Il Mais - Botanica

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Il mais botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato


il mais

botanica Morfologia e fisiologia Adriano Marocco, Carlo Lorenzoni

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botanica Morfologia e fisiologia Caratteristiche botaniche Il mais (Zea mays L.) fa parte della sottofamiglia Maydeae, della grande famiglia delle Poaceae (o Gramineae) e della classe delle Monocotiledoni. Sulla base dei reperti fossili, si stima che questo gruppo di Poaceae derivi da un ancestrale comune presente 55-70 milioni di anni fa, verso la fine del regno dei dinosauri. La parola Zea è di origine greca e significa “vivere” mentre, il nome della specie mays è riconducibile alla parola indiana “mahiz” o “marisi” che significa “pane di vita”. Il mais è organizzato nel genere Zea, un gruppo di piante native del Messico e dell’America centrale. Questo genere comprende specie selvatiche, conosciute come “teosinte” (termine derivato da “teocintli” degli indiani Nahuátl che significa “seme degli dei”), annuali e perenni. La specie coltivata (Zea mays L.) deriva dall’addomesticamento di Zea parviglumis iniziato circa 10.000 anni fa nella valle del fiume Balsas nel sud del Messico. Si trovano anche generi selvatici affini, come Tripsacum, diffusi dal nord al sud America, che formano cespugli in zone umide, intorno a insenature o corsi d’acqua. Negli Stati Uniti, Tripsacum dactyloides è impiegata come foraggio per il bestiame.

Tripsacum Zea perennis Zea diploperennis Zea luxurians Zea mays huehuetenangensis Zea mays mexicana Zea mays parviglumis Zea mays mays Diagramma che mostra le relazioni di discendenza del mais (Zea mays mays), dei teosinte e di Tripsacum

Confronto fra piante di mais (a sinistra) e di teosinte (a destra), delle loro spighe e delle cariossidi

Confronto fra la spiga di mais (a destra) e di Tripsacum (a sinistra). In quest’ultima specie l’infiorescenza è bisessuata con fiori femminili alla base e maschili nella parte distale

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morfologia e fisiologia Morfologia della pianta La pianta del mais presenta molte caratteristiche comuni alle altre Poaceae: – i l fusto o culmo distinto in nodi e internodi; – una singola foglia a ciascun nodo e le foglie distribuite sul culmo in due file opposte o distiche; – ogni foglia consiste in una lamina espansa collegata a una guaina che avvolge il culmo. I nodi basali hanno la tendenza a formare ramificazioni o culmi di accestimento (polloni) e sviluppano radici avventizie.

Foto R. Angelini

Morfologia della pianta di mais

Pennacchio

Lamina fogliare

La pianta si può immaginare come formata da unità chiamate fitomeri i cui elementi, anche se modificati, sono riconoscibili nelle diverse parti (vegetative e riproduttive). Le unità consistono in un nodo e in un internodo uniti a una foglia e a una gemma ascellare. Fa eccezione l’internodo apicale che presenta l’infiorescenza maschile

Guaina fogliare Sete Spiga

Nodo Radici avventizie

Apparato radicale

Particolare delle spighe e delle sete

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botanica Sistema radicale Il sistema radicale è di tipo fascicolato e comprende quattro radici seminali e le radici avventizie (ipogee ed epigee). Esse si sviluppano nel terreno in tutte le direzioni e in profondità, di norma fino a oltre 1 m in suoli ricchi di acqua e nutrienti, mentre possono raggiungere, in terreni aridi, i 2,5 m di profondità. Tuttavia, più dell’80% dell’apparato radicale si posiziona nei primi 30-35 cm. Le radici seminali pur esaurendo la loro funzione dopo le prime settimane di crescita, restano funzionali anche in seguito. Le radici avventizie ipogee si sviluppano nei primi 4-5 nodi localizzati appena sotto il colletto e quindi, alla superficie del terreno; quelle epigee (radici aeree) sono emesse nei 2-3 nodi basali dopo che la pianta ha espanso 9-10 foglie. Queste ultime radici, se giungono al suolo o se ricoperte di terra con la rincalzatura, svolgono funzioni di ancoraggio oltre che nutritive. È stato stimato che, in normali condizioni di coltura, la lunghezza dell’apparato radicale di ogni singola pianta raggiunge fino a 12 km. Dal punto di vista anatomico, all’estremità di ogni radice si osserva la cuffia, struttura in grado di penetrare nel terreno senza ledersi. Seguono: – una zona dove si verifica un’accentuata divisione cellulare; – una zona di allungamento cellulare; – una zona in cui la radice è ricoperta da un capillizio formato da peli radicali a cui è demandata la funzione di assorbimento dell’acqua e dei nutrienti; – una zona in cui l’epidermide (rizoderma) è suberizzata e non più in grado di svolgere funzione assorbente. Anatomicamente nella zona dei peli radicali, dall’esterno verso l’interno, si notano: tegumenti esterni, una zona corticale e un cilindro centrale contenente i tessuti di conduzione. Questi sono formati da una zona legnosa ricca di grossi vasi, per il trasporto ascendente della linfa grezza, alternata a una zona del floema, adibita alla traslocazione della linfa elaborata (acqua e fotosintati).

Base della foglia Radici avventizie

Radice primaria Schema dell’apparato radicale di mais. La radice principale è quasi morta e alla base del fusto sono già comparse numerose radici avventizie

Sezione trasversale di radice

Zona corticale Vasi xilematici Cilindro centrale Midollo

Zona tegumentale Radici avventizie epigee del mais che si sviluppano dai nodi basali del fusto

Endoderma

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morfologia e fisiologia I tessuti sopra elencati sono circondati dal periciclo pluristratificato, in dipendenza del grado di sviluppo della radice stessa e tutti contenuti all’interno dell’endoderma, strato di cellule a mutuo contatto fra loro con le pareti radiali e tangenziali ispessite a U per il deposito di materiale idrofobo, la suberina. Esternamente si trovano infine la zona corticale e il tessuto tegumentale.

Radici delle Monocotiledoni

• La presenza dell’endoderma con pareti cellulari ispessite a U è un carattere distintivo delle Monocotiledoni. Con l’invecchiare dei tessuti, una parte del periciclo tende a lignificare e fa svolgere alla radice una migliore funzione meccanica

Culmi e foglie Il fusto o culmo (detto stocco) misura comunemente 2-3 m di lunghezza. Tuttavia, varietà precocissime canadesi possono essere alte solo 90 cm o alcuni mais da pop-corn raggiungono 3050 cm mentre, in regioni sub-tropicali e tropicali, le piante possono arrivare a 6-7 m di altezza. Il culmo, negli ambienti italiani, ha un diametro di 3-4 cm e possiede 14 (da 8 a 21) internodi. Gli internodi sono ravvicinati e di diametro maggiore alla base della pianta mentre sono allungati nella parte superiore. Il numero delle foglie è compreso fra 8 e 48, considerando anche quelle degli eventuali polloni, ma solitamente varia fra 12 e 18. Il minor numero si trova nelle varietà a maturazione precoce. La lunghezza delle foglie è compresa fra 30 e 150 cm e la larghezza può raggiungere 15 cm. Alcune varietà hanno la tendenza a formare culmi di accestimento (polloni) in funzione anche delle condizioni di allevamento, climatiche e del tipo di suolo. Il culmo, coperto da guaine, non partecipa alla fotosintesi, salvo l’ultimo internodo che resta in gran parte scoperto. La zona di struttura primaria del fusto è costituita dall’insieme dei tes­suti adulti primari originatisi dai meristemi apicali. Nelle Monocotiledoni la struttura primaria è di solito definitiva e si estende per tutto il corpo della pianta. L’epidermide è il tessuto tegumentale che riveste il corpo primario della pianta. Nelle Monocotiledoni l’epidermide persiste sul fusto

Foto R. Angelini

Struttura primaria del fusto

Sezione trasversale di culmo di mais

Così come nella radice, è possibile riconoscere la presenza di tre regioni:

Zona tegumentale

• l’epidermide, che è il tessuto tegumentale

Zona corticale

• la corteccia, compresa tra l’epidermide e il cilindro centrale, costituita da tessuti parenchimatici e molto spesso anche da tessuti meccanici

Cilindro centrale

• il cilindro centrale o stele dove si

trovano il sistema vascolare e i tessuti di tipo parenchimatico

Fascio vascolare

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botanica per tutta la vita dell’individuo. I fusticini delle Monocotiledoni, per la pre­senza di parenchimi clorofilliani al di sotto dell’epidermide, effettuano la fotosintesi; quindi necessitano di scambi gassosi che devono essere adegua­tamente regolati e tali scambi si realizzano attraverso apparati specializzati (gli stomi) che si trovano unicamente sul tessuto epidermico. L’epidermide è costituita solitamente da un unico strato di cellule le quali sono sempre a stretto contatto fra di loro così da escludere la presenza di spazi intercellulari. Le pareti tangenziali esterne delle cellule epidermiche sono impregnate di cutina per cui risultano impermeabili all’acqua. Spesso l’epidermide è provvista di rivestimenti tricomatosi. Nelle sue cellule di norma, non si differenziano cloroplasti, tranne che nelle cellule di guardia degli stomi. La corteccia o cilindro corticale è costituita da diversi strati di cellule e il suo spessore tuttavia rimane sempre modesto, cosicché, al contrario di quan­ to si verifica nella radice, il cilindro centrale occupa la maggior parte del fusto. Il cilindro centrale del fusto delle Monocotiledoni è caratterizzato dalla presenza di numerosi fasci cribro-vascolari sparsi in tutto il suo spessore (struttura atactostelica = strut­tura non ordinata). I fasci cribro-vascolari sono di tipo collaterale chiuso, così detti perché tra la porzione xilematica e quella floema­tica del fascio non vi sono cellule del procambio ed il metaxilema e il meta­floema sono perciò a diretto contatto fra loro. In ogni fascio, il floema è rivolto all’esterno e lo xilema all’interno. Il numero dei fasci è sempre piuttosto elevato, di solito alcune decine. I fasci non sono tutti di uguali dimensioni né sono omogeneamente distribuiti nel cilindro centrale: al centro sono più grossi e più radi, alla periferia sono più fitti e più piccoli. Essendo i fasci distribuiti in tutto lo spessore del cilindro centrale, non

Epidermide fogliare

• Nell’epidermide si trovano cellule

suberificate e cellule con parete fortemente impregnata di silice, sostanza che conferisce alla cellula una notevole consistenza. È per la silicizzazione delle cellule epidermiche che i culmi delle Graminacee aumentano la loro resistenza meccanica e possono mantenersi in posizione eretta anche a maturità

Xilema e floema

• Lo xilema è un tessuto adibito alla

conduzione dell’acqua e dei soluti in essa disciolti. La parola xilema deriva dal termine greco ξυλον (xylon), che significa legno

• Il floema, detto anche tessuto cribroso

o libro, è il tessuto di conduzione della linfa elaborata, la soluzione zuccherina che viene traslocata da un’area di produzione, come per esempio la foglia matura, a una regione di utilizzo (radici, semi, frutti) o a una di accumulo (per esempio tuberi, fusto ecc.)

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morfologia e fisiologia è pos­sibile distinguere né midollo né raggi midollari. Sovente i fasci si spingono sin quasi sotto l’epidermide, per cui risulta difficile distinguere anche la corteccia. Le foglie sono disposte alternativamente sui due lati dello stocco, una per ogni nodo so­pra terra, e come i nodi sono in numero variabile da un minimo di 8-10 nelle varietà precoci a 22-24 in quelle più tardive. Ciascuna foglia si compone di 3 parti ben distinte: – la guaina, che abbraccia quasi completamente l’internodo sovrastante il nodo di origine. È ben visibile a partire dallo stadio di sesta foglia quando inizia l’allungamento del culmo; – il lembo o lamina, che rappresenta la foglia vera e propria, di forma lanceolata con nervature longitudinali parallele di cui quella mediana più grossa; – la ligula, un’espansione laminare a guisa di membrana incolore e pellucida, posta tra guaina e lembo, che fascia stretta­mente lo stocco, ostacolando l’entrata dell’acqua o di eventuali parassiti e permettendo la posizione più o meno orizzontale della lamina. La foglia è costituita da un tessuto tegumentale (l’epidermide), da un sistema fondamentale (il parenchima clorofilliano o mesofillo) e da un sistema vascolare (i fasci cribrovascolari). L’epidermide ha la funzione di proteggere i tessuti sottostanti dal disseccamento, dall’azione degli agenti atmosferici e dall’attacco dei parassiti; inoltre, sia per le caratteristiche delle sue pareti cellulari sia per la presenza in essa degli apparati stomatici, regola la traspirazione e gli altri scambi gassosi fra i tessuti interni della foglia e l’ambiente esterno. Come già detto lo strato di cellule forma una pellicola senza spazi intercellulari. La pre­senza di questi, infatti, non si concilierebbe con la funzione di protezione. La parete cellulare non è omogenea su tutta la sua superficie: quella tangenziale esterna è ispessita e impregnata di cutina (parete cutinizzata).

Lamina

Ligula Guaina

Rigonfiamento sopra il nodo

Schema delle diverse parti della foglia

Sezione trasversale di una foglia di mais

Cellule bulliformi

Fibre sclerenchimatiche Epidermide

Nervature Mesofillo A destra pianta senza ligula (liguleless), a confronto con una pianta con foglie dispiegate normalmente a sinistra (da O. Arrigoni e da M.G. Neuffer et al.)

