent Beverly Wilshire.
Insalata “Lollo”
• Anche la grande diva italiana Gina
Lollobrigida ha dato il suo nome a un’insalata. Non a una ricetta particolare, bensì a una qualità che oggi porta il nome di “Lollo”: una varietà di insalata “riccia” che richiama la chioma della celebre interprete di film come Pane, amore e fantasia e Buonasera, Mrs. Campbell
Indirizzi per le migliori insalate di Hollywood
• Tender Greens
www.tendergreensfood.com 6290 West Sunset Blvd., Hollywood
• Club Sushi Hollywood
www.clubsushi.com 6374 Sunset Blvd, Los Angeles
• Sizzler
www.sizzler.com 1323 North Highland Avenue, Hollywood
• Crispy Crust Pizza Hollywood - Healthy Food Take Out & Delivery www.crispycrust.com 1253 North Vine St. # 6A, Los Angeles
• Greenleaf Gourmet Chopshop
www.greenleafchopshop.com 9671 Wilshire Boulevard, Beverly Hills
• California Chicken Cafe
www.californiachickencafe.com 6805 Melrose Avenue, Los Angeles
• La Scala Restaurant
www.lascalabeverlyhills.com 434 North Canon Drive, Beverly Hills
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storia e arte Più recentemente, nel 1980, è nata l’insalata di pollo cinese servita nel Giardino di Santa Monica di Madame Wu. Nel 1980, Silvia Wu ha mescolato lattuga con olio di pollo, pasta croccante, zenzero e sesamo. Bob Hope e Johnny Carson sono impazziti per questo piatto; Gwyneth Paltrow invece è una devota di Richard Irving e della sua insalata Ivy che mescola lattuga a verdure grigliate, cui aggiungere a piacere gamberi alla griglia o pollo ruspante. Le insalate sono, dunque, anche un inno alla fantasia e alla creatività; per questo motivo, vengono proposte come un gioco per divertirsi a creare in cucina, in maniera semplice ed efficace. Di tutti i cuochi cinematografici, forse, il più improbabile e visionario resta quello del Muppet Show che, picchiando gli ortaggi, li faceva saltare in piatti sempre più assurdi ed esplosivi. Anche nella finzione, le insalate sono un elemento ricorrente (se non onnipresente) sulle tavole delle donne nei film e nelle serie americane: se Barbra Streisand all’inizio di L’amore ha due facce dichiara di mangiare l’insalata solo perché ama il dressing (ma alla fine, dopo un percorso di cura personale, la vedremo mangiarla solo per il piacere delle verdura), spesso anche le protagoniste delle serie Sex and the City e Casalinghe disperate ricorrono alle insalate come argomento di conversazione sulla dieta e sul tenersi in forma. Diverso, invece, è il caso del cinema d’autore: il francese di origine vietnamita Tran Anh Hung (autore di Cyclo e di Norwegian Wood) ha basato il suo film di esordio, Il profumo della papaya verde, sul ruolo che questa insalata gioca nel rapporto tra due donne. La particolarità principale della papaya verde è di essere una verdura che una volta matura diventa un frutto. Il suo odore rimanda il regista alla propria infanzia, ricordandogli la madre. Siamo in Vietnam negli anni ’50: Mui è una bambina di dieci anni, figlia di contadini, che si reca in città per fare la domestica in una famiglia. La padrona di casa però è infelice: tradita e abbandonata dal marito, soffre ancora per la scomparsa della figlia piccola. Ha tre figli e il commercio di tessuti le permette appena di sopravvivere. Mui si affeziona alla padrona e quest’ultima vede in lei la figlia scomparsa. Quando dieci anni dopo la nuora della padrona insisterà perché Mui vada a lavorare da Khuyen, amico di famiglia, la donna e la ragazza soffriranno per il distacco, ma si troveranno riunite dal profumo della papaya. Se nella cultura orientale le insalate hanno una funzione lirica e poetica, in quella in quella occidentale assumono una simbologia totalmente diversa. Attenzione, però, le insalate nella cultura americana non costituiscono solo il simbolo di chi fa la dieta, ma piuttosto una bandiera per chi ama la cucina sana. Recentemente, Meryl Streep ha portato sullo schermo la prima cuoca televisiva, Julia Child, nel film Julie & Julia e ha sottolineato l’importanza che questa donna, apparentemente solo simpatica ed estrosa, aveva avuto nella sua vita: “Quando ero bambina tutto il cibo a casa nostra proveniva da scatole”, dice l’attrice. “Julia Child non
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insalate da Oscar era solo divertente, ma ha insegnato all’America a mangiare in maniera sana, includendo verdura fresca e insalata in pranzi e cene che fino ad allora, come a casa mia, erano basati su cibi precotti e molto grassi”. In questo senso, cinema e televisione acquistano un ruolo chiave per proporre un modo sano di mangiare e mettere le insalate nei film significa invogliare il pubblico a consumare un cibo più sano. Il documentario di Morgan Spurlock Super Size Me, contro McDonald’s e la sua politica alimentare, e il film Fast Food Nation di Richard Linklater costituiscono, di fatto, un inno al mangiare sano e all’insalata come risposta politica a un mondo dominato da corporation spesso colpevoli di spingere la gente a uno stile di vita malsano, dove il cibo spazzatura gioca un ruolo fondamentale. La vita imita l’arte? Spesso è così e oggi, in Asia, a uscire dallo schermo come nella Rosa purpurea del Cairo non sono gli attori, ma proprio le insalate. Una catena di sale cinematografiche chiamata Cathay Cinemas, oltre a popcorn, panini e gelati, propone al pubblico insalate da mangiare comodamente guardando un film. Unico avvertimento: il dressing va versato a luci ancora accese, altrimenti rischiate di condire lo spettatore nel posto dinanzi a voi che, senza dubbio, avrebbe preferito vedervi mangiare un’insalata scondita come quella di Stanlio & Ollio del 1928.
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