L’olivo botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato
l’ulivo e l’olio
storia e arte Storia dell’olio Sandro Vannucci
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
storia e arte Storia dell’olio Un selvatico salta nell’orto Si può chiamare olivo selvatico o olivastro, un albero asciutto e contorto dalle foglie allungate e d’argento, parco e forte, sempre risorgente dalle sue radici. C’è sempre stato nell’ultimo mezzo milione di anni sulla Terra e da sempre si è intrecciato con la presenza dell’Uomo molto prima che fosse sapiens, nel Terziario del Sud Africa o nella foresta sclerofilla sempreverde ai piedi dell’Himalaya. Ma il luogo d’elezione dell’olivo, dell’Olea europaea, prima selvatico e poi domestico è il Mediterraneo. Le coste più calde e asciutte del Mediterraneo; quelle meglio soleggiate dove nella macchia crescono il corbezzolo e il lauro, il carrubo e l’oleastro, appunto. In questa compagnia ha bisogno di molto sole e poca acqua. Detesta l’umido, resiste all’arido. Arriva in alto sulle colline costiere. E sale e scende in latitudine a seconda delle ere climatiche, fuggendo o seguendo l’espandersi o il ritirarsi dei ghiacci. Noccioli di olive sono stati trovati in insediamenti paleolitici in Francia meridionale, sui Pirenei spagnoli, e anche in Germania. All’uomo cacciatore che si aggira tra le montagne e le pianure mediorientali, sulle coste nordafricane o sudeuropee era molto utile il legno duro, ma lavorabile, dell’olivastro e mi piace pensare che le olive, ancorché piccole e amarissime, fossero molto ricercate dalle donne raccoglitrici. Non solo come cibo, ma per i primi
Mar Nero Mar Caspio
Anatolia Fenic i
Eufrate
ot
op ia am
Palestina
Tigri
s Me
a
Assiria
Egitto sup.
Golfo Persico
Egitto inf. Nilo
Mar Rosso
Area della “mezzaluna fertile” Olivastro sulle coste della Provenza, Francia. I Focesi, fondatori di Marsiglia, seicento anni prima di Cristo, arricchirono la Gallia di olivo e, secondo il parere di molti storici, da qui sarebbe giunto a Roma dove non era ancora conosciuto
Foto R. Angelini
26
storia dell’olio rudimenti della cosmesi di cui le olive resteranno incontrastate sovrane per millenni, fino alla mia nonna, che quando scioglieva la crocchia pettinava i lunghi capelli ungendoli con l’olio d’oliva. C’è un gran dibattito su dove e quando sia iniziata la domesticazione dell’olivo. Difficile immaginarla lontano da quella mezzaluna fertile che ha visto per prima la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento con la domesticazione delle principali specie animali e vegetali che hanno accompagnato lo sviluppo dell’umanità negli ultimi 10.000 anni. In quella fascia fertile tra Tigri ed Eufrate che si allunga poi verso il Mediterraneo, fino a raggiungere la costa siriano-libanese con una propaggine giù attraverso il deserto africano, reso verde dalle ricorrenti esondazioni del Nilo. È qui – nella mezzaluna – che alla fine dell’ultima glaciazione sono stati selezionati i primi semi di orzo e di grano. Qui li hanno sparsi in un piccolo campo sarchiato e poi raccolto le spighe mature. Qui hanno macinato e fatto il pane. Qui sono state scelte le prime capre, più mansuete e produttive per la lana e il latte, per fare stoffa e formaggio. Da quelle parti l’uva di una vigna piantata dall’uomo è diventata vino. E in poche migliaia di anni – dai piccoli gruppi di capanne alle grandi città fortificate – è nata la nostra civiltà. E gli olivi eran lì fin dall’inizio. Già grandi, già produttivi. A boschi, lungo le coste della Siria, del Libano e della Palestina. Va detto che l’olio, rispetto al pane, al vino e al formaggio, ha bisogno di minor tecnica. Non deve né cuocere né fermentare. Basta raccogliere e strizzare. Basta una grande pietra piana con una piccola scalfittura, una canaletta e un foro. Le olive dentro
Olivo o Ulivo?
• Fino dalle origini l’italiano aveva
a disposizione entrambe le forme maschili, olivo e ulivo, accanto alle femminili corrispondenti, oliva e uliva, più coerenti con l’uso latino del femminile per indicare l’albero. A prescindere dal genere, le due forme in o- e u- iniziale sono attestate in documenti datati a partire dalla seconda metà del XIII secolo. Rilevante la differenza a seconda dell’area di provenienza dei testi: toscana per ulivo, fiorentina, senese, aretina, bolognese e genericamente emiliana per olivo. Per quel che riguarda le denominazioni del frutto dell’olivo, la situazione pare praticamente sovrapponibile, con oliva accanto a uliva. Per ciò che riguarda i lessici tecnici, di agricoltura o di botanica, si nota il passaggio da ulivo a olivo: se nel Vocabolario di agricoltura di Eugenio Canevazzi del 1892 alla voce olivo (e oliva) si rimanda a ulivo per la trattazione del lemma, il Dizionario di agricoltura di Alfonso Carena, del 1956-1957, presenta soltanto olivo; così, mentre nella seconda edizione (1825) del Dizionario botanico italiano di Ottaviano Targioni Tozzetti ulivo e uliva hanno la trattazione del lemma, nel Lessico di botanica dell’Editrice La Scuola troviamo solo olivo, anche se, a testimoniare la persistenza dell’uso oscillante, il successivo Dizionario di botanica della Rizzoli ha a lemma “olivo o ulivo” “oliva o uliva”, benché compaiano solo le forme con o- nelle definizioni. Per ciò che riguarda l’uso standard corrente, un sondaggio sul materiale proposto in rete mostra nei siti delle istituzioni scientifiche l’impiego quasi esclusivo di olivo
Pressa per olive in granito rosso, Medinet-Habu, Luxor
27
storia e arte una rete di frasche o un sacco che prima viene stretto e poi schiacciato con un’altra pietra. Qualche goccia d’olio finisce nel buco ed è preziosa. Serviva agli Egizi per la mummificazione. Serviva come medicina. Serviva per la pulizia del corpo, ma quasi solo dei sovrani, gli Unti. Gli Ebrei, popolo di pastori erranti, diventano stanziali in una terra già fornita di preziosi oliveti lasciati dai predecessori Canaaniti e Giosuè (24,13) ammonisce: “vi ho concesso un paese che non avete coltivato, eppure mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti che non avete piantato”. E grato il popolo di Israele inserisce l’olivo già nei primordi del rapporto privilegiato con Jahvè e la Genesi (8,11) racconta: “la colomba tornò a lui (Noè) e aveva una fronda novella d’olivo nel becco”. Prendendo per buona la datazione del diluvio, presente in tante saghe religiose, a 6000 anni fa potremmo dedurre che già in quel tempo c’erano olivi dalle parti dell’Ararat. Se ci avviciniamo di un altro millennio alla nostra era già troviamo molte altre testimonianze della presenza della coltivazione degli olivi e del commercio dell’olio dall’Asia Minore verso il Mediterraneo. Intorno al 2500 Hammurabi, nel suo Codice delle leggi assiro-babilonesi, emana norme precise sull’olio di oliva che ha già un’importanza economica come merce di scambio specialmente con gli Egiziani e all’interno per il pagamento delle tasse. Resta comunque l’importanza sacrale dell’olio usato dai sacerdoti babilonesi per la predizione del futuro: ne spruzzavano sull’acqua qualche goccia e ne traevano vaticini. Stesso sistema
Foto Archivi Alinari
Giara in terracotta decorata con polipo, 1450-1500 a.C. circa. Palazzo di Cnosso, Creta (© Ashmolean Museum, University of Oxford, UK, The Bridgeman Art Library/ Archivi Alinari)
Foto Archivi Alinari
Foto R. Angelini
Pithos in terracotta con la raffigurazione di un polipo, 1450-1400 a.C. circa. Palazzo di Cnosso, Creta (© Ashmolean Museum, University of Oxford, UK, The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari) Colomba su fonte battesimale con una fronda novella d’olivo nel becco
28
storia dell’olio ancora in uso, or non è molto, nelle nostre campagne insieme alla lettura delle interiora di galli e capretti secondo la tradizione degli aruspici etruschi che, venendo da quelle parti, hanno fatto evidentemente da tramite. Un altro millennio trascorre e l’olio e l’olivo son ben saldi intorno al Mediterraneo. Nella parte orientale la civiltà cretese ne è, come dire, impregnata. A Creta, nel palazzo di Cnosso (il mitico Labirinto di Minosse), sono emersi dagli scavi i depositi di enormi anfore (Pithoi) alte anche due metri, adibite esclusivamente alla conservazione dell’olio; e a Festo sono stati ritrovati resti di torchi, presse e perfino tavolette d’argilla su cui erano registrati i luoghi di produzione e destinazione dell’olio. Il commercio marittimo di olio era, infatti, la base dell’economia dei Cretesi che lo esportavano in tutto il Mediterraneo, e particolarmente in Egitto. Proprio in Egitto, nella tomba di Ramsete III (1184-1153 a.C.) e in quella di Tutankamon (1325 a.C.), si possono ammirare affreschi che riproducono vasi da olio e rami d’olivo e allo stesso Ramsete III si deve la decisione di far impiantare il primo oliveto (2700 ettari) per la produzione di olio destinato al culto di Ra (Osiride). Con lo spirar del secondo millennio l’olivo si insedia, con la civiltà micenea, nell’Attica e nel continente fino ad arrivare, con l’età del bronzo, fino all’Albania. Ma siamo già in epoca omerica e valgono le testimonianze che si raccolgono sull’Iliade, che snobba l’olivo e non lo rappresenta nemmeno sullo scu-
Affresco con toro e olivo, 1450 a.C. Palazzo di Cnosso, Creta
Creta, Palazzo di Cnosso
29
storia e arte do d’Achille, a differenza del vino più volte citato. Se ne parla invece nell’Odissea fin dall’inizio con l’irsuto Ulisse scampato al naufragio, incrostato di sale, che vien lavato da Nausicaa e dalle fanciulle Feaci e poi unto con l’olio degli olivi coltivati nel giardino di Alcinoo. È l’inizio di un grande amore tra i Greci e il dono di Atena. In quel tempo in Palestina già coltivavano olivi e producevano olio in gran copia. È stato da poco portato alla luce nei pressi di Tel Aviv un oleificio filisteo capace di produrre annualmente anche 2000 tonnellate d’olio. Era olio per l’illuminazione e per i balsami da esportare nelle terre del Nilo per le imbalsamazioni e i riti funerari egizi. A Tel Mique Akron l’enorme impianto per la lavorazione delle olive contava un centinaio di presse. Le olive venivano macinate con pietre tondeggianti, poi i fiscoli – sacchi in fibra vegetale – riempiti di pasta oleosa venivano accatastati e pressati con travi-torchio incastrate nella parete (palmenti). Questo opificio del 1000 a.C. può essere considerato uno dei più grandi complessi industriali dell’antichità. E se i Filistei lo producevano, i Fenici lo trasportavano con le loro navi veloci in tutto il Mediterraneo: oltre l’Egitto fino alla Cirenaica e poi oltre Cartagine, contendendo ai coloni della Magna Grecia i mercati di Sicilia e Sardegna fino alle coste ispaniche. E resterà così il Mediterraneo – come lo racconta Fernand Braudel – con questo imprinting, con questa divisione: a sud l’influenza fenicia che poi diventerà araba e musulmana e a nord l’influenza prima greca e poi romana che diventerà cristiana. Due civiltà diverse divise in tutto (religione, costumi, cibo e bevande), ma unite nella coltura, nella cultura, nel culto dell’olio.
Olivi d’Israele
• Per il popolo ebraico fu Dio a donare
ad Adamo, ormai prossimo alla morte, i tre semi che il figlio di Seth pose tra le sue labbra prima di seppellirlo e dai quali germogliarono il cedro, il cipresso e l’olivo. Noé invia prima un corvo (per sapere se il diluvio è giunto al termine) che non torna indietro e in seguito invia una colomba, che torna con un ramoscello di olivo nel becco, ad annunciare il perdono divino e la fine del diluvio
• I re David e Salomone dettero
eccezionale importanza agli olivi nell’economia di Israele (nella Bibbia ci sono 70 citazioni). Il primo pose addirittura a guardia di piantagioni e depositi funzionari regi, il secondo pagò i carpentieri di Tiro, che avevano lavorato al Tempio di Gerusalemme, con 20.000 bath di olio (1 bath = 22 litri cioè 440 ettolitri)
• E se vogliamo trarre un paio di
citazioni anche dal Nuovo Testamento ricorderemo che prima della Pasqua intorno a Gerusalemme si potavano gli olivi le cui fronde agitava la folla per salutare l’arrivo di Gesù. Pochi giorni dopo il Cristo (cioè l’Unto, d’olio naturalmente) trascorrerà la vigilia del supplizio a meditare nell’orto del Getsemani ai piedi del Monte degli Ulivi. E Getsemani vuol dire frantoio per l’olio
Foto G. Landi
Orto di Getsemani, Gerusalemme
30
storia dell’olio Olivi Olimpionici E siamo arrivati al periodo d’oro dell’olio e della sua città d’elezione, Atene. Passata l’età dei miti l’olio e gli olivi diventano fondamentali nella realtà e nell’economia della Grecia. Di tutta la Grecia, ma specialmente dell’Attica. Gli Ateniesi ne fanno, insieme al vino, il centro della loro attività agricola, ma anche centro della loro cultura e civiltà. L’olivo simbolo di pace e di sapienza come la divinità che l’ha donato e che è nume tutelare della città, la Glaucopide Atena, la dea dagli occhi che risplendono come le foglie verde-argento degli ulivi. La dea protettrice cui, nell’alto dell’acropoli, accanto al bosco cresciuto intorno al primo olivo suo dono divino, verrà dedicato il grande Partenone, il tempio di Pallade, dove accanto alla statua d’oro e d’avorio della Vergine dea della Saggezza, scolpita da Fidia, risplende perenne la grande lampada votiva che i grati e devoti ateniesi alimentavano una sola volta all’anno, con l’olio dell’ultimo raccolto dell’oliveto sacro. E se il vino per i classici esalta la mente e si esprime nel simposio, l’olio cura il corpo e lo esalta nelle gare atletiche. L’olio unge i muscoli dei corridori e dei lottatori, d’olivo (selvatico) è il serto che adorna il capo dei vincitori e vasi d’olio sono il premio per le Panatenaiche. Anche se l’olio era considerato un genere di lusso e comunque prezioso, tra le classi agiate ateniesi, se ne faceva un uso giornaliero e notevole. È stato calcolato che un cittadino che frequentava il ginnasio consumava in un anno 30 litri di olio per l’igiene e la cura del corpo, 20 litri per l’alimentazione, tre litri come lubrificante e per l’illuminazione, mezzo litro come far-
Dono di Atena
• Secondo un mito diffusissimo nell’Ellade
l’olivo era un dono di Atena (la romana Minerva come raffigurata nelle 100 lire d’un tempo) che contendeva al dio del mare, Poseidone, la supremazia dell’Attica. I due, davanti al tribunale degli dei presieduto da Zeus, si sfidarono offrendo un dono ciascuno per l’Attica. Poseidone con un colpo di tridente fece comparire una pozza di acqua marina, che simboleggiava il dominio di Atene sul mare, e un cavallo bianco, strumento di guerra. Atena, invece, percosse la terra con la lancia e fece nascere un olivo, promessa di utili produzioni e simbolo di pace. I cittadini della città senza nome chiamati a scegliere non ebbero dubbi: scelsero il dono di Atena, che fu la dea eponima e protettrice di Atene
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Olivo, dono di Atena, su una moneta da 100 lire
Acropoli di Atene, sorta sulla roccia colpita da Poseidone nella sfida con Atena, figlia di Zeus, che vi piantò il primo olivo
31
storia e arte Foto R. Angelini
Olivi d’Atene
• Nel 594 a.C. ad Atene il legislatore
Solone divise i cittadini in quattro classi a seconda della loro ricchezza valutata in olio, fece piantare olivi sacri e pose l’olivicoltura sotto la protezione di Zeus. Con una norma, valida per tutta l’Attica, veniva vietato l’abbattimento di olivi pena la morte. In caso di estrema necessità e solo per la costruzione di aree sacre, il numero di alberi da abbattere non doveva superare le due unità all’anno. Sotto l’egida di Atena, e in suo onore, si svolgono, a partire dal 556 a.C. il 16 del mese di Ecatombeone (luglio-agosto), le piccole (annuali) e grandi (quadriennali) Panatenee. I vincitori venivano premiati con denaro, medaglie d’oro e d’argento e anche olio d’oliva in vasi riccamente ornati. L’olio veniva ricavato dai frutti dell’oliveto sacro che Solone aveva fatto piantare. La capacità delle anfore panatenaiche era di 22-39 litri, il premio consisteva in una quantità di olio che andava da 1000 a 2000 litri
Dopo la vittoria su Poseidone, Atena, dea della saggezza, divenne protettrice della città che da lei prese il nome e che in suo onore costruì il Partenone
maco e un paio di litri per i riti sacri. Tra questi, importantissimi, i riti funerari con la purificazione e unzione dei corpi. Grande la produzione di profumi e di balsami derivati dall’olio d’oliva. Una “moda” che veniva dall’Oriente e che spopolava in Egitto. Gli Spartani criticavano i “corruttori dell’olio”, come venivano chiamati i produttori di unguenti, ma furono loro a compiere il delitto più grave contro gli Ateniesi. Durante la guerra
Come nell’antichità, anche oggi intorno ai templi di Delfi gli olivi fanno da cornice
Foto R. Angelini
32
storia dell’olio Foto Archivi Alinari
I miti
• Un’altra leggenda narra che fu Ercole,
di ritorno dalle sue gloriose spedizioni, a portare l’olivo in Grecia e a piantarlo sul monte Olimpo
• L’arte di coltivare l’olivo e di ricavarne
olio, secondo un mito diffuso nella parte occidentale del Mediterraneo, è dovuta ad Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, che la portò in Sicilia, in Sardegna e nella penisola Italica come a segnalare che la domesticazione dell’olivo arriva in Italia dalle coste della Libia (Cirenaica) per mano di antichi Fenici
Ulisse e i suoi compagni accecano Polifemo, litografia da un vaso greco. Biblioteca delle Arti Decorative, Parigi (© Bridgeman/Archivi Alinari)
• E per tornare a Omero qualche citazione:
è in un grande antico olivo che viene intagliato il letto di Ulisse a Itaca. Di un verde ramo d’olivo è fatta la clava di Polifemo, una scheggia della quale servì a Ulisse per accecare il mostro. Il manico della scure che Calipso dona a Ulisse è d’olivo, e d’olivo è il manico dell’ascia di Pisandro e a un olivo Omero paragona Euforbio che cade sotto i colpi di Menelao
del Peloponneso, che si trascinava da anni, abbatterono gli olivi intorno ad Atene che si arrese. Ogni città fabbricava le sue anfore con forme e decorazioni particolari. L’olio di Atene veniva commercializzato in un’anfora detta “SOS”, che garantiva agli acquirenti la qualità e la quantità del prodotto, una specie di garanzia di origine. Ma anche allora non mancavano le truffe e le sofisticazioni. L’olio dell’Attica era considerato Foto R. Angelini
Foto Archivi Alinari
Poseidone e Atena in competizione per il dominio dell’Attica. Museo Archeologico Nazionale di Napoli (© Bridgeman/Archivi Alinari) Anfore olearie a Santorini
33
storia e arte Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Olio nello sport
• L’olio di oliva aveva, premi a parte, un
ruolo importante nello sport. I giovani atleti che frequentavano le palestre, i ginnasi e i bagni, numerosi in tutte le città, numerosissimi ad Atene, venivano massaggiati con olio prima e dopo l’attività fisica. Anche quando si massaggiavano da soli usavano alcuni attrezzi che sono sovente rappresentati sulle anfore o in statue. Avevano legata al polso una piccola anforetta tondeggiante di coccio o bronzo chiamata aryballos e lo strigile, una specie di spatola per detergere dal corpo l’olio e il sudore
Anfore a figure nere del V secolo a.C. A destra Anfora panatenaica (British Museum, Londra, © The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari). A sinistra Anfora attica raffigurante Atena (© Ashmolean Museum, University of Oxford, UK, The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
• Alcuni funzionari erano incaricati
tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli oli di Sicione, dell’Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni della Focide. Le olive costituivano inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo. Ma già dal VI secolo le colonie della Magna Grecia, sulle coste dello Ionio da Taranto a Sibari e poi della Sicilia e su fino a Marsiglia, cominciarono a far concorrenza alla madrepatria sia in quantità sia in qualità e il Mediterraneo veniva solcato da navi cariche di anfore piene di olio. Per un po’ le tipologie dell’olio, come del vino, mantennero le caratteristiche della loro origine, poi con i Romani nuovi olivi e nuovi usi presero il sopravvento.
di distribuire l’olio nei centri sportivi in Grecia e, solitamente, la cassa comunale pagava le spese. Gli Ateniesi ricchi, e in seguito anche i Romani, si facevano notare in particolari occasioni quali feste e giochi, facendo donazioni. Ma per le Panatanee era la città di Atene che donava l’olio del bosco sacro
• Olio anche per i vincitori delle Olimpiadi dedicate a Zeus sulla cui statua, anche questa crisoelefantina (d’oro e avorio) e di Fidia, veniva versato olio perché non fosse danneggiata dal clima umido d’Olimpia
Foto Archivi Alinari
Caro olio…
• Aristofane nelle Vespe scherza
sul prezzo troppo alto dell’olio: “Che fai, scimunito? Proprio adesso il lucignolo - stuzzichi col dito, che l’olio costa un occhio! - Già, non sa d’amaro a te, quando bisogna - pagarlo sì caro!”
Piccolo skyphos (tipo glaux, dal greco “civetta”) attico a figure rosse: civetta tra due rami d’ulivo. Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Christian Jean/distr. Alinari)
34
storia dell’olio Classici tra gli olivi Tra l’VIII e il V secolo a.C. la coltivazione dell’olivo e l’uso dell’olio si diffondono, dalle colonie costiere siciliane della Magna Grecia, nell’area centrale della penisola italica, specialmente tra gli Etruschi. E con gli Etruschi verso l’interno e oltre gli Appennini, nella Pianura Padana e verso sud fino a Benevento. Non si può escludere che anche precedentemente si sia fatto uso sporadico di olio e olive da olivastro, ma con il fiorire della prima ondata etrusca del VII secolo la precedente esperienza villanoviana del centro Italia viene travolta dai nuovi arrivati o, come sembra più probabile, da autoctoni che elaborano velocemente le culture in arrivo da Oriente (con viaggiatori o esuli più o meno numerosi dalla Lidia come narrano le leggende). Fatto sta che in poche decine di anni una nuova classe dirigente conquista le città dell’Etruria e introduce nuove forme di cultura utilizzando idee e prodotti provenienti dalla Grecia e specialmente dall’Attica. Così per il vino e il simposio. Così per l’olio e le sue utilizzazioni: alimentare, ginnico, estetico, per l’illuminazione e per i riti sepolcrali. Per questi primi aristocratici etruschi l’olio resta un genere di estrema rarità. Costoso e di lusso. Sicuramente uno status symbol. Arrivava in contenitori appositi a seconda della quantità: nelle anfore per l’illuminazione e per i pochi usi alimentari. Molti sono i tipi di lucerne di questo periodo sempre mutuate dai tipi greci, mentre per la cucina probabilmente era più frequente l’uso di grassi animali.
Anfora di Vulci
• Viene rappresentata la raccolta delle
olive con rigore calligrafico ma anche con ironia. Si notano tre olivi: in quello centrale due lavoranti colpiscono rami e tronco con lunghe verghe. Sull’albero un terzo giovane bacchia le olive con un bastone. A terra, in ginocchio, un altro giovane raccoglie le olive in un cesto
Foto Archivi Alinari
Foto R. Angelini
Anfora di Vulci, di provenienza attica, VI secolo a.C. circa raffigurante la raccolta delle olive. British Museum, Londra (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
Sarcofago degli sposi. Rappresenta una fiera coppia di defunti di una grande famiglia etrusca nel tradizionale atteggiamento del banchetto
35
storia e arte Per l’importante uso ginnico arrivava già in splendidi contenitori attici come gli aryballos, che compaiono attaccati al braccio dell’atleta negli affreschi della tomba della Scimmia di Chiusi. Oppure negli alabastra da cui veniva spalmato sul corpo dei lottatori come nella Tomba degli Auguri a Tarquinia. Per le signore etrusche, poi, l’olio d’oliva arrivava in preziose boccettine, specialmente da Corinto, già mescolato ai profumi di cui si faceva un grande uso ed enorme sfoggio. Non va dimenticato a tal proposito che i ricchi Etruschi hanno copiato in tutto i modelli greci meno che nella condizione femminile, che era così “emancipata” da far gridare allo scandalo i viaggiatori del tempo abituati a una sostanziale separazione delle donne dalla vita sociale maschile. Il simposio greco prevedeva la presenza muliebre soltanto per le etére, capaci di cantare e di ballare e anche, a volte, di parlare con gli uomini, ma altrettanto lontane dall’idea di curarne i figli. Le aristocratiche etrusche, invece, partecipavano a pieno titolo al banchetto con il loro sposo e bevevano insieme a lui il vino come sono state spesso rappresentate in sculture e in affreschi. È facile immaginarle dunque ben unte e profumate di balsami costosi e orientali di cui ci restano numerosissimi e bellissimi coccini. E poiché ogni ricchezza e identità etrusca finiva nelle tombe, anche l’olio aveva un importanza fondamentale nei riti dell’inumazione ed è frequentissimo trovare preziosi contenitori da importazione nelle tombe degli uomini più importanti.
Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Affreschi della Tomba degli Auguri, VI secolo a.C. Necropoli di Monterozzi, Tarquinia (© AISA/Archivi Alinari, Firenze)
Aryballos attico a figure rosse in ceramica, decorato con carro, 490 a.C. circa (© Ashmolean Museum, University of Oxford, UK, The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
36
storia dell’olio Ma verso la fine del VII secolo anche gli Etruschi imparano a fare l’olio oltre al vino e copiano anche i contenitori. Si producono vasi e anfore e anche i piccoli balsamari vengono realizzati in bucchero nero. L’olio come il vino non sono più rari e preziosi beni di lusso che vengono da lontano per pochissimi privilegiati. Diventano via via prodotti di uso più vasto, a portata di una cerchia più larga di agiati consumatori, e questo è dimostrato anche dalla sempre maggiore presenza nei corredi tombali del VI e V secolo. Contemporaneamente le dolci colline dell’Etruria, oltre al grano, vedono estendersi la presenza di olivi e di vigne. Con una tendenza alla specializzazione fino ad allora sconosciuta. È a questo punto che i Romani apprendono dagli Etruschi l’arte di fare il vino e l’olio. È sotto il regno di Tarquinio Prisco che questo popolo di pastori avvezzi a bere soltanto il latte di capra (la battutaccia è di Plinio il Vecchio) imparano ad arare e seminare il grano, imparano a raccogliere l’uva e a farne vino, capiscono che val la pena piantare l’olivo e aspettare tutto il tempo necessario a ricavarne l’olio prezioso. Due o tre generazioni, giusto il tempo di far diventare produttivi gli olivi e si emanciperanno dal controllo etrusco e sfrutteranno la posizione strategica di controllo del passaggio sul Tevere che unisce le più importanti città etrusche, in quel momento in vorticoso sviluppo, alle terre del Sud dove hanno espanso la loro influenza economica. Roma crescerà circondata dalle terre dove si coltiva il grano, si cura la vigna, si raccolgono le olive. E su grano, vino e olio fonde-
Foto R. Angelini
Unguentari etruschi I Romani appresero dagli Etruschi l’arte di fare il vino e l’olio
Foto R. Angelini
37
storia e arte Foto R. Angelini
Foto Archivi Alinari
Anfore utilizzate dai Romani per il trasporto di vino e olio e che costituivano il principale carico delle navi. Venivano infatti sistemate a più strati nelle stive, in modo da sfruttare al massimo lo spazio disponibile
rà la sua ricchezza e la sua forza. Grano, vino e olio coltiveranno i suoi Patrizi, ricchi proprietari terrieri, come l’ultimo dei veterani finalmente premiato, dopo anni di servizio militare, con un pezzo di terra centuriata sempre più lontano da Roma, dove è arrivato camminando da buon legionario con la sua lancia, il suo scudo
Pelike a figure nere. Tra le due anse, la scena di un venditore di olio che parla con una donna. Museo Archeologico di Firenze (© Archivi Alinari, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
Foto Archivi Alinari
Foto R. Angelini
Lucerne romane prodotte al tornio e a mantice (II sec. a.C.-I sec. d.C.)
Stamnos in ceramica a figure rosse con scena di centauromachia, 490-480 a.C. circa. Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Hervé Lewandowski/ distr. Alinari)
38
storia dell’olio Foto Archivi Alinari
L’olio del legionario
• Abbiamo già accennato a come l’olio
facesse parte con il vino e con il grano del rancio del miles romanus. L’olio era il condimento della polenta e dei fagioli che costituivano il cibo quotidiano e venivano portati da ogni soldato durante le marce come razione d’emergenza se non era possibile aspettare le vettovaglie che, come Cesare insegnava, erano al seguito della legione. Ma durante la stagione fredda la dotazione di olio aumentava perché i soldati si potessero difendere dal freddo ungendosi. Era una lezione che l’esercito romano aveva imparato da Annibale, a caro prezzo. Narra lo storico Polibio che la battaglia sul fiume Trebbia (218 a.C.) fu vinta dai Cartaginesi perché, prima dello scontro in una rigidissima giornata invernale, si erano unti con l’olio. Quando i Romani si trovarono a combattere in mezzo alle acque gelide del fiume, con gli arti rattrappiti dal freddo, non riuscirono nemmeno a maneggiare le armi
Bassorilievo: soldati e ufficiali romani. Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Hervé Lewandowski/distr. Alinari)
e il suo sacco delle vettovaglie con dentro la razione di grano, di vino, di olio. Furono proprio i Romani a esaltare l’uso alimentare dell’olio che fino a questo punto era sempre apparso secondario. L’olio va ad arricchire di grassi e di sapori le polente, le verdure e i cereali che per tutto il periodo repubblicano costituiscono la base alimentare anche dei Patrizi. E per questa utilizzazione l’olio doveva essere buono: su questo le idee, i Romani, le avevano veramente chiare e fin dai primi scrittori le indicazioni per il mantenimento degli oliFoto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Rilievo di urna funeraria romana raffigurante rami di olivo. Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, Perugia (© Archivi Alinari, Firenze)
L’imperatore Traiano controlla dei soldati romani che costruiscono un fortino; calco in gesso della Colonna Traiana fatto eseguire nel 1860 da Napoleone III. Museo della Civiltà Romana, Roma (© Archivi Alinari, Firenze)
39
storia e arte veti e per la produzione dell’olio sarebbero ancora oggi applicabili con giovamento della qualità complessiva. Del resto in questo periodo furono introdotti alcuni importanti perfezionamenti nella tecnologia olearia raccontati dalle numerose opere latine di agronomia scritte a partire dal III secolo a.C. La più antica è il Liber de agricultura o De re rustica di Marco Porcio Catone, il grande Catone il Censore nato a Tusculum, terra d’olivi, nel 234 a.C. e vissuto prima come soldato, poi come castigatore delle cattive abitudini dei suoi contemporanei, infine come scrittore della ponderosa opera summa della sapienza agricola del tempo in cui si legge qualcosa che tutti vorremmo veder applicare anche oggi: “olea ubi lecta siet, oleat fiat in continuo, ne corrumpatur” tradotto “appena raccolte, bisogna subito estrar l’olio dalle olive, per evitare che si sciupi”. E prosegue: “Pensa alle intemperie grandi che ogni anno avvengono e sogliono far cadere le olive. Se fai presto la raccolta, e i recipienti sono pronti, nessun danno da esse, mentre l’olio sarà più verde e migliore. Se rimangon troppo a terra o su un tavolato, le olive cominciano a putrefare e l’olio avrà cattivo odore”. Per Catone l’olivo nella graduatoria d’importanza tra le coltivazioni del buon agricoltore nella sua villa veniva dopo la vigna, l’orto irriguo e il saliceto, ma prima del prato, del seminativo e del bosco. Ma mentre il vigneto tipo, nell’idea del buon padrone, doveva essere di circa 100 iugeri (i nostri 20 ettari) con dedicati 2 fattori, 10 braccianti, un aratore, un asinaio, un legatore e un porcaro (naturalmente tutti schiavi), l’oliveto ideale raggiungeva i 240 iugeri (più del doppio) e vi lavoravano soltanto 13 schiavi.