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botanica In varia misura la parete delle cellule epidermiche può essere impregnata di silice e in conseguenza di ciò diventa liscia, rigida e al tempo stesso fragile; a causa della silicizzazione le foglie hanno un margine tagliente. Nelle cellule epidermiche solitamente (tranne che nelle cellule di guardia degli apparati stomatici) non vi sono cloroplasti ben differenziati, ma se ne tro­vano dei rudimentali molto diversi da quelli del sottostante paren­chima clorofilliano; essi posseggono, infatti, un modesto sistema lamellare e contengono poca clorofilla. Tutto ciò sembra facilmente comprensibile in quanto il tessuto epidermico, per le sue caratteristiche – mancanza di spazi intercellulari, pareti cellulari ispessite e impregnate di cutina – non è adatto a svolgere la fotosintesi clorofilliana, il cui buon andamento è consentito, invece, da cellule aventi struttura e funzioni assai diverse da quelle epidermiche. Per l’assenza di cloroplasti, e quindi di clorofilla, l’epidermide è di norma incolore. Molto frequentemente sull’epidermide sono presenti peli (o tricomi), solitamente morti e ripieni di aria; essi riflettono la luce, risultando perciò bianchi e lu­centi e conferiscono il tipico aspetto lanuginoso alla pagina inferiore di molte foglie. I peli, quando sono abbondanti, formano un feltro che trattiene il vapor d’acqua che fuoriesce dagli stomi. In questo modo l’aria circostante allo stoma tende ad essere saturata di vapore e ciò determina un rallentamento nel pro­cesso di evaporazione all’interno della foglia. Nell’epidermide sono presenti gli stomi su en­trambe le facce della foglia (foglie anfistomatiche), sebbene in numero maggiore sulla pagina inferiore: in media, sull’epidermide inferiore ve ne sono 100400 per millimetro quadrato. Gli stomi sono apparati necessari alla pianta in quanto permettono gli scambi gassosi e ne consen­tono la regolazione. Nelle cellule di guar­dia sono sempre presenti cloroplasti. A volte, alle due cellule di guardia sono associate due altre cellule, dette cellule annesse o compagne, di forma e dimen­sioni diverse dalle altre cellule epidermiche. L’apertura stomatica è in comu­ nicazione con un ampio spazio intercellulare a essa sottostante,

Caratteristiche della foglia

• L’area media di una foglia (lembo) si

aggira sui 500 cm2, quindi la superficie fogliare per pianta è di 0,4-1,2 m2

• Al di sopra dell’epidermide della

pagina superiore, fino alla 5a-6a foglia dei giovani fusticini, si trova un rivestimento ceroso, che conferisce alla foglia un aspetto vellutato e idrofobo

A destra una piantina senza cere fogliari su cui aderiscono goccioline di acqua; sulla pianta con cere, a sinistra, l’acqua scivola via (da M.G. Neuffer et al., 1997)

Schema di uno stoma Cellule di guardia

Caratteristiche dello stoma

• Lo stoma ha una struttura semplice:

è formato da due cellule reniformi affacciate l’una all’altra, dette cellule di guardia, che delimitano una cavità situata tra di loro detta apertura o rima stomatica Cloroplasti

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morfologia e fisiologia detto camera sottostomatica, che comunica a sua volta con il sistema di spazi intercellulari del mesofillo fogliare. La parete delle cellule di guardia è sottile dal lato adiacente alle cellule annesse, mentre dal lato opposto, quello che si affaccia alla cavità, è più ispessita. Quando nelle cellule di guardia si verificano variazioni di turgore, tali cellule subiscono variazioni di volume e, contemporaneamente, per il differente grado di ispessimento e quindi di estensibilità della loro parete cellulare, vanno incontro anche a mutamenti di forma. A seconda della forma e delle dimensioni che assumono le cellule di guardia, la rima stomatica si allarga o si restringe, determinando l’apertura o la chiusura dello stoma. Quando le cellule di guardia sono turgide, esse tendono a incurvarsi e quindi ad allar­gare la rima stomatica; quando diminuisce il loro turgore, le cellule si afflosciano e di conseguenza si avvicinano sino a chiudere la rima stomatica. Le variazioni del turgore cellulare, che sono alla base quindi del funzionamento degli stomi, sono influenzate da diversi fattori tra cui il più evidente è la luce. Normalmente gli stomi sono aperti alla luce e chiusi di notte. L’apertura è collegata anche all’attività fotosintetica delle cellule di guardia: di giorno infatti per l’attività fotosintetica, la concentrazione di CO2 all’interno della foglia si abbassa. È stato dimostrato che esiste una stretta relazione tra luce, basso contenuto di CO2 all’interno della foglia e apertura stomatica. Tuttavia, se il regolatore per l’apertura e la chiusura degli stomi fosse soltanto la CO2, potrebbe accadere che una pianta continui a tenere gli stomi aperti nelle ore di luce, quando più alta è la velocità di fotosintesi, anche in condizioni di stress idrico, co­sa che, ovviamente, evita nel mo­do più assoluto. Opportunamente, però, interven­gono altri fattori che regolano gli stomi durante lo stress. Uno di questi è il basso contenuto idrico della foglia che induce la chiusura degli stomi, preceduto dall’incremento dell’ormone acido abscissico: tale aumento può essere dell’ordine di 100 e più volte in poche ore. Questa regolazione complessa, sensibile e flessibi­le fa sì che la pianta, a seconda del proprio adattamento, possa rifornirsi dall’atmo­sfera della CO2 necessaria per la fotosintesi senza per questo rischiare continuamente la disidrata­zione quando è esposta, come spesso accade, a condizioni di carenza idrica. Il mesofillo fogliare comprende tutti i tessuti inclusi tra l’epidermide superiore e l’epidermide inferiore ed è formato da cellule parenchimatiche fotosintetizzanti disposte a raggiera attorno ai fasci vascolari (nervature). Perciò questa anatomia è detta di Kranz (dal tedesco: “corona”) ed è propria del mais e di tutte le piante con ciclo fotosintetico C4. I fasci conduttori sono comune­mente circondati da cellule morfologicamente diverse dalle restanti cellule del mesofillo. Queste cellule sono strettamente appressate tra loro, quindi senza spazi intercelluari, formano la cosiddetta guaina del fascio o tessuto Kranz. Le cellule della guaina con­tengono cloroplasti le cui caratteristiche spesso differiscono moltissimo da

Fotografia al microscopio elettronico a scansione della superficie di una foglia di mais. Sono visibili le aperture stomatiche e le cellule allungate di una nervatura

Parete sottostante Parete ispessita Cellula di guardia Cellula epidermica normale

Stoma aperto

Stoma chiuso Struttura delle cellule di guardia e schema del funzionamento di uno stoma

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botanica quelle dei cloroplasti delle altre cellule del mesofillo. I cloroplasti della guaina del fascio non hanno grana, ma semplici e lunghe lamelle che attraversano l’intero plastidio e contengono molti granuli di amido; i cloroplasti delle adiacenti cellule del mesofillo, invece, posseggono grana e pochi granuli di amido. Infiorescenze La pianta del mais è monoica (fiori maschili e femminili separati sulla stessa pianta) e porta i fiori riuniti in spighette che rappresentano l’unità dell’infiorescenza. La spighetta è biflora, composta da due glume che racchiudono i 2 fiori. Ogni fiore è protetto da una glumella superiore o lemma e una inferiore o palea. Esistono due tipi di spighette: maschili e femminili. Le maschili portano tre stami e sono raccolte nell’infiorescenza maschile o pennacchio che si trova nella parte terminale del culmo. Il pennacchio si presenta compatto o ramificato, eretto o pendulo. Le spighette femminili sono portate sulla spiga o spadice (volgarmente chiamata pannocchia). Essa consiste in una ramificazione laterale, prodotta da una gemma all’ascella della foglia. Gli internodi di questa ramificazione sono raccorciati e portano foglie modificate o brattee che coprono la spiga. Ogni spighetta porta un solo fiore fertile sormontato da un lungo stilo o seta che cresce rapidamente ed emerge dalla sommità delle brattee. Le spighette si inseriscono sul rachide, chiamato tutolo; sono in numero pari, disposte in file o ranghi. Le spighe possono avere da 4 fino a 30 o più ranghi di fiori fertili. Il numero di ranghi è determinato gene-

Infiorescenza maschile o pennacchio

Schema di infiorescenza femminile (A) e di una coppia di spighette (B) A

Rachide o tutolo

Stili allungati

B

Foglie del “cartoccio” Stilo del fiore fertile

Lemma

Gluma superiore

Lemma

Palea

Branca ascellare del culmo

Spighe femminili, dette volgarmente pannocchie

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Palea

Gluma inferiore Fiore abortivo

Gluma inferiore Ovario

Fiore abortivo


morfologia e fisiologia ticamente, ma nelle varietà con molti ranghi è influenzato anche dall’ambiente. Poiché uno solo dei fiori è fertile, il numero dei ranghi avrà sempre un numero pari. La lunghezza della spiga matura varia fra 8 e 42 cm, con casi estremi di 2,5 e 50 cm. Il diametro può raggiungere 7,5 cm, ma in media è compreso fra 3 e 5 cm. Una spiga può contenere fra 200 e 1000 semi. Il peso unitario del seme va da 0,1 a 1 g. Nei mais oggi coltivati, il peso della granella di una spiga è di circa 250-300 g. Il numero di spighe per pianta è potenzialmente elevato, ma di norma solo una spiga prende il sopravvento sulle altre. Oggi, rispetto al passato, è facile riscontrare anche più spighe perché su questo carattere molto ha influito il miglioramento genetico. Le raccolta delle giovani spighe, private delle brattee, costituisce il baby corn. È un ortaggio dolce e fragrante, ricco in aminoacidi essenziali. Prodotto ed esportato dalla Thailandia, il baby corn può essere consumato fresco o conservato (spighe inscatolate o succo).

Foto R. Angelini

Rango

Fecondazione e sviluppo della cariosside. Il polline è prodotto dai fiori del pennacchio in quantità prodigiosa: una singola pianta può dare da 18 milioni fino a 25 milioni di granuli, la cui emissione può continuare per circa 13 giorni; la diffusione avviene per mezzo del vento e della gravità. Le sete sono recettive non appena emergono dalle brattee. Quando il polline aderisce alla superficie umida dello stilo, inizia a germinare formando il tubetto pollinico che penetra nello stilo e scende nel tessuto vascolare verso l’ovario. Nel granulo pollinico sono presenti due nuclei riproduttivi: l’unione dell’uno con la cellula uovo e dell’altro con due nuclei polari genera rispettivamente lo zigote, da cui si svilupperà l’embrione, e una cellula tri­ploide che origina l’endosperma. Questo processo è indicato come doppia feconda­zione e avviene circa 24 ore dopo l’impol­linazione.

Spiga con ranghi ben visibili (sopra) e spighe della vecchia varietà Country Gentleman di mais dolce (sotto), in cui le cariossidi si presentano in modo irregolare, senza la distinzione in ranghi

Baby corn di varietà bianca

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botanica Gli stadi successivi di sviluppo del­l’embrione possono essere descritti a par­tire da 10 giorni dall’impollinazione (DAP, Days After Pollination). A questo stadio la massa dei tessuti embrionali, fino allora indiffe­renziata, tende a dare organi differenziati sotto forma di tre lobi: posteriore, distale e anteriore. Il primo origina la parte mediana e prossimale dello scutello, il secondo la parte distale e il terzo l’asse della plantula. A 10 DAP, sopra al lobo anterio­re si intravvede già il primordio del coleotti­le; alla stessa epoca è visibile anche il pri­mordio della radichetta. A 30 DAP si no­tano invece i primordi delle 3 radici se­condarie seminali. I primordi fogliari sono visibili a 12, 15, 18, 20 e 30 DAP rispetti­vamente per la 1a, 2a, 3a, 4a e 5a foglia embrionale.

Foto P. Viggiani

Ciclo ontogenetico del mais Infiorescenza Megasporocita (2n) Spiga Meiosi Meiosi

Megaspore (n)

Particolare delle sete

Megaspora sopravvissuta Embrione (2n) Mitosi

Sporofita maturo Endosperma (3n) Microspore (n)

Granulo di polline in germinazione

Seme maturo Fecondazione

Nuclei spermatici (n)

Nuclei polari Nucleo dell’uovo

Sacco embrionale maturo

Il mesocotile, l’internodo che sta tra il nodo del coleottile e quello scutellare, non è ancora evidente a 15 DAP: anatomicamente questo inter­nodo ha i caratteri della radice. Inserito sul nodo scutellare si ha lo scutello, un insieme di tessuti che compongono la parte maggiore dell’embrione a 10 DAP e che, a 15-20 DAP, si curvano sotto la radichetta embrionale interrompendo il sospensore. Lo scutello media gli sviluppi relativi di embrione e endosperma: la sua superficie rivolta verso l’endosperma ha peculiari caratteri di secrezione di enzimi e assorbimento di quanto necessario allo sviluppo dell’embrione. L’endosperma si sviluppa dalla fusione di un nu­cleo riproduttivo con due nuclei polari. Dalla prima divisione fino a 3-4 DAP si al-

Antere e polline

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morfologia e fisiologia larga per successive di­visioni nucleari, non seguite da formazioni di pareti divisorie, fino a rompere i tegu­menti dell’ovulo; questa fase è detta di endosperma polinucleato. A 5 DAP l’en­dosperma è già interamente cellularizzato; continuano le divisioni cellula­ri che, comunque, a 12 DAP sono già infrequenti e rare a 20 DAP. A circa 10-12 DAP l’endosperma, che si è allargato e che ha invaso lo spazio nucellare, oblitera tutta la nucella. Da questo periodo il tessuto che trattiene sia l’embrione sia l’endosperma in via di formazione è rappresentato dalla parete dell’ovario, la quale si trasforma in un sottile strato di cellule protettive, il pericarpo. Da 12 a 16 DAP si notano divisioni cellulari specialmente nelle zone esterne dell’endosperma. Si forma così uno strato di cellule che ha caratteristiche particolari ed è chiamato aleurone.

Pericarpo Endosperma

Aleurone

Embrione

Cariosside La cariosside, frutto secco indeiscente, è inserita sul tutolo della spiga attraverso un corto e spugnoso pedicello ed è circondata dai residui delle glume. Il pedun­colo è formato da tessuti materni molto vascolarizzati, che connettono il seme al tutolo e quindi al sistema vascolare del fusto. I tessuti vascolari del peduncolo, tuttavia, non collegano direttamente il tutolo al seme, ma sono interrotti da due strati cel­lulari, uno formato da cellule basali di conduzione di origine endospermica e l’al­tro da cellule di origine solo materna; entrambi interrompono il flusso vascolare. A matu­rità del seme, il

Cellule basali di conduzione

Strato nero Pedicello

Sezione di una cariosside di mais

Forma dell’endosperma e rapporto endosperma/embrione (da 1,5 a 48 giorni dopo l’impollinazione) 1 mm

1,5

2

3

1 mm

4

8

2 mm

4 mm

12

24

13

36

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botanica secondo strato necrotizza originando lo strato nero che ne indica la sopravvenuta maturità fisiologica. L’anatomia della cariosside di mais è molto simile a quella degli altri cereali, con una parte interna occupata dall’embrione e dall’endosperma. L’endosperma costituisce l’85% del peso della cariosside matura, l’embrione il 10% e il pericarpo con il pedicello il rimanente 5%. L’embrione maturo consiste di una radichetta, 2 radici seminali, il nodo del coleottile, il nodo scutellare, lo scutello, il mesocotile, il co­leottile e i cinque primordi fogliari che abbracciano la piumetta. Nell’endosper­ma maturo, protetto dal pericar­po, è riconoscibile l’aleurone.

