La Patata - Storia e Arte

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La patata botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato


la patata Foto R. Angelini

storia e arte Origine e introduzione della patata in Europa Giovanni Ballarini

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte Origine e introduzione della patata in Europa 18 17

16 VENEZUELA

1 COLOMBIA 2 3 ECUADOR PERÚ 4

GUYANA SURINAME GUYANA Francese

Primordi La patata, pianta erbacea della famiglia Solanaceae, è originaria dell’America meridionale, più precisamente della regione delle Ande, dove era coltivata nel periodo precolombiano, probabilmente duemila e più anni prima della Conquista (come dimostra l’arte indigena), nonostante che varie specie selvatiche di Solanum da tubero fossero presenti anche in America settentrionale. Si ritiene che l’addomesticamento e la coltivazione della specie siano avvenuti in relazione alle eccezionali condizioni geografiche e climatiche che caratterizzavano la zona andina nella quale si formarono gli insediamenti delle popolazioni migrate dal nord. Sugli altipiani delle Ande, dalla Colombia al Cile, fino ai 4600-4900 m s.l.m., crescono molte specie di Solanum selvatico, e tra queste il Solanum andigenum, con la sua varietà Solanum tuberosum, la nostra patata. Il Solanum andigenum era distribuito sulle Ande, dall’attuale Colombia (distretto di Boyacà) fino al nord dell’odierna Argentina (distretto di Jujuy), a un’altitudine di 2400 m s.l.m. Il Solanum tuberosum era distribuito nell’attuale Cile fino a sud, nell’isola di Chiloé. Come la patata andina (S. andigenum) abbia raggiunto l’area cilena (S. tuberosum) è ancora oggetto di discussione.

BRASILE 5 6

7 8 BOLIVIA 9 1011 12 13 14 PARAGUAY

1 Bogotá 2 Quito 3 Napo 4 Lima 5 Cuzco 6 L. Titicaca CILE URUGUAY 7 La Paz ARGENTINA 8 Cochabamba 9 Oruro 10 L. Poopó 11 Sucre 12 Potosí 15 13 Tarija 14 Jujuy 15 L. di Chiloè Solanum andigenum 16 Cartagena 17 Panama Solanum tuberosum 18 Nombre de Diós

Zone di origine della patata in Sudamerica Raccolta delle patate sull’altopiano di Cuzco, Perú

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introduzione in Europa Caratteristiche botaniche Il Solanum tuberosum è una pianta erbacea alta da 50 cm a 1 m. Essendo provvista di stoloni sotterranei che a fine stagione producono tuberi, può essere considerata specie perenne, ma è coltivata come pianta annua. Ha foglie imparipennate, con 7-13 foglioline ovato-lanceolate, intercalate e a lobi irregolari. I fiori presentano cinque petali bianchi, talora rosei o violacei. Il frutto è una bacca carnosa verde, subsferica, di 2-4 cm. Esistono numerosissime varietà e cultivar, differenziate su base botanica o agronomica. I tuberi sono utilizzati interi per l’alimentazione umana e animale. Dai tuberi si estrae industrialmente la fecola (amido) o si produce alcol, per usi alimentari e industriali. Lunga, complessa e non completamente chiarita è la vicenda dell’introduzione, e soprattutto della diffusione, della patata in Europa, in relazione a condizioni colturali diverse. Una dettagliata analisi è stata condotta da Redcliffe N. Salaman (1985) e da Giorgio Doria (1992), dai quali si ricavano molte delle notizie sotto riportate.

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Prime descrizioni del tubero La prima segnalazione della patata sembra sia stata quella di Antonio Pigafetta nella relazione sul suo viaggio in Brasile del 1519. La patata, conosciuta durante la conquista dell’impero Inca (1531-1534), viene successivamente descritta da Juan de Castellanos (1537) e da Pedro Cieza de León (1538). Dal punto di vista

Patate native delle Ande. Sull’altopiano arido la patata è l’alimento quotidiano

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storia e arte botanico la pianta è trattata da Gerolamo Cardano (1557), John Gerard (1596), Kaspar Bauhin (1598), Olivier de Serres (1600) e Charles de l’Écluse (1601).