Foto Archivi Alinari
Marco Porcio Catone, detto il Censore, politico e generale romano (© Mary Evans/ Archivi Alinari, Firenze) Foto Archivi Alinari
Foto G. Romagnuolo
Lucerna raffigurante un combattimento di gladiatori. Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Hervé Lewandowski/distr. Alinari)
Olive cadute a terra
40
storia dell’olio Questa idea che l’oliveto costa poco e rende bene è molto radicata nella concezione romana e resta centrale nei secoli dalla Repubblica all’Impero se anche Lucio Giunio Moderato Columella, il più importante scrittore di agricoltura nel I secolo della nostra era, scriveva nell’Arte dell’Agricoltura: “ex omnibus stirpibus minorem inpensam desiderat olea, quae prima omnium arborum est” (“tra tutte le piante l’olivo è quello che richiede spesa minore, mentre tiene tra tutte il primo posto”). E prosegue notando da accorto agricoltore che l’olivo si mantiene con poco e con qualche attenzione moltiplica il frutto: “trascurato anche per diversi anni non si rovina come la vite e comunque continua a portare qualche frutto al padrone; e quando poi si torna a coltivarlo, in un anno si rimette”. E infine la più attuale delle indicazioni: “quando le olive cominciano a cambiare colore e alcune sono già nere, ma la maggior parte ancora verdi, si dovranno cogliere a mano in una giornata serena, distenderle su cannicci o su stuoie e vagliarle e pulirle. Appena si sono mondate con diligenza, si portino subito al torchio”. Tra questi due autori divisi da tre secoli poche sono le differenze di posizione rispetto all’olivo e alla sua importanza che comunque cresce con l’espandersi della potenza romana, che necessita sempre più della facile conservazione dell’olio, del suo prezzo stabile e della relativa facilità di trasporto che lo ha reso nei secoli antichi il più importante prodotto di scambio. Di oltre un secolo posteriore a Catone un grande prolifico letterato, Marco Terenzio Varrone – il Reatino terrore dei liceali – con splendida lingua latina dà i suoi consigli: “Quanto all’oliveto, quel-
Foto Archivi Alinari
Marco Terenzio Varrone (© Mary Evans/ Archivi Alinari, Firenze) Oliveti secolari tra i ruderi romani di Cosa, inseriti in uno splendido contesto naturale e paesaggistico, presso Ansedonia (GR). Cosa ebbe un ruolo insostituibile nei flussi commerciali del bacino tirrenico, dopo essere stata fondata dai Romani nel 273 a.C.
Foto R. Angelini
41
storia e arte le olive che tu puoi raggiungere con le mani da terra o per mezzo di scale, è meglio coglierle che bacchiarle, perché quelle che sono spiccate con le mani” non sono danneggiate e consiglia i proprietari di proibire agli schiavi di usare ditali di metallo, ma di brucare le olive a mani nude per non ammaccare le bucce e non scortecciare i rametti che resterebbero esposti alle gelate. E aggiunge con una battuta che non sfigurerebbe in qualche attuale pubblicità: “Le olive danno alla villa lo stesso duplice ricavato dell’uva, quello del cibo e quello dell’olio, e non solo per lubrificare il corpo all’interno, ma anche per ungerlo all’esterno. Pertanto esso va dietro al padrone e quando si reca al cesso e quando si reca alla palestra”. Varrone chiarisce nel suo De lingua latina l’origine della parola olea (oliva) che viene dal Greco elaia e con sicurezza giudica l’olio di Venafro il migliore del mondo: “Al contrario in Italia cosa v’ha di utile che non solo non nasca, ma non venga anche bene? Quale olio (si potrebbe paragonare) a quello di Venafro?”. Un giudizio tanto lusinghiero sull’olio di Venafro condiviso anche da altri scrittori e poeti: Marrone, Plinio, Orazio e Stradone. E Giovenale che dileggia un tal Virrone che maltratta gli ospiti di poca importanza: “Sul suo pesce Virrone versa olio di Venafro, mentre ai clientes viene dato olio da lucerne, un olio che usava dopo il bagno un tale, così acido e puzzolente, che alle terme per il tanfo tutti se ne tenevano alla larga”. L’oliaccio insomma che Marziale definisce: “l’olio di cui si ungono i capelli le puttane”. Buono era ritenuto anche l’olio Reatino e Sabino e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano, che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere a una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando uno scadente prodotto spagnolo. Secondo Plinio l’Italia della metà del I secolo d.C. possedeva tanto ottimo olio e di poco prezzo da superare tutti gli altri Paesi. Le varie categorie di olio erano individuate con denominazioni chiare ed efficaci: Oleum ex albis ulivis era l’olio di altissimo pregio ottenuto da olive ancora acerbe; Oleum viride quello qualitativamente altrettanto valido, ricavato da olive appena invaiate e prossime perciò a una maturazione incipiente; Oleum maturum quello ottenuto invece da olive nere e già mature, di qualità considerevolmente inferiore ai primi due oli; Oleum caducum, di qualità mediocre, quello che veniva estratto da olive raccolte da terra perché cadute dall’albero per maturazione avanzata; Oleum cibarium, infine, per indicare un prodotto di pessima qualità, ottenuto da olive aggredite da parassiti e destinato in parte all’alimentazione degli schiavi e in parte a usi diversi.
Foto Archivi Alinari
Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), incisione, artista di scuola francese del XVII secolo. Biblioteca Nazionale, Parigi (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari) Foto Archivi Alinari
Pagina miniata dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, XII secolo. Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze (© AISA/ Archivi Alinari)
42
storia dell’olio Foto R. Angelini
Il parere di Plinio
• Plinio il Vecchio ci ha lasciato nella sua Naturalis Historia passi estremamente interessanti sull’olio:
“Da una stessa oliva si ricavano succhi diversi, il primo dei quali è fornito dall’oliva verde quando ancora non è iniziato il processo di maturazione: questo è il più gradevole di sapore; e ancora, di questo olio, la prima spremitura è la più fine, per diminuire poi di qualità, sia che la pressatura avvenga nei canestri ovvero, con metodo di recente invenzione, racchiudendo la massa di olive tra sottili assicelle. Quanto più l’oliva è matura, tanto più denso è il succo, e meno piacevole al gusto. Ma il periodo migliore per la raccolta, al fine di conciliare quantità e qualità, è quando l’oliva comincia a scurire, momento in cui prende il nome di drupa, in greco drypetis. Del resto, quando arriva questo momento, c’è differenza a seconda che la maturazione suddetta avvenga nei frantoi o sui rami, che l’albero sia stato irrigato, oppure che l’oliva contenga soltanto il proprio succo e non abbia assorbito altro liquido che la rugiada del cielo. L’invecchiamento guasta all’olio il sapore, a differenza di quanto accade per il vino, e al massimo può arrivare a un anno (…) Anche rispetto a questa risorsa il primato in tutto il mondo lo ha ottenuto l’Italia, grazie soprattutto al territorio di Venafro, e a quella sua zona da cui si ricava l’olio liciniano, per cui è diventata di gran pregio anche l’oliva licinia. Del resto nessun uccello becca le olive licinie.” (Volendo intendere che i preziosi olivi venivano così attentamente scaricati dai raccoglitori da non lasciar nulla agli uccelli)
Oliveto etrusco di Magliano in Toscana
Con il crescere di Roma cresce anche la quantità dell’olio utilizzato nei vari settori, alimentare e per l’illuminazione soprattutto, ma anche per la cosmesi e la cura del corpo e anche per uso, diciamo così, meccanico-industriale come lubrificante, una novità che solo gli ottimi ingegneri romani potevano immaginare su larga scala. Alla maggior richiesta di prodotto si risponde con l’ampliamento degli oliveti della Sabina e del Lazio meridionale come pure delle terre che erano più delle altre adatte ad accogliere i vari tipi di cultivar selezionate dagli agronomi che ne studiavano da vicino i comportamenti produttivi e le risultanze qualitative degli oli estratti. Da questa selezione nascono le differenti vocazioni dei tipi e delle zone ora adatte all’alta qualità degli oli alimentari e Foto R. Angelini
“L’albero che da sé rinasce”, diceva Sofocle dell’olivo e tra quelli centenari molti hanno le radici nei millenni; questo è ciò che rimane dell’olivo secolare di Semproniano (GR)
43
storia e arte balsamici, ora più utili alla produzioni di grande quantità per l’illuminazione e l’industria. Le legioni romane conquistano prima l’Italia e poi l’Europa, infine tutto il bacino del Mediterraneo e quando si insediano su un territorio per prima cosa tracciano le strade e vi piantano viti e olivi. Con l’espandersi dell’Impero e dell’Urbe la produzione locale e italica non basta e l’olio comincia ad arrivare in gran copia dalle province. Da Africa e Spagna innanzi tutto, anche come pagamento di tasse. Plutarco loda Cesare perché conquistando l’Africa ha assicurato a Roma 3 milioni di litri di olio all’anno dalla sola Leptis Magna, perla della costa libica, punita per aver parteggiato per Pompeo. Attraverso i suoi tre porti (Ostia, Portus ed Emporio, sotto l’Aventino) giungevano a Roma le derrate alimentari di cui l’Urbe aveva bisogno. Ai tempi di Augusto l’annona aveva in carico 200.000 cittadini a cui distribuire gratuitamente solo il grano. Ma a partire da Antonino Pio si ebbero distribuzioni anche di olio e vino. Quelle di olio furono rese stabili da Settimio Severo, imperatore la cui famiglia si era arricchita in Libia e che era nato proprio a Leptis Magna. Ma quanto olio si consumava a Roma? Calcoli teorici son stati fatti sulla base delle anfore accatastate al Testaccio. Sarebbero arrivate a Roma, in età imperiale, circa 320.000 anfore d’olio all’anno, equivalenti a 22.480 tonnellate, ossia 22 chili a testa. Ogni abitante di Roma (a quei tempi circa 1 milione di abitanti) avrebbe quindi consumato in media due litri di olio al mese. L’alta quantità si spiega tenendo conto che l’olio non era utilizzato solo
Classifica di Plinio
• “Per l’olio il primato in tutto il mondo
spetta a Venafro per i profumi, con i quali il suo odore lega bene, nonché il giudizio più raffinato del palato. Il posto successivo in questa gara è ripartito a pari merito tra l’Istria e la Betica. Per il resto le province più o meno si equivalgono per la qualità del prodotto, se si eccettua il suolo dell’Africa, produttore di messi: la natura lo ha accordato tutto intero a Cerere; quanto al vino e all’olio, si limitò a non negarglieli e gli procurò gloria a sufficienza coi cereali. Tutto quanto si afferma al di fuori di questo è pieno di errori”
Foto Archivi Alinari
Categorie di olio
• Oleum ex albis ulivis: altissimo pregio ottenuto da olive verdi
• Oleum viride: ricavato da olive appena invaiate
• Oleum maturum: ottenuto da olive nere già mature
• Olei flos (fiore d’olio): di prima spremitura
• Oleum sequens: di seconda spremitura • Oleum caducum: qualità mediocre, da olive raccolte da terra
• Oleum cibarium: pessima qualità, giusto per gli schiavi
Magazzino dolii a Ostia (© DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari)
44
storia dell’olio Foto R. Angelini
Cocci al Testaccio
• Il Testaccio rappresenta il monumento
all’olio betico cioè della Spagna meridionale. È una collina artificiale di oltre quaranta metri di altezza e due ettari di estensione, sorta tra il I e il III secolo nei pressi dell’Emporio, il porto sul Tevere. È cresciuta con i cocci delle anfore spagnole che venivano rotte dopo il travaso. Il trasporto era gestito da negotiatores oleari privati, i cui nomi si ricavano dalle iscrizioni sulle anfore. Erano convenzionati con l’annona, e da questa ricompensati con vari privilegi. Con Settimio Severo si ebbe un mutamento radicale: il trasporto venne assunto direttamente dall’imperatore e dai suoi figli e, successivamente, dal solo Caracalla. L’autorità pubblica controllava la produzione e il trasporto e non lasciava a nessuno il ricco affare e i suoi lauti guadagni. Per quanto riguarda l’Africa, l’olio arrivò dapprima lentamente, poi aumentò fino a rappresentare nel III secolo il 10-15 per cento del totale documentabile dal Testaccio, in coincidenza con la crisi della produzione spagnola
I polloni rinascono dalle radici secolari
per l’alimentazione, ma per l’illuminazione, l’igiene, la medicina, la cosmesi, la meccanica. Per fare un raffronto oggi in Italia se ne consumano circa 14 kg a testa all’anno. Le province che maggiormente contribuivano erano la Betica (Spagna meridionale), l’Africa Proconsolare (Tunisia) e la Tripolitania. La Betica cominciò a inviare olio a Roma in età augustea. La quantità crebbe progressivamente, fino a toccare il massimo intorno al 250 d.C. Dal 260 invece decrebbe, in seguito alle invasioni che devastarono in quegli anni il Mediterraneo occidentale. Le importazioni ripresero poco prima del 300 con Aureliano, e terminarono definitivamente nel secolo successivo. Foto Archivi Alinari
Le rovine dei magazzini per l’olio, dei quali si sono conservati alcuni grandi orci, 1890-1900 circa. Pompei (© Archivi Alinari, Firenze)
45
storia e arte L’olio si è fermato a Venafro Ci sono andato apposta, una mattina di metà novembre, a Venafro. Ho camminato tra gli olivi secolari a mezzacosta. Luce chiara e silenzio. Giù, in basso, un po’ di foschia nella valle del Volturno e il lontano rumore del traffico sulla strada tra San Vittore e Isernia. Stavo cercando un perché, ponevo una silenziosa domanda. E gli olivi di Venafro mi hanno dato una silenziosa risposta. Cominciava da lì, per i Romani, la Campania Felix ricca di messi, di vini e d’olio. E l’olio di Venafro era il migliore. L’olio più buono della Campania, il migliore dell’Italia ubertosa… il migliore del mondo. Erano d’accordo tutti 2000 anni fa. Agronomi, scrittori e poeti. Ne scrisse per primo Catone il Vecchio duecento anni prima di Cristo. Ne tesseva le lodi Varrone Reatino nel più aulico dei trattati di agricoltura: “Quale grano potrei paragonare a quello pugliese? Quale vino al Falerno? Quale olio a quello di Venafro?” e tra i poeti Orazio (olio che la bacca venafrana ha stillato) e Marziale che ne loda il profumo. E poi l’ottimo olio di Venafro citato da Strabone e da Giovenale. E più di tutti Plinio il Vecchio, l’ammiraglio, buongustaio e scienziato, individua le varie qualità del suo tempo. Italiane le migliori e quella di Venafro la migliore in assoluto. Cosa di tanta gloria oggi ci resta? Sono ancora quelli gli olivi sul fianco delle colline, ancora quelle le olive che invaiano a metà dell’autunno. La Licina e l’Aurina di Catone e di Plinio. Solita è l’aria, solito il terreno.
Villa romana di Settefinestre
• In epoca romana la presenza di ville
rustiche come questa, dotata di strutture tecnologiche specifiche per la produzione dell’olio, dimostra l’importanza della coltivazione dell’olivo nell’economia agricola di quel tempo in Maremma. Il consumo alimentare dell’olio di oliva era diffuso persino presso gli schiavi, segno che il prodotto era disponibile per tutti, anche se a questi ultimi veniva riservato l’olio di peggiore qualità Foto R. Angelini
Villa romana di Settefinestre, Orbetello (GR)
Foto R. Angelini
46
storia dell’olio Foto Archivi Alinari
Il clima mite dei Romani
• La veloce espansione dell’olivo non
è solo determinata dall’espandersi della potenza militare e politica romana, ma anche dal modificarsi del clima. Nell’area mediterranea, negli ultimi 10.000 anni, le temperature medie hanno oscillato ampiamente e alle fasi più calde corrispondono importanti sviluppi delle civiltà. I Romani hanno goduto di uno di questi momenti favorevoli con un picco caldo tra il 200 a.C. e il 300 d.C. Da un punto basso riscontrabile prima del 1000 a.C. il clima comincia a temperarsi e a una fase umida durata fino al 200 a.C. subentra un periodo decisamente più caldo. L’agronomo Saserna afferma che ai suoi tempi (prima metà del I sec. a.C.) la coltivazione della vite e dell’olivo aveva potuto estendersi in territori nei quali in precedenza queste piante non potevano crescere a causa del clima rigido. In questi secoli più caldi vite e olivo sono segnalati anche in Germania e in Bretagna fino al vallo di Adriano. Dal III al V secolo d.C. non solo la temperatura fu mediamente piuttosto alta, ma il livello delle precipitazioni diminuì nettamente, un fenomeno che probabilmente può spiegare, almeno in parte, l’abbandono di molti territori dell’Africa settentrionale, densamente abitati nella prima età imperiale, ma non fece diminuire le produzioni di olio perché l’olivo ha bisogno di poca acqua e casomai soffre per l’eccessiva umidità. Nei primi due secoli dell’impero, comunque, il clima non doveva essere molto diverso da quello di oggi; successivamente la temperatura scende e la grandezza romana con la sua grande produzione d’olio precipita nel freddo dei secoli bui
Venafro in Molise (© DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari)
A guardar bene li vedi ancora bene allineati come li disposero secondo le centuriazioni romane i veterani che ebbero le terre in premio per le vittorie della Repubblica. “L’albero che da sé rinasce”, diceva Sofocle dell’olivo e tra quei centenari molti han le radici nei millenni. Dunque perché noi posteri tecnologici da quegli olivi non sappiam più fare un olio di eccellenza? Perché Venafro continua a soffrire i secoli bui? Per le lontane invasioni barbariche che all’olio d’oliva, simbolo di luce e di salvezza, sostituirono lo strutto bestiale o per i barbari recenti tutti margarine e oli di un chimico demonio? I classici ci dicon di raccoglier presto e frangere subito. Questo vuol dire amare gli olivi e fare un buon olio. Veronelli 2000 anni dopo non avrebbe potuto pretendere di più. Fan così, oggi, gli amici di Venafro? Amano i loro olivi? No, non lo fanno così. Forse amano i loro olivi, ma si sono dimenticati come si fa a far l’eccellenza. Le ragioni sono tante. Economiche e sociali. Del resto di gente da mandar sugli alberi con il panierino non ce n’è più. Non ci sono più le grandi ville-fattoria adagiate sul pendio di cui si scorge qua e là qualche resto di muro, qualche volta di cisterna, con migliaia di olivi intorno e centinaia di schiavi e il frantoio. Adesso ci son famiglie, vecchietti che seguono a malapena il loro appezzamento da 100 olivi. E tanti sono abbandonati. Chi vuol fare in grande si è spostato in pianura dove tutto è più facile e più meccanico. E le olive mature rendono di più. Il frantoio macina, centrifuga, imbottiglia e se ne frega di Varrone e di Columella. Ma Plinio ci viene ancora in soccorso con la catalogazione degli oli a seconda del tipo di olive. E quelle 47
storia e arte ex albis ulivis e l’olio viridis, e quello maturum, caducum, cibarium. Ebbene quale olio vogliamo? Quale facciamo? Quando l’olio di Venafro tornerà a essere ottimo e almeno viride? E con l’olio di Venafro tutti gli altri ottimi oli d’oliva, i migliori del mondo – parola di Plinio – che l’Italia di un tempo lontano sapeva fare e che potrebbe tornare a fare se non ci volessimo più accontentare di tristi oli troppo maturi o truffaldini cibari che per noi schiavi del moderno consumismo arrivano in offerta speciale sugli scaffali direttamente dalle raffinerie, fin troppo deodorati e decolorati, per una nuova categoria sconosciuta ai classici: l’olio mendace.
Foto Archivi Alinari
Un lumicino nei secoli bui Alto Medioevo A partire dal tardo Impero, nel V secolo, la storia del bacino mediterraneo si avvia verso un lungo periodo di guerre e carestie; si produce poco, si muovono solo gli eserciti e i popoli barbari e l’olivicoltura ristagna. Il grande commercio dell’olio si ferma all’improvviso: inutile produrre, difficile viaggiare, assurdo commerciare. La perfetta organizzazione distributiva romana con i suoi “collegi” degli importatori e la sua arca olearia, cioè la borsa dove si trattavano le partite di olio provenienti da altre terre che fino ad allora avevano soddisfatto le richieste del mercato, viene inesorabilmente soppiantata da una stentata produzione locale più adatta all’autoconsumo che al commercio. Pochi alberi per le necessità di un nucleo familiare contadino e qualcosa di più nei feudi, perlopiù ecclesiastici. Anche il clima si inasprisce. Finisce la fase calda che ha favorito la crescita dell’Impero Romano e arriva una fase molto fredda che spinge i popoli del Nord a scendere verso le rive del grande mare. Anche l’olivo abbandona, con le legioni romane, i territori più settentrionali e nel giro di un paio di secoli sparisce anche dalle terre più adatte, come succede ai tanti segni della grandezza romana: strade, ponti, acquedotti, regimazione dei fiumi e delle paludi. L’olivo torna a chiudersi negli orti, protetto dai muri dei conventi che per necessità liturgiche continuano a produrre olio e vino. Sono secoli bui anche perché poco illuminati da esili lumini che, con il poco olio disponibile, non riescono a contrastare le lunghe tenebre della notte. I nuovi arrivati, poi, mal sopportano la preferenza tutta romana per l’olio come condimento di verdure e polente e preferiscono la carne e il lardo, il latte e lo strutto: solo il vino prevale sulla birra. Cambia il potere e cambia la cultura. All’olivo, simbolo di intelligenza e di pace, si sostituisce la quercia, che riconquista al bosco campi, vigne e oliveti. E nel bosco, sotto le querce, mangia le ghiande il selvatico maiale, ingrassa per diventare lardo.
Lampada a quattro beccucci. Decorazione incisa e incrostata in argento reinciso, XIII-XIV secolo. Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Jean-Gilles Berizzi/distr. Alinari)
Foto Archivi Alinari
Lampada a beccucci multipli, basso Impero Romano (307-425). Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Hervé Lewandowski/distr. Alinari)
48
storia dell’olio La popolazione si contrae e si concentra intorno ai castelli. Nei feudi, specie nelle zone di media collina, si costruiscono fattorie-fortilizio abitate da una decina di famiglie che si dedicano ancora alle coltivazioni del grano, della vite o dell’olivo. Non sono più gli schiavi di un tempo, ma la loro condizione di servi della gleba, legati al terreno che coltivano per il padrone, non è molto differente. Alcuni di questi villaggi sono ancora visibili in Toscana. Nella zona di Pistoia, sulle pendici della Valdinievole, per esempio, queste fattorie-fortezze sono poste lungo i corsi d’acqua dove i mulini e i frantoi potevano sfruttare l’energia idraulica per azionare le loro macchine. Ma l’olio ormai ha ceduto al lardo e se resiste è solo perché la Chiesa impone lunghi periodi di astinenza dalle carni e anche dal grasso animale. Comunque solo i pochi ricchi e gli ecclesiastici si possono permettere il pesce e l’olio come condimento e per illuminare i luoghi sacri. Si sa poco comunque di questo periodo che nessuno vuole studiare. Troppo tardi per gli antichisti, troppo presto per i medievali. Incerto per le fonti, povero di reperti. A noi comunque basta sapere che alla contrazione demografica fa seguito un’evidentissima contrazione produttiva e territoriale dell’olivo che si mantiene a stento solo nelle sue terre più vocate intorno al Mediterraneo. In Spagna sotto la dominazione araba per illuminare la Moschea di Cordoba 1200 lampade consumano 250 quintali d’olio all’anno. Segno che ce n’è in abbondanza. Così tra il VII e l’VIII secolo è segnalata in Palestina una buona
Foto Archivi Alinari
Lucerna di epoca romana. Museo del Louvre, Parigi. (© RMN/Hervé Lewandowski/distr. Alinari) Oliveti intorno alla Pieve di Orvieto. Nel Medioevo l’olivo torna a chiudersi dentro le mura dei conventi
Foto R. Angelini
49
storia e arte Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Ponte romano sul Guadalquivir davanti alla Moschea di Cordoba
produzione d’olio anche nel delicato passaggio tra Bizantini e Arabi e continua a esserci sulle coste nordafricane, anche se dalla Cirenaica e dalla Tripolitania non ci sono più navi che lo portino a Roma. Ma è proprio questo blocco degli scambi che costringe chi ne ha bisogno a ingegnarsi a produrlo localmente. Ecco perché la grande tradizione romana rimane nelle piccole enclavi dei conventi, negli orti dei monasteri, tra mille cure per sfidare il clima più freddo. Lavoro e preghiere specialmente dei Benedettini di Farfa in Sabina, San Vincenzo al Volturno, Monte Cassino, Padùla nel Cilento. Ma ce n’era anche in area padana e circon-
Mezquita di Cordoba e navata di Abdal-Rahmani, dove potevano pregare musulmani, ebrei e cristiani illuminati dagli stessi lumi a olio
Foto R. Angelini
50
storia dell’olio dato di grande considerazione se l’Editto di Rotari (la prima legislazione longobarda del 643) prevede per chi abbatte un olivo una pena tre volte superiore a quella di chi ha abbattuto un altro albero. Si dovrà attendere il ritorno di un periodo più mite intorno al Mille per assistere a una nuova espansione di vite e olivo. Saranno soprattutto le comunità monastiche, con la bonifica di terreni paludosi e la messa a dimora di nuove piante, a dare impulso all’agricoltura. È in questa fase climatica calda che l’olivo e la popolazione tornano a espandersi in numeri e in territori. Ed è in questo periodo che le varie zone mediterranee e anche continentali, pur riaffermando le caratteristiche qualitative e produttive che avevano avuto per tutto il lungo Impero, trovano – diciamo così – la loro vocazione moderna che le accompagnerà per alcuni secoli fin quasi ai nostri anni. È dopo il Mille, ma prima del 1300, che la Puglia comincia a coprirsi di olivi. All’inizio con qualche incertezza si costituiscono i primi oliveti nelle zone costiere, spesso chiusi al riparo di muretti a secco. In documenti di Molfetta (anno 1143!), Conversano e Monopoli si parla di terreni con centinaia di olivi. Le Murge smettono di essere solo cerealicole e pascolo invernale per transumanti e cominciano a coprirsi di olivi. Molti viaggiatori già prima della fine del Duecento raccontano che sia in Terra di Bari sia in Terra d’Otranto ormai l’albero dominante
Foto Archivi Alinari
La raccolta delle olive nere, Tacuinum Sanitatis, Codex Vindobonensis Series Nova 2644, Biblioteca Nazionale Austriaca, Vienna (© Archivi Alinari, Firenze)
Olivi intorno a Orvieto
Foto R. Angelini
51
storia e arte è l’olivo. Un’espansione travolgente che deborda a nord nella Capitanata e verso sud fino nel Salento. Naturalmente gli storici questionano e puntualizzano cause ed effetti. A noi basterà rilevare che contemporaneamente Venezia, che controlla tutto l’Adriatico, comincia a trasportare l’olio pugliese verso il ricco mercato padano tanto da rendere irrilevante la produzione gardesana, che ritorna alla sua dimensione locale. Ci occuperemo tra poco di questa grande espansione del traffico dell’olio a Venezia, ma prima di lasciare la Puglia del XII secolo resta da dire che tra le tre qualità di olive segnalate si distingue anche la Cellina, ancora oggi apprezzatissima per l’olio e per la tavola. Visto che quasi niente si riesce a sapere del resto dell’Adriatico, con le Marche e l’Abruzzo che pure qualcosa dovevano preparare, passiamo in altri lidi. Calabria ancora in stasi, qualche movimento in Campania tra Benevento e Cava dei Tirreni con Napoli e Gaeta che esportano addirittura fino a Costantinopoli, ma anche verso la Toscana, che comincia ad avere crisi di domanda, non bastandole la sua produzione come vedremo. Produzione e consumo eminentemente locali per Umbria e Lazio. Da segnalare un’interessante espansione nel Levante Ligure che coinvolge anche piccoli proprietari fuori dai conventi. Nel Ponente invece prevale il vino. Né va meglio lungo la costa della Provenza dove la produzione locale permane nei secoli bui, ma dove Marsiglia deve ben presto rinunciare al suo ruolo di porto di arrivo delle produzioni nordafricane e spagnole che ri-
Clima e agricoltura
• Osservando, nel grafico, la linea a
tratti rossa e a tratti blu che indica la temperatura media nella sua evoluzione, possiamo seguire lo sviluppo dell’agricoltura e della nostra civiltà dopo la fine dell’ultima glaciazione 10.000 anni fa. Tra i 7500 e i 5000 anni fa il grande caldo dell’Optimum climatico postglaciale. Sono tre millenni nei quali nasce, si sviluppa e si espande l’agricoltura. L’homo sapiens, non più cacciatore-raccoglitore, impara a domesticare piante e animali; diventa stanziale, cresce di numero e di civiltà, invade il mondo. Anche l’olivo viene domesticato e inizia la sua millenaria espansione mediterranea. Poi, dopo una nuova fase piuttosto fredda 3000 anni fa, si entra nella fase climatica che ancora ci accompagna. Più fredda tra 800 e 300 a.C.; più mite nei due secoli successivi, che vedono lo sviluppo della civiltà romana, e decisamente calda e poi anche arida tra il 100 a.C. e il 400 d.C., momento dello splendore di Roma e della massima espansione dell’olivo. Segue la fase fredda dei secoli bui, tra 400 e 750 d.C. Con l’800, invece, il clima torna a sorridere con una fase calda e molto calda fino al 1200, quando si raggiunge l’Optimum climatico medievale in corrispondenza di una nuova espansione dell’olivo tra i Comuni italiani e fino alle terre del Nord tornate accessibili all’albero mediterraneo. Freddo, fresco e poi freddissimo tra il 1300 e il 1850, addirittura con una piccola glaciazione; quindi la linea sale fino ai nostri giorni, con una breve fase più fresca tra il 1950 e il 1975. La linea rossa sale ancora nel 1985, con un nuovo scalino nel 1998, per restare poi stabile negli ultimi 10 anni
Clima e agricoltura
Scarto termico dalla media del XX sec. d.C.
7500/5000 anni fa Optimum climatico postglaciale
950-1200 d.C. Optimum climatico medievale
4 3 2 1 0 –1 –2 –3 –4 –5 –6 –7 –10.000
–8000
Ultima glaciazione
–6000
–4000
–2000
0
Espansione Piccola romana glaciazione 1550-1850
Da L. Mariani, L’agricoltura italiana e il rischio climatico, Università di Milano
52
2000
storia dell’olio torneranno comunque solo più tardi, quando Venezia e Genova cederanno la loro supremazia e a Marsiglia confluiranno anche gli oli del Sud italiano, dalle cui fecce (con una ricetta sfruttata per secoli a Venezia) si farà il più famoso sapone. Ma torniamo nella Pianura Padana e alla zona dei laghi da dove eravamo partiti. Prima dell’invasione degli oli pugliesi trasportati dalle navi della Serenissima, l’espansione avviene sfruttando la fase calda tra XII e XIV secolo. L’olivo sale lungo le valli e riconquista quegli spazi e la stessa importanza che aveva avuto al tempo della prima penetrazione romana, mille anni prima, e che sta ripercorrendo oggi proprio dopo altri mille anni e un paio di espansioni e altrettante ritirate dovute al variare del clima. Nel 1158 quando le truppe del Barbarossa passano nei pressi del Garda per affrontare la Lega (quella originale di Alberto da Giussano) i cronisti dell’epoca annotano scandalizzati che la soldataglia tedesca accampata inter olivas speciosissimas, tra splendidi olivi, li abbatte per farne legna da ardere e, con le fronde, strame ai cavalli senza rispetto per la preziosità degli alberi, e forse, diremmo noi, senza nemmeno rendersene conto essendo ormai l’olivo, sacro al Romano Impero, del tutto indifferente al Sacro Impero Teutonico. Ma per chi lo coltiva la preziosità dell’albero e dei suoi frutti è ancora ben presente. In numerosi statuti urbani e rurali per tutta la Pianura Padana si obbligano i proprietari di vigne e seminativi a piantare anche olivi. Un obbligo che si riscontra
Foto Archivi Alinari
Pagina miniata tratta dal Tacuinum Sanitatis, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Vienna, raffigurante “L’olio d’oliva’’ (© Archivi Alinari, Firenze)
Olivi sul lago di Garda
Foto V. Bellettato
53
storia e arte anche in Piemonte e fino a Ivrea, proprio a testimoniare che in quel periodo l’olivo resisteva anche in terre successivamente non considerate a vocazione olivicola. Dappertutto le cure all’oliveto sono molto scarse. Un’aratura o una zappatura all’anno. Potature poche, concimazioni e qualche pacciamatura. Tutte cure che potrebbero rivedersi anche oggi fino all’abitudine, tutta pugliese, di tener pulito il cerchio di terra corrispondente alla chioma dell’albero. L’inizio della raccolta veniva di solito indicato dalle autorità locali. Molti usi lo fissavano comunque per San Martino, l’11 novembre, e spesso veniva fissato anche un giorno finale intorno al Natale per permettere poi l’accesso delle greggi al pascolo negli oliveti dopo un’ultima passata dei “pizzicaroli” che raccoglievano per terra o sui rami il poco che era sfuggito ai raccoglitori. Ma c’erano anche tante zone dove la raccolta si poteva protrarre fino a primavera. In tutto il Sud erano di abitudine la bacchiatura e la raccolta per terra anche con l’aiuto di panni stesi sotto l’albero. Bacchiatura riportata anche in zone laziali e liguri, ma in quelle centrali, Toscana in testa, prevale la brucatura a mano con l’aiuto di un canestrino di vimini che si è visto attaccato al braccio o alla scala del raccoglitore fino a qualche anno fa. Il nonno spiegava così quell’arte: “Tieni il paniere davanti la pancia. Pieghi in giù la fronda e mungi le olive. Han da cascar tutte nel paniere. Senza sciupio né d’olive né di rami”. Una sana regola dettata anche da Varrone Reatino. Nel Medioevo però le regole dei classici erano un po’ fuori moda. Alla qualità si badava ben poco, specie dove si cercava di produrre grande quantità di olio lampante. Nei tre secoli prima della crisi di guerre, carestie e pestilenze verso la metà del 1300, l’olio si impone per importanza e, nonostante l’aumento sostanzioso delle produzioni e delle aree dedicate, rimane un bene raro e prezioso. Anche il governo Pontificio, sulle cui terre la produzione è molto aumentata, stabilisce per legge che le eccedenze degli anni di abbondanza non siano del tutto vendute o esportate, ma immagazzinate presso monasteri, abbazie e sedi pubbliche e dà l’esempio conservando l’olio d’oliva necessario alla corte pontificia in enormi anfore sistemate nel Castello di S. Angelo a Roma. Questi sono tempi di crescita vorticosa della popolazione, di estensione delle aree coltivate, di sviluppo delle città. In tutta Europa, ma specialmente in Italia. La domanda è sempre superiore all’offerta. È la situazione favorevole alla rinascita dei commerci. È arrivato il momento delle Repubbliche Marinare. Alcuni commercianti veneziani e genovesi riadattano le tecniche di approvvigionamento degli “oleari” Romani e danno nuovo impulso al commercio dell’olio su lunga tratta. Si riaprono le rotte sul mare ferme da secoli.