Formazione del seme di mais

• La formazione del seme di mais è un

processo di differenziamento cellulare che porta alla costituzione di due organi distinti, ma complementari. Il primo, l’embrione, è un organo altamente differenziato e complesso che contiene tutti i tessuti che daranno origine alla pianta; il secondo, l’endosperma, è organo molto più semplice con la funzione di accumulare sostanze di riserva che verranno utilizzate dall’embrione nella fase della germinazione

Sostanze di riserva della cariosside L’amido è il composto di riserva delle piante: la cariosside del mais contiene il 70-75% di amido. Come componente elementare necessario alla sintesi dell’amido si trova il saccarosio prodotto dalla fotosintesi durante il periodo di svi­luppo del seme o già accumulato nel fusto prima dell’antesi. Il saccarosio è trasportato come tale al seme per via floematica; non esistendo comunque connessione vascolare diretta tra la pianta e il seme, il saccarosio deve attraversare le cellule degli strati interpo­sti tra pedicello ed endosperma. Queste cel­lule possono avere l’importante ruolo di regolare il trasporto dei soluti al seme; si è infatti dimostrato che le cellule basali di conduzione contengono una elevata atti­vità invertasica. Si ipotizza quindi che il saccarosio venga scisso in monosaccaridi e che questi si diffondano poi nelle cellule dell’endosperma dove viene risintetizzato il saccarosio. Una sintesi consistente di amido ini­zia all’incirca a 12-14 DAP, quando le cel­lule cominciano a specializzarsi. L’amido è depositato in granuli all’interno dei pro­plastidi, organelli circondati da una dop­pia membrana alla quale sono associati alcuni enzimi appositi (particolar­mente una amido-sintetasi). L’amido è presente sotto forma di granuli formati da due tipi di polimeri, chiamati amilosio e amilopectina: l’amilosio presenta una molecola lineare formata da unità di alfa-D-glucosio e costituisce il 20-30% dell’amido; l’ami-

Distribuzione dei principali costituenti chimici nella cariosside (valori percentuali medi di 11 varietà in cui le proteine variano da 8,1% a 13,6%)

Granuli di amido tra i quali si notano i corpi proteici (microfotografia elettronica a scansione)

14

Carboidrati

Frazione

Proteina grezza

Grassi grezzi

Zuccheri

Amido

Endosperma

9,4

0,8

0,64

86,4

0,31

Embrione

18,8

34,5

10,8

8,2

10,1

Pericarpo

3,7

1,0

0,34

7,3

0,84

Cariosside intera

10,3

4,8

1,97

71,5

1,44

Ceneri


morfologia e fisiologia Struttura molecolare di amilosio e amilopectina OH …

O OH

O

OH O OH

O

OH

OH O

O OH

OH

O

Proprietà chimico-fisiche dell’amilosio e dell’amilopectina

OH

Amilosio CH2OH

O OH

HO

CH2OH

CH2OH

O

O

O OH

OH CH2OH

O OH

O

O OH

OH CH2OH

OH

O

OH

Amilosio

Amilopectina

Peso molecolare

1-2 x 105

> 2 x 107

Unità di glucosio

990

7200

Lineare

Molto ramificata

Forma molecolare O

OH

O OH

Proprietà

O

CH2 O OH OH

CH2OH O

O OH OH

CH2OH O

O OH

O

Percentuale di amilosio nell’amido di diversi tipi di mais

OH

Amilopectina

lopectina contiene anche ramificazioni periodiche. La struttura dell’amido è modificata da numerose variazioni genetiche: sono coltivati mais a elevato contenuto in amilosio e in amilopectina. Nella forma derivata dal mais normale l’amido è un ingrediente importante in molti settori: alimentare, degli adesivi, del tessile e della carta. Il tipo ricco in amilosio è usato direttamente per scopi alimentari (pasta) e come componente di fibre naturali; quello formato solo da amilopectina, modificato chimicamente, ha una moltitudine di applicazioni nell’industria alimentare, degli adesivi, del tessile e della carta. I componenti elementari necessari alla sintesi delle proteine sono gli aminoacidi. Il principale aminoacido traslocato dalla pianta al seme è la glutamina. A partire da essa e da scheletri di carbonio provenienti dal metabolismo del saccarosio, l’endo­ sperma e l’embrione sono in grado di costruire, mediante reazioni di transami­nazione, tutti gli altri aminoacidi. Nei primi stadi di sviluppo l’endosperma sinte­tizza una grande varietà di proteine con funzione prevalentemente catalitica (en­zimi). Queste proteine sono solubili in solventi acquosi e localizzate principal­ mente nel citoplasma solubile. L’accumu­lo di questa classe di proteine è limitato nel tempo: essa aumenta fino a 12-15 DAP, poi il suo livello resta costante. A maturità costituisce circa il 5% delle proteine totali. A partire da circa 12-14 DAP inizia la sintesi delle proteine di ri­serva. Ne sono prodotte due tipi: le zeine, proteine altamente idrofobiche e solu­bili in solventi alcolici, e le gluteline, solubili in soluzioni alcaline. Le zeine vengono sintetizzate da polisomi legati alle membrane del reticolo en­doplasmatico e riversate nel lume interno. Qui le molecole proteiche, data la loro

Amido proveniente da mais:

Amilosio

Normale

29

Mutante amylose-extender (ae) dull (du) sugary (su) waxy (wx) ae du du su

33 55 65 0 47 70

Frazioni proteiche a diversa solubilità nella cariosside di mais

15

Frazione

Solubilità in

Contenuto (%)

Albumine

Acqua o tamponi diluiti a pH neutro

4

Globuline

Soluzioni saline

2

Prolamine o zeine

Alcool 70-90%

55

Gluteline

Soluzioni diluite di acidi o basi

39


botanica idrofobicità, si aggregano e formano dei granuli (corpi proteici). La sintesi delle zeine procede lineare fino a circa 40 DAP; a maturità esse rappresentano il 60% delle proteine totali dell’endosper­ ma. Le zeine sono costituite da una fa­miglia di polipeptidi molto simili tra loro per peso molecolare (20.000-22.000 dal­ton) e per sequenza aminoacidica. Tutta­ via questi polipeptidi non sono identici; rappresentano infatti il prodotto di nume­rosi geni strutturali localizzati in due siti principali del genoma del mais: sui cromo­somi 4 e 7. In particolare sul braccio corto del cromosoma 7 sono stati indivi­duati almeno 6 loci contenenti geni per la zeina concatenati, ma non strettamente, fra loro. Una peculiarità della sintesi della zeina è che tutti i suoi componenti moleco­lari sono prodotti in modo sincrono. Ciò fa presupporre l’esistenza di una rego­lazione molto fine dell’espressione dei vari geni strutturali, regolazione che può avvenire a livello sia della trascrizione sia della traduzione degli RNA messaggeri delle zeine. In effetti sono stati individuati numerosi geni (opaco-2, floury-2, De*-30) che presiedono a tale controllo. Gli alleli mutati a questi loci inibiscono l’accumulo della zeina agendo preferenzialmente su alcuni dei suoi com­ponenti. Si può quindi immaginare che la sintesi sincrona dei componenti zeinici dipenda dall’azione concertata dei vari geni regolatori. È interessante il fatto che alcuni dei geni regolatori noti sono local­lizzati nelle stesse regioni cromosomiche dei geni strutturali della zeina. I polipeptidi zeinici sono parzial­mente frazionabili, in base al loro diverso punto isoelettrico, mediante isoelettrofo­calizzazione (IEF) in gradiente di pH in gel di poliacrilamide. Con questa tec­nica è possibile individuare circa 15-20 componenti. Si è dimostrato poi che il numero e la posizione nel gel dei vari componenti sono caratteristici per i vari genotipi di mais e indipendenti dalle condizioni ambientali della località dove il seme è stato prodotto. Quindi il modello IEF della zeina assume valore tassonomi­co e permette, entro certi limiti, il ricono­scimento delle varie linee pure di mais. Inoltre, dato che in incroci tra linee con modelli diversi la zeina del seme della generazione F1 mostra caratteri stretta­mente additivi, il modello IEF può essere utilizzato come saggio di purezza nella pro­duzione di seme ibrido. Le gluteline rappresentano il secon­do gruppo di proteine accumulate in gran­de quantità nell’endosperma, costituendo il 2030% delle proteine totali. Queste sono costituite da numerosi componenti diversi tra loro per peso molecolare (da 100.000 a 10.000 dalton). Non è chiaro se tutti questi com­ponenti rappresentino funzionalmente proteine di riserva: in parte potrebbero essere proteine strutturali di membrana. Dal punto di vista nutrizionale, mentre le proteine solubili in solventi acquosi (albumine e globuline) hanno una compo­sizione aminoacidica favorevole, le zeine sono decisamente insoddisfacenti in quan­to carenti soprattutto degli aminoacidi essen-

Composizione aminoacidica delle proteine endospermiche del mais normale. Nel campione la percentuale di proteine è del 9% sul peso secco dell’endosperma Aminoacido

mg per 100 mg di proteine

Lisina

3,0

Triptofano

0,7

Istidina

2,6

Arginina

4,9

Ac. aspartico

9,2

Treonina

4,1

Serina

5,6

Ac. glutammico

22,6

Prolina

9,6

Glicina

4,7

Alanina

9,2

Cisteina

1,7

Valina

5,7

Metionina

1,3

Isoleucina

4,2

Leucina

14,6

Tirosina

5,2

Fenilalanina

5,8

16


morfologia e fisiologia ziali lisina e triptofano. Le gluteline hanno invece un valore biologico inter­medio. Dato che le zeine rappresentano la classe proteica più abbondante del seme, ne consegue che il valore nutrizionale globale delle comuni farine di mais è scarso. Alcune varianti genetiche, come opaco-2, consentono di aumentare il livello degli aminoacidi carenti attraverso una riduzione del contenuto in zeine e un aumento delle altre frazioni proteiche della cariosside (gluteline, albumine e globuline). Attraverso selezione è stato possibile raggiungere valori molto elevati di proteina, fino al 30%, ma inevitabilmente con una fortissima riduzione della resa. La cariosside contiene circa il 4% di olii di elevata qualità per la presenza di acidi grassi insaturi (linoleico e oleico). Ci sono varietà ad alto contenuto in olio (superiore al 6%) e nella popolazione Illinois High Oil si raggiunge il 20,4%. Il loro uso è per l’alimentazione umana e degli animali. Importanti elementi trattenuti dagli olii sono la vitamina E e i tocoferoli che hanno funzione di prevenzione dell’ossidazione degli acidi grassi e pertanto ne mantengono la stabilità. Le cariossidi mature hanno colorazioni variabili dal bianco al nero. Il colore è determinato dalla produzione di due categorie di pigmenti: – i carotenoidi, rappresentati dal β-carotene, importante fonte di vitamina A, e dalle xantofille, essenziali per il colore giallo delle pelle e delle uova dei volatili; – le antocianine, conferiscono i colori rosso e blu. Il blue corn presenta una pigmentazione dal rosso al blu, fino al nero, per la presenza di antocianine nell’aleurone: le colorazioni più intense si ritrovano in mais coltivati nel New Messico e in alcune aree del Messico, dove l’uso principale è per la produzione di impasti (in Messico, masa o nixtamal) per preparare tortillas e altri piatti tipici messicani. Rispetto ai mais bianchi e gialli il blue corn ha alcuni vantaggi nutrizionali, legati alla ridotta dimensione della cariosside: maggior contenuto in proteina, in lisina, in minerali e in antocianine, ritenute antiossidanti negli alimenti funzionali. Il mais con cariosside bianca ha avuto importanza nella storia e nell’economia di questa coltura. Nelle civiltà d’origine americana, il mais bianco con accenti rossi, blu e viola aveva particolari significati religiosi. Anche oggi nel sud degli Stati Uniti e in diversi Paesi subtropicali, numerose varietà coltivate hanno endosperma bianco. In seguito alla scoperta che il mais bianco manca di provitamina A, i tipi gialli hanno avuto il sopravvento nella maiscoltura dedicata all’alimentazione animale; le varietà bianche tuttavia, per il loro particolare sapore, sono spesso preferite per l’alimentazione umana. Il colore bianco della cariosside, dovuto alla presenza di un gene recessivo (yellow), è accompagnata dal colore bianco del tutolo (dovuto al gene p-ww) e delle sete (controllato dal gene p-www).

Frazioni proteiche, proteina e aminoacidi essenziali nelle farine di mais normali e opaco-2 Frazioni (mg per 100 mg di proteine)

Normale

Opaco-2

Prolamina

46

18

Albumina e globulina

20

39

Glutelina

34

43

Proteine (%)

9,0

10,5

Lisina

3,0

5,0

Triptofano

0,7

1,3

Aminoacidi (mg per 100 mg di proteine)

17


botanica Varietà coltivate Le diverse migliaia di varietà di mais sono suddivise in gruppi a seconda delle caratteristiche morfologiche della cariosside. Mais dentato. La cariosside presenta una depressione o dente alla sommità che si forma per il rapido essiccamento dell’amido poco compatto presente all’apice della stessa mentre l’amido presente ai lati è più compatto e corneo. Rappresenta il tipo di mais oggi maggiormente presente sui mercati mondiali. Mais vitreo. Presenta amido compatto all’esterno e più soffice o farinoso solo in un piccolo nucleo interno. Le cariossidi sono più piccole del gruppo precedente. Predominava nella maiscoltura italiana, europea e sud-americana. Mais dolci. Sono allevati soprattutto negli Stati Uniti. In origine, differivano dal dentato solo per un gene recessivo (sugary1) che previene la conversione degli zuccheri solubili in amido. Tuttora, sono utilizzati almeno otto geni che influenzano il contenuto dei carboidrati nella cariosside, singolarmente o in combinazioni genetiche diverse. Per esempio, l’ibrido (che sfrutta il mutante shrunken2) su1 sh2 x su1 Sh2 produce una frazione del 25% di semi su1 su1, sh2 sh2 (superdolci) che migliorano il sapore del prodotto. Sono anche state sviluppate combinazioni di tre mutanti come sugary enhancer1 (se1), sh2 e su1 nella formulazione ibrida su1 su1, se1 se1, Sh2 sh2 x su1 su1, se1 se1, sh2 sh2. Oggi il genotipo più coltivato è probabilmente su1 su1, se1 se1. La resistenza agli insetti è un carattere fondamentale per proporre alla coltivazione ibridi in grado di soddisfare anche esteticamente il consumatore. Un secondo carattere particolarmente importante è la resistenza al freddo della plantula, inclusa la capacità di germinare in condizioni di basse temperature ed elevata umidità del terreno. È infatti noto che le mutazioni usate nelle combinazioni diverse per costituire ibridi dolci e superdolci conferiscono al seme ibrido una accentuata sensibilità alla bassa temperatura. Al momento della raccolta per l’utilizzo, la cariosside si presenta ben distesa mentre a maturità è grinzosa. Le spighe sono raccolte alla maturazione lattea avanzata e sono destinate al consumo diretto oppure, dopo sgranatura, alla conservazione in contenitori a banda stagnata, sterilizzati.

Mais dentato

Mais vitreo

Mais da amido. Rappresenta uno dei mais più antichi ritrovabile nelle tombe Azteche e Incas. Il fenotipo è determinato dal gene recessivo waxy (wx), che caratterizza l’amido formato esclusivamente da amilopectina: la cariosside ha struttura interna farinosa e assume all’esterno un aspetto opaco. Nel 1940 si scoprì che l’amido di questo mutante aveva proprietà molto simili a quelle della tapioca, un amido ottenibile dalla manioca. Al tempo

Mais dolce

18


morfologia e fisiologia la difficoltà di importare la tapioca a causa della guerra stimolò negli USA l’inizio della produzione di mais waxy. Il mais wx è di solito sottoposto a un processo di molitura umida – in acqua calda in presenza di anidride solforosa – che separa l’amido dagli altri componenti della granella; l’amido è poi modificato con trattamenti chimici particolari e trova applicazione nell’industria tessile, della carta, degli adesivi e del cibo. In particolare l’amido wx è essenziale per migliorare uniformità, stabilità e tessitura di prodotti da consumo umano. Nel 1952 fu riportata l’esistenza del mutante amylose extender (ae) che innalza la produzione nell’amido al 36-65% di amilosio. Dieci anni dopo la scoperta di questo mutante si iniziò la coltivazione dei primi ibridi ae che in media contenevano nel loro amido il 50% di amilosio. Verso gli anni ’70 si avviarono alla commercializzazione ibridi con il 70% di amilosio, sempre basati sulla mutazione ae ma arricchiti di geni modificatori specifici. La produzione di amilomais viene realizzata su contratto con le ditte utilizzatrici della granella prodotta: il coltivatore è rifornito del seme necessario e deve seguire le raccomandazioni colturali dettate dal committente, che evitano la contaminazione del prodotto con seme di mais standard.

Mais da amido

Mais da scoppio o “pop-corn”. Ha semi piccoli, rostrati e ad elevata percentuale di amido compatto all’esterno, con un piccolo nucleo interno friabile. È caratteristico per la sua reazione al calore: le cariossidi, esplodendo, formano fiocchi voluminosi. Esso sostiene una specifica industria che si è sviluppata a partire dal 1880. Il primo ibrido fu rilasciato nel 1934 e nel 1955 il mercato era quasi tutto occupato dagli ibridi. Questi ibridi sono caratterizzati da cariosside piccola (da 50 a 100 semi in 10 g), colore giallo o bianco, forma allungata o rotonda, pericarpo integro ed endosperma con un elevato rapporto tra la parte esterna vitrea e quella interna ad amido soffice, forma del fiocco a farfalla o a fungo, sapore del fiocco gradevole.