Denominazioni europee della patata

Diffusione nel Vecchio mondo Per la diffusione della patata bisogna distinguere l’introduzione negli orti botanici dalla coltivazione negli orti familiari o in campo, fenomeni distinti, ma tra loro intrecciati. Dall’America meridionale la patata arriva in Europa soltanto alcuni decenni dopo la sua scoperta, e con ogni probabilità solo dopo aver raggiunto un porto dell’Atlantico via terra o via fiume. Al riguardo si ipotizza che le patate dei campi della Colombia, attorno a Bogotá, attraverso il fiume Magdalena, giungessero al porto di Cartagena e da qui continuassero il loro viaggio verso l’Europa, dove inizialmente approdarono in Spagna, a Siviglia, tra il 1560 e il 1564, per poi passare nel Portogallo (1575 circa), e quindi a Madrid alla fine del secolo. In Italia, importata dalla Spagna, la patata arriva nel 1564-1565 ed è presente negli orti botanici di Padova e di Verona, rispettivamente nel 1591 e nel 1608. Nel 1565 Filippo II di Spagna invia al papa un certo quantitativo di patate, che vengono scambiate per tartufi e quindi assaggiate crude, con ovvio disgusto. Come pianta agricola la si trova a Bologna (1657) e a Roma (1688). In Francia compare nell’orto botanico di Montpellier nel 1598, e nello stesso tempo come pianta agricola nel Delfinato, in Borgogna e in Alsazia, da dove passa in Svizzera. Coltivata nell’orto botanico di Parigi nel 1601, da qui si estende in Lorena e raggiunge Blois nella Loira (1653).

• La diversità di denominazioni della

patata in Europa deriva anche dalle modalità della sua diffusione, non dimenticando che nell’America precolombiana il tubero era chiamato papa dagli Inca, poñi in lingua araucana e coque in lingua ayamara

• L’italiano patata, come potato, papa

e batata in uso nei Paesi anglosassoni e iberici, deriva dal termine papa degli indigeni americani

• Attraverso l’italiano e l’inglese,

il termine di patata e l’analogo potato si diffusero nel resto dell’Europa, sopravvivendo però solo in alcuni nomi in uso nei dialetti germanici (Patätsche, Pataken). Più fortuna ebbe il nome tartifola, attribuito in Italia al tubero di Solanum tuberosum a partire dal XVI secolo, assimilandolo, per forma e commestibilità, al tartufo. Oggi il termine sopravvive in Italia solo in alcuni dialetti, mentre si è affermato in tutta l’area mitteleuropea e germanica nella variante Kartoffel, termine ritornato in alcuni dialetti del Friuli nella variante latinizzata di cartufole o cartufolaria. Anche le parole in lingua bulgara e in lingua russa derivano dall’italiano tartufoli

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Biodiversità della patata indigena peruana

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introduzione in Europa Nelle isole britanniche la patata arriva dall’America – in particolare dalla Virginia – nel 1586, e dopo due anni è già coltivata in Irlanda. Nel 1596 è presente in un orto botanico di Londra, nel 1648 a Oxford, nel 1662 nel Galles, e soltanto nel 1683 giunge a Edimburgo, con un secolo circa di ritardo rispetto ai Paesi mediterranei. Nell’Europa centrale e orientale la patata compare negli orti botanici di diverse città quasi contemporaneamente: nei Paesi Bassi meridionali, l’attuale Belgio, nel 1586 circa, importata dall’Italia; in Polonia, a Breslavia, nel 1587; a Vienna e a Francoforte sul Meno nel 1588, importata dal Belgio. La patata viene coltivata nella Svizzera meridionale, importata dall’Italia, verso il 1590, e arriva a Basilea circa nel 1595. Successivamente si diffonde in Olanda (Nieuwpoort, 1629), Westfalia (1640), Berlino (1651), Boemia (1651), Ungheria (1654), Sassonia (1717), Pietroburgo (1736) e Prussia (1738). Nella seconda metà del Settecento la sua coltivazione si diffonde nelle pianure delle attuali Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Nella penisola scandinava la patata compare nell’orto botanico di Uppsala nel 1658. Verso il 1720 in Svezia sono coltivate patate provenienti dalla Danimarca e dalla Germania, e nel 1758, in Norvegia, patate originarie dell’Inghilterra e della Scozia. In Europa la diffusione della coltivazione per scopi alimentari è lenta, condizionata dalla diffidenza nei confronti di ciò che “cresce sottoterra”; si arriva perfino ad affermare che il suo consumo diffonde la lebbra, e ad asserire, nell’Encyclopédie del 1765, che si tratta di “cibo flatulento”. Avvengono, inoltre, casi di intossicazione causati dall’esposizione prolungata dei tuberi alla luce,