Foto P. Viggiani
Foto P. Viggiani
Vecchi olivi nel Salento
54
storia dell’olio Uno tra i primi temerari di cui si ricorda il nome è un veneziano, Vitale Voltani, che intorno al 1160 controlla totalmente il mercato dell’olio d’oliva a Corinto, Tebe, Costantinopoli e lo fa arrivare a Venezia da diverse regioni della Romania. Da parte loro i genovesi, per primo Romano Mairano, riprendono a commerciare e importare olio dalla Provenza, dalla penisola Iberica, dall’Africa settentrionale. In breve tempo l’olio d’oliva contribuisce, e non poco, alle fortune commerciali della Repubblica di Venezia. Indispensabile per l’alimentazione e la produzione dei saponi, l’olio d’oliva diviene uno strumento di affermazione politica con l’imposizione di una precisa legislazione sul prodotto. A Venezia, alla fine del XIII secolo vennero nominati i Visdomini di Ternaria, incaricati di controllare le importazioni e le esportazioni delle partite di olio d’oliva, nonché la pesatura e la vendita al minuto. I dazi fissati dalla Repubblica erano di tre ducati per ogni mille libbre di olio d’oliva se proveniente dal Golfo (il Golfo Adriatico giungeva fino alla Puglia) e di un ducato se importato da fuori del Golfo. C’era una bolletta da pagare sia per caricare sia per scaricare le botti o le giare. Per il trasporto dell’olio si costruiscono apposite navi, le “marciliane”, leggere imbarcazioni a fondo piatto, larghe otto metri, lunghe diciotto, bassa la prua, capaci di trasportare fino a 500 botti di olio d’oliva.
Foto Archivi Alinari
Mosaico sul pavimento proveniente da Bulla Regia, Museo Nazionale Medioevale (Musée National du Moyen Âge), Parigi (© RMN/Caroline Rose/distr. Alinari)
Oliveti nei dintorni dell’abbazia di Farfa (© DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari)
Foto Archivi Alinari
55
storia e arte L’interesse dei commercianti veneziani verso il sud della penisola è collegato alle notevoli quantità di olio d’oliva prodotto specie nell’area salentina. Nel libro ufficiale della città di Gallipoli è inserito un diploma del 1327 del Re Roberto d’Angiò che concede alla città l’esenzione di tutti i tributi per la macina delle olive. Nell’Archivio di Stato di Lecce sono inoltre conservate le autorizzazioni reali del 1371 per l’attracco nei porti di Gallipoli e di Brindisi di navi da Ragusa, l’attuale Dubrovnik sulla costa dalmata, culla di tanti comandanti ed equipaggi del naviglio commerciale e militare della Serenissima. Caricavano olio d’oliva in orci di pelle di capra. Migliorano anche le tecniche di coltura e di estrazione. Grande attenzione riscuote il testo di scienza agraria (1300) del bolognese Pietro de’ Crescenzi, che insegna le pratiche di potatura e allevamento degli alberi, con particolare riguardo per la pianta d’olivo. Mentre Venezia e Genova rivaleggiano per il controllo delle rotte commerciali, Firenze, che dispone di incerti sbocchi al mare, spinge al massimo la coltura dell’olivo sulle proprie terre per non dover dipendere dalle costose importazioni. Ma è un processo molto lento e ancora nel Duecento gli olivi van cercati negli orti a tre e a quattro per volta e solo sulla costa tra Pisa e Lucca si può parlar di oliveti. E la situazione non cambia molto cent’anni dopo
Foto R. Angelini
Olivi in Toscana
Vista aerea di Gallipoli che si protende nelle acque del mar Jonio, importante centro, dai tempi della Repubblica di Venezia, per il commercio dell’olio nell’area salentina
Foto R. Angelini
56
storia dell’olio se il fiorentino Buonaccorso Pitti, facendo un inventario degli alberi che crescono nel suo giardino, gioisce nel contare addirittura sessanta piante di olivo. Il gran mercante pratese Francesco di Marco Datini all’inizio del Quattrocento ricava dalle sue terre solo 70 chili d’olio, poca cosa rispetto ai 270 quintali di grano e quasi altrettanti di vino che vengono dagli stessi poderi. L’interesse per l’olivo e l’olio d’oliva cresce, aumenta la richiesta, e si hanno i primi esempi legislativi a favore di questa produzione. Leggiamo negli Statuti di Montepescali, in Maremma, del 1427: “Ne la bandita del Poggio qualunque persona ha possessione con ulivi, sia tenuta ogni anno porvi quattro piante d’ulivo e farvi innestare quattro alberi domestici (...) Chiunque, in qualsiasi posto, abbia un possesso, debba piantare, ogni anno, due ulivi e innestare due alberi domestici”. Firenze sta sviluppando, prima nell’Occidente, una nuova e grande attività tessile che anticipa di qualche secolo lo sviluppo industriale. Le botteghe artigiane si trasformano in vere e proprie fabbriche tessili. Si fila, si tesse, si tinge la lana e con una nuova cardatura si riciclano anche gli stracci. Produzione e commercio appoggiati da una battagliera finanza con propaggini in tutt’Europa. Ma serve tanto olio per ungere le fibre e pettinare le stoffe. E tutto quest’olio non c’è sulle colline intorno a Firenze e non c’è nemmeno in Toscana. Così i commercianti fiorentini lo vanno a
Foto R. Angelini
Olivi in Maremma
Firenze vista attraverso gli olivi: dalla cupola del Brunelleschi al campanile di Giotto al Palazzo Vecchio
Foto R. Angelini
57
storia e arte cercare dov’è. In Calabria, in Campania e anche in Puglia. Nel 1347 l’Arte della Lana importò 7143 orciuoli di olio di oliva per 15.956 fiorini, una cifra enorme anche se si trattava di olio scadente utilizzabile solo per la cardatura della lana. Contemporaneamente Firenze iniziava una massiccia esportazione delle sue preziose derrate: il vino e l’olio di oliva accompagnavano le stoffe più preziose nelle ricche città del Nord Europa. Parigi, Bruges, Anversa, le Fiandre e anche Londra. L’Inghilterra ancora non ha imparato a filare e a tessere in stoffe di qualità quella lana che in gran copia produce e in parte manda, grezza, a Firenze, che è pienamente consapevole dell’importanza della produzione laniera per la sua economia ed è ancor più consapevole dell’importanza dell’olio, unico grasso che è liquido alle normali temperature ambiente, perfetto per filare e tessere. Firenze gestisce questo prodotto di punta e la sua commercializzazione con norme severissime: è assolutamente vietato vendere olio d’oliva senza l’apposita licenza; nessun venditore può tenere più di quattro orci di olio d’oliva così come è vietato trasportare fuori dal contado olio d’oliva senza una precisa autorizzazione.
Sapone di Venezia
• Una volta filata e tessuta la lana con
l’uso di tanto olio la pezza va lavata di tutto quell’unto. L’olio o meglio i suoi sedimenti servono a far sapone. È Venezia che rifornisce anche di sapone i mercati europei. E nel Quattrocento si può dire ne monopolizzi la produzione e il commercio. Produce anche, va detto, il miglior sapone in circolazione. Il più bianco e il più duro. Lo ricavava dalle parti più basse della produzione dell’olio che raccoglieva dalle Puglie e dall’Adriatico. Sedimenti quasi morchie: amurca le chiamavano con parola di derivazione latina. Con l’olio venivano cotte sostanze alcaline derivate dalla combustione di piante ricche di quelle sostanze. Olio e cenere dunque, ma in grandi quantità per una produzione che invadeva il mercato europeo. Secondo una ricetta di quel tempo tenuta segreta dai saponai veneziani (una ventina di piccole fabbriche in città) per far 18.000 libbre di sapone servivano nella caldaia 6000 libbre di olio, 3000 libbre di soda di Siria e 1500 di soda d’Egitto. La Serenissima si tenne ben stretto questo monopolio per un paio di secoli. Poi cedette il primato a Marsiglia
Rinasce anche l’olio Nel Rinascimento l’olio del Sud assume tutta la sua importanza per l’illuminazione e l’industria. La domanda che arriva da tutti i mercati europei è fortissima. Venezia la fa da padrona in Puglia, ma non mancano i Genovesi in Calabria e fin nello Ionio, insieme a Toscani, Russi, Tedeschi, Olandesi e, sempre più intraprendenti, gli Inglesi. Di fronte alla pressante richiesta la Puglia si trasforma in un grande oliveto. Nel Quattrocento, a opera dei frati Cistercensi e OliFoto Archivi Alinari
Interno di un saponificio, illustrazione per un’enciclopedia (incisione), scuola francese del XVIII secolo. Biblioteca Universitaria, Barcellona (© The Bridgeman Art Library/ Archivi Alinari)
58
storia dell’olio vetani, le ampie zone boscose tra le rocce brulle sopra il Capo di Leuca sono messe a coltura e per ottenere una pronta resa sono risparmiati solo gli olivastri cresciuti spontaneamente e innestati a olivo domestico. In ogni porto della regione, Bari, Brindisi, Taranto, Otranto, è un incessante andirivieni di navi. E Gallipoli ha avuto legazioni diplomatiche in mezza Europa e sul posto rappresentanti consolari che sono rimasti fino al 1923. Per capire le già grandi quantità che venivano prodotte e trasportate su per il Golfo, nei registri di un notaro di Brindisi, per esempio, sono elencati gli atti di versamento del dazio riscosso da due agenti veneziani: ebbene in soli dieci mesi del 1578 i due mercanti acquistarono 211.263 stare di olio d’oliva provenienti dalle terre di Maglie, Salve, Murciano e Leuca pagando 21.126 ducati solo di tassa daziaria. Sia pure con minore intensità rispetto alla Puglia, nelle restanti regioni – Calabria, Abruzzo, Campania e Sicilia – sempre a opera di frati o monaci e poi di feudatari, si provvide a piantare l’olivo dapprima per l’autoconsumo e successivamente destinandolo all’esportazione. Il commercio dell’olio d’oliva raggiunse una tale importanza nell’economia meridionale che nel 1559 il Vicerè spagnolo Parafran de Rivera dispose la costruzione di una strada che collegava Napoli alla Puglia con biforcazioni per la Calabria e l’Abruzzo per consentire più rapidi trasporti tra Adriatico e Tirreno. A Spoltore, in Abruzzo, attorno al convento francescano, vi è un enorme e secolare oliveto impiantato nel 1488. In Campania, specie nel Salernitano, gli oliveti tornarono alle dimensioni che avevano gia avuto con i Romani. La fascia costiera del Cilento si copre di grandissimi olivi Pisciottani, e da Pisciotta partono le tartane con l’olio per l’illuminazione di Napoli. Per tutto il Cinquecento l’olio d’oliva che passa per Venezia resta competitivo nel prezzo nonostante le periodiche penurie naturali e gli aggravi fiscali. Alcuni dati: i commercianti veneziani nel 1580 importano dieci milioni di libbre di olio d’oliva che aumentano a quindici milioni di libbre nel 1598 (pari a più di 7000 tonnellate). Di tutto quest’olio più della metà veniva riesportato, un 40 percento era destinato all’industria del sapone e della lana e solo un 10 per cento serviva all’alimentazione della città e del suo vicino contado. Da calcoli fatti risulta che ogni veneziano aveva a disposizione 9 litri d’olio all’anno (luce, lana e sapone compresi) contro un paio di litri all’anno della pur ricca d’olivi Valladolid. Nel Cinquecento in Toscana l’amministrazione medicea favorisce la cessione ai Comuni di terreni collinari boscosi, con l’obbligo di darli in affitto a un prezzo minimo a condizione che l’affittuario li trasformi piantandovi olivi e vigneti. Nascono anche grandi proprietà, vere e proprie aziende agricole, le Fattorie, che dispongono di frantoi propri.
Foto P. Viggiani
Foto P. Viggiani
Olivi plurisecolari
59
storia e arte Si piantano molti oliveti anche in Sardegna, dove sino alla fine del Medioevo esistevano pochi olivi piantati dagli occupanti pisani, poi abbandonati e moltiplicatisi in piante selvatiche, a macchie. È un Vicerè spagnolo, Giovanni Vivas, a lanciare l’olivicoltura nella parte nord-occidentale dell’isola: un decreto del 1624 ordina di innestare gli olivi ridotti allo stato selvatico, che divengono di proprietà di chi li innesta. Il proprietario nei cui possedimenti vi sono almeno cinquecento piante deve allestire un frantoio. Vivas fa venire da Maiorca cinquanta maestri innestatori a ognuno dei quali vengono affidati dieci allievi. Vi è da dire che in Spagna le tecniche di coltivazione e lavorazione erano state particolarmente affinate durante la dominazione araba: nel solo distretto della Siviglia musulmana funzionavano trentamila frantoi. Dopo la rapida espansione, un momento di stasi nel Seicento. In concomitanza con un forte raffreddamento del clima, le guerre, con il continuo sconvolgimento degli equilibri politici ed economici, colpiscono anche la produzione olivicola e il commercio dell’olio. Si susseguono anni di cattivi raccolti, in particolare nell’Italia meridionale e, con la dominazione spagnola, un aumento del carico fiscale. Vengono introdotti anche nuovi tipi di contratti a termine, prima di tre anni, poi, dal 1670, di due. Spesso gli oliveti sono abbandonati perché la resa non compensa le spese e il lavoro. Comunque anche durante il Seicento, secolo difficile per tutt’Italia, Venezia risultò sempre fornita d’olio, che invece scarseggiò qua e là. Non c’era più l’abbondanza del secolo precedente quando i mercanti erano costretti a lasciare all’erario addirittura un quinto del loro prodotto. Una bella quantità che serviva a tener buoni i ceti più umili (lo facevano anche gli imperatori Romani!) e a calmierare i prezzi. Quando nel 1587 l’obbligo di conferire il quinto del quantitativo d’olio fu trasformato in tassa fissa (un ducato per mille libre), il prezzo dell’olio anche sul mercato cittadino cominciò a lievitare e nel 1625 il Doge introdusse per la prima volta un balzello anche al consumo. Nel 1630 fu istituita la
Foto R. Angelini
Un franco francese Foto R. Angelini
Cento lire turche Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Cento lire del Vaticano Cinquecento dracme
60
storia dell’olio “Doganella” per consentire, con sgravi fiscali, di far depositare a equipaggi e comandanti delle navi veneziane l’olio che altrimenti avrebbero commerciato personalmente sottraendo al fisco dei bei soldi, dato che dall’olio si rastrellavano tasse seconde solo a quelle del sale. La Serenissima, proprio da quegli anni, risponde alle difficoltà di approvvigionamento diciamo così estero (specialmente dalla Puglia, dove si comincia a risentire la pressione degli altri concorrenti, Inghilterra in testa) con lo sforzo di estendere alle terre veneziane sulle coste dalmate – in Istria e a Corfù – Zante, Cefalonia e Candia l’olivicoltura. La concorrenza sul mercato oleario diventa accanita. Venezia, dopo la perdita di Cipro, deve vedersela anche con i pirati che assaltano i suoi convogli e nello stesso tempo contrastare gli Inglesi che intendono commerciare l’olio d’oliva senza l’intermediazione della Serenissima. I commercianti veneziani riescono pur tuttavia a migliorare l’organizzazione distributiva sia all’interno della Repubblica sia verso i nuovi mercati esteri del Tirolo, della Baviera e della Germania utilizzando anche la navigazione fluviale. Contemporaneamente però aumentano le tasse e i balzelli sulla produzione delle loro terre per mantenere più competitiva l’importazione da Oltremare su cui le casse veneziane accumulano grandi ricchezze. Gli oliveti del Garda fino al Seicento producono olio sufficiente alle esigenze di Verona, Brescia, Bergamo e Mantova. Ne resta anche un po’ per l’esportazione attraverso il Tirolo in Germania. Marco Dandolo nel 1628 scrive: “la riviera un anno per l’altro rende sei et più milla mozi di oglio del quale se ne ispedisce per Alemagna circa moza quattromila et del rimanente parte ne va a Brescia et parte si consuma in servitio di quelli sudditi”. Ma negli ultimi anni, già segnati dal clima, gli olivi del Garda cominciano a deperire con un lento regresso che durerà inesorabile fino all’Ottocento quando la ferrovia renderà gli oli toscani e anche marchigiani e abruzzesi troppo competitivi rispetto alla scarsa produzione locale. È bene notare come, specialmente per le grandi produzioni del Sud Italia, e particolarmente per la Puglia, ci siano stati due picchi di produzione e di interesse per l’olio corrispondenti allo sviluppo della produzione di lane prima a Firenze intorno al 1300 e poi dal 1600 in Inghilterra e nelle Fiandre. Una domanda che abbiamo visto derivare dalla gran quantità d’olio d’oliva necessaria alla filatura e tessitura della lana. Tutto questo olio proveniva per lo più da Puglia e Calabria. Specialmente il porto di Gallipoli fungeva da collettore delle olive del Salento che dopo una frangitura nei 40 frantoi (ipogei) della città veniva spedito via mare nel Nord Europa. Vettori i Genovesi a volte anche i Veneziani. La morchia residua era poi la base dei saponi che venivano prodotti a Venezia a Genova e poi a Marsiglia.
Ipogei a Gallipoli
• Sparsi in tutta la Puglia e concentrati
specialmente a Gallipoli, i frantoi Ipogei sono un retaggio di antiche tecniche importate dalle isole Egee. Venivano scavati per sfruttare la costanza termica del sottosuolo e anche per ragioni di difesa del prezioso prodotto che vi si faceva. A livello del suolo si vedeva solo il “trappeto”, il varco dove si scaricavano le olive. Al di sotto nell’antro scavato nel tufo numerosi depositi per le olive, macine e torchi, magazzini per le giare e stalletti per gli animali che facevano girare gli ingranaggi e spazi ancor più piccoli dove dormivano gli operai. La squadra che gestiva il frantoio era organizzata come la ciurma di una nave e quando “salpava” a ottobre scendeva sottoterra per restarvi fino ad aprile con rarissime uscite. Il nocchiero organizzava il lavoro: le olive venivano prese dalle stive (dove potevano restare a fermentare anche per mesi) e messe sotto le grandi macine. La pasta strizzata nei torchi e lavata con acqua calda produceva olio lampante venduto in tutta Europa. Il valore di un litro d’olio rappresentava la paga di un mese di un operaio. L’aria chiusa e puzzolente, la poca luce dei lucignoli che si rifletteva sulle pareti unte, i gesti sempre uguali per mesi, facevano nascere nei frantoi le dicerie sui folletti dispettosi e a volte cattivi che li infestavano. Non c’era frantoio senza “scazzamurrieddu”. E a Gallipoli tra il Seicento e il Novecento di frantoi in attività ce ne sono stati anche 130
61
storia e arte I lumi son sempre a olio Il Settecento si apre con una vera catastrofe climatica. Abbiamo visto che già dalla metà del Cinquecento e fino a metà Ottocento la temperatura scende tanto da far parlare i climatologi di una Piccola Era Glaciale. Tra gli anni peggiori il 1709 con una temperatura che il 6 gennaio scese fino a –19 gradi e lì restò per molti giorni fino almeno al 17. I cronisti toscani parlarono del “Gran Nevone” che arrivò all’improvviso dopo un autunno mite che aveva mantenuto gli olivi in vegetazione fino a Natale. È l’improvviso raffreddamento e il suo permanere che creano i maggiori danni come è successo per tutte le gelate fino al 1985. Quella del 1709 fu comunque tra le peggiori della storia e coprì di gelo e di danni tutta l’Europa meridionale: la Grecia e i Balcani, tutta l’Italia, la Provenza e buona parte della Francia e persino la Spagna. Ne fecero le spese specialmente gli olivi, che seccarono quasi tutti e che, nelle zone già con difficoltà climatiche, nelle pianure o nelle valli non ben orientate, furono abbandonati. In Toscana la falcidia stimolò invece una nuova spinta espansiva dell’olivicoltura, ma il quantitativo di produzione dell’olio calcolato all’inizio del secolo in 200.000 barili (circa 66.800 ettolitri) fu di nuovo raggiunto solo dopo la metà del secolo. E poiché quella quantità era più o meno quella necessaria all’autoconsumo del Granducato, il prezzo dell’olio rimase per tutti quegli anni molto alto, spingendo la sperimentazione sia verso nuovi sistemi di coltura, sia verso nuovi oli più adatti all’illuminazione e all’uso manifatturiero. È in questo periodo che si specializzano le produzioni. L’olio per uso alimentare si attesta nelle zone di maggior pregio come la Toscana e quello lampante proviene sempre di più dalle zone a massima produzione quantitativa del Sud. Venezia perde la sua leadership commerciale e le zone intorno ai grandi laghi del Nord continuano a produrre per autoconsumo sempre più locale. La Pianura Padana si rivolge, finché è possibile, al burro e allo strutto. È quindi interessante in questo periodo seguire l’evoluzione importante che l’olivicoltura ha in Toscana tra l’attento governo Granducale e la nascita della prima istituzione scientifica europea che si occupa specificamente di agricoltura. È l’Accademia dei Georgofili che studia e propone all’illuminato governo di Leopoldo di Lorena innovazioni in campo tecnico, economico e sociale per migliorare le produzioni e anche la vita dei contadini e dare consigli ai proprietari terrieri interessati allo sviluppo dei loro coltivi. Già nello Statuto l’Accademia, che raggruppava studiosi e accorti proprietari, dimostra attenzione per la “coltivazione degli ulivi e di altri frutti per supplire ai casi della loro mancanza. Della maniera di fare il miglior olio e conservarlo” e cominciò a stabilire bandi di concorso con premi di 25 zecchini
Otto secoli di gelate
• In Toscana e nel Centro Italia gli studi
degli storici e dei climatologi riportano importanti gelate con gravi danni specialmente agli olivi negli anni 1216, 1510 e 1600. Tuttavia la gelata di gran lunga più devastante colpì tutta la fascia meridionale europea nel gennaio del 1709 con temperature che raggiunsero i –13 a Firenze e i –19 a Perugia. Ancora temperature fino a –20 nella zona di Firenze nell’inverno 1846-47; grande freddo nel 1849, nel 1871 (–11) e nel 1877. Temperature tra i –7 e i –10 anche nel nuovo secolo: 1901, 1907, 1919. Altra gelata storica con falcidia di olivi nel 1929, con punte di –17 in febbraio a Foligno; –10 nell’inverno del 1940 e poi nel 1949. Memorabili i –15 del febbraio 1956. Grande freddo nel 1963 e nel 1966; –15 tra Toscana e Umbria nel 1968. Infine, la grande gelata del 1985 con il termometro sotto i –10. Da allora gli inverni più freddi hanno segnato minimi di –7: il 1996, il 2000 e il 2005 Foto Archivi Alinari
Raccolta delle olive, 1900-1910 (© Touring Club Italiano/Gestione Archivi Alinari)
62
storia dell’olio per chi avesse presentato le migliori trattazioni scritte su vari temi. Tra queste l’olivo, che venne definito “l’albero più utile allo stato, decoro, ricchezza e amenità delle colline toscane”. Assonanze con i classici per niente casuali. I premi li vinse Giuseppe Tavanti con un bellissimo catalogo dei vari tipi di olivi coltivati in Toscana, corredato da tavole a colori che porterà nel 1819 (passata la bufera napoleonica) al Trattato teorico pratico completo sull’olivo. Interessanti anche le varie ricognizioni dei Georgofili sui metodi di potatura e di estrazione dell’olio praticate nelle diverse zone del Granducato. Tre zone molto diverse tra loro: il circondario fiorentino, la parte più vicina al mare tra Pisa e Lucca e la montante Maremma. Sono due filosofie completamente diverse. Sulle colline dell’interno vige la mezzadria e il sistema fiorentino di coltivazione promiscua: olivi e grano e ancora le viti maritate. Questo porta il mezzadro a una potatura forte degli olivi affinché “l’olivo non faccia troppa ombra al grano che ci sta sotto”. Ne soffre la produzione delle olive. “Generalmente si sconta in olio quel che si prende in grano, e qualche cosa di più. Per conseguenza queste nostre amene e vaghe culture promiscue riescono anche in questo caso dannose” (Ridolfi, Lezioni orali di agricoltura). Nella parte costiera invece allevamento a “bosco” molto più moderno – potremmo dire – e potatura ad “albero”. Ecco come ce lo spiega Jacopo Ricci, georgofilo, ma anche parroco di Santa Maria a Ontignano sulle colline fiorentine sparse d’olivi: “Nel Pi-
Gli olivi al tempo dei Georgofili
• Nelle assemblee dei georgofili, per più
di due secoli accanto ai grandi dibattiti sulle migliori tecniche di impianto si è molto questionato anche sui sistemi di estrazione con scontri sulla necessità o il pericolo di usare il calore per sciogliere più olio, scontro teorico che ci ha accompagnato fino a ieri. Altra disputa intorno alle migliori cultivar
• Le varietà di olivi più frequenti
segnalate in Toscana erano l’Infrantoio o Frantoiano; il Morinello o Moraiolo, il Leccino soprattutto nelle aree marittime; e poi l’Olivastro, il Razzo o Grossaio, il Correggiolo, il Gremignolo Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Un dubbio, dipinto di Arturo Faldi, collezione privata (© Archivi Alinari, Firenze)
Interno del frantoio a vapore della fattoria di Brolio del barone Ricasoli Firidolfi. Nell’ambiente si vedono macine e torchi, 1890 circa (© Archivi Alinari, Firenze)
63
storia e arte sano, e in altri luoghi si tengono gli ulivi a bosco, potandoli poco o nulla. Al contrario nel Fiorentino ove regnano certi proverbi intesi malamente, si pota in così indiscreta maniera, specialmente dopo l’anno dell’olio, che fino dopo vari anni non si ha una raccolta di conseguenza. Nel sistema Pisano il terreno non si semina, quantunque gli ulivi ogni tre anni si concimino abbondantemente; solo vi vanno i bestiami a pascolare”. Nel resto della Toscana potatura a “paniera”, lasciando ai rami esterni la maggior esposizione all’aria. Due scuole anche per la raccolta. Strettamente a mano, con il panierino, i fiorentini. Raccolta a terra con bacchiatura i pisani. È in questo periodo che il prodotto italiano, sia alimentare sia lampante, si allarga a macchia d’olio in Europa: Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, arriva fino in Russia. L’Imperatrice Caterina ne riceve un campionario dallo studioso Giovanni Presta, tante boccette in un cofanetto di legno d’olivo. I commercianti veneziani costituiscono una specie di consorzio denominato “Negozio di Ponente” che si occupa dei nuovi e ricchi mercati. Alla fine del XVIII secolo l’Italia in molte sue regioni è coperta di olivi, c’è spazio per ogni tipo d’olio: sia quello più pregiato toscano e ligure sia quello lampante del Sud. Gli oli, provenzali o greci, spagnoli o nordafricani sono lontani da far reale concorrenza. Semmai la crisi si annuncia con l’arrivo sul mercato di altri oli e grassi per la manifattura, come svelerà il secolo della rivoluzione industriale.
Foto Archivi Alinari
Interno di un vecchio frantoio a Buti (PI), 1960 circa (© Touring Club Italiano/Gestione Archivi Alinari, Firenze) Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Ruota ad acqua di un vecchio frantoio, Buti (PI), 1965 (© Touring Club Italiano/ Gestione Archivi Alinari) Tivoli, veduta di ulivi (Olea europaea), 1890 circa (© Archivi Alinari, Firenze)
64
storia dell’olio Romantici oliveti Per l’olio, che tra poco chiameremo extravergine, l’Ottocento rafforza la tendenza al miglioramento e all’estensione degli oliveti di pregio. Abbiamo visto in Toscana, sotto l’egida dei Georgofili, uno sviluppo importante che raggiunge nel 1830 la superficie di 152.000 ettari coltivati a olivo. Lo vediamo anche nello Stato Pontificio, dove una notificazione di Pio VII, del 1830, garantisce il premio di un paolo (compenso di una giornata lavorativa di un bracciante) per ogni olivo piantato e curato sino a 18 mesi: dal 1830 al 1840 in Umbria vengono piantati 38.000 olivi. Nello stesso periodo, in Liguria gli oliveti, concentrati nella riviera occidentale, occupano circa il 20% della superficie totale: nel 1848 il raccolto frutta 20 milioni di lire, il 32% del valore complessivo della produzione agricola ligure. Abbiamo già accennato come la produzione nel Nord-Est stenti a competere con questa invasione di produzioni anche a costi più bassi. Restano attivi con difficoltà solo gli oliveti più avvantaggiati dai microclimi favorevoli come quelli intorno ai laghi. Nella seconda parte dell’Ottocento si assiste a un rallentamento dello sviluppo che diventa contrazione con la fine del secolo e l’inizio del Novecento. Il clima non si stabilizza e tornano ricorrenti le gelate. Nel 1846, 1849, 1871, 1880, 1907, fino a quella catastrofica del 1929. È il periodo della grande emigrazione con la diminuzione di manodopera specialmente al Sud e il conseguente abbandono
Georgofili a concorso
• I Georgofili sostennero bandi di concorso
sul tema della “manifattura dell’olio di oliva” (1856-1888), o dei “miglioramenti apportati nell’oleificio con l’impianto di macchine perfezionate” (1886) e infine sulle malattie degli olivi, in particolare il cicloconio, che veniva combattuto con una miscela di calce e solfato di rame (1898). Per il concorso sugli oleifici, furono visitati tre frantoi. Fece scalpore quello del Barone Ricasoli-Firidolfi, azionato con motore a vapore: oltre a essere il più recente, risultava il più grande delle province di Siena e Firenze, realizzato con ingenti investimenti e collocato in nuovi locali razionalmente adibiti alle varie fasi della lavorazione, con magazzini per le olive e per gli orciai
Raccolta delle olive, 1900-1910 (© Touring Club Italiano/Gestione Archivi Alinari)
Foto Archivi Alinari
65
storia e arte delle coltivazioni. Anche se non vengono abbattuti, gli olivi vengono lasciati a se stessi ed è proprio perché sono alberi meravigliosi che possiamo ancora attraversare boschi di olivi secolari in tante zone dal Sud al Nord. Forza dell’olivo, non cura e intelligenza dell’uomo! Ma la grande emigrazione un effetto positivo sull’olio ce l’ha: ne diffonde l’utilizzazione per tutti i continenti e anche la coltivazione dell’olivo si sparge nel mondo dove ancora non era arrivata. Gli emigranti italiani insegnano l’uso dell’olio d’oliva per l’alimentazione negli Stati Uniti e poi in Australia e in nuova Zelanda. E come i Greci nel Mediterraneo del VII secolo a.C. fondano la loro colonia piantando le pianticelle d’olivo della madrepatria lontana. A cavallo tra Ottocento e Novecento nascono le più importanti aziende che confezionano olio d’oliva per il mercato interno e per l’esportazione. Aziende che possiamo dire saranno famose quando, due o tre generazioni più tardi, l’olio perderà la sua natura di prodotto locale legato alla vita dei contadini autoproduttori che lo tenevano nell’orcio in cantina, per arrivare, etichettato, sugli scaffali dei negozi a disposizione dei consumatori di città. Quei marchi dopo un secolo son quasi gli stessi anche se ormai pochi appartengono alle famiglie che gli han dato il nome, ma a multinazionali: Bertolli e Carapelli una volta toscane, la Salov di Lucca, la fratelli Carli e Isnardi, dalla Liguria, la Monini umbra, per citare le più grandi. È l’inizio dell’industrializzazione dell’olio d’oliva che utilizza intorno al 1880 una produzione d’olio di 3.350.000 ettolitri con 900.000
Raffinato giramondo
• Tra fine Ottocento e inizio Novecento
è tutto un fiorire di piccole ditte dai nomi inequivocabili che portano olio più o meno buono attraverso gli oceani per raggiungere le Little Italy sparse per il mondo. È un olio che come i suoi consumatori di Brooklin parla “broccolino”, un misto siculonapoletano-abruzzese-americano. Sono più che altro lattine che richiamano luoghi d’origine lontani con scarse possibilità di garantire anche l’origine dell’olio. San Remo brand, Italian Product, packed in Italy; Marca Sole Mio, impaccato in Italia per C. Torrielli, Boston, Mass.; Orlando Brand, per la mensa siciliana, pure virgin olive oil, packed in Italy e via giocando di fantasia e di malinconia
Trasporto di botti in un antico oliveto, 1910 circa (© Touring Club Italiano/Gestione Archivi Alinari, Firenze)
Foto Archivi Alinari
66
storia dell’olio ettari a olivi. Più di un terzo (315.270 ettari, che danno addirittura 1.233.610 ettolitri d’olio) in Puglia. Il resto della produzione si divide tra le altre regioni del Sud – Calabria, Campania, Basilicata – che danno 700.000 ettolitri, la Sicilia 660.000, la Toscana 254.000, al seguito per quantità prodotte – come ancora succede – Marche, Umbria, Liguria, Lazio, Emilia, Veneto e Lombardia. Assente dalle statistiche, già da allora, il Piemonte.