Mais da pop-corn

Si ricordano inoltre: Mais vestito: deriva dai primi mais coltivati e presenta le cariossidi rivestite dalle glume. Non è coltivato per scopi commerciali. Mais da pipe: il tutolo deve avere diametro superiore a 38 mm, lunghezza sufficiente per formare due fornelli da 51 mm ed essere fortemente legnoso. Nel 1970 si è raggiunto negli Stati Uniti il picco di vendite di pipe ricavate dal tutolo del mais: 25 milioni di pezzi venduti in un solo anno. Il mais adatto a questo scopo è stato appositamente migliorato, particolarmente presso l’Università del Missouri.

Pipe prodotte con il mais

19


botanica Fisiologia Uso della radiazione solare La quantità di sostanza organica prodot­ta dai vegetali è proporzionale all’efficien­za con la quale l’energia del sole viene uti­lizzata a fini biosintetici. Limiti all’effi­cienza biosintetica sono di solito riferiti a carenze del processo fotosintetico (source) o del processo di traslocazione e deposito dei fotosintati (sink). È da tempo nota ai fisiologi della pro­duzione l’esistenza di correlazioni negative tra le componenti della produzione (nel mais così si indicano, per esempio, il peso unitario del seme, il numero dei semi per spiga, il numero di spighe per pianta, il numero di piante per unità di superficie). Per questo motivo i limiti produttivi dei vegetali sono stati frequentemente attri­buiti a carenze fotosintetiche. In realtà so­no stati evidenziati limiti anche in alcuni passaggi metabolici che regolano il depo­sito della sostanza secca.

Accumulazione di sost. secca g/m2/giorno

50 80° 40 40° 30

di inserzione Angolo

20

10

0

0

1

2

3

4 LAI

5

6

7

Morfologia dello strato vegetante. La velocità di accumulo di sostanza sec­ca dipende dall’efficienza fotosintetica e dalla superficie fogliare presente sul cam­po (espressa dall’indice LAI = m2 di super­ficie fogliare/m2 di terreno). Il valore di LAI dipende dalla densità di investimen­to e dal genotipo. Dal punto di vista teo­rico e in condizioni ottimali di LAI l’orien­tamento quasi verticale delle foglie garan­tisce velocità superiori di fotosintesi. L’an­golo ottimale di inserzione fogliare dovreb­be essere di 80° sull’orizzontale; le previsioni teoriche relative a un model­lo di pianta a foglie erette hanno avuto si­curi riscontri nella sperimemazione di cam­po. Sia il grado di fogliosità della pianta sia il portamento fogliare rispondono alla selezione.

8

Relazione tra indice di area fogliare (Leaf Area Index o LAI) e produzione di sostanza secca a diversi angoli di inserzione sull’orizzontale della foglia di mais

Efficienza fotosintetica

• L’energia radiante media alle

longitudini italiane è da considerarsi dell’ordine di 400 kcal m-2 giorno-1, delle quali 264 tecnicamente sfruttabili a fini produttivi e quindi in grado di permettere l’organicazione di 2,31 moli di CO2 giorno-1, pari a 62 g di sostanza secca m-2 giorno-1. I valori massimi misurati per il mais in esperimenti realizzati in regioni geografiche a climi simili a quelli italiani sono stati di 17, 29, 38 e 52 g m-2 giorno-1. Estendendo i valori massimi misurati a un periodo di un anno (il calcolo è puramente teorico in quanto le condizioni ottimali per il realizzarsi del processo fotosintetico sono presenti solo in una frazione dell’anno) si ottengono rese teoriche di sostanza secca di 190 t ha-1 anno-1

Efficienza fotosintetica. L’efficienza teorica del processo fotosin­ tetico è pari al 28,6% (rapporto tra il contenuto calorico di una mole di CH2O pari a 114 kcal e l’energia necessaria a ridurre u­na mole di CO2 pari a 399 kcal). Questa ef­ficienza deve essere ridotta dei fattori: 0,43 (frazione fotosinteticamente attiva della radiazione totale); 0,80 (frazione del­la radiazione intercettata dallo strato ve­ getante); 0,67 (riduzione per perdita re­spiratoria). L’efficienza del processo si ri­duce così al 6,6%. Tenendo conto della distribuzione della vegetazione sul terreno e delle variazioni nell’intensità luminosa si arriva a un’efficienza reale tra l’1,5 e il 2%. Ciclo fotosintetico C4 Rese fotosintetiche elevate possono dipendere da alte capacità sia fotochi­miche sia carbossilative. Non sono attual­mente disponibili dati relativi a particolari comportamenti del mais, nei confronti di altre piante, a livello fotochimico. Negli ultimi anni sono stati invece chiariti gli aspetti fondamentali della riduzione della CO2 nelle cosidette piante C4, tra le quali il mais è stato particolarmente studiato. 20


morfologia e fisiologia Schema del ciclo C4 Cellula del mesofillo

CO2

Cellula della guaina

Anatomia Kranz

• Le foglie di mais sono caratterizzate CO2

COOH HCH HCR COOH

COOH HCH HCR COOH

Ciclo C 3

Ciclo C 4 PEP

Amido Cloroplasto

da una situazione anatomica nota come “anatomia Kranz”. Esse possiedono due tipi di cellule fotosintetizzanti: le cellule della guaina del fascio e le cellule del mesofillo. La fissazione della CO2 avviene prima nelle cellule del mesofillo con una serie di reazioni note come ciclo C4; la reazione principale del ciclo è catalizzata dall’enzima fosfoenolpiruvato (PEP) carbossilasi; si forma acido malico che viene trasportato alle cellule della guaina. Qui si libera CO2 che viene poi riorganicata dal cloroplasto attraverso il ciclo C3 il cui enzima principale è la ribulosio bifosfato-carbossilasi (RuBP)

CO2

3 C

PGA

PGA

Amido Cloroplasto Saccarosio

Interazione della fotosintesi C4 con l’am­biente Le piante C4 non solo possiedono due tipi di cellule fotosintetizzanti, ma mostrano anche particolari risposte ambien­tali.

Produzione di carbonio (gCO2/m2/giorno)

Luce. Entro i limiti delle intensità lu­minose ritrovabili in natura, le piante C4 danno risposte fotosintetiche non saturan­ti: anche a intensità luminosa elevata ri­spondono, cioè, ad aumenti dell’in­ tensità della luce incrementando la quan­tità di CO2 fissata. Questa forma di foto­sintesi sembra essere un adatta­mento per utilizzare efficacemente il livel­lo di CO2 atmosferico. Il processo fotosin­tetico nelle piante C4 è inoltre insensibile al livello di O2 atmosferico mentre le pian­te C3 sono stimolate dal livello di O2. Temperatura. Nelle piante C4, come evidenziato nel grafico a lato, il pro­cesso fotosintetico si massimizza a tempe­rature più elevate che nelle piante C3. Nelle piante C4 è scarsa infatti la fotorespirazione. Il processo fotosintetico C4 è invece molto sensibile al freddo. Quest’ultima caratteristica sembra dovuta alla perdita di attività, a temperature bas­se, dell’enzima piruvatodichinasi.

80

C3

60

C4

40 30

40

50

60

Latitudine (°N)

Acqua. La migliore utilizzazione dell’acqua nelle piante C4 è legata alla loro efficienza nell’assorbire CO2. Il vapore acqueo e la CO2 passano infatti simultaneamente dagli stomi. Poiché le piante C4 fissano più efficacemente la CO2, è ragionevole pensare che esse perdano meno acqua per unità di CO2 fissata. Facendo un rapporto tra l’acqua tra­spirata e la CO2 assorbita, si nota che la fissazione di CO2 è proporzionalmente elevata rispetto alla perdita

Resa della fotosintesi in piante C3 e C4. Anche a basse latitudini, che corrispondono a temperature elevate, la fotosintesi delle piante C4 (a differenza delle C3) rimane elevata per la mancanza di fotorespirazione (da L. Taiz, E. Zeiger)

21


botanica di acqua, ragion per cui la pianta ha un’elevata efficienza nell’utilizzazione dell’acqua. Il mais traspira 250 g di acqua per grammo di sostanza secca prodotta contro 660 g usati dal frumento tenero o 750 g dell’erba medica.

Foto R. Angelini

Azoto. Le piante C4 producono circa il doppio di sostanza secca per unità di azoto fogliare. Inoltre, investono solo il 10-­25% del loro azoto nella costituzione della proteina RuBP carbossilasi, mentre le piante C3 ne investono dal 40 al 60%. Regolazione ed efficienza del ciclo C4 Si è già ricordato come la PEPcarbos­silasi e la RuBP carbossilasi siano localiz­zate rispettivamente nelle cellule del meso­fillo e della guaina. La compartimentazio­ne intercellulare dei due enzimi ha note­voli effetti sull’assimilazione netta di CO2. Nelle cellule della guaina, infatti, si rea­lizza un’elevata disponibilità del radicale carbonico che deriva dall’acido malico. In queste condizioni la fissazione della CO2 via RuBP carbossilasi è decisamente favo­rita. Il ciclo basato sulla PEP carbossilasi si configura quindi come una pompa che mantiene elevata, nelle cellule della guai­na, la disponibilità di CO2 (tra 0,8 e 1,9 mM). Questi elevati livelli di CO2 sono stati anche ritenuti responsabili dell’inibizione della RuBP carbossilasi per quanto riguar­da la sua attività ossigenasica. Tale en­zima è infatti in grado di produrre anche acido fosfoglicolico a partire da RuBP e O2. Si forma poi acido glicolico, il substra­to per la fotorespirazione, cioè per la libe­ razione di parte della CO2 fissata preceden­temente. Pur essendo noto che nella pianta C4, fino a maturità, la fotorespirazione è assente, è stato osservato che gli enzimi relativi a questo processo metabolico sono presen­ti. Si è perciò anche ipotizzato che l’even­ tuale CO2 rilasciata possa essere riassorbita quando ridiffonde nelle cellule del me­sofillo. Entriamo ora nel merito degli aspetti di regolazione della fotosintesi nelle piante C4, aspetti che possono eventualmente prestarsi a suggerire su quali parametri può operare il miglioramento sperimenta­ le della fisiologia produttiva. È opinione comune che queste piante si siano evolu­te in presenza di elevate temperature, alta intensità luminosa, salinità e stress da ac­qua. Dati recenti dimostrano inoltre che l’affinità per la CO2 della PEP carbossila­si non è superiore a quella della RuBP carbossilasi; la maggiore efficienza delle piante C4 è quindi da mettere in relazione soprattutto alle elevate concentrazioni di CO2 garantite nelle cellule della guaina, ri­sultato quest’ultimo apparentemente di­pendente da un adattamento xeromorfo. È indubbio quindi che una forte pressio­ne selettiva è stata in grado di plasmare il processo di fissazione della CO2. Ciò farebbe presumere che potrebbero essere realizza­ti ulteriori miglioramenti del processo nel­la sua globalità.

HCO–3

Piruvato

Malato

CO2 PGA

Attivazione

Ciclo C4

Inibizione

PEP

PEP carbossilasi OAA

RuBP Esosi P Ciclo C3 Triosi P

Regolazione del ciclo C4 (PEP = fosfoenolpiruvato; OAA = acido ossalacetico; PGA = acido fosfoglicerico; RuBP = ribulosio bifosfato)

22


morfologia e fisiologia In particolare, l’enzima PEP carbossilasi è stato spes­so considerato attentamente nell’ottica di individuazione di un fattore limitante. Sembra, per esempio, che in condizioni a­normali la sua sintesi venga potenziata con la mediazione dell’acido abscissico, il cui livello in effetti aumenta in stato di stress. Le funzioni regolatrici della PEP carbossilasi (attivazione da glucosio-6P, repressione da acidi organici) sem­brano inoltre prestarsi a essere modificate ereditariamente nel senso di rompere i par­ticolari intercontrolli tra ciclo C3 e C4 che in certe condizioni limitano la resa globale del processo fotosintetico. È anche nota l’esi­stenza nella stessa specie di isoenzimi del­la PEP carbossilasi diversi per le loro pro­prietà: in questa condizione la selezione della forma più attiva potrebbe indurre su­periore produttività. È noto che le basse temperature inibiscono maggiormente la fotosintesi C4 che quel­la C3. Due enzimi sono stati ritenuti re­ sponsabili di questo comportamento in quanto particolarmente sensibili alle bas­se temperature: piruvatodichinasi e malicodeidrogenasi NADP-dipendente. Per quanto riguarda la piruvato dichinasi da mais è stato notato che, se viene estrat­ta da cultivar resistenti al freddo e allevate a basse temperature, conserva l’attività molto più a lungo di quella estratta da cul­tivar sensibili al freddo allevate nelle stes­se condizioni. Il dato sembrerebbe indivi­ duare un parametro fisiologico utile alla selezione in favore di un carattere agrono­mico. Infine, con la sene­scenza fogliare si rilevano variazioni nel tipo di fotosintesi: la fotorespirazione compare e il punto di compensazione si sposta progressivamente verso i livelli di piante C3. L’individuazione dei tipi stay green ha consentito di prolungare la vitalità della pianta negli stadi finali della sua vegetazione.

CO2 RU 1,5 P2

PGA

Pi

Triosi P

Triosi P

Fru 1,6 P2

Fru 1,6 P2

Fru 6P

Fru 6P

Glc 6P

Glc 6P

Pi

Pi

ATP PPi

Glc 1P ADP Glc

UTP PPi

Glc 1P

Glucani

UDP Glc UDP Saccarosio 6P

AMIDO

SACCAROSIO

ADP

Pi Stroma

Citosol

Vie di sintesi dell’amido e del saccarosio nelle foglie (Ru 1,5 P2 = ribulosio 1,5 bifosfato; PGA = acido 3-fosfoglicerico; triosi P = triosi fosfati; Fru 1,6 P2 = fruttosio 1,6 bifosfato; Fru 6 P = fruttosio 6 fosfato; Glc 6P = glucosio 6 fosfato; Glc 1P = Glucosio 1 fosfato; ATP = adenosina trifosfato; Pi = fosfato inorganico; ADP Gluc = ADP glucosio; UTP = uridina trifosfato; PPi = pirofosfato; UDP Glc = UDP glucosio; UDP = uridina difosfato; saccarosio 6P = saccarosio 6 fosfato)

Accumulo e trasporto dei fotosintati I triosofosfati prodotti nelle prime rea­zioni della fotosintesi possono accumular­si come amido nel cloroplasto o essere a­sportati dallo stesso. Se asportati, i triosi possono es­sere trasformati in saccarosio nel citopla­sma, e quindi servire da base per la sintesi di carboidrati strutturali o di riserva, o in piruvato via 3 fosfogliceraldeide, acido fo­sfoglicerico, acido fosfoenelpiruvico e quindi stimolare la sintesi di aminoacidi o grassi. La presenza di ioni ammonio sti­mola il passaggio PEP-piruvato: un ecces­so di NH4 può perciò riflettersi in bassi li­velli di saccarosio nei tessuti di trasporto e quindi in un minore accumulo di sostan­za secca strutturale o di riserva. Nelle foglie di piante C4 sono state ri­trovate elevate attività degli enzimi sacca­rosio fosfato e saccarosio sintetasi. Questo riflette sia la loro superiore potenzialità fotosintetica sia una migliore traslocazio­ne del saccarosio. Il saccarosio traslocato dalla foglia si accumula particolarmente nel culmo della pianta fino a 2-3 settimane dopo la fioritura, ma anche nel tutolo, nel­le guaine e nelle brattee. Il culmo funzio­na quindi da magazzino per il sac23


botanica carosio che poi viene richiamato verso la spiga nel­la fase di più attivo riempimento del se­me. È stato anche stabilito che, dopo la fio­ritura, il saccarosio va preferibilmente dal­le foglie superiori alla spiga e da quelle in­feriori allo stocco. Appare quindi evidente l’esi­ stenza, nelle fasi finali di accumulo, di competizione tra il culmo e la spiga per il rifornimento di saccarosio. La competizione non è in atto nei primi stadi di sviluppo del seme; in questa fase sembra che la produzione di sostanza secca venga influenzata da un di­fetto di volume del culmo più che da li­miti fotosintetici, con innalzamento dei va­lori percentuali del saccarosio nella foglia cui consegue il rallentamento della fotosin­tesi. Al contrario un elevato contenuto di saccarosio nel tutolo e nel seme stimola la sua conversione in amido. È stata inoltre individuata nel peduncolo della spiga l’esi­stenza di un filtro della traslocazione del saccarosio la cui selettività può essere lar­gamente modificata con la selezione. Anche la posizione della spiga sul cul­mo influenza la produttività: la selezione per bassa inserzione genera infatti rispo­sta negativa nei confronti della produ­zione. Il diametro del culmo è decisamente correlato all’accumulo di sostanza secca, specie nel periodo precedente la fioritura; l’associazione si rileva pure con la lunghezza del culmo. Relativamente alla resi­stenza del culmo allo stroncamento è stato osservato che viene migliorata in presenza di elevati contenuti in zuccheri; in queste condizioni si osserva infatti una maggiore vitalità delle cellule del parenchima che si oppongono così all’invasione dei parassiti fungini.