Patata in altri idiomi

• In altri idiomi è comune anche la

voce “mela di terra”: pomme de terre in francese, aardappel in olandese, ‫ המדא חופת‬in ebraico (spesso scritto solamente ‫ )חופת‬e Erdaepfel in tedesco austriaco. Il termine è probabilmente di origine colta ed è da accostare all’analogo tedesco Grundbirne (“pera di terra”), da cui derivano i termini krompir del croato, bramburi del ceco, peruna del finlandese e jordpäron dello svedese. In polacco la patata è chiamata ziemniaki, e in slovacco zemiak, dalla parola che significa “terra”. In diverse lingue indiane settentrionali e nepali è chiamata alu, e in indonesiano kentang

• Differenti nomi per la patata si

sviluppano in varie regioni della Cina; i più frequentemente usati nella lingua cinese standard significano “tubero per cavalli”, “fagiolo di terra” e “taro straniera”

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storia e arte circostanza che, come è noto, provoca lo sviluppo di sostanze tossiche in questi organi. Tali circostanze, enfatizzate nei racconti popolari, hanno un effetto dissuasivo sul consumo; la decisione, poi, di costringere i galeotti e i soldati ad alimentarsi di patate, perché a disposizione a buon prezzo, non fu un buon viatico a considerare le patate un cibo di qualità.

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Dal Vecchio mondo al resto del pianeta Dall’Europa la patata si diffonde in tutto il mondo. Senza dilungarci in un quadro dettagliato di questo processo, ne forniamo i dati cronologici essenziali. In Africa la patata viene introdotta per la prima volta nella Guinea meridionale nel 1776. In Asia gli olandesi la portano a Giava e in Giappone nella seconda metà del Seicento. Gli inglesi esportano la patata in India (17721785), dove è largamente diffusa nel 1822, e da qui si espande in Tibet (1800), nell’Assam (1830) e in Persia (1844). Nell’America settentrionale le patate sono introdotte anche dall’Europa: l’Inghilterra le porta nelle isole Bermuda (1613) e nella Virginia (1621), mentre dall’Irlanda arrivano nel New Hampshire (1719). Patata attaccata da peronospora sugli altopiani del Kenya

Diffusione e coltivazione in Italia La storia della patata in Italia, analogamente a quanto è avvenuto nel resto dell’Europa, si svolge sul duplice piano degli orti botanici

Mercato di Isiolo, Kenya

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introduzione in Europa da una parte, e delle coltivazioni negli orti domestici e nei campi dall’altra. Due piani con impostazioni culturali ben diverse. Negli orti botanici le piante, e tra queste la patata, sono accolte e considerate soprattutto per le loro proprietà, in una concezione scientifica che non trascura gli aspetti medici. Dal Nuovo mondo si spera, infatti, di ricevere nuovi farmaci, come è accaduto con la scoperta delle potenti attività della corteccia di china sulle febbri malariche, o delle facoltà psicostimolanti del tabacco. La coltivazione della patata negli orti delle ville di campagna avviene da parte di un ceto urbano intellettuale, soprattutto dalla fine del Settecento, nel quadro di una concezione illuministica che supera anche ostacoli psicologici come il considerare la patata un cibo insicuro, se non addirittura tossico e malsano. Importante per la diffusione della patata è anche l’opera dei carmelitani scalzi e dei certosini, che la impiegarono come alimento negli ospizi e negli ospedali. In tutta Europa, però, per quasi due secoli, venne considerata per lo più una curiosità botanica o una pianta d’appartamento.

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Patata: dall’orto domestico al campo e alla tavola Come si è detto, in Italia la patata arriva dalla Spagna nel 15641565; nel 1591 è coltivata nell’orto botanico di Padova e nel 1608 in quello di Verona. Alla fine del Settecento tutte le accademie agrarie del Veneto ne raccomandano la coltivazione, che avviene

Patate nel Fucino

Coltivazioni di patata a Margherita di Savoia (FG)