Foto Archivi Alinari
Il Novecento dopo i ghiacci si accalora Prima metà. La storia dell’olivo nel Novecento può essere raccontata intorno alle gelate che l’hanno accompagnata. Quella di inizio secolo trova l’olivicoltura ancora organizzata come nel secolo precedente, con una grande crisi d’offerta per quanto riguarda la produzione eccedente d’olio lampante. Il sistema della raffinazione comincia a dare i suoi frutti utilizzando la gran massa dell’olio che non viene più assorbito dalla illuminazione e dall’industria. Ma già per la seconda gelata, quella del ’29, la tecnica di raffinazione si allarga anche ad altri oli che la povertà aveva sempre proposto come succedanei dell’olio d’oliva, ma che con il progresso chimico-industriale divengono molto competitivi nel prezzo anche nei confronti del peggior olio di sansa. Un’interessante vicenda è quella che porterà nel 1930, l’anno dopo la gelata, con una produzione dimezzata, alla decretazione da parte del Governo in difesa dell’olio d’oliva con nuove regole e tasse.
Famiglia di contadini a Massa, 1901 (© Archivi Alinari, Firenze)
Contadinelle intente alla raccolta delle olive, 1930 circa (© Touring Club Italiano/Gestione Archivi Alinari)
Foto Archivi Alinari
67
storia e arte Difesa però ammorbidita, diciamo così, dall’esigenza di non penalizzare la produzione di oli da semi diversi che già costituivano una buona fetta del consumo più a buon prezzo offerto dall’industria del Nord alle categorie meno abbienti anche al Sud. Alla richiesta di interventi e sovvenzioni che si levava a gran voce da parte dei produttori d’olio convinti sostenitori della necessità di bloccare o tassare fortemente la produzione di olio di semi, risponde un industriale del Nord, Gerolamo Gaslini. Costui, fino all’anno prima, aveva condiviso la gestione della più grande raffineria italiana d’olio di sansa e d’oliva (l’Oleificio Ligure-Pugliese di Bari) ma, ritornato a Milano, con tutta la sua forza finanziaria (Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Napoli) voleva strangolare gli impianti meridionali per lanciare le raffinerie del Nord che usavano, come prodotto di base, tutti i semi disponibili tranne le olive. Nell’ottobre del ’29 Mussolini trasmette al ministro dell’Agricoltura un documento di Gaslini sulla Questione dell’olio tutto teso a dimostrare che, indipendentemente dalla presenza dell’olio di semi, la produzione dell’olio di oliva, compreso il raffinato, era ampiamente insufficiente a soddisfare il consumo italiano. La diatriba tra olivisti e semisti si spostò nel governo tra Acerbo (Agricoltura) e Bottai (Ministro delle Corporazioni), che sposa le richieste dell’industria settentrionale e si mantiene su una visione più liberista del mercato favorevole all’olio di semi. Qualche provvedimento difensivo viene preso, ma per i dazi alle importazioni bisogna aspettare il ’35 e i provvedimenti anche sul caffè, sul rame e sulla lana presi per costruire il mito dell’autarchia.
Foto Archivi Alinari
La raccolta delle olive, dipinto di Luigi Bechi, collezione privata, Firenze, 1930 circa (© Archivi Alinari, Firenze) Bambini raccolgono le olive a Santa Margherita a Montici, Firenze, 1915-1920 circa (© Archivi Alinari, Firenze)
Foto Archivi Alinari
68
storia dell’olio Quel che manca in quegli anni è una decisa indicazione per il miglioramento qualitativo della produzione che ancora tarderà ad arrivare, specialmente nei grandi oliveti del Sud. Quel poco più di qualità che si produce nel resto d’Italia arriva solo perché la modesta quantità permette migliori pratiche di coltivazione e raccolta. L’uso esclusivamente alimentare, ormai imposto dalla realtà, fa il resto. Come abbiamo visto dai numeri la Toscana è ben piazzata (in percentuale meglio di oggi) ma la sua produzione è quasi tutta destinata all’autoconsumo e le coltivazioni, imperante la mezzadria, sono ancora per la maggior parte a regime di coltura mista con vino e grano. Le produzioni delle altre zone sono ancora più deboli. Nel 1929 prima della gelata si produssero in tutt’Italia 3 milioni di quintali d’olio, l’anno dopo meno della metà. Quasi 2 milioni e mezzo nel ’31, 1.671.000 nel ’33 e più di 2 milioni e mezzo nel ’34.
Ricetta Gaslini
• Interessanti le conclusioni del “nemico degli olivi” Gaslini:
“1) la crisi dell’olivicoltura è crisi di decadenza, dovuta all’abbandono in cui da venti anni si lasciano gli oliveti. Essa non può essere risoluta che dagli olivicoltori col ricostruire il distrutto, rinnovare le vecchie piante, migliorare i sistemi di coltura, intensificare la lotta contro i parassiti, adottare i sistemi più razionali per la raccolta dei frutti, svecchiare e modernizzare gli impianti industriali per la trasformazione dell’oliva
Ultimo mezzo secolo. Nonostante tutto l’olivicoltura resse alle sfide del mercato e a quelle del clima fino alla gelata del 1957. Poi quello che non era riuscito alla guerra e al gelo accadde con la fine della Mezzadria e con l’arrivo dell’Europa. Centro e Nord Italia cambiarono radicalmente sistema e paesaggio agrario. Declinò la coltivazione promiscua suddivisa in tanti piccoli poderi da secoli affidati alle cure della famiglia mezzadrile che da lì traeva il grosso della sua autosussistenza. Contemporaneamente arrivò l’Europa, che nel settembre del 1966 regolamentò per la prima volta il settore. All’epoca l’Italia era l’unico produttore di olio nella Comunità dei 6, molto più interessati alle produzioni continentali di latte e cereali. Le prime misure tendevano a sostenere il prezzo di mercato dell’olio d’oliva con aiuti ai produttori senza nessuna attenzione per la qualità. Ci furono incentivi per la commercializzazione dell’olio d’oliva in lattina. La Ue stabilì i limiti di produzione per le varie zone, fissò prezzi minimi, protezioni doganali, istituì ammassi per ritirare le eccedenze di mercato e concesse sovvenzioni per favorire le esportazioni fuori dall’Unione. Purtroppo il ventennio che seguì non vide nessuna sostanziale modifica al sistema produttivo italiano. I contributi risolvevano il problema economico di gran parte del settore e si continuò a badare più alla quantità che alla qualità, specialmente al Sud e in Puglia, che rimaneva grande produttore d’olio poco adatto ai nuovi sbocchi del mercato. Così si arrivò all’ultima grande gelata nel 1985. Fu un vero disastro e a molti mancò il coraggio per ricominciare. Molti oliveti, già in difficoltà, furono abbandonati e la produzione si concentrò, con sistemi nuovi, nelle aree più vocate. Nel 1986 il panorama olivicolo cambiò radicalmente non solo sulle nostre colline disseminate di tristi spunzoni e di nuovi impianti, ma più che altro perché l’Italia non era più sola nella Comunità a produrre olio d’oliva. In quell’anno arrivarono anche Spagna e Portogallo, che
2) l’attuale stasi del mercato e la depressione dei prezzi è fenomeno di carattere generale e non limitato all’Italia, né all’olio d’oliva 3) alcuni provvedimenti possono essere presi a sollievo immediato del mercato dell’olio d’oliva (...) divieto di vendere come alimentari gli oli estratti dalle sanse; le raffinerie che attualmente trattano questi oli possono egualmente assicurarsi il lavoro raffinando oli di pressione lampanti o comunque scadenti che costituiscono il grosso del nostro raccolto 4) l’industria degli oli di semi ha una funzione integratrice dello scarso raccolto interno. Essa adempie a un compito di primo ordine di natura economica e di natura sociale ed è opportuno che sia lasciata libera di svolgere la sua benefica attività. Un inasprimento di dazi doganali non gioverebbe alla olivicoltura e inciderebbe gravemente sui bilanci familiari della popolazione meno abbiente.” E bravo Gaslini, che si preoccupa dei poveri cristi da unger solo con l’olio di semi più economico anche del lampante raffinato!
69
storia e arte si aggiunsero alla Grecia che aveva aderito alla Ue nell’81. Così l’Europa da importatore d’olio diventò esportatore con un ruolo decisamente dominante nel commercio mondiale di olio d’oliva, che nel frattempo aveva codificato le sue distinzioni di qualità e incoronato il suo migliore con il titolo nobiliare di Extravergine. Nell’ultimo ventennio tra molte difficoltà si è fatto strada il tentativo di migliorare la qualità del nostro olio, ma nel frattempo la Spagna, con successivi piani olivicoli quinquennali, ci ha levato il primato nella produzione. Solo nel 2001 timidamente l’Europa ha cambiato le normative adeguandosi alle nuove esigenze di qualità e introducendo nuove regole nelle etichettature. In Italia la nascita delle DOP, la tendenza alla valorizzazione del territorio e i vari tentativi di affermare il principio, malvisto dai grandi industriali, della tracciabilità hanno aiutato qualche coraggioso produttore a impegnarsi nella ricerca di miglioramenti non solo quantitativi. L’oliveto specializzato prevale ormai dovunque e questa tendenza ha modificato i paesaggi delle zone interne. Ma anche questa novità non è riuscita a mantenere il livello di produzione che da sempre ci permetteva di essere incontrastati leader mondiali nella produzione che più ci rappresenta. E così siamo diventati secondi dopo la Spagna, che negli ultimi 25 anni, con passi da gigante e i piani quinquennali, ha raddoppiato la sua produzione. Secondi nell’olio dopo la Spagna, come nel vino eravamo secondi dopo la Francia, con la gran differenza che nel vino siamo stati noi a crescere anche in qualità tanto da insidiare la supremazia dei cugini d’oltralpe. Nell’olio invece dal produrre da soli negli anni ’80 il 34% della produzione mondiale siamo adesso ridotti a produrne uno stentato 14%. Perché nel frattempo altri Paesi, come per il vino, sono venuti alla ribalta. L’olio non è più solo un albero mediterraneo. È uscito da tempo dalle colonne d’Ercole e ha raggiunto le Americhe, l’Australia e la Nuova Zelanda.
Foto R. Angelini
Olivi e dolmen nella zona di Bisceglie (BA) Foto R. Angelini
Foto M. Curci
Castel del Monte, costruito da Federico II, domina dal colle la Terra di Bari, importante area di produzione olivicola Olivi consociati a colture orticole in Puglia
70
storia dell’olio Siamo nel mondo il più grande importatore di olio e il maggiore esportatore. Evidentemente si usa il nostro brand per fare percorrere le nuove rotte del commercio dell’olio a un prodotto che di italiano ha solo l’etichetta. Eppure l’Europa nel 2009 impone finalmente regole più rigide alla dichiarata provenienza dell’olio, ma in questo stesso anno sul mercato di Bitonto il prezzo dell’olio di oliva è sprofondato e anche nei supermercati si trovano etichette d’extravergine sotto i 2 euro.
Foto R. Angelini
E comincia il sesto millennio Ma l’aspetto più preoccupante è che la spinta che il settore del vino ha saputo imprimere alla ricerca della qualità e dei mercati all’indomani dello scandalo del metanolo nell’86 non ha contagiato il settore dell’olio. Miglioramenti di nicchia ci sono stati, ma il grosso del mercato è abbondantemente in mano a grandi gruppi che cercano la concorrenza più nei bassi prezzi che nella qualità del prodotto. Ancora risuonano le pesanti parole di Luigi Veronelli che, poco prima di concludere la sua lunga esperienza di scrittore e cultore della qualità, dedicò all’olio d’oliva le ultime sue forze per rivendicarne finalmente l’importanza e la grande speranza di miglioramento all’alba del Terzo Millennio. Troppo olio arriva in bottiglia a prezzi stracciati con denominazioni effimere, con qualità inaccettabili. Troppi sono gli oli che millantano immeritatamente un’origine e una nobiltà che sicuramente non hanno. Troppo costa al produttore far l’olio buono per poterlo trovare a pochi euro sugli scaffali. E lanciò, Veronelli, una vera crociata per far migliore il nostro olio d’oliva che da mille e mille anni sa essere eccellente: lo voleva fare proprio come insegnava Catone il Censore 2000 anni fa.
Olivi intorno alla chiesa della Madonna di San Biagio, Montepulciano. È considerata il capolavoro di Antonio da Sangallo il Vecchio, che vi lavorò dal 1518 fino alla morte nel 1534
Foto R. Angelini
Olivi alternati a vite, a Montalcino
71
l’ulivo e l’olio
storia e arte Estrazione dell’olio Carolina Alessandra Santi
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
storia e arte Estrazione dell’olio Foto P. Viggiani
Secondo le fonti più accreditate la prima domesticazione delle varietà selvatiche di olivo dai frutti piccoli e amari è attribuibile ai popoli semito-camitici stanziati sui rilievi montuosi a sud del Caucaso, a ovest dell’altopiano iranico e sulle coste del Mediterraneo orientale. Dagli insediamenti rinvenuti nel territorio della Palestina ci proviene la più antica testimonianza di olivo domestico, risalente all’Età del Rame (3500 a.C. circa): alcuni noccioli e carboni di legno d’olivo, affascinanti testimonianze di remote scene di vita quotidiana. Impiegato probabilmente per i suoi frutti, come legna da ardere e come materiale da costruzione, l’olivo domestico si diffuse fin dall’Età del Bronzo in Egitto, sulle coste dell’Asia Minore e nelle grandi isole del Mediterraneo orientale. Da qui, grazie ai fiorenti commerci, l’olivo fu portato nelle zone interne dell’Asia Minore, nelle coste africane sino alla Tunisia, nei Balcani, in Italia e infine in Spagna. I Cartaginesi portarono la coltura fino alle più estreme propaggini del loro impero commerciale, che raggiungeva a ovest il Marocco e la Spagna, a nord la Francia meridionale e a est i territori asiatici di Palmira, ove oggi regna il deserto. Dal momento dell’insediamento nel bacino del Mediterraneo la diffusione di questa specie fu tanto notevole da renderla in pochi secoli un elemento caratterizzante del paesaggio, legando in maniera inscindibile la sua immagine con quella degli ambienti mediterranei. Da sempre il mondo artistico e spirituale attribuiscono all’olivo e ai suoi prodotti un potente significato simbolico, donandoci nei
Olivastro
Probabile diffusione della coltura dell’olivo nel bacino del Mediterraneo
72
estrazione dell’olio secoli una ricchissima documentazione grafica e verbale ispirata al sacro albero. I sacerdoti-re, signori e abitanti dei magnifici palazzi decorati di Creta, nel III millennio a.C., basavano la propria ricchezza sulla produzione e sul commercio dei più svariati prodotti, primo tra tutti l’olio di oliva. Questo era distinto in differenti categorie: per uso alimentare, per uso balsamico e infine per le lampade, ricavato facendo cuocere la sansa in acqua bollente. Il meccanismo allora impiegato nei torchi era probabilmente quello a leva, utilizzato anche dagli Egiziani, come ci mostra la pressa rinvenuta a Creta, databile a prima del 1450 a.C., epoca nella quale l’isola subì le dure conseguenze della catastrofica eruzione dell’isola di Cantorino. Venuta a decadere la civiltà minoica, l’eredità commerciale dell’isola fu raccolta dagli Achei. Dagli scavi delle città di Micene e di Troia sono riemersi semi d’olivo, lampade a olio e recipienti con resti oleosi, assieme a tavolette d’argilla riportanti le liste di aromi da mescolare all’olio di oliva per ottenere i famosi unguenti profumati. Nell’evoluta civiltà egiziana l’olivo fece la propria comparsa solamente a partire dal XV secolo a.C., all’epoca della XVIII dinastia. In precedenza era diffuso l’impiego degli oli di semi (in particolare quelli di sesamo, ricino e lino). In Egitto rimase comunque notevole l’importazione di olio e di altri unguenti profumati dai Paesi vicini, in particolare dall’Asia Minore e dall’isola di Creta. Gli Egiziani, popolo normalmente privo di rapporti civili e commerciali con i Paesi vicini, non trascuravano infatti di importare unguenti e olio, contenuti nei “vasi a staffa”, assieme a pochi altri prodotti preziosi destinati esclusivamente ai faraoni. La maschera funebre del faraone Tutankhamon, morto a 19 anni nel 1325 a.C., è incoronata da una ghirlanda della discolpa, intrecciata di ramoscelli d’olivo, a testimonianza del superamento del giudizio d’oltretomba. Composti da fiori e ramoscelli d’olivo erano anche i “colletti”, portati dai sacerdoti durante le inumazioni. L’olio serviva per ungere i defunti e per cospargersi capo e piedi in modo da poter accedere alle sacre funzioni, rendendosi degni di comparire al cospetto delle divinità. I mortai primitivi erano costituiti da una pietra cava all’interno della quale venivano pestate le olive con l’aiuto di un grosso sasso; in alcuni casi il liquido, attraverso scanalature, colava direttamente in cavità adiacenti. Seguiva la pressatura della pasta ottenuta, racchiusa in una fitta corona di ramoscelli di olivo (una sorta di fiscoli primitivi), e posta sopra una pietra piana, sotto il peso di alcuni massi. Il mosto oleoso era raccolto e versato in recipienti di terracotta, dove lo si lasciava riposare per qualche tempo, in modo da consentire all’olio, più leggero, di affiorare per essere separato dalle acque di vegetazione.
Olivo, olio e cultura
• L’olivo è una pianta caratteristica delle
società stanziali e ben organizzate, poiché richiede anni prima di compensare l’investimento della sua piantagione; l’estrazione dell’olio necessita inoltre di un certo patrimonio sociale di conoscenze tecniche, e il prodotto ottenuto può donare ricchezza solo in presenza di una rete di rapporti commerciali regolari e protetti da un solido governo. Il senso di benessere economico, ispirato dalle alte rese produttive e dall’appartenenza a una società evoluta e ben organizzata, sembra essere all’origine del significato di pace del ramoscello di olivo
I pithoi, grosse anfore da olio (i cui resti sono stati rinvenuti nei magazzini dei labirinti di Cnosso), potevano raggiungere un’altezza di due metri
Pressa in granito rosso con pestello emisferico rinvenuta a Luxor (metà del XII sec.)
73
storia e arte Una versione leggermente più evoluta di pressa era rappresentata dai torchi a sacco, robusti sacchi di tela che venivano riempiti di olive già pestate, per poi essere fortemente attorcigliati con l’ausilio di due bastoni, inseriti negli appositi cappi realizzati alle due estremità. Un lieve incremento della pressione utile si ottenne fissando un capo del sacco a una intelaiatura rigida, in modo da applicare la forza a una sola estremità. La vera rivoluzione nel campo della spremitura si ebbe però con l’introduzione della pressa a leva, che probabilmente gli Egiziani importarono dai Paesi vicini. Un esemplare primitivo di tale meccanismo, risalente al 1000 a.C. circa, è conservato al museo di Haifa, nei pressi di Nazareth. Altri sistemi, ideati da lontane civiltà per la lavorazione dei semi, furono riadattati e diffusi nell’ambiente mediterraneo per la lavorazione dell’olio. Molto evoluti in campo oleario furono anche i Filistei, che vissero sulla fascia costiera tra Egitto e Palestina, in stretta convivenza con Ebrei e Fenici. A Tel Mique Akron, nei pressi di Tel Aviv, è stato recentemente scoperto e portato alla luce un enorme impianto per la manifattura dell’olio, risalente al 1000 a.C. circa, e comprendente quasi cento presse, in grado di fornire una produzione d’olio di 1000-2000 tonnellate all’anno. Tra l’VIII e il VI secolo a.C., la coltivazione dell’olivo sbarcò in Grecia. La mitologia congiunge la creazione dell’olivo alla fondazione di Atene, capitale dell’Ellade e cuore della civiltà greca. Il semidio Cercope, dopo aver fondato la città unificando sulla rocca dell’Acropoli le popolazioni dei villaggi circostanti, chiese agli dei dell’Olimpo protezione per la nuova città. Poseidone, dio del mare, e Atena, dea della saggezza e figlia di Zeus, accesero una disputa: la vittoria sarebbe spettata a chi avesse fatto il dono più utile all’uomo. Poseidone, colpendo la roccia con il suo tridente, fece scaturire dal suolo una fonte di acqua marina; Atena, con la propria lancia, fece sorgere un olivo. Dono prescelto fu l’albero che, per millenni, avrebbe allietato l’uomo con il fluido dorato ottenuto dai frutti, prezioso per la cura del corpo e la guarigione dai mali, la preparazione dei cibi, l’illuminazione e il riscaldamento delle case e dei templi. L’olivo divenne il simbolo della vittoria, della pace e della sapienza. Norme severe regolamentavano ad Atene l’abbattimento degli olivi: chi non le rispettava era condannato all’ostracismo, veniva cioè cacciato dalla città. La civiltà greca conosceva già un metodo di macinazione delle olive, molto più efficace rispetto al semplice pestaggio con pietre: una o più grosse macine in pietra, collegate a un palo centrale, venivano fatte ruotare entro una vasca di forma circolare, esercitando così un’azione triturante sulle olive. Le presse erano inizialmente analoghe alle presse a leva dei popoli del Nord Africa e del Medio Oriente: lunghe e pesanti travi di
Foto P. Inglese
Pressa a Selinunte
Torchi a sacco egiziani. Date le ridotte pressioni ottenibili, per favorire la fuoriuscita dell’olio, le olive venivano prima stese al sole a fermentare
74
estrazione dell’olio
Pressa rinvenuta a Tel Mique Akron: nella conca centrale le olive sono macinate mediante pietre tondeggianti, nelle due pile laterali vengono collocate le torri di fiscoli, sottoposte alla pressione esercitata da pesanti travi
Pressa a leva di Haifa: la trave, grazie al carico di grossi massi, preme sulla colonna di fiscoli in fibre intrecciate contenenti la pasta macinata di olive. Apposite canalette convogliano l’olio nei recipienti di raccolta
legno, caricate da massi a un’estremità e fissate a quell’altra, che esercitavano grazie al loro stesso peso una forte pressione su una colonna di fiscoli ripieni di pasta di olive. Nella Penisola Italica, secondo quanto racconta Erodoto nelle sue Storie, intorno al V secolo a.C., l’olivo domestico era ancora poco conosciuto. L’opera colonizzatrice di Fenici e Greci aveva introdotto in Italia, a partire dal I millennio a.C., non solo le varietà ingentilite e la tecnica di coltivazione proprie delle loro terre, ma anche e soprattutto l’interesse e la cultura legati al prezioso liquido che si ottiene dall’olivo. I vocabolari latino ed etrusco dell’olivo e dell’olio risultano infatti fortemente influenzati dalla lingua greca. La coltura sarebbe stata introdotta nelle colonie greche della Calabria, anticamente chiamata Italia, o forse era già nota nelle fattorie fenicio-cartaginesi della Sicilia, come testimonierebbero le monete coniate nel 490 a.C. a Messina, raffiguranti foglie e rami d’olivo. La coltura si propagò in seguito nelle regioni ioniche della Puglia, raggiungendo poi Campania, Lazio, Marche e Toscana. L’ultima regione a essere raggiunta fu la Liguria, che Strabone definiva montuosa e selvaggia: essa usava, in precedenza, l’olio dell’Italia inferiore. In Etruria l’olivicoltura fu introdotta da Tarquinio Prisco, figlio del commerciante greco Demarato, ma etrusco d’adozione. Inizialmente il consumo alimentare dell’olio fu limitato, a favore del consumo di grassi animali, sostenuto dal diffuso allevamento di suini. Maggiore era invece il consumo di olive come frutto, in considerazione del loro elevato valore nutrizionale: nelle tombe non mancavano offerte di olive per sostenere i bisogni del defunto nell’aldilà.
Funzioni dell’olio nell’antica Grecia
• Essendo il sapone ancora sconosciuto,
l’uso dell’olio quale unguento rappresentava allora l’unico mezzo per mantenere la pelle pulita ed elastica. Gli atleti ben unti sfuggivano meglio alla presa dell’avversario e con l’aiuto dei componenti fenolici dell’olio ad azione antinfiammatoria (ibuprofene e simili) riuscivano a prolungare il gesto sportivo; agli eroi e ai cavalli dei canti epici si ungevano i corpi affinché ne ricavassero un’energia ultraterrena
• Nella toeletta quotidiana dei ceti più
ricchi i cosmetici a base di olio erano impiegati anche a scopo terapeutico; i riti dell’ospitalità imponevano l’offerta di unguenti profumati al visitatore, perché questi potesse degnamente ristorarsi
75
storia e arte Le tecniche di estrazione dell’olio furono in poco tempo acquisite e perfezionate, tanto che ben presto l’olio etrusco divenne, assieme al vino, un prodotto rinomato anche in Paesi lontani. La tecnologia olearia nell’antica Roma ci è descritta da Catone, Columella, Plinio e Palladio. Columella descrive minuziosamente i locali dell’oleificio: la pavimentazione e il rivestimento delle pareti venivano realizzate in modo da garantire la più perfetta pulizia, evitando ogni residuo di sporco o di umidità. Si usava spesso una mistura di calcina, morchia e coccio pesto, che asciugava immediatamente fornendo superfici lisce e levigate. Il pavimento aveva sempre una certa pendenza ed era dotato di canalette di scolo, in modo da allontanare ogni traccia di umidità, poiché, affermava Columella, “la morchia è nemica giurata dell’olio, e se rimane nelle bacche rovina il sapore dell’olio”. Gli ambienti del frantoio e delle celle olearie venivano mantenuti caldi per evitare l’addensamento dell’olio. Il calore era naturale, ottenuto con la buona esposizione degli ambienti, o con il riscaldamento indiretto, evitando l’impiego di fiamme e di lucerne nei locali di lavorazione, perché fumo e fuliggine alterano il sapore dell’olio. L’olivaio garantiva temperatura e umidità contenute alle olive, che erano disposte in strati sottili su cannicci. Contrariamente alle stanze del frantoio e del torchio, questo locale era perciò dotato di finestrelle rivolte a nord. La raccolta delle olive era particolarmente curata: era proibito battere o strisciare i rami degli olivi durante la raccolta; si evitava di lasciar cadere le olive a terra. Plinio definisce “arte” il mestiere di ricavare l’olio nuovo, e dai suoi scritti sappiamo che la raccolta si effettuava classicamente verso i primi di novembre, quando le olive iniziavano a tingersi di scuro, ottenendo così l’olio verde (viride). Questo rappresentava la produzione migliore, sia per abbondanza sia per qualità, e costituiva una delle maggiori entrate per il padrone. In particolare era considerato molto pregiato il prodotto della prima, leggera pressatura delle olive appena invaiate, e come tale quest’olio veniva conservato con grande cura in appositi contenitori (dolia) preventivamente impermeabilizzati con gomma liquida e suffumigi di cera, in modo da preservare il prezioso liquido dagli odori estranei e dall’irrancidimento. Columella racconta che le olive giunte in frantoio, prima di ogni altra operazione, venivano messe ancora intere nei canestri di giunco (i fiscoli) e sottoposte a una certa pressione in modo da perdere gran parte delle acque di vegetazione, semplificando così le fasi successive. Seguiva una prima triturazione sotto le molae, effettuata generalmente in modo da non rompere il nocciolo. Giunte fino a noi pressoché immutate, le mole consistevano in una base fissa in pietra, di forma rotonda a bordi rialzati, al cui centro era imperniato un asse. Attorno a tale asse ruotavano una o due macine cilindriche, che potevano anche essere molto sottili. Un dispositivo consentiva di variare l’altezza delle macine dal
Il tipico corredo dell’atleta, composto dalla bottiglietta di bronzo contenente l’olio, dagli strigili, con i quali raschiare via dal corpo l’olio misto a polvere, dal tegamino destinato a raccogliere la sostanza eliminata
I gutti, vasetti dai quali i servi versavano l’olio goccia a goccia sul corpo dei padroni
76
estrazione dell’olio
Foto M. Ala
Il frantoio romano di Stabia, così come apparve durante gli scavi del 1779
fondo. Le mole, come la maggior parte delle macchine romane, erano azionate dagli schiavi, che a quel tempo erano considerati la fonte di forza lavoro più economica. Nei documenti vengono menzionati anche il trapetum, il canale, la solea e la tudicola, ma di questi dispositivi per frangere le olive non ci è giunta una chiara descrizione. Alla fine del Settecento, dagli scavi di Gragnano in Campania (l’antica Stabia) emerse una macina a mole emisferiche, che fu da alcuni identificata con il tra-
Mola di Stabia
• Al centro della vasca, ricavata
da un unico blocco di pietra dura, è presente una colonnetta, sulla quale si impernia l’asse delle due macine. In epoca romana due schiavi spingevano le macine appoggiandosi ai due prolungamenti dell’asse; nel XVIII secolo l’asse non era più lungo di quanto rappresentato in b, poiché la trazione era affidata a una bestia aggiogata in c. Nel foro di ciascuna mola erano impiombati due pezzi di ottone che limitavano l’attrito con l’asse cilindrico. La distanza delle mole dalla superficie della vasca, e quindi il grado di macinazione delle olive, si regolavano facendo scorrere le mole lungo l’asse e fissandole mediante chiavelli o zeppe
Mola di Stabia
77
storia e arte petum, da altri considerata una semplice mola; la sua forma suscitò in ogni caso molto scalpore per la sua efficienza, tanto che, con le opportune modifiche per adattarla alla trazione animale, ne vennero costruiti esemplari utilizzati con successo negli oleifici del XVIII e XIX secolo. Le macine emisferiche avevano infatti un moto circolare accoppiato a un movimento di rotazione, e la superficie di triturazione era maggiore che nelle macine cilindriche. La pasta ottenuta dalla frangitura con le mole veniva raccolta in canestri e talvolta vi si aggiungeva sale intero per agevolare la successiva pressatura. Per pressare la pasta di olive venivano impiegate le macchine più disparate, che si basavano sul principio della leva, del cuneo e, più tardi, della vite. A volte le stesse macchine erano utilizzate anche per la spremitura dell’uva. Scrive per esempio Plinio: “Alcuni pressano l’uva con una pressa a trave unica, ma conviene usarne un paio, non importa quanto grande sia la singola trave. Per quanto riguarda l’asta, quello che conta è la lunghezza, non lo spessore, ma aste molto larghe pressano meglio. Ai vecchi tempi la gente usava tirar giù le travi delle presse con corde e cinghie di cuoio e con leve a mano, ma durante gli ultimi cento anni è stato inventato il modello di pressa greca che ha pali tondi con solchi che corrono tutto intorno a spirale”. La pressa a trave, che fu la prima a sostituire le primitive forme di spremitura, ebbe una notevole diffusione nel mondo greco e romano. Le presse a trave avevano le forme e le dimensioni più svariate, ma si basavano tutte sul principio della leva, ove la resistenza era rappresentata dalla massa da spremere, e la potenza dal peso della trave stessa, eventualmente incrementato con meccanismi quali funi e contrappesi atti ad aumentarne la spinta verso il basso. Questo tipo di pressa a leva era dai latini denominato praelum.