Accumulo delle sostanze di riserva

• La funzione della spiga come organo

di richiamo dei prodotti della fotosintesi, e quindi di scarico della foglia, è generalmente riconosciuta. Il richiamo è esercitato anche sui carboidrati solubili temporaneamente depositati nel culmo; questo è particolarmente evidente in climi settentrionali dove in condizioni di abbassamento termico, e quindi di perdita della capacità fotosintetica, elevate quantità di carboidrati solubili vengono spostate nella spiga

Controllo dell’accumulo e del trasporto. I passaggi metabolici limitanti la velo­cità di rilocazione dei carboidrati nella pianta del mais non sono noti. Esistono osservazioni sperimentali che indicano co­me le piante C4 possono trasferire elabo­rati lungo il floema con velocità di 3-4 vol­te superiori a quelle di piante C3. An­che il “caricamento” del seme è molto più veloce nelle piante C4. Tra i due tipi di piante non sono però state individuate con certezza differenze anatomiche o bio­chimiche riferibili a diversa efficienza di trasporto; ciò permetterebbe invece di ap­profondirne gli aspetti di regolazione. Indubbiamente esiste un legame molto stretto tra la capacità di sintesi di fotosin­tati e la possibilità di rilocarli: l’ablazione degli organi di accumulo induce infatti una caduta nell’organicazione fotosintetica di nuova CO2. È quindi da presumere che li­velli elevati dei carboidrati solubili agisca­no da freno sull’attività del cloroplasto. È d’altra parte stato riportato che proprio i livelli di carboidrati che inducono una reazione fotosintetica sono quelli che mas­simizzano la velocità di accumulo degli ela­borati. Nei limiti entro i quali queste ac­quisizioni sono valide, si può quindi con­cludere che probabilmente è impossibile per il source e per il sink funzionare simul­taneamente a livelli elevati. 24


morfologia e fisiologia Assorbimento di elementi minerali L’assorbimento di elementi nutritivi è un processo metabolico che dipende dalla disponibilità di carboidrati. Si ripropon­e quindi tutta una serie di relazioni energetiche il cui controllo non è per ora chiarito. Nella distribuzione di energia tra parti aeree e radici sono coinvolte azioni ormonali; per esempio, trattamenti con gibberellina canalizzano l’energia ver­so lo stelo a spese della radice. Al di là dei costi energetici del processo è indubbio che lo stesso viene controllato e si svolge secondo sequenze metaboliche ben defini­te. Quello che sembra più interessante è che sono state frequentemente riportate decise differenze varietali per quanto ri­guarda la capacità di assorbire particolari ioni. Questo implica che la capacità di as­sorbimento è sotto controllo genetico e che la stessa può essere selezionata favorevol­mente. Le risposte alla selezione del mais per resistenza alla salinità o alla concentrazio­ne di alluminio confermano le possibilità di migliorare questa pianta per quanto ri­guarda le sue caratteristiche di assorbi­ mento ionico. Recentemente è stato dimostrato che anche le costanti che descrivono il proces­so possono variare entro la specie e soprat­tutto rispondono alla selezione. Particolari attenzioni sono state riser­vate alle vie di assorbimento e organicazio­ne dell’azoto. L’azoto inorganico arriva alla fo­glia come nitrato via xilema e la riduzione del nitrato avviene nel cloroplasto via ni­trito e nitrato reduttasi. La nitrato redut­tasi del mais è stata particolarmente stu­ diata: il suo livello risulta controllato geneti­camente e correlato con l’atti­tudine della pianta a sopportare alte den­sità d’investimento; è inducibile da nitrato e svolge anche importanti funzioni di regolazione dell’intero processo di orga­nicazione dell’azoto. Questa particolare via metabolica, che si svolge nel cloroplasto, consuma energia fotosintetica: anche a tale livello si ripropone quindi una con­trapposizione proteine-carboidrati.

Variabilità nelle piante C4

• Individuare specifici meccanismi di

regolazione implicati nelle consistenti regolazioni da feedback nelle piante C4 è estremamente importante. Studi condotti su popolazioni o ibridi di mais hanno comunque rilevato l’esistenza di variabilità genetica per la velocità di riempimento del seme, la grandezza degli organi di accumulo, la durata del periodo di accumulo ecc. Questi risultati confermano l’esistenza di passaggi metabolici che regolano l’accumulo dei prodotti della fotosintesi, utilizzabili nei programmi di selezione per produttività

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il mais

botanica Genetica e miglioramento Carlo Lorenzoni, Adriano Marocco

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 3 in basso a destra (Teresa Kenney), 6 a sinistra (Jo Ann Snover) e a destra (Douglas Mclaughlin), 17 (Annieannie), 24 (Teresa Kenney), 25 (Andrei Calangiu), 47 (Gary Allard), 88 in alto (Hdconnelly), 89 in basso (Ulia Taranik), 90 in basso (Ramon), 92 in alto (Robert Lerich), 92 in basso (Alex Staroseltsev), 93 (Mafoto), 290 in alto (Thomas Perkins), 291 in alto (Tadija Savic), 359 (Annieannie) sono dell’agenzia Dreamstime.com.


botanica Genetica e miglioramento Mais e genetica Uno dei motivi di interesse degli studiosi di genetica per il mais è connesso con la biologia riproduttiva e con la morfologia della pianta. Come già detto, il mais presenta una separazione degli organi maschile e femminile (monoicismo) che predispone alla fecondazione incrociata, ma nello stesso tempo rende agevole l’intervento dell’uomo per controllare l’impollinazione a suo piacimento. Il controllo dell’impollinazione può essere finalizzato alla fissazione dei caratteri in linee pure omozigoti, attraverso ripetute autofecondazioni, oppure alla produzione di ibridi, mediante l’incrocio forzato fra tipi contrapposti opportunamente scelti. Entrambe le operazioni costituiscono passi necessari alla preparazione dei materiali per l’analisi dell’ereditarietà e, ovviamente, è conveniente che non presentino particolari difficoltà manuali. Un altro fattore a vantaggio della specie mais nel contesto in esame, è offerto dalla vasta gamma di caratteristiche che rispondono alle esigenze che già Mendel segnalava come essenziale premessa per un proficuo svolgimento degli esperimenti genetici: esistenza di più forme (almeno due) del carattere, chiaramente distinguibili fra loro, stabili nell’espressione e facili da riconoscere. Casi simili nel mais si ritrovano sia a carico dell’architettura della pianta intera (per esempio altezza normale-nano) sia nell’aspetto di suoi organi (per esempio foglia verde uniforme-verde striato; cariosside con superficie liscia-grinzosa). I caratteri della cariosside, inoltre, hanno il pregio di consentire l’osservazione dei fenomeni genetici (dominanza, segregazione, ricombinazione) in poco spazio su grandi numeri e soprattutto nell’ambito della spiga e cioè nella progenie di una singola pianta, senza bisogno di precauzioni per evitare di confondere le discendenze di individui diversi.

Genoma

• Per genoma si intende una delle due

serie di cromosomi presenti nelle cellule somatiche di una specie diploide. Esso (genoma nucleare) include i geni necessari e indispensabili per il ciclo vitale e lo sviluppo di un organismo

• Con il termine genoma si indica anche

l’insieme del materiale ereditario di una cellula eucariotica, cioè delle sequenze geniche e sequenze non codificanti dei cromosomi (DNA nucleare), unitamente a quelle dei mitocondri (mtDNA) e dei cloroplasti (cpDNA)

Segregazione della forma delle cariossidi nelle sue classi liscio (Su) e grinzoso (su), fattore che nei mais dolci condiziona un elevato contenuto in zuccheri solubili e una disidratazione notevole del seme a maturazione Allevamento di mais in serra

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genetica e miglioramento Alcuni caratteri sono rilevabili anche a carico dei granuli pollinici. Trattandosi di cellule con nucleo aploide, derivato dai processi meiotici svoltisi, in questo caso, in un individuo eterozigote (Wxwx), metà dei granuli appare colorata in blu scuro (portatori dell’allele Wx), metà in rosso mattone (wx). Rispetto ad altre specie vegetali, che nel tempo si sono imposte all’attenzione dei ricercatori (per esempio Arabidopsis), il mais presenta un limite nella lunghezza del ciclo riproduttivo che richiede in genere diversi mesi e, in pratica, impegna un anno. In parte è possibile rimediare a ciò con accorgimenti per realizzare due e anche tre generazioni all’anno, quali l’allevamento in serra oppure la coltivazione alternata negli emisferi settentrionale e meridionale nello stesso anno. Evento non del tutto insolito nel campo della ricerca scientifica, anche motivi economici hanno favorito le indagini sul mais. Negli Stati Uniti, dove questo cereale costituisce uno dei pilastri della produzione agricola, essendosi compresa la parte decisiva che il miglioramento genetico avrebbe avuto nello sviluppo della coltura, si rivolsero sforzi notevoli nell’esplorazione delle potenzialità offerte dal dominio della genetica in tale specie.

DNA e RNA

• Il DNA (acido deossiribonucleico) è

la sostanza chimica con cui sono scritte, in codice, tutte le informazioni che vengono trasmesse ed espresse nella discendenza. La sua struttura molecolare è a doppia elica

• L’RNA (acido ribonucleico) è una

molecola simile al DNA, avente lo zucchero ribosio anziché il deossiribosio e una diversa base azotata nella struttura. Gli RNA derivano dalla trascrizione del DNA e possono trasferire l’informazione genetica dal nucleo al citoplasma (mRNA), trasportare aminoacidi (tRNA) oppure essere costituenti dei ribosomi (rRNA)

Citologia Oltre ai vantaggi elencati sopra, il mais, come materiale sperimentale, gode di un ulteriore privilegio. Il suo patrimonio cromosomico è costituito da un numero piuttosto basso di elementi (numero base n = 10 contro 14 e 21 dei frumenti duro e tenero), la cui osservazione al microscopio appare molto più facile che in altre importanti specie agrarie (per esempio in confronto all’orzo, che pure possiede solo n = 7). La dotazione cromosomica delle cellule somatiche (diploidi = 2n) si può rilevare negli apici radicali, con buona precisione, ma le osservazioni più significative si effettuano nelle opportune fasi del processo di formazione dei nuclei riproduttivi (meiosi). Nei passaggi

Cromosomi

• I cromosomi sono costituiti da due

cromatidi fratelli, uno copia dell’altro, tenuti insieme dal centromero, punto d’attacco del cromosoma alle fibre del fuso acromatico durante i processi di meiosi e mitosi. Il fuso acromatico rappresenta quell’insieme delle fibre non colorabili che connettono i cromosomi ai poli nelle divisioni nucleari. Nel cromosoma si possono osservare regioni ispessite dalla caratteristica forma tondeggiante, dette cromomeri, disposte longitudinalmente alternate a zone più sottili

Rappresentazione schematica dell’organizzazione del DNA nel cromosoma

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botanica Coppia di cromosomi omologhi Allele C2 (colorazione antocianica)

Cromosomi omologhi e alleli

• Nel nucleo di una cellula somatica sono presenti due cromosomi uguali, definiti cromosomi omologhi, uno di origine paterna e l’altro materna. Essi portano, nello stesso ordine, in siti (loci) corrispondenti, geni che controllano gli stessi caratteri ereditari

Allele Su (cariosside liscia)

Origine materna

Cromatidi fratelli

• Ogni carattere è controllato da

Origine paterna Centromero

2 copie di ciascun gene. Quando queste esprimono forme alternative (per esempio cariosside pigmentata o non pigmentata) si definiscono alleli

Allele c2 (assenza di colore)

Allele su (cariosside grinzosa)

finali della meiosi si nota che i cromosomi sono ridotti a 10 per nucleo, dotazione che caratterizza i gameti maschili e femminili. Il momento che fornisce le più dettagliate informazioni sulla morfologia cromosomica è la fase di pachitene della prima divisione meiotica. Ciascuno dei 10 cromosomi si distingue per la sua lunghezza totale e la lunghezza relativa dei due bracci in cui esso è suddiviso da una struttura morfologica e funzionale detta centromero. I singoli cromosomi appaiono caratteristicamente eterogenei quando colorati con opportune sostanze. Le aree che rimangono scure dopo colorazione sono dette eterocromatiche; eucromatiche quelle più chiare: le regioni eterocromatiche risultano geneticamente inerti. Minori particolarità visibili, quali gli knob (ingrossamenti che si colorano più intensamente con le normali tecniche di preparazione citologica) forniscono precisazioni utili per caratterizzare le diverse varietà o addirittura i singoli individui. La descrizione topografica raggiunge, infatti, una elevata precisione.

Cromosomi in metafase di apice radicale della linea di mais W64A. I membri di ciascuna coppia sono numerati da 1 a 10

Cromosomi della linea B37 preparati con la procedura di Kato et al (2004), che consente di caratterizzare ciascuno dei 10 cromosomi normali e gli eventuali soprannumerari (B). I cromosomi B non influenzano la fisiologia della pianta, ma sono utili per caratterizzare varietà e individui

Cromosomi pachitenici di mais: si possono rilevare sei evidenti knob su vari cromosomi

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genetica e miglioramento Dimensioni del genoma. Il patrimonio genetico (genoma) contenuto nei cromosomi del mais presenta dimensioni medie se paragonato ad altre specie vegetali. Tra i vari genotipi la dimensione genomica varia da 2,3 a 3,3 miliardi di basi o gigabasi (Gb). Tale variazione è dovuta prevalentemente a sequenze non codificanti, corrispondenti ai segmenti eterocromatici. All’origine delle dimensioni del genoma di mais si pongono fenomeni di poliploidizzazione: i cromosomi della forma ancestrale si raddoppiano e successivamente subiscono un processo di rimescolamento che dispone poi i segmenti omologhi su cromosomi differenti. Analizzando le sequenze dei geni duplicati, si presume che il mais derivi da due progenitori che si ibridarono 4,8 milioni di anni fa per dare il mais ancestrale. Confrontato con il genoma primigenio delle piante erbacee (vecchio di 60 milioni di anni), quello di mais si è evoluto molto più recentemente. I due genomi che si sono ibridati erano strettamente correlati tra loro, con un numero cromosomico aploide di 5. I cromosomi duplicati si separarono in grandi segmenti e si fusero insieme formando 10 nuovi cromosomi nei quali sono stati preservati i segmenti omologhi dei due progenitori e che, in seguito, si sono espansi per fenomeni di trasposizione. Sebbene nel 50% dei casi una copia dei geni duplicati sembra essere stata persa, i dati molecolari indicano che sia avvenuta anche una massiccia amplificazione genica nello stesso periodo in cui è avvenuta la trasposizione. Nei casi in cui sono state conservate entrambe le copie del gene duplicato, si riscontra che la loro regolazione è cambiata cosicché a ciascuna di esse corrisponde un distinto fenotipo.