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storia e arte soltanto in via sperimentale in alcuni comuni montani del Bellunese e dell’alto Friuli. Pur essendo introdotta nel vitto delle guarnigioni austriache, la patata fino al 1830-1840 è usata quasi esclusivamente come alimento per gli animali. Nel Seicento le patate sono ancora una curiosità botanica, e il granduca Ferdinando II de’ Medici, avendo ricevuto i tuberi dalla Spagna nel 1667, li fa piantare a Firenze nel giardino di Boboli e nell’orto dei Semplici. Nel 1657 la patata è presente nel territorio di Bologna, nei campi dell’università, dove viene coltivata grazie alle condizioni pedoclimatiche particolarmente favorevoli. Nella montagna parmense, a Borgo Val di Taro, la coltura è introdotta all’inizio dell’Ottocento da un governatore ducale d’origine irlandese, e più o meno contemporaneamente nel confinante territorio ligure di Chiavari e del Genovesato, dove la diffusione si avvale anche dell’opera dei frati. A Torino le patate comparvero per la prima volta sul mercato ortofrutticolo nel 1803, e inizialmente furono distribuite gratuitamente per invogliare la popolazione a consumarle. Più in generale, in Italia la coltivazione della patata in misura significativa iniziò a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, chi dice per merito del friulano Antonio Zanon, che nel 1783 (cinque anni prima del Parmentier), nel suo trattato Dell’agricoltura, delle arti e del commercio, raccomandava la coltivazione delle patate per prevenire le carestie, chi invece per merito dell’avvocato piemontese Vincenzo Virginio, in un’epoca in cui ancora la nuova coltura stentava a prendere piede nella nostra penisola. Ma se il Virginio fu colui che più prese a cuore il problema, tanto da essere chiamato, non senza enfasi, il Parmentier italiano, egli non fu il solo e nemmeno il primo in Piemonte a spezzare una lancia a favore della solanacea nelle nostre campagne. Già nel 1774, infatti, il medico piemontese Antonio Campini nei suoi Saggi di agricoltura, apparsi a Torino per i tipi della Stamperia reale, ne parla diffusamente e con una certa competenza. Interessanti per noi sono le notizie che egli fornisce sulla situazione della pataticoltura in Piemonte a quell’epoca: “[....] non essendo comune questa coltura nel nostro Piemonte, anzi forse affatto sconosciuta ai nostri coltivatori, riservandone qualche poco che si coltiva nelle valli di Lanzo e di Pont e qualche pianta negli orti botanici [....]”. Egli riporta esperienze locali di consociazione con il mais, di piantagione dopo la medica, di conservazione in sabbia con copertura di paglia ecc. Raccomanda di raccogliere con tempo asciutto, accorgimento tuttora prezioso, e di preferire terreni leggeri alluvionali; parla, infine, dell’utilizzazione dei tuberi per uso sia zootecnico sia umano, lodandone le virtù e il sapore,

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introduzione in Europa che ricorda quello dei funghi quando vengono arrostiti sulla brace. A tal proposito ricorda un’esperienza personale: “[....] avrei pur anche desiderato di mangiarne acconciate nella stessa maniera che ne mangiai anni or sono la prima volta, senza sapere cosa si fossero, e che né io, né altri saremmo stati paghi di mangiarne, se avessi potuto avere la stessa cuciniera che ci fece cotal burla [....]”. Di fatto solo nella seconda metà dell’Ottocento la patata entrò veramente nella produzione agricola del nostro Paese, divenendo parte dell’alimentazione degli italiani. La presenza delle patate negli orti familiari, principalmente nelle zone di collina e di montagna, e soprattutto il passaggio alla coltivazione in campo sono favoriti dall’inserimento di questo ortaggio nella cucina tradizionale contadina, come dimostra l’utilizzo della patata in qualità di ingrediente principale nella produzione di pane e prodotti da forno similari, delle paste ripiene (tortelli) e non (gnocchi), senza dimenticare l’uso della frittura con olio o con grasso animale, metodo di cottura tipicamente mediterraneo e italiano, non usato nelle regioni d’origine della patata ma particolarmente adatto a metterne in evidenza le caratteristiche gastronomiche. La diffusione della patata in Italia non è stata significativamente incrementata per l’impiego nell’alimentazione degli animali e neppure per produzioni industriali, dall’amido all’alcol, sostenute da altre coltivazioni.