Pressa a leva descritta da Plinio. Il grosso asse di legno, lungo fino a 15 m, è fissato a un’estremità sotto una sbarra trasversale, mentre l’altra estremità viene abbassata da una fune collegata a un tamburo, fatto ruotare con l’aiuto di razze staccabili, in modo da avvolgere la fune e abbassare la trave
Pressa a leva descritta da Erone: al tamburo rotante, attraverso corde e pulegge, è appesa una grossa pietra. Quando la corda è ben avvolta, per evitare che si srotoli si introduce un cavicchio nel tamburo e la trave subisce così anche il peso della pietra
78
estrazione dell’olio Tale attrezzatura, che rimase in uso fino agli ultimi anni dell’Impero, aveva il difetto di richiedere un’applicazione continua della forza sulle razze del tamburo per mantenere una pressione costante. L’inconveniente apparve superato grazie all’impiego di corde e pulegge in una pressa descritta da Erone nel I secolo d.C., di probabile provenienza greca. La vite, ideata nel III secolo a.C. da Archimede, attese un paio di secoli prima di essere pienamente utilizzata nell’industria olearia. L’applicazione più semplice della vite alle presse consisteva nel sostituire il tradizionale tamburo a razze con una vite verticale, fissata al pavimento e al soffitto mediante due cuscinetti e inserita all’estremità della trave tramite una controvite. Facendo ruotare la vite in un senso o nell’altro mediante un bastone, si poteva agevolmente sollevare o abbassare la trave. Attraverso le aperture di un secondo paio di pilastri, posti tra il piano della pressa e la vite, venivano inseriti trasversalmente dei listelli che, mantenendo sollevata la trave, agevolavano le operazioni di carico e scarico. Introdotti i fiscoli sul piano della pressa, si iniziava a ruotare la vite spingendo la trave verso il basso e, togliendo via via i listelli da sotto, li si inserivano sopra la trave non appena la pressione, con il defluire dell’olio, tendeva a diminuire. Era in tal modo garantita una pressione costante sino alla completa spremitura delle olive. Presse di questo tipo si diffusero in tutto l’Impero Romano, e sono state rinvenute in molte località del Nord Africa e del Medio Oriente. Della pressa a cuneo non esistono testimonianze nelle antiche opere letterarie, ma le immagini scolpite su alcuni monumenti di Pompei ce ne hanno lasciata memoria. Questo tipo di pressa era molto diffuso nel mondo etrusco, ed era molto simile alle presse impiegate anticamente dai Cinesi per la lavorazione dei semi oleosi. Una volta subita la pressatura, le sanse venivano tolte dal torchio e sottoposte nuovamente all’azione delle mole, regolate in modo da frantumare anche il nocciolo, dopodiché la pasta era nuovamente raccolta nei fiscoli e pressata. Se ne otteneva un olio di qualità inferiore, conservato a parte. L’intera operazione poteva essere ripetuta una terza volta, ottenendo un olio di qualità ancora inferiore. Per favorire la fuoriuscita di olio dalla seconda e dalla terza pressatura, le sanse venivano talora inzuppate con acqua calda, che garantiva una maggiore resa, a scapito però della conservabilità e dell’aroma dell’olio stesso. L’olio estratto con i vari tipi di torchi era raccolto mediante recipienti posti sotto la pressa o convogliato direttamente nei recipienti di decantazione tramite sistemi di canalizzazione scavati nel pavimento. Qui l’olio riposava per un certo tempo, e veniva più volte travasato in recipienti nuovi per liberarsi dalla morchia.
Presse a vite: a, con vite fissata a pavimento e soffitto tramite cuscinetti; b, con vite libera collegata a un peso di pietra, sollevato dalla vite stessa
Antica pressa cinese. Tra il materiale da spremere e la struttura fissa sono poste file alternate di cunei e tavole di legno; i cunei, sporgenti da entrambi i lati, vengono sospinti tra le assi a colpi di maglio
79
storia e arte Se a causa del freddo l’olio si congelava insieme con la morchia, veniva aggiunto del sale tostato, che lo separava dalle parti acquose, senza alterarne il gusto. In epoca imperiale Roma acquisì il controllo di tutte le principali rotte commerciali che erano state dei Greci e dei Fenici, dall’Egeo alle Colonne d’Ercole. I Romani incentivarono l’olivicoltura non solo sul territorio italico, ma anche in Spagna e in Africa settentrionale. La produzione e il commercio dell’olio assunsero un’importanza tale da richiedere una specifica regolamentazione; in età repubblicana una parte delle tasse imposte alle colonie era pagata in olio, privilegi erano concessi ai negotiatores oleari, grosse quantità di olio erano inviate per confortare le truppe che combattevano nelle Gallie e per uso dei funzionari stanziati nelle zone più settentrionali dell’Impero. Persa una certa parte del suo significato simbolico, in epoca romana l’olio acquistò dunque un’importanza sempre più materiale, legata all’apprezzamento del suo valore alimentare e gastronomico. Ma già durante il periodo della Roma imperiale iniziò a verificarsi un massiccio abbandono delle campagne da parte di chi riusciva a trovare ben più facili sussidi nella capitale, e le successive invasioni barbariche dettero il colpo di grazia all’olivicoltura: una volta disgregato il sistema politico e commerciale romano, vennero meno anche le condizioni di pace e sicurezza fondamentali per la coltivazione dell’olivo. La coltivazione degli ultimi olivi passò dalle grandi villae romane ai monasteri, a soddisfare la cucina di magro dei religiosi. E proprio ai monasteri dobbiamo, in questi secoli di abbandono, la sopravvivenza della tecnica colturale e del patrimonio genetico dell’olivo. Gli olivi furono in genere rispettati dai barbari, che si accontentavano dei tributi in monete e derrate alimentari, ma l’arte olearia fu in gran parte dimenticata, e il poco olio prodotto risultava di qualità scadente. L’intensificarsi dell’olivicoltura nei conventi e nelle fattorie fortificate permise, a partire dal Duecento, una ripresa della manifattura olearia, e nella prima metà del Trecento ripresero gli scambi commerciali tra i mercanti fiorentini e gli olivicoltori liguri e marchigiani, campani e pugliesi. L’olivicoltura iniziò a essere tutelata e incentivata dagli statuti delle città e dalle comunità della campagna; gli olivi, caratteristici fino ad allora della coltura promiscua, furono piantati nuovamente in filari. Le gravissime epidemie di peste, che nel corso del Trecento e del Quattrocento determinarono un drastico calo demografico e ridussero il consumo dei cereali, favorirono probabilmente l’olivicoltura: da sempre infatti i contadini, in contrasto con la volontà dei padroni, avevano potato troppo a fondo gli olivi per lasciare luce al grano, e poterlo così seminare fino al piede della pianta. La volontà dei proprietari di intensificare l’olivicoltura rispecchiava, oltre che un desiderio di consumo, anche un’esigenza di commercializzazione, segno della ripresa del mercato dell’olio.
Uso dell’olio nell’antica Roma
• Come per il mondo greco, la vera
espressione del valore dell’olio era legata all’abitudine di ungersi il corpo, rituale irrinunciabile nelle palestre e nei bagni
• Due affreschi murali provenienti da
Pompei ed Ercolano mostrano le tecniche di preparazione degli unguenti profumati. L’olio, prodotto macinando le olive e pressandole poi tra due tavole di legno con l’aiuto di cunei e martelli, veniva mescolato con le erbe aromatiche, pestate a loro volta in mortaio. Grazie alla sua attitudine ad assorbire gli odori, l’olio ne risultava gradevolmente profumato e veniva molto apprezzato per la cura del corpo sia femminile sia maschile
• Le unzioni venivano praticate nei rituali religiosi a scopo purificatorio ed erano indispensabili nella preparazione delle salme e nelle cerimonie funebri
• Numerosi erano i rimedi a base di
olio contro le malattie del bestiame; analoghe cure venivano seguite dalla medicina umana nei casi di avvelenamento, disturbi del tratto digerente, infezioni, ustioni, prurito e punture di piante o insetti, sfruttando in questi ultimi casi il potere lenitivo degli unguenti. L’olio era infine usato per l’illuminazione delle case, dei luoghi pubblici e dei templi
80
estrazione dell’olio Con l’opera dei principi illuminati del Cinquecento, essendo finalmente subentrato un periodo di relativa pace e tranquillità, si ebbe una vera rinascita dell’olivicoltura. Il rifiorire degli studi, delle scienze e della lettura delle antiche opere letterarie portò alla riscoperta dei precetti dei latini in campo agricolo. In Toscana la raccolta avveniva per brucatura, mentre per gli alberi secolari della Puglia è documentata già in quest’epoca la ràcana, cioè la raccolta tramite bacchiatura e caduta naturale delle olive su di un panno steso sotto l’albero. La tecnologia olearia rimase pressoché invariata per i tredici secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano: le tecniche di produzione dell’olio, dalla raccolta delle olive alla conservazione nei tradizionali recipienti, erano infatti una semplice applicazione degli antichi precetti. L’eccezione è fornita da Leonardo da Vinci (1452-1519): tra i suoi disegni troviamo infatti uno strettoio per olio, corredato da un’accurata descrizione. In Toscana un notevole impulso alla frutticoltura fu dato dai Medici e soprattutto dai Lorena, con i quali prosperò l’olivicoltura in particolare, come testimoniano le ingegnose sistemazioni dei terreni declivi, che ancora oggi rivestono i colli toscani. In Sicilia gli Arabi avevano trascurato la vite, per motivi religiosi, e l’olivo, per evitare la concorrenza con i Paesi d’origine. Vite e olivo erano rifioriti con la dominazione dei Normanni e degli Svevi, mentre decaddero nuovamente con la trascuratezza della dominazione spagnola del Seicento-Settecento. Soltanto verso i primi dell’Ottocento l’olivicoltura avrebbe ripreso in queste regioni la sua definitiva ascesa. In Puglia e Calabria l’olivicoltura era nel Seicento molto diffusa, ma le tecniche di produzione dell’olio avevano perso la perfezione raggiunta nel mondo latino. Il Settecento fu un secolo d’oro per la riscoperta dell’olivicoltura e il risveglio della tecnologia olearia. L’innovazione in campo oleario fu avvantaggiata dal ritrovamento dell’antica macina romana di Stabia, a fine secolo. Lo studioso Bartolomeo Gandolfi, vissuto in Italia tra il 1753 e il 1824, visitò un gran numero di stabilimenti sia nel nostro Paese sia all’estero, con particolare riguardo alla Francia meridionale. Le sue considerazioni sono riunite nel Saggio teorico-pratico sopra gli ulivi, l’olio e i saponi, con il quale criticò fermamente alcune consuetudini del tempo, e ciò ostacolò alquanto il riconoscimento della sua opera tra gli operatori del settore. Secondo l’Autore, un requisito fondamentale per la produzione di un buon olio è la massima pulizia dei locali e degli strumenti, come insegnavano gli antichi. Nei locali va mantenuto un tepore costante, evitando però l’impiego di stufe a carbone; l’esposizione a sud può divenire superflua se si adottano per le finestre rivestimenti di talco o carta, che lasciano entrare la luce ma non permettono che esca il calore. È assai criticabile l’impiego degli strumenti di rame, che si ricoprono con l’uso di una nociva patina
Strettoio per olio di Leonardo. La leva orizzontale posta in alto, ricurva a destra e contrappesata a sinistra, ruota sul perno e agisce sulla ruota dentata. Questa funge da madrevite per la vite senza fine verticale, che preme direttamente sui fiscoli
Olio di oliva e derivati
• Al Trecento risale anche l’impiego
dell’olio di oliva nell’arte della lana (arte per la quale era famosa la città di Firenze) e nella fabbricazione dei saponi. I primi saponi dovevano essere di odore alquanto sgradevole, poiché venivano ottenuti a partire dai grassi animali. Solamente quando si scoprì che dall’olio di oliva si poteva ottenere un prodotto più profumato, il sapone iniziò a diffondersi, e ben presto la zona costiera mediterranea ne divenne la principale produttrice. In questa zona il sapone duro era ottenuto dall’olio di oliva e dal carbonato di sodio. I primi produttori furono gli Arabi, ma in seguito la produzione si affermò in Castiglia, a Marsiglia e a Venezia
81
storia e arte verde, e degli strumenti in legno, difficilmente lavabili. Va ricordato che una sola goccia di olio rancido basta ad alterare una grossa massa d’olio. L’Autore menziona una macina a solchi, usata dai Toscani per ottenere un olio delicato senza frantumare eccessivamente i noccioli. Era però richiesto il successivo impiego di una macina piana per ripassare le sanse ancora ricche d’olio. Il torchio più diffuso all’epoca era il torchio a vite verticale; la compressione dell’infiscolata era graduale e intermittente, essendo necessario lasciare riposare la massa per consentire la completa fuoriuscita dell’olio e delle acque di vegetazione. Il primo olio, fiore della produzione, veniva raccolto a parte, e poi si procedeva con un lavaggio della pila sotto pressione. L’acqua ottenuta era in genere mescolata assieme al prodotto delle successive pressature. La seconda e la terza pressione venivano effettuate dopo aver tolto dal torchio la pasta, averla ripassata sotto le macine fino alla completa triturazione dei noccioli e avervi aggiunto una quantità di acqua fresca sufficiente a ottenere una pasta morbida. Racchiusa nei fiscoli, sopra questa pasta veniva versata dell’acqua appena tiepida; seguiva poi la pressatura. Il procedimento poteva essere ripetuto più volte, ma in genere dopo la terza spremitura le rese erano tanto scarse da non giustificare la spesa dell’operazione. Dal tino contenente le acque di prima estrazione e il prodotto delle successive pressature, la sera stessa o la mattina successiva veniva estratto per affioramento un olio ancora di discreta qualità, purché consumato entro l’anno. Il liquido rimanente veniva versato in una grande vasca comune, ove con il tempo affiorava un olio buono per ardere o utilizzabile per la fabbricazione dei saponi e per il lavaggio delle lane. Il Gandolfi sottolinea l’importanza della qualità dell’acqua destinata al lavaggio della pila di fiscoli, affermando che l’impiego di acqua fresca e pura garantisce un olio di qualità migliore, quasi paragonabile all’olio fiore, adatto all’esportazione per la sua ottima conservabilità. L’acqua bollente, al contrario, peggiora il sapore, riduce la conservabilità e richiede un’inutile spesa per il consumo della legna, senza praticamente migliorare le rese. Il lavaggio delle sanse residue dell’ultima pressatura è un processo innovativo messo a punto nel 1717 dal ligure Pier Vincenzo Mela. Secondo gli autori del tempo, infatti, i Romani avevano raggiunto la perfezione per la qualità dell’olio ottenuto, ma difettavano per la quantità ottenibile da una partita di olive. Lavando le sanse si poteva inoltre ridurre la durata della frangitura, portando così a termine cinque o sei molate al giorno invece che tre. Dalla lavatura si ottenevano tre componenti della sansa, che potevano essere impiegate a scopi diversi: – la parte oleosa, cioè le pelli, bastavano da sole a mantenere il fuoco necessario a un intero mulino;
Olive e olio
• Se un temporale o qualche altra
avversità faceva cadere le olive prima dell’invaiatura, queste erano raccolte e lavorate subito: da esse si otteneva l’olio acerbum, o aestivum, di scarsa resa, ma di sapore molto gradevole
• Ogni giorno si raccoglieva la quantità
di olive che poteva essere lavorata durante la notte, e così nei grandi latifondi la raccolta si prolungava per mesi: all’olio viride si affiancavano così il maturum, ottenuto da olive ben mature, il caducum, ottenuto da olive cadute a terra a maturazione, il cibarium, ottenuto da olive infestate da parassiti e destinato agli schiavi
Foto M. Ala
82
estrazione dell’olio
Lavaggio delle sanse
• Dopo la pressatura, la sansa, rimacinata
e ridotta in pasta semifluida, è conservata e mantenuta umida in una vasca, con le altre sanse prodotte nel corso della stagione. La massa è poi trasferita nella vasca del frollo, ove è sottoposta al moto rotatorio continuo di una coppia di robusti pettini. Nella vasca scorre un flusso continuo d’acqua che, traboccando dai bordi, porta con sé gli avanzi della polpa, le bucce e l’olio ancora presente. L’acqua che trabocca dalla vasca del frollo è fatta scendere lungo una serie di vasche a scalinata, collegate da tubi che partono dal fondo. Sul fondo del frollo rimane infine la sola parte ossea, che viene scaricata da una saracinesca sul fondo per far cadere i frantumi dei noccioli in un apposito serbatoio. La parte oleosa che affiora nelle vasche a scalinata, costituita da olio libero e da pelli, è raccolta di tanto in tanto con setacci di crini, racchiusa nei fiscoli, bagnata con acqua ben calda e pressata
Lavaggio delle sanse
– le mucillagini, opportunamente preparate, rappresentavano un ottimo concime; – la parte ossea, impiegata da sola, serviva ottimamente per le cucine senza emanare cattivi odori. L’olio ottenuto dalla lavatura delle sanse serviva infine per fabbricare i saponi con rese molto maggiori rispetto a quello fino, poiché coagulava molto velocemente nel ranno (miscuglio di cenere in acqua bollente). L’olio estratto dalla lavatura delle sanse era molto impuro e pieno di feccia, e subiva perciò numerose decantazioni; le acque di vegetazione, di lavaggio o di scolo provenienti dalle varie fasi del processo di produzione dell’olio venivano convogliate in una struttura denominata inferno, situata generalmente all’aperto, lontano dai locali del frantoio, a causa del cattivo odore. L’olio appena estratto dalle olive veniva depurato della sua torbidità per decantazione in recipienti distinti secondo la qualità dell’olio, a una temperatura compresa tra i 18 e i 22 °C. Per accelerare il processo, talvolta l’olio era spruzzato con aceto tiepido, o con acqua e allume, miscela in grado di combinarsi selettivamente con la mucillagine, appesantendola e facendola precipitare sul fondo. Per quantità di olio limitate si operava una filtrazione attraverso filtro di cotone, di carta oppure un fitto setaccio; se per le basse temperature l’olio si addensava, si immergeva nel recipiente una lattina piena di acqua tiepida. Durante il XIX secolo l’olio era ancora riservato, nel suo impiego alimentare, alle città e ai ceti più ricchi: solamente alla fine del secolo si verificherà la piena diffusione del consumo familiare dell’olio d’oliva, affiancata da un netto incremento dell’olivicoltura.
Foto Agrilinea
83
storia e arte Nel 1819 fu pubblicato a Firenze il Trattato teorico pratico completo sull’ulivo di Giuseppe Tavanti, grande studioso in materia, nel quale sono ripetute le raccomandazioni ispirate all’arte olearia dei Romani relativamente all’epoca di raccolta, alla delicatezza delle fasi di raccolta, trasporto e conservazione delle olive in olivaio ecc. L’Autore dedica ampio spazio alla descrizione dei meccanismi della fermentazione delle olive in mucchi, evidenziando le perdite in qualità e quantità che ne derivano, sostenendo però che, dato l’elevato costo delle stuoie, è sufficiente stendere le olive sul pavimento, purché in strati molto sottili. Notiamo qui una crescente attenzione verso l’aspetto economico del processo produttivo, sconosciuto nel mondo classico, dove la manodopera, in una società fondata sulla schiavitù, era praticamente gratuita. Abbandonata la perfezione delle macine romane, che lasciavano il nocciolo intatto ma difettavano nella quantità del prodotto, l’attenzione degli operatori si rivolse verso macchine più pratiche e produttive, mantenendo l’attenzione verso gli accorgimenti utili a ottenere un buon olio, come la pulizia di locali e strumenti. Il torchio a vite verticale, o strettoio, era l’unico strumento diffuso all’epoca per spremere le olive. La vite intagliata nel legno richiedeva però, per esigenze di robustezza, un diametro considerevole e una notevole lunghezza delle spire. Ciò provocava attriti elevati, tanto più consistenti quanto maggiore era la pressione sviluppata sulle gabbie. Inoltre, in corrispondenza del punto più alto e di quello più basso della vite era poco agevole per l’operatore esercitare la forza sulla leva; la spinta andava infine eseguita orizzontalmente, e ciò non consentiva di ottenere la massima pressione. Il Tavanti descrive un nuovo strettoio studiato per eliminare questi inconvenienti. La macchina poteva essere composta da una o più unità, in grado di lavorare anche contemporaneamente. I pregi principali della macchina consistevano nell’eliminazione degli attriti, nelle elevate potenze realizzabili e nel fatto che la manovella, essendo collegata alla madrevite costretta sotto la trave fissa, si manteneva sempre sullo stesso piano orizzontale. Un vero indizio dell’evoluzione della tecnologia olearia, che assunse così un carattere industriale, va ricercato nell’impiego dell’acqua come forza motrice. Il frantoio a trazione animale rimase come simbolo di un’economia familiare e di un mercato a carattere prevalentemente locale. I moderni oleifici, date le notevoli dimensioni dei nuovi impianti, abbandonarono le abitazioni rurali e si trasferirono in appositi edifici, costruiti sulle rive dei corsi d’acqua o serviti da canali artificiali. La forza dell’acqua rese possibile la lavorazione contemporanea di più macchine; gli operai si trasformarono in tecnici specializzati, addetti ciascuno a una singola fase produttiva. Si ampliarono anche i locali annessi al frantoio: olivaio, inferno, deposito delle sanse e stanza del frollo. L’impiego dell’energia idraulica fu inizialmente limitato alla sola macinazione.
Foto Agrilinea
Torchio a vite verticale. La vite viene fatta girare inizialmente a mano, poi con l’aiuto di una stanga, infine con la forza di un argano
84
estrazione dell’olio L’estensione dell’energia idraulica ai torchi dovrà attendere l’inizio del XIX secolo. Cinquant’anni più tardi, la pressa idraulica fu integrata con l’accumulatore idraulico, ma le presse tardavano a diffondersi a causa dell’elevato costo. Nel trattato La cultura dell’olivo e la estrazione dell’olio di Napoleone Passerini (seconda metà del XIX sec.) sono menzionati quattro tipi di olio: l’olio vergine, ottenuto frangendo solo la polpa; l’olio comune o ordinario, ottenuto dalle stesse olive dopo la macinazione dei noccioli; l’olio di sansa, ottenuto da ulteriori torchiature effettuate con l’ausilio dell’acqua calda (destinato all’industria dei saponi e a quella dei lubrificanti, sempre più richiesti dalla diffusione delle macchine a vapore); l’olio d’inferno, ottenuto dalla macerazione delle acque di vegetazione e delle sanse. Era inoltre previsto un sistema di estrazione delle bucce e nei noccioli con solfuro di carbonio. L’olio raccolto dallo strettoio veniva subito portato nel chiaritoio; già dopo 4-5 giorni si effettuava il primo travaso con pentoli di latta o piccole pompe aspiranti a sifone per separarlo dalle impurità sedimentate sul fondo. Seguivano altri due o tre travasi a intervalli di otto giorni, dopodiché l’olio era portato in coppaio in attesa della vendita. Nel primo anno di attesa l’olio si travasava ancora a fine inverno-primavera e poi in luglio-agosto. Dal secondo anno in poi i travasi avevano scadenza annuale. Quando occorreva filtrare un olio torbido, lo si faceva passare attraverso uno strato di cotone cardato, posto in piccole tazze forate, dette colli, sporgenti dal fondo di un recipiente di latta. Agli inizi del Novecento si diffondono negli oleifici i “maneggi”, meccanismi con i quali si trasmetteva al macchinario il movimento di un animale che girava in un locale adiacente, evitando l’attacco diretto degli animali alla stanga, dannoso per l’aroma dell’olio a causa delle esalazioni provenienti dalle deiezioni.
Strettoio descritto dal Tavanti
Strettoio descritto dal Tavanti
• Le due ali laterali della tavola mobile
si inseriscono nelle guide longitudinali scavate nei pilastri. Perni mobili sono introdotti sotto le ali per mantenere sollevata la tavola durante il carico e lo scarico del piatto. Vite e madrevite sono realizzate in ferro per limitare diametro e attriti. La vite scorre liberamente in due fori cilindrici, il diametro dei quali ne permette il movimento senza attrito, impedendone però il gioco eccessivo, in modo da mantenerla perfettamente verticale. Le due guide sono rivestite internamente e rinforzate da lamine di ferro. La madrevite non è fissa ma libera di scorrere lungo la vite, e porta sul margine superiore dei cuscinetti cilindrici che ne facilitano la rotazione contro la superficie della trave. Quattro raggi orizzontali servono come incastri per la manovella, tramite la quale viene applicata la forza. Con l’aumentare della pressione, si applica una corda che collega la manovella ai vicini argani, dotati di un doppio ordine di caviglie
Un sistema di ingranaggi in legno o in ferro collega il moto rotatorio delle macine alla grande ruota a pale sulla quale agisce l’acqua
85
storia e arte I torchi, ormai realizzati in metallo e con meccanismi atti a ridurre gli attriti, erano in genere a stanga mobile: la vite veniva cioè fatta ruotare con l’ausilio di una robusta asta inserita negli appositi fori ricavati nella testa della vite. I montanti del telaio impedivano però all’asta di compiere dei giri completi, rendendo perciò necessario sfilarla frequentemente da un foro per inserirla in quello adiacente. Questo inconveniente venne superato fin dall’Ottocento con l’adozione dei torchi a vite a cricco o a stanga fissa. Un cricco inserito alla testa della vite permetteva infatti il ritorno della stanga a vuoto, e perciò non era più necessario sfilarla ogni volta che, con la rotazione, si giungeva al montante. Più efficienti erano i torchi con movimento a leva multipla, dotati di dischi di ingranaggio che rendevano continuo il movimento rotatorio. Questi macchinari consentivano di ottenere forti pressioni senza che fossero richiesti argani per aumentarne la capacità di compressione. Per questo motivo erano agevolmente impiegati anche nella seconda pressione. I torchi o presse idraulici erano invece capaci di operare la terza estrazione fino al completo esaurimento delle sanse. Vi compariva per la prima volta la guida centrale in metallo cavo, detta anche foratina per la sua superficie fittamente bucherellata. Questa sosteneva la torre di fiscoli attraversandone verticalmente tutti gli elementi. Le pompe che mettevano in moto i torchi idraulici potevano essere azionate sia a mano sia a motore. Il mosto oleoso che si liberava con la pressione veniva raccolto in un apposito recipiente, il sottino, spesso dotato di tubi di scarico posti alle altezze opportune per separare automaticamente l’olio dalle acque di vegetazione. L’olio confluiva direttamente nell’apparato lavatore mentre le acque di vegetazione venivano inviate all’inferno. Gli oli lavati richiedevano ulteriori decantazioni, che potevano essere sostituite dalla filtrazione attraverso uno strato di cotone o di carbone assorbente. I vecchi filtri a tazze, basati sulla percolazione spontanea dell’olio, erano divenuti però improponibili per l’industria moderna, che richiedeva processi più rapidi. Si iniziò a filtrare utilizzando la pressione, esercitata con l’azione di una pompa, oppure producendo un certo grado di vuoto tramite aspirazione. Con il secondo metodo si proteggeva l’olio dal contatto con l’aria, a tutto vantaggio di qualità e stabilità del prodotto: evitare ossidazione o irrancidimento si dimostrava un fattore sempre più importante nel processo produttivo, in concomitanza con l’ampliamento delle conoscenze scientifiche sui meccanismi di degradazione delle sostanze grasse. A partire dalla metà del secolo si diffusero gli studi sulla costituzione delle olive, sul processo di inolizione delle drupe, e sulla determinazione della resa industriale delle olive. Il vecchio e impreciso sistema dell’idroelaiometro (un cilindro graduato in vetro, sul quale si leggeva la quantità di olio che si separava da olive spremute con un piccolo torchietto) fu sostituito da apparecchi
Foto Agrilinea
Antico torchio per l’estrazione dell’olio
Torchio Mure: il disco orizzontale d’ingranaggio si trovava applicato alla parte superiore della vite ed è montato direttamente sull’architrave del torchio anziché sulla testa della vite
86
estrazione dell’olio che riproducevano su piccola scala i processi industriali. Ne è un esempio l’oleodeterminatore, ideato da Carocci-Buzi e consistente in un frangitore a martelli, una gramolatrice, una pressa idraulica e un separatore centrifugo per mosti, il tutto in miniatura, per lavorare piccoli campioni di olive. Si diffuse la conservazione delle olive in olivaio con mezzi chimici, in particolare con sostanze antifermentative: molto promettente risultò l’impiego dell’anidride solforosa, oggi riservata all’industria del vino. Vennero messi a punto per la cernita dispositivi meccanici rotativi; si diffusero le lavatrici automatiche e idropneumatiche, molto efficaci anche nel caso di olive ricoperte da una tenace patina argillosa. Si sviluppò inoltre una nuova categoria di frangitori: i mulini a martelli e coltelli, ancora oggi molto diffusi. Questi erano costituiti da un asse, ruotante a elevate velocità e dotato di propaggini di varia forma: le olive erano sbattute violentemente verso le pareti, andando a frantumarsi contro la griglia circostante, dotata di fori di grandezza proporzionale al grado di finezza della pasta desiderato. La durata della frangitura si riduceva a poche frazioni di secondo, ed era inoltre garantita la continuità del processo: ciò li rendeva, per la moderna industria, molto più razionali. Con il tempo si evidenziarono però alcuni aspetti negativi: se infatti la frangitura a molazze aveva il notevole difetto di tenere all’aria la pasta per tempi molto elevati, esaltandone i fenomeni ossidativi, le alte velocità raggiunte con i mulini a martelli provocavano un riscaldamento della massa in lavorazione, un eccessivo sminuzzamento dei noccioli (con maggior cessione dei polifenoli e un gusto più amaro) e un emulsionamento spinto che rendeva più difficoltosa la fase di estrazione dell’olio. L’ultimo inconveniente fu risolto inserendo nel ciclo la fase di gramolatura, cioè un prolungato impastamento a bassa velocità, eseguito allo scopo di favorire la riaggregazione delle gocce lipidiche evitando che, rimanendo in emulsione, parte dell’olio venisse persa con le acque di vegetazione. Nel sistema tradizionale era la stessa azione lenta e graduale delle macine a svolgere il compito di gramolare la massa. La pasta in gramolatura era considerata matura quando assumeva un aspetto lucido e ungeva la pelle senza macchiarla di violaceo: questo metodo empirico di valutazione è ritenuto ancora oggi valido. Alla metà del secolo le presse erano ormai quasi esclusivamente a movimento idraulico, sia del tipo a torre aperta con guida centrale, sia chiuso con gabbia. Per la separazione dell’olio dal mosto estratto con la pressatura venne introdotta una nuova categoria di macchine: le centrifughe. Queste si basavano sul diverso peso specifico dell’acqua e dell’olio presenti nel mosto oleoso. All’interno di un cono rotante a velocità molto elevata l’acqua, spinta dalla forza centrifuga, tendeva a portarsi verso l’esterno, lasciando l’olio, relativamente
Oleifici moderni
• Nel Trattato sull’Oleificio Moderno
del dottor Mingioli (Torino, 1901) sono descritte le macchine impiegate negli oleifici all’inizio del Novecento. Secondo l’Autore nell’oleificio moderno sono indispensabili la perfetta pulizia di locali, macchine e attrezzi, la buona disponibilità di acqua potabile, il riscaldamento indiretto dei locali, l’aerazione, l’impiego del gas-luce al posto del petrolio e, ove possibile, l’illuminazione elettrica. La disposizione razionale dei macchinari e gli opportuni sistemi di collegamento tra i locali dovrebbero ridurre al minimo la manodopera; si dovrebbero poi preferire ai tradizionali frantoi a martelli i macchinari frangenti a cilindri, data la loro efficienza e la possibilità di operare l’estrazione frazionata, base dell’oleificio moderno: essi possono infatti lacerare le olive, solo schiacciarle, oppure frangerle, o quasi polverizzare le sanse
Superpressa a torre aperta in fase di carico: è visibile a lato il carrello mobile con il piatto destinato ai fiscoli e la foratina centrale
87
storia e arte
Estrattore Sinolea: migliaia di lamelle in acciaio inox sono poste sulla parete esterna del cilindro, all’interno del quale la pasta di olive viene schiacciata contro la parete dal movimento di propaggini di materiale gommoso: l’olio, che possiede una maggiore bagnabilità (a causa della bassa tensione superficiale), sgocciola poi all’esterno, scorrendo sulle lamelle
Filtri per l’olio
più leggero, ad accumularsi verso il centro. Dai tubi di scarico, che comunicavano con le due diverse zone della centrifuga, si osservava l’uscita, rispettivamente, di acqua e olio già separati. L’olio ottenuto dalla centrifugazione era già suscettibile di commercializzazione, ma per ottenere un prodotto più limpido spesso si effettuava un’ulteriore filtrazione utilizzando le filtropresse. Dalla seconda metà del Novecento sono state finalmente definite le prime normative volte a classificare in maniera rigorosa gli oli sotto il profilo merceologico, affiancandosi alle prime leggi contro la sofisticazione degli oli, già in vigore all’inizio del secolo. Il settore dell’estrazione ha inoltre subito una vera e propria rivoluzione, fondata sull’impiego delle centrifughe non solo per separare l’olio dalle acque di vegetazione dopo la pressatura, ma anche per estrarlo direttamente dalle paste appena gramolate, in alternativa alla pressatura stessa. Queste centrifughe, generalmente continue, ricevono la pasta direttamente dalla gramola tramite pompe o coclee, previa aggiunta di acqua tiepida. L’interno delle centrifughe è costituito da un cono in acciaio rotante a oltre 7000 giri/minuto. A causa del diverso peso specifico delle due componenti, la pasta, ricca d’acqua, si accumula ai margini lasciando il mosto oleoso al centro. La prima viene così allontanata come sansa, mentre il secondo viene avviato alla fase successiva. Esistono anche separatori centrifughi a tre fasi, in grado di separare olio, pasta e acqua. Un procedimento rivoluzionario è il sistema di estrazione a freddo Sinolea, che si basa sulla differenza di tensione superficiale esistente tra la fase acquosa e quella oleosa, e in
Frantoio Mure: un cilindro alimentatore in legno (con alette che pescano le olive dalla tramoggia) rifornisce i due cilindri frangitori (solo uno dei quali è collegato all’albero motore), armati di punte di diamante e dotati di due raschiatoi a dentiera. Un volante e una manovella permettono il movimento a mano; in alternativa lo strumento è collegato a un maneggio a trasmissione
88
estrazione dell’olio grado di recuperare fino all’80% dell’olio, senza alcuna aggiunta d’acqua né riscaldamento della massa. L’olio estratto rappresenta il fiore della produzione, poiché non ha subito aggiunte d’acqua che ne possano dilavare i componenti aromatici del caratteristico flavour, né è stato sottoposto ad alcun riscaldamento. L’olio residuo si può estrarre dalle paste semiesauste passandole in centrifuga o sottoponendole a pressione. La filtrazione, che si effettua ancora oggi con filtropresse a piastre, sta oggi perdendo parte della sua originaria importanza. Il mercato degli oli extravergini richiede infatti in misura sempre maggiore gli oli non filtrati, perché ormai la naturale torbidità è divenuta per il consumatore un vero sinonimo di genuinità. E questa preferenza ha il suo supporto scientifico, poiché le sostanze che rimangono in sospensione in un olio extravergine non filtrato esercitano su di esso un’azione protettiva, svolgendo una naturale funzione antiossidante. La preferenza del consumatore verso gli oli più genuini ci mostra come l’olio extravergine d’oliva non sia destinato a divenire un prodotto esclusivamente industriale. La qualità riferita agli extravergini assume aspetti più complessi e raffinati, interessando in misura sempre maggiore il campo della tipicità. Di fronte agli enormi progressi effettuati dalla tecnologia, e raggiunte ormai le migliori garanzie di sicurezza del prodotto, il consumatore sta oggi riconquistando quella sensibilità verso l’olio d’oliva che era propria dell’antica civiltà romana. Inoltre, l’equilibrio dell’extravergine in acidi grassi polinsaturi essenziali, il suo elevato contenuto in antiossidanti naturali, il benefico effetto su digestione e peristalsi, sono fattori che ormai si affiancano alla sua indiscussa bontà e immagine, facendone il non plus ultra delle sostanze grasse alimentari.