Aploidia, diploidia e poliploidia

• Aploidia: presenza nella stessa cellula

di un unico rappresentante di ciascuna coppia di cromosomi. Il numero che la rappresenta è n

• Diploidia: presenza nella stessa cellula di coppie di cromosomi omologhi. Il numero che la rappresenta è 2n

• Poliploidia: presenza nella stessa cellula di più di due serie di cromosomi

Foto R. Angelini

Cromosomi e geni: i gruppi di concatenazione. Accertato che la reale importanza dei cromosomi deriva dal fatto che essi costituiscono la sede dei fattori determinanti i caratteri ereditari (geni), si sono moltiplicati gli esperimenti per precisare come i geni fossero legati fra loro a formare raggruppamenti (gruppi di concatenazione) e a quale cromosoma corrispondesse un determinato gruppo. Quale risultato si sono costruite le mappe genetiche della specie che comprendono 10 entità, numerate da I a X e corrispondenti all’ordine da 1 a 10 assegnato, in modo un po’ approssimato, ai cromosomi secondo la loro grandezza decrescente. La posizione relativa dei geni entro un gruppo è determinata calcolando, in appositi esperimenti, la probabilità che il legame tra i membri di una coppia sia rotto da fenomeni di ricombinazione (scambio tra corrispondenti segmenti dei due membri di una coppia cromosomica durante la meiosi). Approfondite informazioni, costantemente aggiornate, riguardanti mappe genetiche e relativi marcatori, geni mappati e loro prodotti genici, immagini, descrizioni dettagliate dei vari mutanti sono contenute nel Maize Genome Database (MGD). Nell’ambito del progetto di mappatura del mais sono stati prodotti dati relativi a una mappa 29


botanica 1 0 sr1 1 vp5

2 0 ws3

11 Ig1

Mappa genetica del mais

19 zb4 23 24 26 27 34

• Nella mappa a lato compaiono circa

200 geni la cui posizione è stata determinata con buona precisione già prima del 1970. Va sottolineato che, mentre l’ordine in cui si susseguono i geni rispetta la loro collocazione nei cromosomi, le distanze misurate come frequenze di ricombinazione (1 cM = centimorgan, corrispondente a un evento di ricombinazione tra due determinati geni in un gamete su 100) non riflettono quelle fisiche misurabili sui cromosomi stessi: evidentemente la distanza fisica non è il principale fattore determinante la probabilità dell’interscambio fra segmenti di cromosomi fratelli

3 0 g2

ms17 ts2 p1 dek1 30 gl1 nec2 34 d5

49 B1 54 gs2 56 as1 56 sk1 Centr. 60 wt1 64 hm1 68 fl1

5 0 sr1

83 v4

7 0 Zp6

8 Centr. 0 fl3

8 rgd1 8 Hs1 Centr. w15 14 v16 I12 17 Mdh5 17 Zp21 y1 19 Asr1 20 am1 20 Zp29 I10 si1 24 o2 24 Rp4 26 y8 27 Ri1 28 ms8 28 in1 29 lu1 30 I15 32 v5, Dc-B30 32 Ga1 34 gl17 32 d1 33 vp9 35 Cg1 35 a2 36 w16 38 pg11 37 Zp1-3 38 vp2 39 ps1 41 Zp16 42 j1 41 bm1 44 Dt2 Centr. 46 Adh2 42 bt1 Centr. 48 ra1 45 v3 49 Pl1 50 Bh1 52 gl1 47 bv1 52 cl1 53 Ts5 Centr. 55 ga2 55 Ia2 57 Lg3 58 su2 57 ae1 58 fl2 59 sm1 59 Rg1 62 st1 62 Tp1 60 pt1 61 gI6 65 ts4 66 su1 67 pr1 66 sl1 68 gl8 67 bt2 69 py1 68 ij1 Centr. 82 ig1

75 ys1

79 zb6 81 gl4

9 0 Dt1

10 0 Rp1

7 yg2 12 oy1 16 Og1

26 c1 29 sh1 31 bz1

42 I7 50 Io2 54 56 59 61 62 63 64 66

w11 wx1 d3 pg12Centr. ar1 v1 ms2 gl15

24 26 28 30

y9 zn1 Centr. du1 bf2

45 Tp2 47 g1

61 63 65 67

R1 I1 Lc1 Mst1

77 w2

78 w14 82 bk2 87 Bn1

93 ig2 94 ba1 104 an1 106 bz2 108 ad1 111 w3

6 0 Adk1 4 po1 13 16 17 19 20

14 cr1

74 ts1 Centr. 81 br1 85 Vg1 86 f1

4 0 Ph1

4 al1

87 v30

87 o7 91 I13 95 sr2

96 Got2 101 Tu1

105 na1 107 K3L

106 j2

107 Wc1

112 gl3 117 Me1 117 c2

121 Prot1 121 Ht1 Adh1 125 a3 128 Kn1 Iw1 133 D8 135 gs1 138 Mdh3 137 dp1 141 a1 sh2

107 v2 125 bd1 128 Pn1 137 Bf1 141 bm4

149 Phi1 153 et1 154 vp8 155 Ch1 158 Ts6 159 ga7 161 bm2

Mappa di concatenazione dei geni di mais. = centrometro; i numeri a sinistra indicano le distanze in cM a partire dal gene posto a una estremità

genetica e fisica. Tale mappa è stata costruita da diversi collaboratori del settore pubblico e privato utilizzando marcatori molecolari quali RFLP (Polimorfismo della Lunghezza dei Frammenti di Restrizione del DNA), microsatelliti (SSR), SNP (Polimorfismo del Singolo Nucleotide) e inserzioni e delezioni (In-Del). Con l’introduzione di questi marcatori genetici, la mappa misura circa 2000 cM ed è stata suddivisa in 100 bin di circa 20cM (23Mb) ciascuno. In ogni bin è posizionata una media di 70 sequenze per un totale di 6952 sequenze. Casi particolari di eredità materna (il carattere è trasmesso solo dal genitore femminile) hanno dimostrato che una piccola frazione di geni non si associa ad alcun cromosoma e invece appare collocarsi in organelli cellulari fuori dal nucleo (mitocondri, cloroplasti). Tali organelli, di grande importanza per la vita dell’organismo, possiedono infatti una loro dotazione di DNA e un proprio sistema di traduzione dei messaggi in esso contenuti. Un esempio di carattere citoplasmatico è offerto da forme di sterilità maschile che sono sfruttate nella pratica di produzione del seme ibrido.

A destra infiorescenza maschio-fertile: le antere fuoriescono dalle glume e disperdono abbondante polline. A sinistra infiorescenza della stessa linea maschiosterile: le antere non fuoriescono affatto o quasi e comunque contengono scarso polline abortito

Geni singoli, geni duplicati e DNA ripetitivo. Gran parte dei geni eucariotici non è rap­presentata nel genoma da entità singole, bensì da sequenze nucleotidiche multiple che costi­tuiscono famiglie di geni. I componenti di una famiglia genica rispettano quattro 30


genetica e miglioramento proprietà: molteplicità, omologia di sequenza, vicinanza fisica sui cromosomi e funzioni fenotipiche simili. Già l’identificazione di proteine con una se­quenza aminoacidica quasi uguale e raggrup­pabili in famiglie prefigura la scoperta di re­gioni cromosomali contenenti numerose copie di sequenze omologhe. Oggi sappiamo per certo che a questi gruppi di proteine corrispondono nel geno­ma famiglie di geni possidenti un elevato grado di omologia di sequenza. Inoltre, alcune di queste copie rappresentano pseudogeni cioè geni non funzionanti che non codificano per una proteina e perciò non sono inclusi nel numero totale dei geni. Le principali proteine di riserva di mais costituiscono famiglie geniche; piccole famiglie geniche sono rappresentate dai geni delle actine e delle proteine termo-inducibili. Studiando la plasticità delle sequenze nel genoma di mais sono state scoperte alcune sequenze che possono muoversi da una posizione all’altra all’interno del genoma. Tali sequenze, note come elementi trasponibili o trasposoni di classe II, costituiscono solo lo 0,2% dell’intero genoma. Essi constano di un sistema a due elementi dove uno fornisce l’enzima che regola la trasposizione e le attività di espressione genica e l’altro le sequenze mobili. Poiché gli elementi di classe II hanno la proprietà di spostarsi all’interno del genoma, si possono creare nuovi alleli funzionali di un particolare gene. Inoltre, una volta che si trova all’interno di un gene, il trasposone può saltare in una posizione differente dello stesso gene facilitando l’isolamento di una serie di alleli. La maggior parte degli elementi trasponibili è di classe I o retrotrasposoni: costituiscono il 56% dell’intero genoma e il 96% delle sequenze ripetute e sono responsabili di fenomeni di amplificazione. Infatti, gli elementi di classe I, a differenza di quelli di classe II, non hanno capacità di muoversi e provocano una rapida espansione cromosomica. Elementi di classe I sono amplificati attraverso un intermedio a RNA dando origine a inserzioni multiple e simultanee in zone diverse del genoma. Quattro famiglie di retrotrasposoni (Ji, Cinful, Opie, Zeon) costituiscono più di un terzo (34,81%) dell’intero genoma di mais.

Geni singoli, geni duplicati e DNA ripetitivo

• Attualmente esistono più di 417.000

sequenze di geni di mais depositate nelle banche geniche. Esse possono essere raggruppate in circa 31.000 sequenze singole o geni unici. Di queste l’11% è stato assegnato ai cromosomi. La porzione del genoma costituita da geni singoli (regioni trascrivibili e traducibili in proteine) rappresenta il 7,5% del DNA totale, circa quattro volte superiore alla percentuale riscontrata per il genoma umano

Trasposoni

• I trasposoni sono una classe di elementi

genetici mobili caratterizzati dalla presenza di sequenze che codificano per uno o pochi prodotti genici necessari per la trasposizione dell’elemento stesso. La sequenza codificante è fiancheggiata a entrambe le estremità da corte ripetizioni invertite

Foto R. Angelini

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botanica Geni e mutazioni. Sia per costruire le mappe sia per stabilire l’ereditarietà di un carattere, è indispensabile che per un gene si disponga di almeno due forme alternative (alleli) facilmente distinguibili fra loro. In genere, si contrappone la forma più comunemente conosciuta (normale) alle sue varianti meno diffuse o addirittura eccezionali (mutanti). Se si considera il gene come unità funzionale per l’espressione dei caratteri il significato di normale-mutante appare non puramente formale. Il “normale” infatti risulterà spesso corrispondere al comportamento dominante, secondo la terminologia introdotta da Mendel, mentre le varianti avranno comportamento recessivo o parzialmente recessivo. Ciò mette in evidenza un rapporto essenziale fra la struttura del gene, che sappiamo consistere in un frammento di DNA e cioè una sequenza di nucleotidi, e la sua funzionalità. Nel mutante, un’alterazione nella sequenza dei nucleotidi distrugge il messaggio portato dal gene, che altrimenti dovrebbe tradursi in una proteina (un enzima) necessaria nel processo metabolico che porta alla sintesi del prodotto finale (carattere espresso). Tradizionalmente nella genetica del mais, come di molti altri organismi, il nome di un gene ne sintetizza la funzione possibilmente con una sola parola (aggettivo o sostantivo): per comodità grafica di solito esso è sostituito nei testi dalle prime sue lettere (1-2 o al massimo 3). L’iniziale maiuscola indica l’allele dominante (A, Wx), la minuscola (a, wx) il rispettivo recessivo. Diversi sono gli eventi a carico del materiale ereditario che conducono alla comparsa delle mutazioni: in relazione alla loro dimensione esse possono riguardare un singolo o pochi nucleotidi, come sopra esemplificato (si parla allora di mutazioni geniche o puntiformi) o implicare rimaneggiamenti di varia ampiezza di uno o più cromosomi (vari tipi di aberrazioni: mutazioni cromosomiche).

Che cosa provoca le mutazioni?

• Esiste una serie di mutazioni che può

trovare spiegazione per analogia con interventi artificiali (trattamenti con radiazioni o con agenti chimici) e riportarsi alle condizioni ambientali; altre volte gli eventi sembrano del tutto occasionali, derivanti da un complesso di condizioni fisiologiche anomale, ma non necessariamente eccezionali

• Un fenomeno interessante è quello

della mutagenesi spontanea dovuta all’esistenza nel patrimonio genetico di segmenti di DNA capaci di muoversi da una posizione a un’altra dei cromosomi, i trasposoni precedentemente ricordati

La variabilità nel colore, nella forma, nella grandezza, nella composizione delle cariossidi di mais dà un’idea delle enormi capacità differenziative del genotipo della specie

Granuli di aleurone in semi di mais (in alto) e via metabolica che controlla la pigmentazione dell’aleurone (in basso). Ogni passaggio nella via metabolica è controllato da un gene che nella forma allelica dominante assicura la presenza dell’enzima necessario; nell’omozigote recessivo, per qualsiasi di questi geni, l’enzima manca e il processo di sintesi dell’antocianina (colore) si arresta al passaggio corrispondente

32


genetica e miglioramento Mutazioni ed evoluzione. Le ultime considerazioni ci portano a discutere il significato delle mutazioni nella vita delle popolazioni. Se a livello del singolo evento riconosciuto dall’alterazione di una capacità ereditaria si è portati a collegare alla mutazione un valore negativo, completamente diverso appare l’apprezzamento che se ne deve dare quando si entri in una visione a lungo termine, rivolta alla specie piuttosto che all’individuo. In tal senso si impone l’osservazione fondamentale che la mutazione dà origine alla variabilità genetica e cioè sta alla base di tutte le particolarità morfo-fisiologiche che rendono i membri di una popolazione variamente adattabili alle diverse condizioni ambientali e nel complesso conferiscono elasticità alla popolazione. La popolazione, quindi, potrà cambiare la sua composizione attraverso le generazioni in modo da corrispondere sempre al meglio alle esigenze di riprodursi e diffondersi, quali che siano le difficoltà imposte dalle modificazioni dell’ambiente. Per una specie coltivata, l’uomo si inserisce in questo quadro come uno dei fattori esterni più rilevanti: i suoi bisogni o i suoi gusti vanno infatti a sommarsi ai condizionamenti posti dagli elementi naturali nell’indirizzare l’evoluzione. Anzi, nel caso del mais, si nota che le scelte umane hanno influenzato l’attuale struttura della pianta al punto da renderne impossibile la sopravvivenza al di fuori dei campi coltivati. L’aspetto più evidente di questo processo è la perdita, rispetto ai progenitori, della capacità di disperdere i semi a maturità, che in natura costituisce un evidente vantaggio per l’espansione della specie, ma rappresenta un altrettanto chiaro inconveniente per l’uomo-raccoglitore. Alcuni dei caratteri primordiali della specie ricompaiono ancora in conseguenza di mutazioni che interessano la morfologia della spiga o dell’intera pianta.