Separatore centrifugo De Laval, tra i più diffusi alla metà del Novecento
Filtropressa a piatti, consistente in una serie di piatti metallici mobili affiancati e premuti gli uni contro gli altri tramite una vite o un sistema a pressione idraulica, fino a tenuta degli orli perimetrali. Sulla faccia dei piatti sono stese tele di cotone di varia compattezza, con uno o più fori, che a pressa chiusa costituiscono dei canali interni per lo scorrimento dell’olio grezzo
Pompa De Blasio per il comando dei torchi idraulici a scarico automatico
89
l’ulivo e l’olio
storia e arte Simbologia dell’olio Luigi Caricato
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
storia e arte Simbologia dell’olio L’olio che si estrae dalle olive non è solo un corpo liquido. Presenta anche un’anima, seppure non del tutto svelata e manifesta. Però c’è, nonostante sia impercettibile. È un’anima invisibile, certo, come del resto lo sono anche quelle di ogni altro corpo vivente. Rifletteteci solo un poco: non è una forzatura, come a un primo impatto può sicuramente apparire ai più increduli. Là dove c’è un corpo, inevitabilmente c’è anche un’anima. Un’anima che muove e agita quel corpo, rendendolo per ciò stesso vivo, palpabile, pieno di principio vitale. Bene, posta tale premessa chiarificatrice, non c’è da preoccuparsi. Non si sta esagerando, perché l’olio è proprio un corpo vivo. Respira come tutti i viventi. È una materia prima soggetta a dinamiche sue proprie. In principio c’è dunque l’oliva, un frutto assai pregiato, ricco di preziosi componenti. All’interno del minuscolo frutto si cela un cospicuo bagaglio di sostanze nutritive, alquanto importanti per via delle riconosciute e accertate proprietà antiossidanti. Sono sostanze ineguagliabili, che assicurano notevoli vantaggi, sia a diretto beneficio dell’olio che si ricava, prolungandone la vita, la cosiddetta shelf life in
Acrostico
Oh tra le foglioline Le foglioline d’argento Il colore e la forma delle Olive, gentili mamme dell’olio Vivian Lamarque, tratto da L’Aria dei Messapi, n. 19, Caricato, San Pietro in Lama, 1998
Una pianta antropofila che guarda all’assoluto
Foto G. Aloia
90
simbologia dell’olio bottiglia, sia a esclusivo giovamento di quanti quell’olio lo assumeranno in forma di alimento o di prodotto della cosmesi. In un modo o nell’altro, si tratta di un’autentica forza della natura, che va tuttavia protetta, perché costantemente minacciata dagli assalti dei molti nemici. L’olio d’altra parte è un corpo vivo a rischio, strutturalmente molto fragile. La qualità del prodotto fa gola e così tanti agenti esterni e interni all’olio stesso sono pronti a depredare tale forza della natura, a sottrarne il succo vitale. Non solo l’olio, anche la stessa oliva ha molti nemici, il più terribile dei quali, ma non certo l’unico, è la Bactrocera oleae, l’arcinota mosca olearia. È diventata ormai una dura corsa contro il tempo: appena staccata dalla pianta, l’oliva subisce forme di degradazioni inevitabili. Si innesca un progressivo processo di rallentamento delle sue attività metaboliche, ed è appunto un rincorrersi di operazioni pur di fronteggiare le molte insidie: ci vogliono infatti tutte le accortezze possibili, per preservare quel vasto patrimonio di sostanze contenute nel frutto. Sono sostanze complesse e variegate, che in qualche modo possiamo molto opportunamente definire essere l’anima di ciò che di lì a breve si tramuterà ben presto in olio. I tempi perché tale passaggio, dalle olive all’olio, si realizzi sono piuttosto stringenti, anzi sono serratissimi. Infatti,
Frantoio agorà
• L’olivagione, termine con il quale
andrebbe opportunamente indicata la raccolta delle olive, ha rappresentato da sempre un momento forte per la comunità rurale. Ma è nel frantoio che si sono intrecciati i legami più profondi e sinceri. Il frantoio è stato vissuto per secoli come una piazza, un’agorà in cui poter scambiare idee e formulare resoconti, tecnici e non solo, sugli andamenti della campagna olearia o, in alternativa, su vicende attinenti la vita privata degli interlocutori (o degli assenti). L’obiettivo finale, ieri come oggi, resta l’assaggio dell’olio nuovo, fresco di spremitura, con un giudizio franco e sincero sulla bontà di profumi e gusto
Foto R. Angelini
Natale nel frantoio
• “Non devi disturbare
in quest’aria che trema di sole e vento la pace degli dei; l’ulivo centenario non dà ombra che possa riposare uno spirito inquieto. La sua consolazione è nel segreto che offre i suoi amari frutti al tuo destino nel buio delle màcine nel fragore dell’acqua che li frange e stilla olio divino. Si fa luce quel nutrimento nell’ora che tra tutte è la più quieta e la fiamma che segna il mutamento torna sul nostro pane oggi che è festa ed è riapparsa in cielo la cometa” Giorgio Mannacio, tratto da L’Aria dei Messapi, n. 14, Caricato, San Pietro in Lama, 1998
Antico frantoio Pelliccetti nel ghetto ebraico a Pitigliano (GR)
91
storia e arte si spera sempre di impiegare il minor tempo possibile, affinché si estragga al meglio, con ogni sollecitudine e cura, il prezioso succo dalle olive, nel chiuso del frantoio, in un ambiente protetto, magari lavorando in atmosfera d’azoto, evitando il contatto con l’aria. Ogni precauzione è benvenuta. Il succo che si ricava dalle olive, raccolte sane, direttamente dalla pianta, diventa il succo dell’essere, la linfa vitale che conserva in sé un tesoro d’inestimabile valore. È l’azeite, per intenderci. Azeite come dicono, con termine mutuato dall’arabo, in Portogallo. O aceite, come altrimenti lo si nomina in Spagna. Sono espressioni fascinose quanto efficaci, anche perché vanno subito al nocciolo della questione: l’olio, essendo infatti un concentrato del frutto da cui deriva, è come tale l’equivalente di una ineguagliabile spremuta di oliva: è il frutto tal quale che da corpo solido si tramuta in un corpo liquido, fluido, composto quasi nella sua totalità da materia grassa: un concentrato di trigliceridi. Nulla di poetico, se si scende nei dettagli della chimica, ma resta comunque qualcosa di unico, dal momento che tutte le religioni, anche quelle più lontane dall’area della civiltà del Mediterraneo, hanno elevato l’olio a simbolo primigenio; a immagine della indifferenziazione primordiale, secondo la mitologia shintoista: le acque originarie sono pertanto olio, o-l-i-o. Il puro succo di oliva – il corpo liquido che sa incontrare il cibo e intessere un dialogo perfetto con gli alimenti, fino ad arricchire ogni altra materia prima di un sovrappiù di gusto e di nutrienti – non può certo essere un generico e indistinto grasso alimentare come tanti altri in circolazione. L’olio extravergine di oliva è semplicemente l’olio. Non vi sono paragoni che reggano il confronto.
L’olivo
• “Non ricordo più il numero delle
potature, / ricordo la nascita, le ferite, le visioni. / Giovane e dritto, la corteccia liscia, / mi specchiavo nella buca scavata per irrigare. / Poi gli anni sempreverdi e i nuovi nodi, / e loro, nascere dopo anni e annunci di fiori, / verdi, poi rosso vinoso, poi neri, / li ho sentiti cadere, per colpi di pertica o stanchezza, / frangere con la zappa e caricare maciullati / su un carro diretto al torchio e al frantoio. / Ho dentro di me lo sfrigolio della pietra / arenaria venata di quarzo, o granito, / la macina fissa, quella mobile che ruotava / ad acqua, azionata da un canale, / o a sangue, mossa da un asino o un mulo, / con gli occhi bendati per non farlo impazzire: / così per anni ho visto i miei figli morire / e il tronco mi si svuotava e corde nodose / hanno coperto la mia corteccia come rughe, / strazio linfatico, dolore vegetale. / Eppure è per loro che ho superato gli incendi e le gelate, / la fumaggine, il cancro, l’occhio di pavone, / più volte sono incanutito per la calce spruzzata / per combattere la rogna, ho resistito / alla mosca (segue)
Foto G. Aloia
Balsamari orientali, Museo dell’olivo Fratelli Carli, Imperia
Nel cuore dell’olivo
92
simbologia dell’olio Ha qualcosa in più e rappresenta, nel medesimo tempo, qualcosa di diverso. Quando si dice olio, si intende solo e unicamente il frutto della spremitura delle olive. Il resto non ha storia. Lo stupore che ancora sorprende e spiazza la ragione, a distanza di millenni, è che da un minuscolo frutto così amaro e astringente, immangiabile tal quale, sia potuto scaturire un succo sapido e alquanto gradevole al palato, ora delicato e fine, in base al tipo di oliva da cui deriva, ora invece robusto e intenso, comunque amaro e piccante, in maniera assai lieve o più marcata, a seconda dei casi, comunque ricco di molteplici sfumature in fatto di profumi, con note aromatiche dalle connotazioni più insolite, che vanno dal carciofo al pomodoro, dal cardo alla mela, fino alla mandorla e alla camomilla. L’oliva regina e l’olio re: un succo che è l’essenza stessa della vita, al punto da essere elevato al rango di functional food, di cibo funzionale, così esplicitamente osannato dai nutrizionisti per via delle sue peculiari proprietà salutistiche con cui si contraddistingue e caratterizza. Non è dunque un caso che l’olio di oliva sia stato giustamente posto al centro delle attenzioni dalle tre grandi religioni del Libro – senza alcuna differenza di riguardi tra Ebraismo, Cristianesimo e Islam – fino a essere coralmente ritenuto espressione della diretta presenza di Dio tra gli uomini, in quanto diretta emanazione dello Spirito Santo. E non a caso, infatti, i fedeli credenti in Cristo, già all’alba dell’istituzione della Chiesa, si raccoglievano assorti intorno al Sacramento, elevando con sentimenti di gioia e riconoscenza il salvifico Ave sanctum, oleaum – Olio santo, io ti saluto – pronunciato con accenti solenni in un fiorire di note gregoriane e l’alitare dell’incenso.
(continua) olearia, non so se per il fuoco / acceso dal contadino agli alberi malati / o per l’arrivo sciamante della cincia bigia / che ne distrusse le larve e poi volò lontana. / Li ho visti rigenerati, brillare / sui glutei e le cosce delle schiave numìde, / sui pettorali e i tricipiti degli atleti, / negli occhi di chi si immergeva per scrutare i fondali, / vincendo l’astio e l’arsura del sale, / li ho visti scendere, goccia a goccia, scivolare / nella lucerna di chi piangeva un perduto. / In loro ho vissuto la mia trasformazione / e la memoria della colomba sulle acque pacificate, / e del mio ramo cinto sul capo di un saltatore, / ricordo, per quella strana pietà minerale / che sale dalle radici fino al fiore. / Ma una sera ho visto qualcosa che superava / la mia memoria e la sopportazione, / e che mi ha schiuso la conoscenza degli umani / (le ancelle, le schiave, i lottatori, i volti impressi / nelle lucerne, i vivi e i trapassati), / quando sudò e pianse stille di sangue, / sotto di me, abbracciato ai miei piedi: / per lui, per lui piango e godo per loro” Roberto Mussapi, tratto da L’Aria dei Messapi, n. 11, Caricato, San Pietro in Lama, 1998
La frittura in olio bollente, da una stampa antica
93
storia e arte Anche l’olio ha un’anima Tutto ciò che rimanda alla sfera dell’umano ha un’anima rivelatrice di sé che va percepita e inquadrata nella giusta direzione. Oltre a un corpo ben definito, infatti, i Paesi, le città e i popoli hanno una propria anima espressiva e neanche tanto segreta. Un’anima che è a tutti evidente non appena vi si presta un pur minimo segnale di attenzione. Ma non si tratta di qualcosa da confinare nel solo dato simbolico, piuttosto riduttivo. L’anima nell’olio di oliva è presente invece per davvero. Come si evince, molto chiaramente, dal profilo compositivo degli oli extravergini di oliva, secondo quanto emerge dai riscontri analitici, scendendo nel dettaglio dei parametri chimico-fisici e nutrizionali di riferimento. L’olio di oliva, si sa, è prevalentemente una materia grassa, essendo costituito per lo più da trigliceridi. Solo una minima parte – corrispondente all’uno o, al massimo, al due per cento del totale – è costituita da una frazione conosciuta come “insaponificabile”. Questa comprende alcune centinaia di componenti specifici, soprattutto di natura fenolica, assenti in altri oli. Sono proprio tali costituenti a rendere l’olio extravergine di oliva unico e inimitabile. Ed è per l’esattezza questa minima frazione di composti di varia natura – rappresentata da idrocarburi, caroteni, tocoferoli, tocotrienoli, alcoli, steroli e altro ancora – a incarnare, non soltanto su un piano strettamente ideale, ciò che a ragione si può definire essere l’anima dell’olio. Risiede proprio qui, infatti, in questa residua parte di molecole, la straordinarietà degli oli di oliva. Unite assieme, tali sostanze fanno la differenza. Ecco perché – sin dall’antichità, appena si è capito che dall’oliva si poteva ricavare il prezioso succo che ancora oggi noi tutti apprezziamo per bontà e pregi salutistici – l’olio è assurto sin da subito a simbolo delle varie civiltà che si sono succedute nel tempo, e con esso anche l’olivo e i suoi
Liquor d’ulivi
• “Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continuando, disse: ‘Quivi al servigio di Dio mi fe’ sì fermo, che pur con cibi di liquor d’ulivi lievemente passava caldi e geli, contento ne’ pensier contemplativi’” Dante, Divina Commedia, III, XXI, 112-117
94
simbologia dell’olio frutti hanno guadagnato ragguardevoli e significativi spazi di visibilità e consenso. Oggi, a differenza del passato, abbiamo la fortuna di conoscere le ragioni fondanti di ciò che si è definito essere, con un’espressione calzante, l’anima dell’olio. Ed è un vantaggio notevole, che reca utili riscontri in termini di conoscenza del prodotto. Vantaggi che un tempo non esistevano, visto che ci si affidava alla pura percezione di un dato di fatto, consistente nel riconoscere le virtù taumaturgiche di quel tanto decantato liquor d’ulivi, come amava definirlo Dante Alighieri, sulla base della sola immaginazione, vagamente confortati soltanto da qualche sparuto dato scientifico. L’approccio con il prezioso liquor d’ulivi, in grado di mantenere in essere e di preservare nel contempo la vita, era basato espressamente sul frutto delle esperienze maturate in prima persona, sulla propria pelle. E così, l’olio guaritore che sana le ferite e nutre il corpo ha permesso infine all’uomo di elevarlo al ruolo di simbolo più alto e nobile delle civiltà. L’olio, dopo i primi goffi tentativi di ottenerlo in maniera rudimentale, con l’acquisizione di una tecnologia estrattiva più evoluta, era diventato ben presto un alimento di fondamentale importanza, necessario per l’ordinario funzionamento dei consueti riti della vita sociale. Ed era perciò, a tutti gli effetti, il segno del coronamento stesso della civiltà, simbolo di floridezza e di benessere, in quanto serviva per fini alimentari, ma anche per altri impieghi, per nulla secondari, dall’igiene personale all’illuminazione delle abitazioni e dei santuari. Ma l’olio ricavato dalle olive rappresentava pure un forte elemento di sacralità, essendo universalmente considerato un “fluido celeste”, indispensabile nel guarire anima e corpo, spirito e carne insieme. L’olio accompagnava di conseguenza passo dopo passo tutte le fasi della vita ed era per ciò stesso ritenuto
Olio guaritore
• La guarigione del corpo e la salvezza
dell’anima sono state per secoli possibili in virtù del ricorso all’olio ricavato dalle olive. Questo, almeno, nella considerazione popolare, ma a credere fortemente nelle proprietà guaritrici dell’olio erano in realtà un po’ tutti, senza distinzione. Le lampade votive costituivano il mezzo attraverso cui i santi taumaturghi esplicavano i propri poteri carismatici. L’olio “benedetto e salutifero” veniva considerato un autentico toccasana
95
storia e arte Foto Fondazione Mario Novaro
Cartolina pubblicitaria dell’Olio Sasso (Chiattone, 1900) Lettera miniata di Turone (Verona, Biblioteca Capitolare, cod. MLIX) con l’ingresso di Cristo nella città di Gerusalemme
un elemento vitale, oltre modo necessario e irrinunciabile. Nel mondo latino, dove forse più di altre civiltà l’olio rappresentava un paradigma cui rispecchiarsi, lo si ritrovava puntualmente ovunque e in qualsiasi contesto, nei cibi come nei sacrifici, nelle lucerne come nei bagni e nelle palestre. Era insomma dappertutto, onnipresente e onnisciente. D’altra parte, l’olio di oliva è l’olio che discende direttamente da Dio, è il simbolo di un’autorità e di una potenza che è derivata da uno stretto legame con l’Assoluto. Per questo, dunque, nessuno può permettersi di alzare la mano sugli unti del Signore. Considerando pertanto tale prerogativa, si può forse negare, anche solo lontanamente, di riconoscere la presenza nell’olio di un’anima? Foto R. Angelini
Oliera in argento, Museo dell’olivo Fratelli Carli, Imperia Rami di olivo su stola
96
simbologia dell’olio Una pianta antropofila che guarda all’assoluto Se l’olio che si ricava dalle olive si contraddistingue per essere l’olio tra gli oli, il re incontrastato tra i grassi alimentari, anche di quelli che non si presentano allo stato liquido, una ragione pur ci sarà. Se vi sono frequenti rimandi al mito e alla religione, tali da far assurgere l’olio di oliva a simbolo di una robusta e potente forza evocativa, ci saranno di sicuro buoni motivi e nulla, state pur certi, può essere frutto di una semplice e banale casualità. L’olivo, d’altra parte, è pianta che racchiude in sé una grande ricchezza di elementi simbolici, forse di gran lunga superiore anche a quella espressa dalle olive e dall’olio. L’olivo evoca in particolare pace e fecondità, forza e purezza, vittoria e ricompensa; e perfino in Paesi lontani, laddove la coltura è solo un’acquisizione recente, l’olivo ha lasciato di sé un segno indelebile e significativo. In Giappone, per esempio, è divenuto simbolo di amabilità, tanto da essere considerato come l’albero della vittoria, a coronamento sia del successo conseguito negli studi, sia di quello ottenuto nell’ambito delle imprese civili e finanche guerriere. Il legno d’olivo avrebbe inoltre – quanto meno secondo una leggenda cinese – la forza di neutralizzare le nefaste conseguenze di alcuni veleni. Per questo, dunque, e per altro ancora, gli olivi venivano posti sin dall’antichità sotto una speciale protezione, con pene severe per quanti osavano danneggiarli. La pianta in questione, d’altra parte, si lega strettamente al mito della nascita di Atene, attraverso l’edificazione della polis, divenuto centro di vita civile e politica, ma anche luogo privilegiato di promozione della cultura. L’olivo, pertanto, reca il segno della raggiunta civiltà, anche perché rappresenta sul piano ideale l’avvenuto passaggio dallo stato di pianta selvatica (phulia) a quello di pianta coltivata (elaia), conseguenza di una altrettanto determinante trasformazione di una comunità d’anime primitiva in una comunità più evoluta. Non a caso il mito di Odisseo, cantato in maniera eccelsa da Omero, aiuta a comprendere con grande efficacia tale passaggio, visto che è proprio la figura di Ulisse a incarnare alla perfezione l’homo tecnologicus dal multiforme ingegno, capace di fronteggiare la natura e il destino avverso. La capacità di rendere governabile l’oleastro, e quindi di addomesticarlo, è il segno evidente di un’attenzione e di una sensibilità che non ha paragoni nella storia. È l’intelligenza dell’uomo che ha saputo in questo caso prevalere sulle forze della natura. Tutto ciò che è espressione diretta della natura, infatti, è una fedele rappresentazione dei contrasti elementari, spesso violenti e selvaggi, che l’uomo ha cercato in qualche modo di contenere e di dominare attraverso l’ingresso in una casa comune chiamata civiltà. Non c’è nulla di accidentale e di fortuito, giacché è solo l’uomo, con la sua volontà e il suo genio, ad aver fatto la sua parte nel tentativo felicemente riuscito di giungere a una pianta che è simbolo unico ed esclusivo della raggiunta civiltà. Il passaggio dall’olivastro all’olivo segna infatti un punto a favore dell’uomo, ma non per questo la sua natura selvatica è ve-
Foto R. Angelini
Olivi intorno al teatro di Epidauro, Grecia Foto R. Angelini
Olivi a Micene, Grecia Foto R. Angelini
Olivo vicino alle rovine di Pergamo, Turchia
97
storia e arte nuta mai meno. La forza della civiltà sta appunto nel fronteggiare in continuazione la natura ribelle e selvaggia. La civiltà cerca sempre, per quanto possibile, di canalizzare le forze elementari della natura e di antropomorfizzarle. L’oleastro, che fino all’alba della civiltà costituiva un puro elemento della flora spontanea, con l’uomo si è trasformato in albero della vita, celebrato da tutte le religioni. Non a caso nella civiltà islamica rappresenta l’albero centrale, l’asse del mondo. Un albero sacro che è diventato simbolo dell’uomo universale ed espressione, nel contempo, di una presenza divina nel mondo. L’olivo, non a caso, è uno dei tanti nomi e volti di Dio, tanto che il suo nome compare scritto su ciascuna delle sue foglie. Non solo: l’olivo rimanda anche al Profeta, essendo associato alla luce, giacché l’olio che si estrae dalle olive non è altro che quel prezioso liquido grasso che andava alimentando appunto le lampade. Nel versetto della luce (Corano, 24,35) l’olivo coincide con la luce di Dio. La luce di Dio è “una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada in un vetro, il vetro come un astro di grande splendore; ed essa trae luce da un albero benedetto, l’olivo, il cui olio illumina senza che il fuoco quasi lo tocchi”. Frutto di una lotta senza fine La civiltà – lo si è appurato – non nasce dal caso. L’avvenuta domesticazione dell’olivo è il segno di una conquista lenta e difficile. È il frutto di una dura battaglia contro la forza incoercibile, violenta e irrazionale della natura. Ma a ogni conquista, come al solito, segue sempre una costante lotta per non restare schiacciati dal colpo di mano di una natura selvaggia mai del tutto domata. Il timore, mai sopito, di ritornare indietro, ai tempi in cui dominava l’olivastro, non è affatto campato in aria. La coltivazione dell’olivo, praticata con successo nel corso dei millenni, resta per certi versi l’indice per poter valutare la buona tenuta della raggiunta civiltà. La tendenza e la sensibilità di alcuni nel vigilare sull’andamento della civiltà, preoccupati di prolungarla e di estenderla nel tempo quanto più a lungo possibile, li fa continuamente vegliare, proprio al fine di non rimanere spiazzati e rimanere senza più olivi. In Italia anno uno. Le campagne senza contadini. Le città senza operai, Giorgio Bocca ha dedicato un capitolo del libro all’invincibile olivo. Il volume risale al 1984 e riporta però un brano inquietante: “Il tecnico che mi accompagna dice che gli oliveti abbandonati torneranno al bosco selvatico, come nel remoto millennio in cui uno storno vorace dovette cacare su queste terre il primo nocciolo della pianta, nella sua espansione mediterranea dalle coste dell’Asia Minore alla Grecia, alle Puglie”. La preoccupazione non è del tutto fuori luogo. La regione Puglia ha tra l’altro legiferato in difesa degli alberi secolari e contro il commercio illegale dei “patriarchi verdi”, onde evitare di ritrovarli alla stregua di piante ornamentali nei giardini senza storia di alcune ville del Nord del Paese. Da qui evidentemente il senso di tante leggi, o di alcune esortazioni morali, spese a favore
Antico olivo nel Salento
L’Aria dei Messapi
• L’Azienda agricola Caricato, operante
nel Salento leccese, affianca alla produzione dell’olio un libretto dal titolo L’Aria dei Messapi. L’esordio di tale foglio letterario risale al maggio 1997. Tra gli autori, alcune tra le firme più prestigiose del panorama letterario italiano, da Giuseppe Pontiggia a Franco Loi, da Maurizio Cucchi a Roberto Mussapi
98
simbologia dell’olio dell’olivicoltura, e che si sono ripetute sistematicamente nel corso dei secoli. Una di queste, e forse la più rappresentativa tra tutte, rimanda alla notificazione firmata l’8 agosto 1830 dal pontefice Pio VIII, laddove, per non compromettere la coltivazione, si prometteva il premio di un paolo, ch’era poi l’equivalente di una giornata lavorativa di un contadino dell’epoca, in cambio di ogni pianta d’olivo messa a dimora e curata al meglio per almeno 18 mesi. Questo invito non era da intendersi come una questione legata soltanto a ragioni di natura puramente economica. La presenza dell’olivo sul territorio garantiva sia la buona tenuta dei suoli a rischio di erosione in conseguenza del loro abbandono, sia la stabilità dei diversi nuclei sociali che abbisognavano di adeguate risorse per la loro sopravvivenza. Più cure si prestavano alla pianta, più a lungo si manteneva in essere la civiltà. Gli oleastri, questi alberi spontanei non coltivati, apparvero agli occhi di Odisseo come il segno di una dolente disfatta: “Arrivammo alla terra dei Ciclopi violenti / e privi di leggi, che fidando negli dèi immortali / con le mani non piantano piante, né arano: / ma tutto spunta senza seme né aratro” (Odissea, IX, 106-109). Il gesto estremo di Odisseo su Polifemo, posto in atto con la complicità dei suoi compagni, chiarisce molti aspetti che sottendono al racconto di Omero. Fu proprio un grande tronco ad accecare il gigante e permettere a Ulisse e ai suoi compagni di fuggire. Si trattava di un olivo, agli occhi di Odisseo, mentre era solo un oleastro per il ciclope, solo legna da ardere, dunque, e nulla più: questione di punti di vista. L’ingegnoso Odisseo aveva però avuto la meglio su Polifemo: “afferrato il palo d’ulivo, aguzzo all’estremità, / lo ficcarono dentro il suo occhio; io, sollevatomi, lo giravo / di sopra”. Il mito lascia infine trasparire il senso della salvezza e dell’affrancamento dalla natura magistralmente messo in atto da Odisseo e dai suoi compagni. La differenza sta tutta nella capacità di gestire la natura e di sfruttare l’inesperienza e l’imperizia del ciclope. Odisseo dimostra peraltro di conoscere molto bene le straordinarie potenzialità che scaturiscono dall’olivo e dai suoi frutti. Il mito di Odisseo diventa il simbolo di una civiltà che si definisce tale proprio a partire dall’olivo. Alla stessa maniera di quanto è accaduto con il mito di Atena e la conseguente nascita della polis, l’olivo ritorna con Odisseo a essere pianta utile e necessaria. Motivo per cui la presenza dell’albero tanto caro agli dèi diventa il chiaro segnale, e quindi la spia, dell’andamento di una società che funziona o traballa. Quando la coltivazione arretra, è il segno evidente di una società che sta a sua volta indietreggiando. Per questo la presenza dell’olivo al posto dell’oleastro rappresenta il segno di una vittoria su cui costantemente vigilare. La domesticazione della pianta è stata una conquista lenta e piuttosto impervia, sviluppatasi nell’arco di alcuni millenni; ma l’olivo, pur essendo albero longevo e possente, simbolo per ciò stesso di vita perenne, richiede comunque attenzioni costanti e continue, affinché resti appunto olivo e non torni più a incarnare l’anima antica
Sembianze umane
• “Sediamoci sotto un olivo, scrutiamo
le sue rughe, che sanno di misteri lontanissimi. Amiamo, accarezziamo i suoi nodi così stretti e bruschi, così ghignanti e ridenti, così solidi e stretti. Vi sono alberi che ricordano l’uomo nei suoi movimenti, nella sua statura, nelle sue gesticolazioni. (...) L’olivo è lo stesso volto dell’uomo: nelle sue lunghe cicatrici, nello svariare dei colori, dal verde al cinerino sia della foglia sia del legno, ogni volto d’uomo trova qualcosa di sé. Trova le sue età passate e future, la maturità possibile, la vecchiaia inevitabilmente giusta.” Giovanni Arpino, Prefazione al volume L’olivo, di Napo Mastrangelo, 1982
99
storia e arte e sempre incombente dell’oleastro. Il passaggio dalla condizione di phulia a elaia non è da considerare definitivo e senza ritorno. Le due distinte nature, quella del selvatico e del coltivato, possono coesistere e diventare espressione del medesimo tronco. Quando domina l’olivo, si scorgono la civiltà e la cultura; quando si fa largo l’olivastro, subentrano lo smarrimento e la perdita di sé. Finché l’olivo viene coltivato in ogni antro del mondo in cui è climaticamente possibile beneficiare dei suoi frutti, c’è speranza affinché la civiltà dell’uomo possa affrontare con successo ogni insidia. La storia dell’uomo, d’altra parte, in tutto ciò è maestra: l’olivo prospera solo in società sane. L’anima dell’olio infonde forza interiore e aiuto morale Dalla mistica dell’olivo alla mistica dell’olio. È una condizione sine qua non. D’altronde, da una pianta così rappresentativa e unica come l’olivo, non si poteva che giungere a un elemento altrettanto emblematico quanto l’olio. Guardiamo all’olivo: è pianta che incarna al meglio il ruolo di madre e padre insieme, visto che è stato scelto, molto opportunamente, dagli altri alberi quale pianta in grado di governare il ricco e variegato patrimonio arboreo. Tale episodio compare in un’antica fabula contenuta nella Bibbia (Libro dei Giudici 9, 8-15), laddove l’olivo rinuncia senza alcun tipo di esitazione a ricoprire il ruolo di “re degli alberi”, profondamente convinto della propria utilità, di gran lunga superiore a quella di altre specie vegetali. Non accetta l’onore e il prestigio di una simile carica, perché preferisce semmai onorare con il suo prezioso olio gli dèi e gli uomini. Meglio così, evidentemente, piuttosto che andare ad “agitarsi al di sopra degli altri alberi”. E così, anche sulla base di tale apologo – e con la chiara consapevolezza che il frutto generoso della molitura delle olive è davvero in grado di infondere forza interiore e aiuto morale – l’olio di oliva diventa per tutti l’olio della consacrazione. Un olio speciale, quello dell’unzione, elevato a simbolo dello spirito di Dio; e d’altra parte gli unti del Signore, come si sa, vengono di fatto introdotti nella sfera del divino, proprio perché consacrati a un servizio straordinario e sacro. L’olio di oliva, di conseguenza, incarna in sé il simbolo di un’autorità e di una potenza che discendono direttamente da Dio, anche se poi assume una connotazione più ampia ed estesa: l’unzione con l’olio rimanda infatti alle lotte corporali e spirituali. E così, come nel caso degli atleti lottatori, o degli stessi combattenti, che attraverso la pratica dell’unzione del corpo rendono più elastici i propri muscoli – e altrettanto scivolosi, tanto che in tal modo negano all’avversario una più facile presa – allo stesso tempo, seppure in un senso più strettamente figurato, coloro che vengono unti con l’olio sacramentale diventano a loro volta molto più abili nel fronteggiare le forze del male. L’impiego dell’olio nell’atto dell’unzione si estende a una moltitudine di impieghi, che coinvolge ora oggetti inanimati – altari, statue, pietre – ora invece persone – dai re ai sa-
Emblema della Repubblica italiana, alla sinistra il ramoscello d’olivo
Il ramo dell’olivo nell’emblema
• Dal 5 maggio 1948 l’Italia repubblicana
ha il suo emblema. Il percorso creativo, durato 24 mesi, è il frutto di due pubblici concorsi e di un totale di 800 bozzetti presentati da circa 500 fra artisti e dilettanti. L’emblema prescelto è stato realizzato da Paolo Paschetto ed è caratterizzato da tre elementi: la stella, la ruota dentata, i rami di olivo e di quercia. La stella è uno dei riferimenti più antichi del patrimonio iconografico ed è sempre stata associata alla personificazione dell’Italia. La ruota dentata d’acciaio, simbolo dell’attività lavorativa, traduce il primo articolo della Carta Costituzionale: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Il ramo di olivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna sia della fratellanza internazionale; la quercia incarna invece la forza e la dignità del popolo italiano
100
simbologia dell’olio cerdoti, dai profeti agli infermi – assegnando una forza liberatrice e salvifica che in passato riguardava anche gli antichi riti eleusini, con l’olio che rappresentava il simbolo della purezza per eccellenza, anche per via della sua specifica natura fluida che consentiva di fissare e fronteggiare in maniera adeguata le molteplici influenze esterne. Esprimendo così una forza evocativa davvero impareggiabile, tanto che l’olio lo si ritrovava perfino nella grande opera alchemica, essendo composto delle quattro sostanze elementari in virtù delle quali si stabiliva un’attiva relazione con i quattro punti cardinali. Una presenza dunque a tutto tondo, che incrociava culture e credenze, e che veniva estesa a ogni ambito della vita, oltre che a molteplici contesti, motivo per cui, agli occhi di tutti, tale prezioso “liquore d’ulive” diventava il simbolo di una forza simbolica ineguagliabile, straordinaria e unica. Non mancano perciò le numerose offerte rese agli dèi, o comunque alle forze invisibili, come nel caso di alcuni Paesi del Nord Africa, con le donne impegnate in purificatrici libagioni d’olio sugli altari di pietra grezza, o con gli uomini pronti a ungere il vomere prima che l’aratro penetrasse la nuda la terra di un campo ancora da coltivare, un modo questo sicuramente insolito per richiedere, e allo stesso tempo sollecitare, la fecondità del solco aperto con una certa dolcezza e grazia – vista anche la stessa natura fluida e scorrevole dell’olio – nel grande e accogliente ventre di madre terra, quasi a simboleggiare la raggiunta unione dei sessi, di maschio e femmina uniti insieme nel celebrare l’unità di corpo e anima. Il concetto stesso di “anima dell’olio”, pertanto, non è affatto una forzatura, dal momento che nelle civiltà impropriamente ritenute “primitive”, l’anima che agita ogni cosa è stata da sempre ritenuta un “principio vitale” che tutto muove e corrobora. Tale elemento di vitalità, peraltro, lo si riscontra alla perfezione proprio nel rito dell’unzione del vomere, aspetto che non può certo essere ridotto a una banalissima usanza magica e propiziatrice, ma che si traduce in un gesto assai importante e che rientra a pieno titolo nella ricca e multiforme logica dei riti di fertilità. C’è dunque da chiedersi perché l’olivo prima, e l’olio poi, abbiano in entrambi i casi incontrato un largo favore di attenzioni, sia su un piano magico e mitologico, sia su un piano più strettamente religioso e rituale, oltre che su un fronte di indagine – in un momento successivo, con il senno di poi – dal taglio e dall’approccio spiccatamente antropologico e sociologico. Intanto, una risposta smodatamente irrazionale e di sicuro eccessiva c’è, e appare anzi quanto mai chiarificatrice ed esemplificativa rispetto a quanto finora evidenziato. Tale risposta è arrivata puntualmente da un apprezzato e noto artista – il pittore Salvador Dalì, scomparso nel 1989 – il quale, nel volume autobiografico La vita segreta, racconta di un suo soggiorno a Malaga e della sua folle passione che gli è derivata per l’olio d’oliva. Alla stregua di un bambino capriccioso e gonfio di un incontenibile entusiasmo, confidò nelle pagine della sua autobiografia come egli l’olio
L’oliva secondo Torquato Tasso
• “Vita de la mia vita,
tu mi somigli pallidetta oliva o rosa scolorita; né di beltà sei priva, ma in ogni aspetto tu mi sei gradita, o lusinghiera o schiva; e se mi fuggi o fuggi soavemente mi consumi e struggi” Torquato Tasso, Rime amorose estravaganti
101
storia e arte lo mettesse dappertutto, sin dal mattino, sommergendo il pane tostato in un piatto completamente colmo, in cui a nuotare vi era pure una moltitudine di acciughe. Certo, ammettiamolo, la sua è stata di sicuro un’alimentazione un po’ bizzarra e fuori da ogni logica, al pari della sua vita da artista. Però si resta in qualche misura affascinati, oltre che un po’ interdetti quando si legge che la considerevole quantità che rimaneva nel piatto lui la amava bere direttamente come fosse un liquido prezioso. “Alla fine – scrive – ne versavo le ultime gocce su testa e petto. Mi sfregavo i capelli che tornavano a crescere con rinnovato vigore e tanto forti da rompere i pettini.” Insomma, c’è un buon motivo per credere che l’olio di oliva abbia in effetti in sé qualcosa di oggettivamente speciale e unico, e anche di inimitabile: l’anima, appunto.