Mutazioni e uomo

• L’uomo si è preoccupato di perpetuare

numerose differenze che spesso hanno un motivo funzionale (adattabilità a specifici ambienti e forme di coltura, conservabilità e aderenza all’uso del prodotto), ma talvolta sembrano rispondere a criteri estetici. In realtà anche aspetti superficiali quali il colore della cariosside avevano, e localmente ancora hanno, un significato per il riconoscimento varietale, se non altro come marcatori della proprietà

Mutazioni e uomo. Le scelte operate nel corso dei secoli non hanno esaurito la variabilità disponibile nella specie. Quanto al risvolto utilitaristico, da tempo l’uomo si è accorto che singole mutazioni hanno come conseguenza modificazioni nella composizione delle sostanze di riserva nella granella, apprezzabili per specifici usi. Per esempio, l’allele recessivo di sugary (su), quando omozigote nell’endosperma (ricordiamo che l’endosperma è un tessuto triploide) altera il metabolismo dei carboidrati, a scapito dell’accumulo di amido, conservando fino a maturità un’elevata presenza di fitoglicogeno e altri zuccheri meno polimerizzati che conferiscono un sapore dolce e un superiore contenuto d’acqua prima dell’essiccazione (mais zuccherino). Il mutante waxy (wx) dà alla cariosside un aspetto esterno ceroso, in conseguenza della struttura meno compatta dell’amido, che risulta formato da sola amilopectina anziché da un miscuglio di amilopectina e amilosio, come avviene nel normale: questa composizione risulta conveniente per determinati processi industriali come d’altra parte per lavorazioni diverse, appare utile il mutante amylose extender (ae) che innalza la frazione amilosica. Sotto l’aspetto nutrizionale va segnalato opaque-2 (o2) il

La presenza di amilosio, la cui sintesi è dovuta al gene Wx, è facilmente riscontrabile con la reazione alla soluzione iodio-iodurata dell’amido che dà una colorazione blu; quando l’amido contiene solo amilopectina la colorazione risulta rossastra (genotipo wx)

33


botanica

Chrom 1

Chrom 4

umc94 bn15,62 umc164

0,0 umc123 7,4 php200713 14,7

umc157

40,3

Chrom 6 npi235

0,0

0,0

Chrom 7 isu86

11,6 isu45A

npi234

67,3

umc13 P1

77,1 80,2

npi429 bn15,59

132,1 133,8

bn17,08

155,6

npi236

165,0

umc37

178,1

an26

188,8

isu18

220,3

isu6

232,6

umc86

259,4

bn16,32

269,7

bn15,46 bn15,45 umc42 Bt2

40,4 57,1 58,4 61,9

umc65

42,1

P11

52,7

umc21

70,1

umc46 bm15,47

npi292

0,0

npi280

113,9 130,7

Agp1

142,6

php10025

152,6

umc111

199,0

35,6

bnl15,21

45,0

umc110

56,7

bn17,61 82,8 bn18,37 88,3 bn114,07 isu11 bn18,39

131,5 umc62

23,3

bnl15,40

Chrom 8

bn18,44A

122,2

umc35

132,9

Chrom 9

bn19,11

0,0

umc103

12,8

bn19,44 bn19,08

28,3 32,3 bn13,06 umc153 umc114 bn18,17

32,4 39,3 40,3 50,9

umc48

58,5 umc29B

59,5

80,9 npi268 84,5 88,5 91,7 96,6 umc165B

umc7

quale, sempre in condizione omozigote recessiva (o2 o2 o2), riduce l’accumulo, fra le proteine endospermiche, della frazione zeinica, la più povera per l’alimentazione dell’uomo e degli animali monogastrici, a vantaggio di altre frazioni meglio dotate in aminoacidi essenziali quali lisina e triptofano: la diffusione in coltura di questo tipo di mais è purtroppo ostacolata da produttività alquanto ridotta e dalla sensibilità della cariosside agli attacchi fungini. Come già accennato, maggiore importanza hanno avuto nell’addomesticamento della specie e nelle prime fondamentali fasi dell’evoluzione controllata dall’uomo, mutazioni che interessano l’architettura della pianta e degli organi riproduttivi. In particolare nella parte femminile dell’infiorescenza i fiori si dispongono su più file, consentendo di moltiplicare il numero dei frutti (cariossidi); ciò è sostenuto anche dall’ingrossamento del rachide che, inoltre, non si frammenta alla maturazione. Ai drammatici mutamenti che hanno conferito al mais i caratteri essenziali per farne una pianta degna della coltivazione, si sono sovrapposte e accumulate nel tempo variazioni minori, ma importanti per il valore agronomico ed economico della specie. Queste variazioni non sono attribuibili all’azione di singoli specifici geni, ma dipendono da numerosi fattori che, in diversa misura, collaborano all’espressione di caratteri quali l’altezza del culmo, la lunghezza del ciclo riproduttivo, la produttività in granella o in massa vegetale totale. Si parla, in tali casi, di caratteri a variabilità continua o quantitativi, le cui basi ereditarie, per il numero dei geni coinvolti e per le interferenze dell’ambiente, sono difficili da definire. Fino a tempi recenti la loro analisi ha dovuto arrestarsi a livello descrittivo, con metodologie statistiche in grado di fornire una visione complessiva del fenomeno, ma non di spiegarne le componenti. Un varco per il progresso conoscitivo si è aperto con l’adozione di tecniche di analisi del DNA a livello molecolare, che consentono di identificare anche minime differenze nelle sequenze nucleotidiche di genotipi diversi.

C1

0,0

83,3 bn14,28 96,0 npi209

91,3 97,5

124,5

Nella mappa genetica sono riconosciuti segmenti (sbarrette ingrossate) che contengono geni implicati nella tolleranza alla piralide. La loro localizzazione si è ottenuta sfruttando l’associazione fra i loro effetti e i marcatori molecolari

Analisi molecolare del DNA

• In genotipi diversi sono presenti minime

differenze nucleotidiche, numerosissime e non sottoposte a influenze ambientali, possono essere considerate come altrettanti caratteri genetici e quindi introdotte nelle mappe della specie accanto ai geni noti per i loro effetti morfologici. Da ciò deriva la possibilità di associare a un marcatore molecolare la posizione occupata da un fattore che agisce su un carattere quantitativo (QTL = Quantitative Trait Locus) e collocarlo in una posizione più o meno precisa in un gruppo di concatenazione Fenotipo normale (destra) e opaco-2 (sinistra)

34


genetica e miglioramento Miglioramento genetico Per il mais, che è già spontaneamente una pianta con aspetti favorevoli alla coltivazione (culmo con poche spighe relativamente ben dotate di frutti non piccoli e che non si disperdono a maturità), le scelte dell’uomo appaiono subito decise ed efficaci. In 6000 anni dall’addomesticamento l’incremento delle dimensioni della spiga esprime bene l’intento di aumentare la produttività, attuato coscientemente dedicando alla riproduzione gli individui ritenuti migliori all’interno della popolazione coltivata. Questa procedura, detta selezione massale, ha consentito progressi enormi nel complesso, ma lenti se rapportati all’unità di tempo. La procedura soffre, infatti, di propri limiti che abbassano l’efficienza: 1) le influenze ambientali indeboliscono la validità genetica delle scelte eseguite; 2) l’apprezzamento effettuato sulla spiga tiene adeguatamente conto del comportamento della pianta madre, ma non ha alcuna capacità di controllo sul contributo genetico dei genitori maschili. Tali fattori, in popolazioni isolate, possono divenire preponderanti e vanificare ulteriori miglioramenti. Le varietà del Corn Belt (la fascia del mais) degli Stati Uniti, costituite nella seconda metà del XIX secolo da agricoltori avveduti, hanno costituito la base per i mais di alta produttività oggi diffusi in tutti i climi temperati e riportano l’attenzione sulla selezione massale. Va tuttavia sottolineato che la scelta si applicava su materiali dotati di elevata variabilità ereditaria e ciò facilitava quella utile. Era entrato qui in gioco un evento essenziale, l’incrocio fra varietà distinte, che certo anche in precedenti occasioni aveva avuto parte nell’evoluzione delle forme coltivate. Nello schema della sequenza storica dei metodi di miglioramento del mais riportata a lato, compare, con una vita un po’ più breve, il metodo spiga a fila che, in realtà, costituisce una modifica della selezione massale nel senso che la progenie della singola spiga è allevata individualmente, consentendo una più precisa valutazione del materiale scelto. La pro-

Miglioramento genetico e tecnica colturale

• L’affermazione che il miglioramento

genetico sia nato insieme all’agricoltura appare senza dubbio appropriata se si riferisce ai cereali che hanno fatto la storia della civiltà umana. Senza uno sforzo per identificare forme convenienti e favorirne la conservazione, non avrebbe avuto senso l’adozione di pratiche colturali applicate indiscriminatamente a un miscuglio di specie e di genotipi entro specie

Selezione entro e tra linee Selezione spiga fila Ibridazione varietale

1870 1880 1890 1900 1910 1920 1930 1940 1950 1960 1970

Selezione massale

Sequenza storica dei più comuni metodi di miglioramento del mais Coltivazioni di mais in Kenya

Foto R. Angelini

35


botanica cedura dimostrò un’efficacia piuttosto modesta, ma attirò l’attenzione sull’importanza di spostare la valutazione dall’individuo alla sua discendenza. Ciò risulta di particolare vantaggio, per la sicurezza della scelta, se la discendenza deriva da autofecondazione anziché da impollinazione libera. L’autofecondazione (o inincrocio), inoltre, promuovendo l’omozigosi fa sì che si manifestino gli eventuali effetti negativi di alleli recessivi: le linee portatrici di tali alleli saranno riconosciute ed eliminate. Solo le linee migliori andranno a ricostituire la popolazione che nel complesso risulterà superiore a quella di origine come comportamento generale e, in misura maggiore, per gli specifici caratteri oggetto di attenzione. La composizione delle sostanze di riserva della granella si è dimostrata altamente sensibile alla selezione, come illustrato dai risultati di un lunghissimo processo a carico di una popolazione per il contenuto in proteine. Successi considerevoli si possono ottenere anche per caratteri di resistenza ad avversità, a patto che la popolazione di partenza possieda sufficiente variabilità genetica al riguardo. Per assicurarsi questa condizione la popolazione spesso è costruita incrociando opportune varietà diverse.

Variazioni del contenuto di proteina della cariosside in una popolazione selezionata per valori divergenti (alto e basso)

% di proteine

Il modello di pianta cui si sono riferiti i recenti programmi di miglioramento presenta foglie erette, bassa inserzione della spiga, pennacchio piccolo e prolungata attività fotosintetica

Eterosi e gruppo eterotico

• Eterosi: maggior vigore vegetativo e

riproduttivo (lussureggiamento) degli ibridi rispetto alle linee ottenute per inincrocio

32 30 28 26 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 0

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Generazioni

• Gruppo eterotico: insieme di genotipi

Avvento degli ibridi. La migliore evidenza delle potenzialità della selezione per linea pura emergerà quando si presenteranno sul mercato del seme di mais le varietà ibride. L’idea di impiegare direttamente il prodotto dell’incrocio tra genotipi diversi sorge nel primo decennio del XX secolo in seguito alla scoperta dei fenomeni della depressione da inincrocio e dell’eterosi. In seguito a successive autofecondazioni, il vigore della pianta si abbassa, mentre aumenta l’uniformità morfologica fra gli individui all’interno della linea che così si viene fissando (linea pura). Si tratta delle conseguenze della consanguineità che, nella pratica, erano

che manifestano un determinato livello di eterosi quando incrociati con genotipi di altro gruppo. Fra i materiali coltivati nei climi temperati l’elevato livello di eterosi caratterizza le combinazioni tra linee dei gruppi Stiff Stalk e Lancaster

36


genetica e miglioramento conosciute da secoli sia negli animali sia nei vegetali, specialmente in quelli a riproduzione allogama. D’altra parte era anche noto che, in vari casi, l’incrocio tra tipi di origine diversa, dà discendenti più robusti dei genitori. In particolare nel mais, incrociando tra loro linee pure, spesso si ottiene nella prima generazione filiale (F1) una manifestazione di lussureggiamento vegetativo molto evidente, denominata eterosi. Inconsciamente questo fenomeno era ed è ancora sfruttato dagli indigeni di alcune aree del Messico centrale e meridionale. Ovviamente l’impiego, come genitori, di linee pure garantisce l’uniformità degli individui F1, in quanto questi hanno tutti lo stesso genotipo, e la massimizzazione del risultato produttivo se i genitori stessi sono stati scelti adeguatamente per combinare al meglio i rispettivi pregi: per esempio, se un genitore trasmette la resistenza a una malattia fungina e l’altro apporta la robustezza del culmo, otterremo una popolazione F1 resistente al fungo e poco soggetta allo stroncamento del culmo. In un periodo iniziale in cui si disponeva di linee poco produttive, per ragioni economiche si sono adottati per la coltivazione ibridi doppi (a quattro vie) o a tre vie, che, essendo entrambi i genitori o uno di essi (quello che funge da portaseme) prodotti di incrocio fra linee pure (ibridi semplici), consentono di ottenere seme abbondante e, quindi, a basso costo. Ciò va, tuttavia, a scapito dei pregi precipui delle F1 (uniformità, massimizzazione delle potenzialità produttive) e perciò si è preferito impegnarsi nella selezione per accrescere la resa in seme delle linee pure, in modo da offrire all’agricoltore ibridi semplici a prezzi contenuti. In ambienti agricoli climaticamente difficili e tecnologicamente arretrati, dove la disformità genetica conferisce il vantaggio di una maggiore adattabilità complessiva, può essere comunque ancora preferibile l’uso di ibridi complessi o addirittura di incroci fra una varietà tradizionale e una linea oppure tra due varietà.