Tra gli olivi
• “Finalmente è luna piena: il cielo
all’orizzonte striato di nubi, in alto è terso come lo specchio antico rischiarato in sogno dal tuo volto. Amore mio, nel tuo sguardo le promesse del cielo si fondono ai segreti della terra e il tuo cuore risplende colmo di melodìe all’incanto che ci seduce tra gli ulivi: si vola nell’aria aderente ai corpi come una veste d’aromi effusa nella brezza da calici d’argento”
Olio di oliva e respiro della cultura Visto il carattere di sacralità con cui si caratterizza l’olio estratto dalle olive, è evidente che una cospicua parte delle citazioni più emblematiche si debbano individuare proprio nei testi sacri, o comunque in quella vasta area della letteratura in cui si fa rientrare a buon titolo anche l’ambito mitologico. Si pensi, per esempio, alla ricchezza di fonti, soprattutto risalenti all’antichità, che testimoniano i molteplici impieghi dell’olio di oliva nelle varie dimensioni del vivere umano, ma soprattutto nell’ambito delle frequenti unzioni che un tempo si praticavano ovunque e su vasta scala, indistintamente, senza esclusione di confessioni religiose o di appartenenze a classi sociali. L’olio, dunque, quale sigillo che lega l’uomo a Dio, è onnipresente, al punto che nell’unzione post-battesimale l’applicazione dell’olio abbraccia perfino gli organi di senso, testa, cuore e diaframma. Innumerevoli, pertanto, i passi che si indivi-
Tomaso Kemeny, tratto da L’Aria dei Messapi, n. 15, Caricato, San Pietro in Lama, 1998
Madre Natura
• “La terra materna, la Natura, nutre
i suoi figli dello stesso latte, la sua forte mammella sempre all’olivo darà olio prelibato” Frédéric Mistral, Calendau
Foto P. Viggiani
Antica raffigurazione dell’Arca di Noè
102
simbologia dell’olio duano nei testi sacri, soprattutto in quelli delle tre grandi religioni del Libro, Ebraismo, Cristianesimo e Islam. La prima menzione si trova nel libro della Genesi, nel corso della narrazione del diluvio universale, con Noè che accoglie con soddisfazione il ritorno della colomba con un ramoscello d’olivo nel becco, a significare il ritorno alla normalità. Non ci sono però i soli passi della Bibbia, anche la letteratura in senso stretto abbonda in citazioni. L’idea di elencare tutti i brani, o quanto meno i più significativi, in un unico volume – e magari secondo un rigoroso ordine per cronologia e area geografica – sarebbe un’operazione davvero utile alla conoscenza, così da ripercorrere la storia delle varie civiltà, dalle origini del mondo a oggi, attraverso un percorso fatto di parole. Si verrebbe in tal modo a individuare il filo conduttore che ha tenuto unito, e tuttora unisce, i vari popoli nel nome dell’olivo e dell’olio. Nel quinto secolo prima della venuta di Cristo, lo storico greco Tucidide ebbe a sostenere tra l’altro – con grande acume, direi – che i popoli del Mediterraneo cominciarono a uscire dalla barbarie proprio nel momento in cui impararono a coltivare l’olivo e la vite; ed effettivamente è così, come ben si evince dai numerosi scritti giunti fino a noi dall’antichità in poi. Per i Greci, d’altra parte, l’olivo è l’unico albero che nasce dal pensiero e dal desiderio espresso da Atena: egli è dunque thely ed hemeros, femminile e domestico insieme, capace dunque di esprimere armonia e senso di unità, al contrario degli altri alberi, i quali, per contro, avendo un’ascendenza tragica, sono stati trasformati in alberi solo dopo essere stati uomini in ragione di un loro precedente atto sacrilego. Tutta la letteratura dei più rappresentativi autori greci e latini risente pertanto del ruolo di primo piano assegnato all’olivo dalla società, e non poteva essere diversamente, vista l’utilità sociale
L’ulivo
• “Non basta la notte delle foglie
che d’improvviso si fa argento se il meriggio inchiostra di luce i nostri volti affaticati al sole, le palpebre strette a non contenere la parte di morte estatica nella luce cantata aperta dalla gola del cielo, troppa avidità di mondo non è nostra di tenera carne, ma il suo tronco è scura radice alta dalla terra, contorta mano tutta la regge l’infiammata giostra che noi ci logora di collina in collina nell’abbaglio dove fulmineamente recliniamo. Forza di radice nutrita dall’aria del lampo si sta tra terra e cielo rammemorando immobile il presente. Non è per noi l’ulivo di troppe fiamme, ci ha dato la luce tenue della lampada che l’abbassi nella stanza se piangi, non ti sentano di là nello scalpiccio affaccendato loro che ti hanno nel friabile cuore e ti tengono e l’olio per la ferita fatta dolce molle, la carne tra sé baciante nei lembi fino alla cicatrice, unica medaglia, che giorno in giorno sfreghiamo con le dita perché ci tenga in noi, nell’avvenuto tempo e in ultimo il balsamo che leviga l’inguine lo fa nuovo di bell’incarnato chiarito perché resistano, nella piana degli ulivi, gli amanti, non si lascino sciogliere mai, mai disfare.”
Foto R. Angelini
Marina Corona, tratto da L’Aria dei Messapi, n. 16, Caricato, San Pietro in Lama, 1998
Fonte battesimale: colomba con ramoscello d’olivo
103
storia e arte della pianta. Dell’olivo infatti non si disperdeva nulla, veniva utilizzata ogni parte. Perfino dalle stesse foglie si ottenevano – come tuttora del resto – dei preparati erboristici a scopo medicamentoso. Non manca nemmeno una dettagliata letteratura al riguardo, sia nell’antichità, sia, in particolare, nell’età moderna, soprattutto con autori del calibro di Andrea Mattioli e Castore Durante. Ma, prima di loro, vanno ricordati gli illustri scrittori di trattazioni agrarie, i quali fornivano con i loro dotti contributi un servigio davvero determinante per lo sviluppo dell’olivicoltura, dando così un impulso decisivo all’espansione della coltivazione in ogni angolo del mondo allora conosciuto. Tanti gli autori che andrebbero citati, uno tra tutti Columella, che nel De re rustica definisce olea prima omnium arborum est l’olivo. Ma non è l’unico, anche perché tutta la letteratura specialistica dell’antichità fa perno su figure decisive per gli sviluppi futuri del comparto. Così come, allo stesso modo, altrettanto decisivi sono risultati gli stessi studi di medicina, quelli concernenti le proprietà salutistiche degli oli di oliva, con il ricettario di Galeno in testa, sopra tutti, facendo scuola per secoli. Ma è soprattutto nel Medioevo che si è sviluppata una trattatistica agronomica che ha saputo esprimere importanti spunti di novità, mentre è stata più rara e contenuta la produzione iconografica, in particolare per ciò che rimandava alle tecniche colturali, e non solo a quelle. Hanno invece avuto un grande impatto le scene di rappresentazioni bibliche e, in generale, quelle dalle forti connotazioni religiose. Qualcosa si è mosso con l’approssimarsi dell’età moderna, come nel caso del De agricultura, la pregevole opera in versi dell’agronomo Michelangelo Tanaglia, in cui sul finire del Quattrocento entrò nel dettaglio delle operazioni colturali necessarie per giungere alla produzione di un buon olio. Allo stesso modo, altrettanto significativa è stata, a metà del secolo successivo, un’altra pubblicazione in versi, dal titolo La coltivazione, a firma questa volta dell’agronomo Luigi Alamanno, in cui si affrontavano le principali problematiche legate a una corretta pratica agricola negli oliveti. Pubblicazioni, queste, che pur non avendo un alto valore letterario, hanno tuttavia consentito di volgarizzare e rendere più fruibile a tutti una materia altrimenti ostica per i lettori meno inclini all’approfondimento. Nel corso dell’età moderna prese dunque corpo un nuovo impulso culturale, al punto che si diffusero molte pubblicazioni, alquanto significative per i contenuti e la struttura di fondo, sapientemente divise com’erano tra un linguaggio tecnico proprio che rimandava ai classici trattati di agronomia delle epoche precedenti e l’approccio divulgativo tipico di una manualistica per certi versi simile alla nostra nello spirito, e rivolta a un pubblico di non intenditori, allo scopo di incontrare un più largo favore di pubblico. Di grande interesse pertanto, anche per via della novità della proposta, è stato il volume Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio, pubblicato nel 1788 dal salentino Giovanni Presta, come pu-
Foto R. Angelini
Olivastri nell’area archeologica di Cosa (GR)
Foto P. Viggiani
Olivo secolare in Puglia
104
simbologia dell’olio re, dello stesso autore, un testo pubblicato nel 1794 con il titolo Degli ulivi, delle ulive, e della maniera di cavar l’olio, in cui emerse il merito di rendere oltremodo familiare un settore produttivo che restava invece chiuso in un ristretto ambito frequentato dai soli addetti ai lavori. Al contrario di quanto invece si verificava con le pubblicazioni riservate alla vite e al vino, capaci di destare una maggiore curiosità, anche in ragione del fatto che si trattava comunque di una bevanda e per ciò stesso si prestava, più dell’olio, a essere indagata. Comunque, al di là di un contesto che non era allora favorevole, i libri del Presta sono ancora oggi disponibili, riprodotti in edizione anastatica, e di conseguenza alquanto utili da consultare, anche solo a testimonianza di una modernità di stesura e di approccio. Invece, per chi pensa di individuare una letteratura dall’alto valore letterario, specificamente riferita all’olio di oliva, o all’olivo, resterà purtroppo deluso, visto che non esiste, a differenza del vino, qualcuno che ne racconti l’anima. L’olivo e l’olio, pur comparendo all’interno di molti testi, è tuttavia presente soprattutto a livello di citazione. Non è che manchino o scarseggino, sono davvero tante e le più varie, e se ne trovano ovunque, ma si tratta solo di citazioni, appunto, non di poesie o racconti direttamente ispirati al prodotto o al mondo che vi sta dietro. La lista dei grandi letterati sarebbe lunghissima, ma una attenzione mirata, con l’olivo e l’olio per davvero protagonisti unici, si registra solo a partire dal 1895, con la rivista La Riviera Ligure, fortemente voluta dalla famiglia Novaro, titolare della ditta Olio Sasso, con sede, all’epoca, a Imperia, in Liguria.
Foto P. Viggiani
La forza dell’olivo
L’Albero di Girolamo Comi
• Girolamo Comi (1890-1968) era
un ricco e dotto barone originario di Lucugnano, nel Salento, ma visse tra Roma e Parigi, intessendo stretti legami con i maggiori intellettuali del Novecento. Per amore della sua terra dedicò all’olivo una rivista denominata sic et simpliciter L’Albero. Oltre alla poesia, parte della sua vita la dedicò al riscatto della comunità dei braccianti meridionali. Al loro fianco si era infatti schierato apertamente, nonostante fosse lui stesso un ricco proprietario terriero. Comi difese a spada tratta le ragioni dei braccianti, adoperandosi per offrire loro delle occasioni di riscatto. Fondò pertanto la società Oleificio Salentino, un tentativo di imprenditoria solidale che non andò a buon fine. Gli impianti che un ingegnere del Nord gli procurò erano tecnicamente superati e gli operai privi di esperienza: fallì miseramente, terminando la propria vita tra gli stenti, ma guadagnando in compenso la carità dei suoi paesani
Foto Francis G. Mayer/CORBIS
Vincent Van Gogh, Olivi in Provenza
105
storia e arte Nel periodo 1895-1919, sulle pagine del primo house organ che sia mai stato pubblicato in Europa, è stata scritta la storia della letteratura italiana del Novecento, con collaborazioni importanti del calibro di Corrado Alvaro, Luigi Capuana, Grazia Deledda, Giovanni Pascoli, Luigi Pirandello, Clemente Rebora, Giuseppe Ungaretti e molti altri nomi celebri e meno noti, oltre poi a esponenti di primo piano dell’arte illustrativa, da Plinio Nomellini a Giorgio Kiernek. È stato un successo popolare senza precedenti, mai eguagliato da realtà analoghe negli anni successivi. Sorpresero le alte tirature, visto che si viaggiava sull’onda delle 40 mila copie a numero, una vera enormità per quei tempi, un traguardo quanto mai ambizioso che sarà meritatamente riconosciuto e apprezzato dai maggiori quotidiani dell’epoca, riuscendo così ad avvicinare, in maniera stupefacente e inconsueta, un pubblico vasto ed eterogeneo, sempre incuriosito dalle continue proposte, spesso ispirate proprio alla civiltà dell’olivo e dell’olio, ma non solo. Ed è proprio qui che Giovanni Pascoli pubblicò nel 1901 il celeberrimo Inno all’olivo: un autentico caposaldo, tra tutti i testi dedicati all’albero simbolo per eccellenza.
La Riviera Ligure, house organ della Olio Sasso
• La Riviera Ligure (1895-1919)
è nata dapprima come un semplice bollettino pubblicitario della ditta Olio Sasso, per poi diventare ben presto un’importante rivista di letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento. Diretta da Mario Novaro, ha ospitato autori come Alvaro, Boine, Campana, Capuana, Deledda, Palazzeschi, Pascoli, Pirandello, Rebora, Sbarbaro, Ungaretti e molti altri. È stata un’operazione culturale di grande respiro e portata, una formula di successo scaturita da una forte esigenza culturale che animava Angiolo Silvio e Mario, i due figli di Agostino Novaro, il fondatore dell’azienda
Lunga storia alla ricerca dell’anima dell’olio L’olio, dunque, ha un corpo e un’anima. Non si può pensare che sia pura materia. Del corpo si sa già, perché è tangibile, e come tale piuttosto facile da riconoscere. Dell’anima dell’olio invece si sa poco, anche perché si è poco consapevoli della sua esistenza. Ma in realtà essa è presente da sempre, solo che non la si è indagata a sufficienza. Anzi, in verità l’anima dell’olio oltre a esistere è, per certi versi, ancora più tangibile del corpo con cui si va manifestando l’olio agli occhi di tutti. Il corpo dell’olio è ben più evidente,
Foto Ditta Olio Sasso
Foto Fondazione Mario Novaro
L’olivo nell’arte e nella pubblicità: illustrazione di Plinio Nomellini
L’Inno all’olivo di Giovanni Pascoli è stato pubblicato su La Riviera Ligure, della ditta Olio Sasso
106
simbologia dell’olio perché si rende direttamente fruibile nella sua fluidità e nel suo essere avvolgente e morbido, quando incontra il cibo, arricchendolo in termini di gusto e di maggiore appetibilità. Ma è sufficiente pensare alle molte sostanze invisibili di cui l’olio è composto, per rendersi conto che l’anima risiede proprio lì, in quel nucleo di molecole oggi conosciute con il generico appellativo di “componenti minori”. È lì, dunque, che risiede l’anima dell’olio. Infatti, è proprio grazie alle centinaia di molecole che costituiscono la parte non grassa dell’olio che l’anima del prezioso liquore d’ulive si manifesta in tutta la sua evidenza. Per essere più precisi, possiamo anche sostenere come sia proprio l’anima dell’olio a rendere pienamente fruibile, a ogni suo impiego, quel corpo grasso di consistenza fluida che non è più un banale grasso tra i tanti grassi alimentari in commercio, ma qualcosa di diverso e di peculiare. Nell’olio che si ricava dalle olive – unico olio da frutto, e come tale da considerare un’autentica spremuta, massima espressione possibile di naturalità – non solo vi è la storia di tante civiltà che si sono succedute nel tempo, con la memoria dunque di chi, nel corso dei millenni, attraverso il solito gesto va ripetendo un’operazione elementare eppure sempre così nuova e incantevole, che si traduce nell’atto del versare quel filo d’olio a crudo come in cottura, a tavola come in cucina, ma anche altrove, sulla pelle, tra i capelli, ovunque, quel filo d’olio che infine rende esplicita ed evidente la straordinarietà e unicità di un prodotto davvero superbo e inimitabile. Non si esagera, perché a ben osservare si tratta effettivamente di una storia senza pari, visto che nel ripetuto scorrere dei millenni ha infine portato, intatta nella memoria dei popoli, l’eleganza e la nobiltà di una pianta, qual è l’olivo, e di un prezioso succo di olive, qual è l’olio, che oggi, dopo un millenario percorso, è diventato da alimento etnico, confinato nell’ambito dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, alimento interetnico, coinvolgendo così popoli lontani ed estranei per tradizione al suo consumo. Dov’è allora il merito se non in quell’anima che risiede al suo interno, nei cosiddetti “componenti minori”, con quelle funzioni e dinamiche che lo hanno reso agli occhi dei nutrizionisti un functional food, segno pertanto non solo di buoni profumi e sapori, di volta in volta diversi in base alle zone di produzione, ma anche segno evidente di benessere e di tanta buona salute, essendo diventato a tutti gli effetti presidio persino di medicina preventiva. Salute, qualità e gusto sono perciò i valori chiave che il consumatore moderno predilige e riconosce come propri. L’olio extravergine di oliva li esprime tutti e, di conseguenza, anche in una società secolarizzata come quella attuale, pur avendo smarrito le connotazioni religiose e mistiche che gli si attribuivano un tempo, sa oggi comunque ritrovare con puntualità i medesimi valori del passato. L’anima dell’olio dunque esiste, la si vive e la si sperimenta in una forma laica e meno celebrativa di un tempo, ma lo spirito di fondo, quello che continua ad agitare e muovere le nostre scelte sin dall’alba delle civiltà, non è affatto cambiato.
Inno all’olivo
• “L’ulivo che a gli uomini appresti la bacca ch’è cibo e ch’è luce, gremita, che alcuna ne resti pel tordo sassello; l’ulivo che ombreggi d’un glauco pallore la rupe già truce, dov’erri la pecora, e rauco la chiami l’agnello; l’ulivo che dia le vermene pel figlio dell’uomo, che viene sul mite asinello” Giovanni Pascoli Foto Fondazione Mario Novaro
Illustrazione di Giorgio Kiernek, tratta dalla copertina del Calendario 1911 della ditta Olio Sasso
107
l’ulivo e l’olio
storia e arte Olio nella religione Michele Seccia
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
storia e arte Olio nella religione Introduzione La presenza dell’ulivo sulla terra si perde nella notte dei tempi, certamente è conosciuto da almeno cinque-seimila anni. Tra recenti ricerche e reperti archelogici si sconfina nelle leggende del pensiero mitopoietico sulle origini. Nell’area mediterranea orientale l’ulivo e i suoi frutti sono noti almeno a partire dal IV millennio a.C. Insieme alla Grecia, la Siria-Palestina è stata considerata terra d’origine dell’ulivo. Semi di olive sono stati rinvenuti tra l’altro a Teleilat Ghassul. Nei testi egiziani del periodo proto-dinastico l’olio d’oliva è menzionato come merce importata dalla Siria e dalla Palestina e intorno al 2500 a.C. è noto che anche Cipro importava le stesse merci. A questo periodo, se non a un tempo più remoto, risalgono leggende significative, che hanno una nota comune: collegare l’albero, i suoi frutti e l’olio con la divinità. Talvolta in Mesopotamia l’albero dell’ulivo è messo in relazione con l’albero della vita. In Grecia considerato albero sacro fatto spuntare da Atena in concorrenza con Poseidone. Un’altra leggenda racconta che Adamo, prima della morte, abbia ricevuto da Dio tre semi nati dall’albero del Bene e del Male. Seth, figlio di Adamo, pose i semi tra le labbra del padre e dalla sua tomba nacquero tre preziosi arbusti: il cedro, il cipresso e l’ulivo. Si potrebbe continuare con la ricerca di altri racconti, ma basta questo breve cenno per comprendere la relazione plurimillenaria tra l’ulivo e l’olio con la religione. La ricerca, iniziata con l’obiettivo di offrire una visione globale del tema nella religioni monoteiste, è concentrata piuttosto su Ebraismo e Cristianesimo, per delimitare un tema che sarebbe molto vasto e meriterebbe ben altri approfondimenti. Punto di riferimento fondamentale è l’analisi dei testi biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento, di alcuni testi della tradizione rabbinica e qualche passo del Corano, perché, come si vedrà, ci introducono nella conoscenza e spiegazione dell’uso dell’olio negli atti di culto, nella vita di fede (sacramenti) e nella religiosità popolare. Come premessa è interessante evidenziare che, facendo riferimento ai termini espliciti (ulivo, uliveto, olive, olio, frantoio), si riscontrano circa 70 citazioni, se poi si amplia la ricerca ai termini lessicali strettamente collegati (olio profumato, crisma, MessiaCristo, unguento, ungere, unzione) sia per l’Antico Testamento (secondo la traduzione in greco detta dei LXX) sia nel greco del Nuovo Testamento, rintracciamo oltre 200 citazioni nei testi biblici e numerose altre nei testi rabbinici, propri del Giudaismo. Dalla semplice lettura dei dati, che analizzeremo più avanti, scopriamo facilmente come, quando, perché questi termini, oltre a indicare il significato naturale, dedotto dall’esperienza, sono usati in un linguaggio metaforico, allusivo e simbolico. In pratica l’ulivo e l’olio dall’indicare l’albero, il suo frutto e il prodotto della natura, il nutrimento, l’uso come combustibile, medicamento, profumo e
Religione ed elementi naturali
• La religione è l’insieme di riti,
prescrizioni culturali, linguaggi che esprimono e danno concretezza alla fede. Infatti, mentre la fede indica l’adesione personale a una verità rivelata, tale adesione si manifesta in atti o gesti significativi per la stessa fede e che hanno assunto uno specifico valore nel contesto e nello sviluppo storico della professione di fede. Chi non ha mai visto, per esempio, delle candele accese in un luogo di culto, davanti a una statua, un altare, un’edicola sacra? Pensiamo all’uso dell’acqua, del pane, del vino o di altri prodotti della terra da sempre presenti nella storia delle religioni. In questa prospettiva si collocano l’ulivo e l’olio, elementi naturali, che lungo i secoli hanno trovato vasta applicazione nel linguaggio e nella vita religiosa di tanti popoli
Foto Archivi Alinari
Allegoria del Giudizio Universale “La colomba bianca”, 1721 (olio su tela), Pieter Casteels, collezione privata (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
108
olio nella religione massaggio, diventano termini analogici e simbolici che rimandano ad altri significati, concernenti ugualmente il contesto religioso. Entriamo così nel vasto campo dell’ermeneutica che aiuta a decifrare il valore simbolico dei termini. Perché “il simbolo fa pensare”, amava dire il filosofo Paul Ricoeur. Cosa è un “simbolo”? È una realtà concreta che assume una grande capacità di evocazione, una ricchezza comunicativa che, attraverso gli stessi termini, induce a scoprire significati, messaggi, valori sempre più profondi perché non si limitano a descrivere la realtà nella sua oggettività, ma aprono nuovi orizzonti di significato. È noto quanto questa sia una dimensione essenziale del mondo biblico. Per attenerci al nostro tema, ci renderemo conto che, pur partendo da una situazione e realtà storica, personale o collettiva, l’uso simbolico dei termini è prevalente perché quando JHWH (Dio – Jahveh) si rivolge all’uomo tramite i profeti usa un linguaggio concreto per trasmettergli un messaggio (di benevolenza-benedizione o punizione-maledizione, di consacrazione, di abbondanza o carestia ecc.). Parimenti l’uomo si rivolge a Dio esprimendo le sue intenzioni non solo con un linguaggio metaforico, ma anche con gesti, offerte, che stanno a significare qualcosa di più profondo del segno-simbolo. Sicché il ricorrere a gesti materiali, o a parole, sia attribuite a Dio dall’autore ispirato, sia pronunziate dall’uomo, rinvia a un significato “altro” che ha la sua origine nel segno o nel termine usato ma si dilata in un’interpretazione molto più ampia. Da queste preliminari osservazioni si comprende la
Foto Archivi Alinari
Entrata di Cristo in Gerusalemme, Santi di Tito, Galleria dell’Accademia, Firenze. Cristo è osannato dalla folla: alcune persone sventolano rametti di ulivo (© Archivi Alinari, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Formelle bronzee con Storie dell’Antico Testamento sull’anta destra della porta della basilica di San Zeno Maggiore a Verona: particolare raffigurante Noè e il diluvio (© Archivi Alinari, Firenze)
L’annuncio ai pastori, Sano di Pietro, Pinacoteca di Siena (© Archivi Alinari, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
109
storia e arte necessità di dover ripercorrere, sia pure in modo sommario, i testi al fine di evidenziare una relazione, non solo estrinseca ma anche intrinseca, esistente tra la persona religiosa e Dio; una relazione che si è sviluppata e approfondita lungo la storia. In questo rapporto l’ulivo e l’olio hanno avuto un ruolo ermeneutico e simbolico che perdura ancora ai nostri giorni.
Ulivo: un re tra gli alberi?