F1 e F2

• F1: prima generazione filiale;

la discendenza dell’incrocio tra due linee pure

• F2: seconda generazione filiale; la

discendenza della F1 prodotta per autofecondazione o incrocio tra fratelli

Spighe di linee pure (a sinistra) e loro ibrido (a destra)

Omozigosi ed eterozigosi

• L’omozigosi si ha in presenza di alleli

identici per un dato gene. Si parla di omozigote dominante (AA) quando un individuo possiede, per un singolo gene, due alleli uguali dominanti, si parla invece di omozigote recessivo (aa) quando un individuo possiede, per un singolo gene, due alleli uguali recessivi. Gli individui omozigoti vengono anche definiti con il termine linea pura

P1

P2

F1

F2

F3

F4

F5

F6

F7

• L’eterozigosi si ha in presenza di una

F8

coppia di alleli diversi per un dato gene (Aa). Mendel indicava gli individui eterozigoti con il termine ibrido

Effetto dell’eterosi e della depressione da inincrocio nel mais. L’eterosi si manifesta nella F1 dell’incrocio tra due linee pure (P1 e P2) ed è seguita da depressione da inincrocio nelle successive generazioni derivante da autofecondazione (da F2 a F8)

37


Primo ciclo di selezione ricorrente

Ciclo iniziale di selezione (S1)

botanica

Generazione 1

Ma il quadro degli ibridi è soggetto di per se stesso a un progresso continuo. Questo progresso nasce da un costante lavoro di selezione a livello della costituzione delle linee nel quale rappresenta un criterio fondamentale l’“attitudine alla combinazione”, cioè la capacità della linea a fornire ibridi superiori quando impiegata in opportuni incroci. Altro fattore decisivo è l’evoluzione del modello morfo-fisiologico della pianta che deve essere espresso dalle linee e, a maggior ragione, dagli ibridi. Nel modello si fondono diversi elementi che insieme rendono la pianta più tollerante alle avversità e quindi meno soggetta a danni e perciò stabile alle risposte all’ambiente. Un solido programma di miglioramento deve essere protratto nel tempo e svolgersi sistematicamente attraverso cicli reiterati di selezione di progenie nell’ambito di una popolazione, ricostituzione della popolazione incrociando tra loro le progenie scelte, selezione nella nuova popolazione. A ogni ciclo la qualità complessiva della popolazione migliora e le probabilità di estrarne progenie superiori si accresce; intanto le progenie più promet-

Tester

2 Campo di confronto 3 Tester

1(4) 2(5)

Campo di confronto 3(6) 1(7)

Procedura di selezione ricorrente per attitudine combinatoria: nella progenie S1, frutto di autofecondazione di piante scelte, si esegue la valutazione delle piante per se stesse e l’incrocio con convenienti testimoni fissi detti tester (noti per dare buoni ibridi con i genotipi della popolazione in esame). Le migliori linee emerse si incrociano poi tra loro per formare la nuova popolazione su cui si ripeteranno le operazioni

A

B

A

B

D

C

D

Ibrido semplice

12 Produzione (t/ha)

C Linee pure

10 8 6 A×B

4 2 1920 1935 1950 1965 1980 1995 2010

Ibrido doppio

C×D

= impollinazione

Anno di introduzione dell’ibrido I moderni ibridi hanno produttività più elevate, rispetto ai vecchi, in tutte le condizioni ambientali (Fonte: Duvick, 2004)

= seme [(A × B)] × [(C × D)] Preparazione del seme ibrido di mais. Il prodotto commerciale può essere l’ibrido semplice (per esempio A x B) oppure l’ibrido doppio [(A x B) x (C x D)]

38


genetica e miglioramento tenti possono costituire l’origine di linee da saggiare in prove avanzate di attitudine combinatoria specifica e, in caso positivo, da immettere nella formulazione di ibridi commerciali. Il modello di pianta da perseguire, in quanto rispondente alle esigenze della maiscoltura moderna, si è venuto via via definendo in teoria e poi concretizzando negli ibridi adottati nelle coltivazioni. Sono elencati in tabella: i principali caratteri interessati dallo sviluppo dell’ideale morfologico. Il loro significato pratico appare intuibile: la resistenza alla piralide diminuisce il rischio che le gallerie scavate dall’insetto compromettano la staticità del culmo; la prolungata attività dell’apparato fogliare assicura un’elevata attività fotosintetica fino alla maturazione della granella; le foglie superiori erette consentono la penetrazione della luce fino agli strati fogliari più bassi che così possono funzionare anche negli stadi di sviluppo avanzati. Integrano il quadro ulteriori particolari, fra i quali appare rilevante la tolleranza a temperature relativamente basse della pianta nelle prime fasi di vita, che consente semine precoci e quindi un allungamento della stagione utile per la coltura. Ne guadagna l’efficienza complessiva dell’apparato produttivo che si traduce in potenzialità di accumulo di sostanza organica nel seme e nella pianta intera e in capacità di difesa dalle avversità e dai conseguenti danni. È da notare che l’accresciuta produttività realizzata nei processi di miglioramento genetico degli ultimi decenni non deriva da spighe più grandi o da granella più pesante, ma dal fatto che il nuovo tipo di pianta sopporta la coltura fitta e perciò permette un maggior numero di individui allevati, e poi di spighe raccolte, per unità di superficie. Quest’ultima osservazione introduce una interpretazione globale dei risultati dello sviluppo del modello nell’ambito dei programmi di miglioramento: quello che si è ottenuto, anche se l’obiettivo non sarà stato sempre chiaramente percepito, si identifica in una pianta più attrezzata per affrontare i limiti posti dall’ambiente, inteso nel senso più ampio. La correttezza dell’interpretazione è confermata dal comportamento di ibridi di diverse epoche posti a confronto in diverse condizioni di coltivazione. Gli ibridi recenti rispondono molto efficacemente a pratiche colturali accurate, ma risultano i migliori anche in situazioni relativamente limitanti: ciò smentisce l’opinione, alquanto superficiale, che attribuisce alle varietà moderne elevate esigenze in fatto di acqua, fertilizzanti, antiparassitari da soddisfare per non cadere al di sotto delle prestazioni delle varietà “di una volta”. L’attuale modello, quindi, risulta valido anche se va continuamente perfezionato. Fra gli aspetti più urgenti cui si rivolge l’attenzione per il prossimo futuro figurano la tolleranza alle carenze idriche e la resistenza alle infezioni di funghi che attaccano la granella, producendo tossine pericolose per l’uomo e gli animali.

Evoluzione delle caratteristiche essenziali della pianta di mais in ibridi di diverse epoche Epoca

Piante Resierette stenza a % piralide*

Angolo fogliare*

Vitalità foglie*

1930

63

2,5

2,2

4,4

1940

64

2,2

2,1

4,1

1950

71

2,9

2,2

4,6

1960

74

4,3

3,5

5,3

1970

77

4,2

5,1

5,5

1980

82

4,5

7,7

6,1

d.m.s. 5%

6

0,7

0,6

0,4

* Punteggi crescenti indicano comportamenti più favorevoli

Miglioramento genetico in Italia

• In Italia, a partire dal 1950, sono

comparsi i primi ibridi importati dagli Stati Uniti d’America e si è verificato un grande incremento delle rese medie nazionali. A tale incremento hanno contribuito il rapido abbandono della coltura nelle aree marginali collinari e non irrigue del Meridione e il perfezionamento delle tecniche colturali

• La sostituzione delle varietà con gli

ibridi è stata piuttosto rapida e già negli anni ’70 nelle zone vocate si allevavano solo questi ultimi, mentre l’Italia diveniva parzialmente autonoma anche nella produzione del seme ibrido

39


botanica Biodiversità e biotecnologie. Gli incisivi effetti del miglioramento genetico sulla struttura delle popolazioni coltivate e sull’intero assetto dell’agricoltura hanno fatto sorgere, da una parte, la giusta soddisfazione di chi ha promosso l’innovazione e, dall’altra, il dubbio sulla correttezza di interventi così sconvolgenti nei confronti degli ordinamenti tradizionali. Oggetto di discussione particolarmente accesa è l’uniformità delle colture che consegue all’adozione di un modello di pianta comune e all’ampia diffusione delle varietà realizzate secondo il modello stesso. È un fatto comprensibile che l’agricoltore accetti con favore la proposta di nuove varietà, molto produttive e meno soggette a limiti rilevanti (per esempio debolezza del culmo). Parallelamente saranno abbandonate le vecchie varietà che presentano più difetti, ma non sono più rustiche e cioè richiedono, per produrre a livelli inferiori, le stesse cure dei nuovi tipi. La situazione risultante va considerata, ed eventualmente criticata, in relazione a diversi aspetti coinvolti. Dal semplice punto di vista agronomico l’estrema uniformità di una coltura, estesa su una vasta area, costituisce un fattore di rischio, qualora in quell’area si verifichi una grave avversità. Un esempio delle pesanti conseguenze di un simile evento è offerto dall’epidemia di elmintosporiosi verificatasi nella parte meridionale degli Stati Uniti negli anni 1969-1970. Poiché la suscettibilità alla malattia era portata dal citoplasma maschiosterilizzante T, allora universalmente impiegato per evitare l’emasculazione manuale nella produzione di seme ibrido, tutti gli ibridi della zona furono colpiti, con perdite di prodotto enormi. Da allora i costitutori si preoccupano, nel loro lavoro, di assicurare una certa variabilità fra i formulati messi sul mercato, anche se riesce loro arduo rinunciare o limitare l’uso di genotipi noti per l’alta attitudine combinatoria. Diversa questione è quella dell’impoverimento delle riserve di variabilità costituite dalle varietà locali sempre più costrette ad ambienti marginali e del tutto abbandonate nelle maiscolture progredite. L’attenzione alla conservazione della diversità genetica trova giustificazione dal punto di vista biologico, in rapporto all’esigenza di mantenere aperta la maggior gamma di potenzialità per l’evoluzione delle popolazioni. Al riguardo, tuttavia, si osserva una possibilità di risposta rapida ed efficace da parte dei genetisti del mais come dimostrato dal flusso di variabilità espressa nel tempo con il rinnovarsi del quadro varietale (per esempio: successo dell’ideotipo B73 x Mo17, conseguente diffusione delle virosi, pronta sostituzione di questo con formulazioni resistenti). Ciò dipende dall’esistenza di una riserva di variabilità che si mantiene e talvolta si accresce a monte dei programmi di selezione artificiale. Questa riserva, spesso sovrabbondante rispetto alle esigenze applicative a breve termine, non richiede eccessivo impegno per il suo mantenimento in quanto costituita, nel suo nucleo centrale, da popolazioni eterogenee altamente eterozigoti. Frequentemente, inoltre, le popolazioni sono costruite con l’apporto di materia-

Foto R. Angelini

Campo di produzione del seme ibrido

40


genetica e miglioramento li di svariate origini, portatori di geni potenzialmente utili, dando luogo a una concentrazione di variabilità. Dall’insieme di queste situazioni (variabilità espressa nel tempo, variabilità nascosta, variabilità in riserva) emerge un quadro meno drammatico di quello che appare a un osservatore non esperto. A livello delle singole popolazioni eventuali perdite di variabilità potranno essere reintegrate da normali fenomeni di mutazione e ricombinazione, nonché dall’introduzione, casuale o deliberata, di geni da altre popolazioni. Questo appare particolarmente valido se si considerano le ricche collezioni di germoplasma mantenute in diverse parti del mondo (complessivamente 20.000 varietà, di cui oltre 1000 conservate a Bergamo, presso l’Istituto sperimentale per la Cerealicoltura). Il secondo argomento di discussione sorge, in tempi recenti, dalla opportunità di rendere più rapido e radicale il lavoro di miglioramento varietale mediante l’impiego delle moderne tecnologie genetiche. Nella percezione comune le biotecnologie si identificano con la costituzione di organismi geneticamente modificati (OGM). Ciò risulta assolutamente limitativo, come accenneremo in seguito. Possiamo comunque rivolgere per ora l’attenzione proprio agli OGM. La procedura di trasformazione applicata al mais consiste nell’introdurre i geni direttamente nella cellula vegetale da modificare. In questo caso si “sparano”, all’interno delle cellule, micro-proiettili metallici ricoperti di DNA: questo penetra nel nucleo e si inserisce nel genoma, come se alcune nuove pagine fossero “incollate” all’enciclopedia che contiene le informazioni vitali della pianta. Sugli effetti degli interventi di ingegneria genetica sono opportune alcune considerazioni di ordine generale, come suggerito da un recente documento della Società italiana di genetica agraria. L’ingegneria genetica, che permette l’isolamento di un singolo gene, la valutazione della sua funzione e il suo trasferimento a differenti

Esempio della variabilità presente nella collezione di Bergamo. Da “Genetica dei cereali”, Tavola XI

41


botanica varietà, costituisce una soluzione scientifica ideale da affiancare al miglioramento genetico classico per superare difficoltà che si incontrano con le metodologie tradizionali. Dal momento che il codice genetico è un linguaggio universale, in ingegneria genetica si possono in teoria usare tutti i geni presenti in natura, anche se non tutti gli OGM contengono geni provenienti da entità diverse: anzi, sempre più spesso le modifiche genetiche si ottengono trasferendo geni all’interno della specie o di specie affini. Comunque il risultato che si ottiene è una pianta che contiene un gene “straniero”, ma non per questo cessa di appartenere alla sua specie: essa infatti manifesterà – al massimo – l’espressione di un tipo di molecola proteica in più, rispetto alle migliaia di prodotti molecolari che caratterizzano la pianta. La trasformazione genetica è stata orientata, nelle realizzazioni già diffuse in coltura, a due obiettivi: la resistenza a parassiti animali e la tolleranza a diserbanti ad ampio spettro. Nel primo caso, il risultato appare notevolmente valido, visto anche il modesto esito dei programmi di selezione convenzionale al proposito.

Spora

Proteina Crystal

Bacillus thuringiensis (Bt)

DNA che esprime la proteina Crystal Particelle rivestite di DNA codificante il gene di interesse (Bt ) Cannone

Mais Bt

DNA trasferito alle cellule vegetali

• L’introduzione nel mais del fattore

per la tossina insetticida del Bacillus thuringiensis (Bt) difende la pianta dagli attacchi di piralide con estrema efficacia. Come conseguenza si elimina lo stroncamento del culmo dovuto alle gallerie dell’insetto e si impedisce l’infezione della spiga da parte di funghi produttori di tossine, che si insediano sulle lesioni che la piralide produce. Le accuse di danni ambientali di vario genere, attribuiti alla coltivazioni di mais Bt, non hanno mai avuto conferma sperimentale

Cellula vegetale

Bombardamento di pezzi di pianta con particelle Cromosomi con integrato un segmento di DNA codificante i geni di interesse (Bt )

Nucleo

Rigenerazione della parte Moltiplicazione aerea seguita cellulare dalla formazione di radici

Pianta Bt

Procedura di trasformazione del mais per resistenza alla piralide mediante il metodo biolistico (bombardamento)

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genetica e miglioramento

Miglioramento genetico e ingegneria genetica

• Attraverso il “miglioramento

genetico tradizionale” che si applica a partire dall’incrocio fra individui con differente patrimonio ereditario (genoma), si ottengono forme con nuove combinazioni di geni, talvolta convenienti per la coltivazione, ma spesso portatrici di caratteri negativi

• La pianta modificata attraverso

“trasferimento genico diretto”, al contrario, contiene gli stessi geni della pianta da migliorare, tranne quello trasferito: dunque esprime le stesse proteine della pianta parentale, tranne una e si differenzia da questa solo per il carattere corrispondente che si è voluto trasferire

Danno da piralide su varietà normale a confronto con pianta Bt resistente

Minori consensi suscita il trasferimento di geni per la resistenza agli erbicidi, poiché qui si possono intravvedere diversi motivi di disturbo per la flora spontanea e per l’ambiente biologico in generale. Sarebbe tuttavia riduttivo giudicare l’utilità del trasferimento diretto dei geni sulla base dei pochi esempi che finora sono stati ammessi all’uso. Sono infatti ormai realizzate piante che, con l’inserimento di geni estranei, producono sostanze nutrizionali o terapeutiche di grande valore: il mais, date le sue elevate capacità produttive, potrebbe candidarsi quale fabbrica di tali molecole efficiente ed economica. Non bisogna poi dimenticare che le moderne tecnologie in appoggio al miglioramento non si esauriscono con la trasformazione genetica. Sempre maggiore attenzione vanno ricevendo le procedure di selezione assistita da marcatori molecolari, dove i convenzionali programmi di miglioramento per particolari caratteristiche sono facilitati nel loro sviluppo dalla possibilità di seguire la sorte del gene di interesse attraverso il riconoscimento di un segmento di DNA a esso concatenato. Questo appare particolarmente utile quando il carattere desiderato si esprime solo in determinate condizioni non facili da verificarsi (per esempio, la resistenza che si manifesta in conseguenza di un’infezione parassitaria occasionale e non uniformemente distribuita in natura). Nel mais lo stato delle conoscenze, con la collocazione su mappe di circa 8000 marcatori genetici (destinati a crescere rapidamente), risulta fra i più avanzati nell’ambito delle piante coltivate. Un’oculata integrazione dei metodi innovativi con quelli da tempo acquisiti si rifletterà certo positivamente sul raggiungimento con il mais di traguardi sempre più soddisfacenti per l’agricoltore e per tutta la società.

Genitori Carattere d’interesse

F1

Individui F2 1 2 3 4 5 6 7 8 9

RFLP

Studio dell’associazione fra un gene d’interesse e un marcatore RFLP: se la concatenazione è stretta, risulta molto probabile che, nelle generazioni, l’allele desiderato per il carattere d’interesse si trasmetta associato a una determinata forma del marcatore molecolare

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