• Nel primo racconto della creazione,
il regno vegetale si presenta esclusivamente come nutrimento (Cf Gen 1,29-30) e nel secondo in modo più esplicito è detto: “Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male” (Genesi 2,9)
Ulivo: un re tra gli alberi? Il primo albero ben individuato e denominato che incontriamo nel racconto della Genesi è l’albero di ulivo. Infatti, oltre un’indicazione generica che sembra privilegiare una concezione utilitaristica del mondo vegetale e anche una funzione estetica e di bontà, nei due racconti della creazione si parla in genere di semi, di alberi da frutta, erba e cespugli, si fa riferimento all’albero della vita e a quello della conoscenza del bene e del male. Solo dopo il diluvio, si accenna esplicitamente al ramoscello d’ulivo, poi inteso come segno di benedizione e di pace, sino a indicare richiesta di protezione, aiuto, ospitalità. Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Giudizio Universale, dettaglio della colomba bianca che ritorna da Noè (mosaico), scuola veneto-bizantina del XIII secolo, atrio della basilica di San Marco, Venezia (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
L’Arca di Noè, Aurelio Luini, chiesa di San Maurizio, Milano (© Archivio Seat/Archivi Alinari)
110
olio nella religione “[Noè] Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra.” (Gen 8,10-11)
Foto Archivi Alinari
Gli alberi non sono certo rari nel territorio abitato dal popolo d’Israele, nonostante il deserto di Giuda: dalle famose querce di Mamre, ai cedri del Libano, ai terebinti dai rami bassi e pieni di foglie, ai platani, al salice di Gerico, sino agli alberi coltivati come l’ulivo, il noce e il mandorlo, il fico e la palma. L’albero d’ulivo doveva aver già acquistato una certo valore, se nel Libro dei Giudici (1200-1050 a.C. circa) troviamo un interessante apologo, proclamato da Lotam, con l’intento di manifestare l’avversione del popolo alla monarchia che Abimelech avrebbe voluto imporre. Una composizione forse non di origine israelitica, ma semplice e popolare, che in qualche modo ci introduce alla lettura simbolica per l’uso metaforico delle parole. All’ulivo, alla vite, al fico, tutti alberi molto preziosi per l’economia della Palestina, sono contrapposti il rovo, brutto e dannoso, e i cedri del Libano, maestosi, belli, ma inutili. Due soli versetti che già indicano il passaggio dal significato letterale a quello simbolico. Il popolo d’Israele attraversa un momento storico delicato, di passaggio alla monarchia.
Noè sull’Arca, particolare dell’altare di Nicolas de Verdun, abbazia di Klosterneuburg (Austria) (© Bridgeman/ Archivi Alinari)
Foto Archivi Alinari
“Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi. Dissero all’ulivo: Regna su di noi. Rispose loro l’ulivo: Rinuncerò al mio olio, grazie al quale si onorano dei e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi? Dissero gli alberi al fico: Vieni tu, regna su di noi. Rispose loro il fico: rinuncerò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito, e andrò ad agitarmi sugli alberi? Dissero gli alberi alla vite: Vieni tu, regna su di noi. Rispose loro la vite: Rinuncerò al mio mosto che allieta dei e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi? Dissero tutti gli alberi al rovo: Vieni tu, regna su di noi. Rispose il rovo agli alberi: Se in verità ungete me re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano.” (Gdc 9, 8-15)
L’arca di Noè, scuola inglese del XX secolo (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari) Foto Archivi Alinari
Continuando una rapida rassegna tenendo presente l’albero, il suo legno e i suoi frutti, non si può non essere colpiti dal costante riferimento o direttamente al Dio dell’Alleanza o alle sue indicazioni etiche o al valore simbolico presente nei Profeti. La coltivazione dell’ulivo e la raccolta delle olive viene prescritta dal Signore con l’indicazione, durante la bacchiatura, di non tornare indietro per lasciare qualcosa al forestiero, all’orfano e alla vedova. Anche Isaia allude alla raccolta delle olive nel contesto di un oracolo contro Damasco e Israele. Come avveniva la raccolta e come si otteneva l’olio? Con delle pertiche si facevano cadere le olive (bacchiatura) e poi le si riduceva in polpa. Quando la polpa era deposta in cesti di vimini, ne colava l’olio di qualità superiore e più leggero, che costituisce quell’olio di olive schiacciate e vergine, di cui parla spesso la Bibbia, da riservare alla lampada del Tempio e ai sacer-
Lo specchio dell’umana salvezza, scuola francese, XV secolo, Museo Condé, Chantilly (© RMN/René-Gabriel Ojéda/distr. Alinari)
111
storia e arte doti. Dopo che era estratto l’olio più leggero, si otteneva un olio di qualità inferiore esercitando un’ulteriore pressione sulla polpa e infine riscaldandola. La presenza di ulivi e olio è segno della fertilità del paese in cui Dio sta per introdurre Israele e della benevolenza di JHWH nei confronti del popolo eletto, perciò il popolo non deve dimenticare i benefici ricevuti. L’albero dell’ulivo diventa simbolo del popolo di Israele e il profeta Geremia riferisce il rimprovero di Dio che aveva piantato Israele come un ulivo, ma a causa dell’infedeltà tutti i suoi rami sono bruciati, perché hanno offerto incenso a Baal. Infatti, per il profeta Gioele, se la mancanza del “succo dell’ulivo” è un segno di desolazione del popolo, anche Abacuc e Aggeo usano lo stesso “segno” per rimproverare il popolo infedele che si è allontanato dal Signore. Ma è lo stesso Gioele a mantenere viva la speranza con la promessa di vino e olio. Nella costruzione del maestoso Tempio di Gerusalemme, il re Salomone “nella cella fece due cherubini di legno di ulivo, alti dieci cubiti” come ornamento (1Re 6,23). Il profeta Zaccaria vede “un candelabro tutto d’oro; in cima ha un recipiente con sette lucerne e sette beccucci per le lucerne. Due ulivi gli stanno vicino, uno a destra e uno a sinistra”. E ne chiede spiegazione. “Le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che scrutano tutta la terra. Quindi gli domandai: ‘Che significano quei due ulivi a destra e a sinistra del candelabro? E quelle due ciocche d’ulivo che stillano oro dentro i due canaletti d’oro?’. Mi rispose: ‘Non comprendi dunque il significato di queste cose?’. E io: ‘No, signor mio’. ‘Questi, soggiunse, sono i due consacrati che assistono il dominatore di tutta la terra’” (Zac 4,3-11). Dalla risposta siamo in grado di comprendere diversi significati: cultuale (olio che alimenta il grande candelabro del Tempio), di rivelazione e anche di elezione e consacrazione. L’ulivo diventa segno di fedeltà, di benedizione da parte di Dio, di abbondanza e di benessere. L’uomo fedele è come ulivo verdeggiante (Ps 52,10; Sir 50,10; Ger 11,16) o come un ulivo maestoso in pianura (Sir 24,14), avrà la bellezza dell’ulivo (Os 14,10) e i suoi figli virgulti d’ulivo intorno alla sua mensa (Ps 128,3). La stessa sapienza divina che rivela nella legge la via della giustizia, della felicità, è paragonata all’ulivo: la sapienza loda se stessa (…) sono cresciuta (…) come un ulivo nella pianura (Sir 24,4). Passando al Nuovo Testamento, va ricordato il Monte degli Ulivi, dove Gesù si recava spesso, a volte anche per pernottare mentre, contrariamente a quanto si pensa, per l’ingresso trionfale e messianico di Gesù in Gerusalemme, i vangeli non parlano di rami di ulivo ma di rami di alberi e di palme, segno di festa, di gioia prima della passione (Mt 21,1-11; Gv 12,12-13). E, infine, l’apostolo Paolo presenta un efficace simbolismo per l’albero d’ulivo e i suoi rami come immagine e metafora della continuità e della novità, in cui è personalmente coinvolto, tra il popolo dell’Alleanza e i credenti in Gesù Cristo. Nella Lettera ai Roma-
Ulivo e olio come segno di fertilità e di benevolenza
• “Quando il Signore tuo Dio ti avrà fatto
entrare nel paese che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti; (…) alle vigne e agli uliveti che tu non hai piantati, quando avrai mangiato e ti sarai saziato, guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile. Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome.” (Deut 6,10-13)
Foto Archivi Alinari
L’agonia nell’orto degli olivi, Sandro Botticelli, Cappella Reale di Granada (© Bridgeman/Archivi Alinari)
112
olio nella religione ni, partendo dall’immagine del profeta Geremia che vede Israele come un ulivo, conferma che questo popolo è come una radice fedele a Dio. E spiega come, nonostante alcuni rami siano stati tagliati, Israele resta sempre il popolo di Dio come radice, popolo che Dio ha la potenza di innestare nuovamente. Oleastro, sono i cristiani provenienti dai popoli pagani (Gentili), il nuovo pollone innestato nell’albero dell’ulivo al posto dei rami tagliati (i Giudei che non hanno riconosciuto e accolto la giustizia di Dio in Cristo). Anche se non approfondito quanto meriterebbe, questo testo è importante per comprendere quanto e come anche nel Cristianesimo sia entrato il simbolismo dell’ulivo e con quale profondità l’Apostolo lo spiega. Per quanto concerne il Giudaismo tutti i testi del Pentateuco, dei Profeti, dei Salmi fanno parte del patrimonio spirituale e religioso degli Ebrei che continuano a leggere la Toràh, considerata la parte più sacra della Bibbia, compagna di vita e di fede, fonte cui attingere, per ogni circostanza dell’esistenza, una legge immutabile e veritiera. Sono testi condivisi dal Giudaismo, ripresi e commentati nella letteratura midrashica e si ritrovano, per esempio, ancora nella preghiera quotidiana dello Shemà. In sintesi: l’albero dell’ulivo mentre indica la benedizione del Signore, il benessere e la pace, diventa anche simbolo dell’uomo e/o del popolo che, nella fedeltà, sono pieni di frutti, verdeggianti, magnifici. L’infedeltà all’Alleanza si manifesta chiaramente anche quando il popolo diventa arido come un ulivo senza olive e senza foglie. Un albero che, per la sua storia, per il tipo di coltivazione e il suo valore, assume in sé anche l’importante ruolo di “simbolo della continuità” nella rivelazione ebraico-cristiana.
Foto Archivi Alinari
Ingresso a Gerusalemme, Giotto, affresco appartenente al ciclo pittorico della Cappella degli Scrovegni, Padova. Al centro, Cristo su un asinello procede verso la città, seguito dagli Apostoli. A destra alcuni uomini festeggiano l’arrivo del Salvatore salutandolo con ramoscelli di ulivo (© Archivi Alinari, Firenze) Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
La Madonna dell’olivo (particolare), Nicolò Barabino, cattedrale di Sanpierdarena, presso Genova, 1920-1930 circa (© Archivi Alinari, Firenze)
Gesù nell’orto degli olivi, particolare della predella della pala di San Zeno, Andrea Mantegna, Museo di Belle Arti, Tours (© Bridgeman/Archivi Alinari)
113
storia e arte Olio e Unzione: dalla terra al cielo Passando dall’albero ai suoi frutti e, in particolare, all’olio, i testi biblici fanno spesso riferimento a questo prodotto di grande utilità pratica, ma non si trascura il particolare che in esso si riflette anche la generosità di Dio, segno dell’amore di JHWH. Se i testi antichi attestano una ricchezza di significati, l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islamismo hanno conservato sia il significato concreto sia il valore simbolico-spirituale dell’olio e di altri termini a esso collegati. Con la precisazione che nella religione cristiana (sia orientale sia occidentale latina) si è sviluppato un ulteriore approfondimento, per l’importanza che l’olio benedetto e le unzioni hanno assunto nella vita di fede per la celebrazione dei sacramenti, come vedremo in seguito. Grande è l’utilità dell’olio per la vita e la cultura del popolo d’Israele, come per altri popoli e culture nel cui territorio, grazie alle favorevoli condizioni climatiche, l’ulivo ha avuto grande sviluppo. Prima di accennare all’uso e ai significati più religiosi, passiamo in rapida rassegna le citazioni bibliche concernenti l’utilizzazione dell’olio nella vita quotidiana. Ci limitiamo ad alcune note essenziali. L’olio: – è prodotto della terra, della natura: Deut 6,11; 8,8; Os 2,24; – è prodotto alimentare, che nutre: Deut 12,17; 1Re 17,7-16 (12); Ez 16,13; – è combustibile: Es 27,20; Lev 24,2; Num 4,16; Mt 25,3; – è bene commerciale: Os 12,1; Ez 27,17; Lc 16,6; Ap 18,13; – è medicamento nelle più svariate infermità: Mc 6,13; Lc 10,34; – ha proprietà terapeutiche e rilassanti, era usato dagli atleti per i massaggi muscolari; – è usato direttamente come unguento o, miscelato ad altre essenze, diventa un cosmetico, costituisce parte integrante nel campo dei profumi; – ha un uso sacrale (unzioni di consacrazione) e questo amplierà il suo valore simbolico. Nel rapporto tra Dio e Israele, l’olio, il frumento e il vino sono considerati alimenti essenziali con cui JHWH sazia il suo popolo fedele nella terra ricca di ulivi dove Dio lo ha introdotto gratuitamente. Come l’albero rigoglioso e pieno di foglie e di frutti, così l’olio, con altri prodotti della terra, è indice di benessere, di ricchezza e segno di speciale benedizione divina e diventerà simbolo della felicità futura. Ma nonostante la magnanimità di JHWH, “che fece succhiare [al suo popolo] miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia” (Dt 32,13-15), c’è sempre il rischio che il bene non venga riconosciuto e l’uomo volti le spalle al Signore. Eppure molto incisive sono le espressioni che collegano la prosperità all’olio. Mosè benedice la tribù di Aser (che abita le fertili regioni di Haifa e del Carmelo) dicendo: “tuffi il suo piede nell’olio” (Dt 33,24), mentre Giobbe ricorda il tempo del suo benessere: “Mi lavavo i piedi nel latte e la roccia mi versava ruscelli di olio!” (29,6). Davanti a tanta insistenza è chiaro che la mancanza di olio è letta come un castigo per
Olio come cibo nutriente
• Diversi testi parlano dell’olio come
cibo nutriente, specie quando entra nella composizione del pane. Fra le offerte che Aronne deve presentare al Signore durante la cerimonia della consacrazione della funzione sacerdotale c’è anche una focaccia all’olio (Es 29,23): “Così fosti adorna d’oro e d’argento; le tue vesti erano di bisso, di seta e ricami; fior di farina e miele e olio furono il tuo cibo; diventasti sempre più bella e giungesti fino a esser regina” (Ez 16,13)
Foto Archivi Alinari
Le viatique (il viatico), scuola italiana, XV secolo, Bayonne, Museo Bonnat (© RMN/René-Gabriel Ojéda/distr. Alinari)
114
olio nella religione l’infedeltà. Perché non bisogna servirsi dell’olio per rendere culto ai Baal, come se da essi venisse la fecondità della terra, né per procurarsi l’alleanza degli imperi pagani, come se la salvezza del popolo di Dio non dipendesse solo dalla fedeltà all’alleanza. Tuttavia per essere fedeli all’Alleanza non basta riservare ai sacerdoti l’olio migliore, né mescolare l’olio alle oblazioni secondo quanto prescritto nel rituale: “colui che presenterà l’offerta al Signore offrirà in oblazione un decimo di efa di fior di farina intrisa in un quarto di hin di olio” (Num 15,4). Tali osservanze sono gradite a Dio solo se si cammina con lui nella via della giustizia e dell’amore. Ciò che emerge come nota interessante per la nostra ricerca è la constatazione che anche in queste indicazioni, che potremmo definire “naturali e dedotte dalla semplice esperienza”, è sempre presente un riferimento a Dio o una lettura in chiave religiosa. Prima di passare ad approfondire il tema delle unzioni, due brevi riferimenti al rapporto tra olio e illuminazione. In Israele si celebra ancora, nel mese di dicembre (Kislew), la festa della Channukkah (o della Dedicazione), in ricordo della vittoria di Giuda Maccabeo contro Antioco Epifane e la dedicazione del Tempio con il ripristino del culto ebraico. È detta anche “festa delle luci” perché rievoca il miracolo dell’ampolla d’olio che bastò a tenere acceso per otto giorni il candelabro del Tempio. Anche nel Corano, nella sura intitolata La Luce, il Profeta, nel descrivere Dio, luce che illumina ogni uomo e indica la strada, fa riferimento all’olio e alla lampada:
Foto Archivi Alinari
La Maddalena, dipinto del Bacchiacca, Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze. La Maddalena è ritratta a mezzobusto in abiti di foggia rinascimentale, con l’aureola e il vasetto degli unguenti (© Archivi Alinari, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
“Dio è luce dei cieli e della terra, e somiglia la sua luce a una nicchia, in cui è una lampada, e la lampada è un cristallo e il cristallo è come una stella lucente, e arde la lampada dell’olio di un albero benedetto, Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Miniatura raffigurante Gesù al quale viene chiesto se non sia meglio vendere l’unguento per ricavarne soldi per i poveri, Codice De Predis (c.97v), Biblioteca Reale di Torino (© Archivi Alinari, Firenze)
Estrema unzione, Nicolas Poussin, Belvoir Castle, Leicestershire (© Bridgeman/Archivi Alinari)
115
storia e arte un ulivo né orientale né occidentale, in cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco. E luce su luce; e Iddio guida alla sua luce chi egli vuole, e Dio narra parabole agli uomini, e Dio è su tutte le cose sapienti.” (Sura 24,35)
Foto Archivi Alinari
Come elemento combustibile e illuminante, l’olio si presta alla rivelazione coranica e ci offre un’ulteriore metafora per conoscere l’Inconoscibile! Olio (profumato) e unzioni Per i popoli antichi in genere, l’olio ha la peculiare caratteristica non solo di scivolare sugli oggetti e sul corpo umano per profumarlo o tonificare la muscolatura, ma anche di penetrare in profondità, trasmettendo così agli oggetti come al corpo delle note distintive. Ecco perché le unzioni hanno acquisito, sin dall’antichità, un particolare significato “metaforico” e “simbolico”. La traduzione in greco dell’Antico Testamento (detta dei LXX) ha usato il verbo áλεíφειν (ungere) per tradurre tre termini ebraici sûk (ungere, Rut 3,3), ţûăh (spalmare, Ez 13,10ss) e māšah (versare olio, Gen 31,13). Nel Nuovo Testamento si continua a usare áλεíφειν quando si tratta di unzione materiale, mentre si assume χρíειν per il senso traslato di unzione a opera di Dio. Nella tradizione ebraicocristiana, in linea di continuità dall’Antico al Nuovo Testamento, alla tradizione giudaica, nei testi biblici come in quelli rabbinici e in qualche passo del Corano, è riscontrabile l’importanza dell’unzione con olio (profumato o meno). Ci soffermiamo su tre aspetti: l’unzione in genere, l’unzione medicinale, l’unzione di consacrazione.
Unguentario a forma di sandalo e vaso a figure rosse, Museo Archeologico di Aidone (EN) (© Archivio Seat/Archivi Alinari)
Foto Archivi Alinari
Unzione in genere. Se l’olio già indica gioia, abbondanza, benedizione divina, forza ecc., l’unzione con olio esprime la gioiosa letizia della persona che si ungeva specialmente nelle festività e diventava segno di omaggio per l’ospite. Al contrario doversi privare dell’unzione è segno esteriore del digiuno e anche di lutto. Ma la privazione è considerata anche una sventura, una maledizione divina per l’infedeltà all’Alleanza, una punizione contro i malfattori. Il divieto di ungersi durante il digiuno era in vigore al tempo di Gesù e prescritto nella tradizione rabbinica. Si comprende così il senso dell’indicazione data da Gesù per superare l’osservanza puramente esteriore e farisaica della Legge: “Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,17-18). Nell’Islam il digiuno è una delle pratiche più importanti per la vita spirituale e molte sono le prescrizioni che caratterizzano il mese del Ramadan, ma nulla è detto a proposito delle unzioni. L’unzione, come segno di gioia, va oltre la persona singola ed esprime la gioia di tutto il popolo d’Israele riunito a Gerusalemme
Elia unge Lehu re d’Israele, particolare degli intarsi marmorei del pavimento del Duomo di Siena (© Archivi Alinari, Firenze)
116
olio nella religione per le grandi feste durante le quali l’offerta di fior di farina intrisa in olio e l’unzione fanno parte delle prescrizioni. Il profeta non è solo annunziatore di sventura o rimprovero da parte di Dio, ha il mandato di consolare annunziando “olio di letizia invece dell’abito di lutto” (Is 61,3) al popolo dopo l’esilio. D’altra parte non è forse JHWH a ungere il capo del fedele in segno di abbondanti favori divini, come ricorda il famoso salmo del buon pastore: “davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca.” (Sal 23,5)? Una mensa di grasse vivande fa parte del banchetto messianico preparato dal Signore per l’afflusso dei popoli in Gerusalemme (Is 25,6-11). Secondo le usanze popolari, l’unzione è segno di onore riservato all’ospite, lo si comprende dal dialogo tra Gesù e il fariseo Simone che lo aveva invitato (Lc 7,36-50). Anche Matteo e Marco narrano il gesto di una donna rimasta anonima, compiuto nella casa di Simone il lebbroso, a Betania, solo pochi giorni prima della passione, e spiegata da Gesù in rapporto alla sua sepoltura e anticipazione della risurrezione.
Versetti del libro del Levitico (14,15-32)
• “Poi, preso l’olio dal log, lo verserà
sulla palma della sua mano sinistra; intingerà il dito della destra nell’olio che ha nella sinistra; con il dito spruzzerà sette volte quell’olio davanti al Signore. E del rimanente olio che tiene nella palma della mano, il sacerdote bagnerà il lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica, il pollice della destra e l’alluce del piede destro, sopra il sangue del sacrificio di riparazione. Il resto dell’olio che ha nella palma, il sacerdote lo verserà sul capo di colui che si purifica; così farà per lui il rito espiatorio davanti al Signore”
Unzione medicinale. Nell’antico Israele (ma anche nell’Ellenismo) l’olio era comunemente usato come medicina per lenire e curare svariate malattie. Chi non ricorda la parabola del “buon samaritano”, unico dei tre viandanti che, passando accanto al malcapitato, “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino” (Lc 10,34)? Ma già nel libro del Levitico leggiamo la descrizione analitica della purificazione di un lebbroso guarito, eseguita dal sacerdote fuori dell’accampamento e con una serie di unzioni con olio su diverse parti del corpo del lebbroso (Lev 14,15-32). Anche Isaia fa riferimento a questa pratica per curare le ferite e
Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Estrema unzione, formella di Alberto Arnoldi, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze (© Archivi Alinari, Firenze, per concessione dell’Opera di Santa Maria del Fiore)
Miniatura raffigurante Gesù che viene unto da una donna con un unguento prezioso mentre è a cena in una casa in Betania, Codice De Predis (c.97r), Biblioteca Reale di Torino (© Archivi Alinari, Firenze)
117
storia e arte le piaghe per richiamare il popolo alla fedeltà. “Si può frizionare un infermo di sabato con una miscela di olio e di vino”, si legge in testi rabbinici. L’unzione con olio è attestata anche come rimedio magico-medico-esorcistico. Nel Cristianesimo una traccia di questo è passata nell’unzione prima del battesimo. Quando Gesù manda i discepoli a predicare il Regno di Dio, affida loro il potere di scacciare i demoni e di guarire ogni malattia e infermità e, partiti in missione, essi facevano unzioni con olio sugli infermi e li guarivano miracolosamente (Mt 10,1). A partire da queste premesse si è sviluppata la prassi raccomandata nella Lettera dell’apostolo Giacomo, che precisa come tutto deve avvenire nella fede, con la preghiera della fede e che la salvezza-salute viene dal Signore, escludendo così ogni azione magica dell’olio. In questo testo la Chiesa cattolica ha visto il fondamento del sacramento dell’unzione degli infermi collegandolo con la remissione dei peccati.
Foto Archivi Alinari
Unzione di consacrazione. L’unzione con olio, sin dall’antico testamento, ha anche il significato di “consacrare” oggetti o persone, nel senso che ciò che viene unto assume speciale rilevanza, nel senso che “viene messo a parte” per uso o finalità che riguarda il culto o il rapporto con Dio. Qualche riferimento significativo. Per gli oggetti riservati al culto, il primo esempio è nella Genesi (28,18): Giacobbe versa dell’olio sulla pietra su cui aveva poggiato il capo durante la notte, perché diventi stele. Una pratica che doveva essere già in uso presso i Cananei. Tra gli oggetti consacrati, vi è soprattutto l’altare, per il quale vi sono precise indicazioni nei testi vetero-testamentari. Diverse sono le persone “consacrate”, cioè “messe a parte per un ruolo o compito specifico”: pensiamo al Re, al Profeta, al Sacer-
Serva egiziana con giara di unguento, Nuovo Regno (bosso, avorio e oro), Dinastia egizia del XVIII secolo (1567-1320 a.C. circa), Oriental Museum, Durham University, Stati Uniti (© The Bridgeman Art Library/ Archivi Alinari)
Foto Archivi Alinari Foto Archivi Alinari
Miniatura raffigurante le tre Marie che, recatesi al sepolcro di Gesù per portare un unguento, lo scoprono aperto, Codice De Predis (c.126v), Biblioteca Reale di Torino (© Archivi Alinari, Firenze)
Indra, il re degli dei, durante una cerimonia di unzione, acquerello di scuola indiana, Biblioteca Nazionale, Parigi (© Bridgeman/Archivi Alinari)
118
olio nella religione dote, ma anche a Cristo (che significa unto) e allo stesso cristiano. L’unzione regale occupa un posto preminente tra i riti di consacrazione, che ci riportano tra il 1030 e il 580 a.C. Tutti i re ricevono l’unzione dai profeti o dai sacerdoti. Samuele, che aveva unto (consacrato) re Saul, è mandato a consacrare re il giovane Davide: la scena è descritta con abbondanza di particolari (1Sam 16,1-13). Così sono unti anche Salomone, Jehu e i re di Giuda nel tempio di Gerusalemme, con un rito che stava a significare l’elezione da parte di JHWH, in quanto suoi servi nel governo del popolo. Se anche Ciro, per quanto re pagano, è detto unto del Signore (Is 45,1ss), vuol significare che il re Babilonese è strumento per far tornare il popolo eletto in Israele. Infine, l’unzione regale assume la sua importanza nell’applicazione al re-messia ed è poi riferita a Gesù Cristo una volta innalzato alla destra del Padre e dopo aver ricevuto da Lui l’unzione con olio di letizia (Sal 45,7). I sacerdoti, e specialmente il Sommo Sacerdote, sono unti per ordine di Dio; Mosè conferisce l’unzione al fratello Aronne. Anche per i profeti si parla di unzione, ma non si riscontra alcuna esemplificazione concreta. Gesù Cristo è l’Unto per eccellenza: lo stesso nome “Cristo”, derivato da “crisma” (= olio profumato per consacrare), indica la missione che egli viene a realizzare in pienezza, quando nella sinagoga di Nazareth, dopo aver letto il rotolo del profeta Isaia, aggiunge: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi” (Lc 4,16-20). In altri testi del Nuovo Testamento di Cristo è detto che ha una “unzione regale” (Eb 1,9) ed è “unto con Spirito Santo e potenza” (At 10,38). Per completare il quadro dei testi biblici, l’unzione diventa simbolo importante per indicare il dono e l’azione dello Spirito nei cristiani. L’apostolo Paolo scrive: “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori” (2Cor 1,21-22). Giovanni mette in riferimento l’unzione con la presenza dello Spirito Santo e la conoscenza della verità, come aveva già affermato nel suo vangelo (1Gv 2,20-27).
Foto Archivi Alinari
Pala d’altare dei Domenicani: Noli me tangere, scuola di Martin Schongauer, 1470-80 circa (olio su tavola), Museo d’Unterlinden, Colmar (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari) Foto Archivi Alinari
Olio nella nostra cultura e pratica religiosa Anche se con il passare del tempo l’olio è stato sostituito da altri elementi che assolvono allo stesso compito (pensiamo alla cera e alle diverse modalità per fare luce o esprimere la fede; a farmaci, pomate e unguenti vari usati per medicare, lenire le ferite, profumare e massaggiare il corpo), non per questo l’olio ha perso il suo significato e la sua importanza nella vita religiosa. Tutt’altro. Capita ancora di trovare in alcune chiese la “lampada a olio” accesa accanto al tabernacolo per indicare la presenza del Santissimo Sacramento. Nelle famiglie che conservano tradizioni devote, si conserva l’usanza di preparare lampade a olio artigianali che restano accese in casa in occasioni particolari come feste dei santi, settimana dei defunti, in caso di temporali. Anche la semplice un-
Estrema unzione, Pietro Longhi, 1755 circa, Fondazione Querini Stampalia, Venezia (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari)
119
storia e arte zione con olio benedetto è ancora attuata in alcuni Santuari dove la devozione alla Madonna o ai Santi è collegata a questo segno. Il rituale delle benedizioni riguardanti la devozione popolare prevede ancora la benedizione dell’olio. Nella religione ebraica l’olio è ancora presente in quelle occasioni per le quali i testi rabbinici riportano precise indicazioni. Nel Cristianesimo l’olio ha conservato e acquisito un valore importante, dal punto di vista simbolico, tanto che ogni anno è prevista una “messa crismale”, durante la quale vengono benedetti gli oli che dovranno essere usati nel corso dell’anno per la celebrazione di alcuni sacramenti o riti particolari. Questi oli assumono nomi diversi secondo l’uso liturgico e il significato del sacramento per il quale vengono impiegati, ma sempre in riferimento alle indicazioni bibliche già citate. – Olio dei catecumeni: nel rito del battesimo, prima di versare l’acqua sul catecumeno, è prevista l’unzione affinché il neofita cresca libero dalla schiavitù della colpa originale e non si lasci dominare dal male e dal peccato. – Olio degli infermi: il settimo sacramento, per il quale è prescritta l’unzione con olio benedetto, è fondato sul testo della lettera di Giacomo (5,13-16) ed è una prassi già nota nella Chiesa dei primi tempi. – Sacro crisma (olio di olive misto a balsamo): è il segno della consacrazione. A questa unzione è connessa una particolare dignità della persona o dell’oggetto unto. Nel battesimo: viene segnata la fronte del neofita a significare il dono dello Spirito a colui che è incorporato a Cristo nella Chiesa. Nella cresima o confermazione: l’unzione fatta sulla fronte indica il sigillo (sfraghìs) di conferma e di impegno a testimoniare. Nel sacramento dell’Ordine, mentre per l’ordinazione del diacono non è prevista alcuna unzione, dopo la preghiera di ordinazione del novello sacerdote, il vescovo gli unge le palme delle mani con il crisma. Nell’ordinazione del vescovo, il
Benedizione degli oli santi e del sacro crisma
• La benedizione degli oli santi
e del sacro crisma si è sviluppata in ambiente romano. Mentre sino al VII secolo avveniva durante la quaresima, in seguito fu fissata al giovedì santo per una ragione pratica: poter disporre degli oli santi, soprattutto dell’olio dei catecumeni e del crisma, per la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana durante la veglia pasquale (A. Bergamini). Il nuovo Rituale per la Benedizione degli oli e dedicazione della Chiesa e dell’Altare, diventato obbligatorio il 16 aprile 1981, conferma che la materia adatta al sacramento è l’olio d’oliva (solo in casi particolari oli vegetali) Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
L’estrema unzione, Jouvenet Jean Baptiste, Palazzo delle Belle Arti, Lille (© RMN/Daniel Arnaudet/distr. Alinari)
L’unzione di Salomone, Vos de Cornelis, XVII secolo, Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Gérard Blot/distr. Alinari)
120
olio nella religione crisma viene versato sulla testa. Consacrazione dell’altare e dedicazione di una chiesa nuova: è l’ultimo uso liturgico del crisma. Per poter celebrare stabilmente la messa su un altare fisso, costruito in una chiesa nuova (o anche ricostruito per qualche ragione), la liturgia prevede un apposito rito di consacrazione, durante il quale prima viene unta con crisma tutta la parte superiore della “mensa eucaristica”, poi, se questo avviene in una chiesa di recente costruzione, devono essere unte con il crisma anche le quattro o dodici croci fissate lungo le pareti interne dell’edificio di culto. Per concludere, l’attenzione posta alle realtà naturali con le quali l’uomo convive quotidianamente e si relaziona in molti modi offre la possibilità di ripercorrere un itinerario interessante lungo il quale si snoda la vita dell’uomo. Credo che, nel nostro mondo occidentale e radicato nella cultura ebraico-cristiana, l’olio sia una di queste realtà: dalla terra e dal lavoro umano, dal cibo al profumo, dalla nascita alla morte, passando per i tempi e i momenti più intensi delle stagioni, l’albero che sembra aver difficoltà a svilupparsi in una linea possente come la quercia o slanciata come un cipresso, contorto nel suo tronco e nei suoi rami, allarga la sua
Foto Archivi Alinari
Vasetti con unguenti a forma umana e animale (© Giuliano Valsecchi/Archivi Alinari, Firenze)
Foto Archivi Alinari
Foto Archivi Alinari
Scene della Vita di San Girolamo, di ignoto maestro ferrarese, Pinacoteca di Brera, Milano. Il Santo morente riceve l’estrema unzione. A destra, in posizione arretrata, il giovane San Girolamo, nel suo studio, è intento alla lettura dei Testi Sacri. Sopra, il Santo appare inginocchiato al cospetto di Cristo giudice, attorniato da angeli (© Archivi Alinari, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
L’unzione di Betania, Dirck de Barendsz, XVI secolo, Museo del Louvre, Parigi (© RMN/Gérard Blot/distr. Alinari)
121