Antoine Augustin Parmentier, “inventore” della patata in tavola

• In Francia fin dalla fine del Cinquecento la patata è presente negli orti del Delfinato e della Borgogna, e nel 1601 viene coltivata a Parigi per scopi scientifici, ma il suo ingresso in cucina è la conseguenza dell’opera illuminata di Antoine Augustin Parmentier, ancora oggi celebrato in cucina con la denominazione in suo onore di diversi piatti e ricette

• Parmentier (1737-1813), agronomo

francese, durante la guerra dei Sette anni (1756-1763) viene fatto prigioniero dai Prussiani, dai quali impara ad apprezzare le patate. Rientrato in patria, nel 1786 ottiene da re Luigi XVI, che usa il fiore di patata come ornamento, il permesso di una coltivazione sperimentale in campo, su di una superficie di circa 20 ha alle porte di Parigi. Nel 1789 scrive un memorabile elogio della patata nel Traité sur la culture et les usages des pommes de terre, de la patate et du topinambour

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• Si narra che per indurre i contadini

a coltivare la patata, e soprattutto a utilizzarla nell’alimentazione, abbia usato lo stratagemma di far sorvegliare i campi in modo molto evidente, spargendo la voce che si trattava di una coltivazione speciale e preziosa destinata alla corte del re, ma lasciando di notte le coltivazioni completamente sguarnite in modo da favorirne il furto da parte dei contadini, che così erano indotti a coltivare e a utilizzare come cibo le patate

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata nel Bolognese Giancarlo Roversi

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storia e arte Patata nel Bolognese Foto V. Bellettato

La prima notizia certa riguardante la presenza della patata a Bologna risale a poco dopo la metà del Seicento, quando il tubero fu piantato nel Giardino dei Semplici, fondato da Ulisse Aldrovandi – allora occupante una parte dell’area compresa entro il vasto recinto murario che racchiude il Palazzo comunale –, a scopo puramente scientifico, per studiarne le reazioni nell’acclimatazione e nell’ambientamento e per esaminarne le qualità. La prima patata petroniana figura fra le piante descritte nel Catalogus arborum fruticu et plantarum pubblicato nel 1657 dal professore di botanica Giacinto Ambrosini, che la definisce una pianta “alquanto ritrosa ad allignare nel nostro clima”, quindi non proponibile per una diffusione massiccia per sfamare la popolazione. Così nel Bolognese, nonostante la particolare vocazione del terreno ad accogliere questa pianta, per ritornare sulla scena la pataticoltura dovrà attendere il Settecento, quando cominciò a muovere i suoi primi, timidi passi, trasferendosi dai giardini botanici agli orti rurali. 1773: la patata di Bologna si affaccia alla ribalta Fra coloro che la posero al centro delle loro premure si distinse in modo particolare Pietro Maria Bignami, un “industrioso agronomo”, appartenente a un ricca famiglia borghese originaria di Codogno, che aveva accumulato ingenti ricchezze con il commercio della seta. Nei fondi rustici di cui era proprietario aveva iniziato fin dalla metà del Settecento la coltivazione della patata, superando la diffidenza ostinata dei coloni, e ottenendo risultati più che lusinghieri.

La peronospora è la malattia più grave della patata

Foto R. Angelini

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patata nel Bolognese Forte di questa esperienza, nel 1773 presentò agli “illustrissimi ed eccelsi Signori” dell’Assunteria di Abbondanza – ossia alla ripartizione del vecchio governo bolognese alla quale spettava il compito di garantire un flusso continuo e sufficiente di viveri ai cittadini – una documentata memoria sugli esiti delle sue sperimentazioni sul campo. L’opera venne integrata dagli autorevoli giudizi conclusivi di due illustri intellettuali bolognesi: il professor Gaetano Lorenzo Monti (1712-1797), docente universitario di fisica, storia naturale e botanica, uno fra gli studiosi più reputati della città, e Giovanni A. Brunelli, uomo di scienza, oltre che illuminato agricoltore, fratello del Gabriele professore di storia naturale e prefetto dell’orto botanico di Bologna. Nell’introduzione il Bignami si rivolge ai responsabili dell’organismo annonario bolognese, spronandoli a introdurre nel territorio la coltivazione della patata al fine di trarne un “ragguardevolissimo vantaggio al popolo tutto”, anche perché la campagna bolognese, seppure “ben coltivata”, è “insufficiente a mantenere coi suoi prodotti una popolazione così numerosa”. Era pertanto indispensabile trovare un nuovo prodotto “con cui rimediare allo smanco del necessario mantenimento, per il quale esce ogni anno dal nostro Paese una riguardevolissima somma di denaro e molto più negli anni penuriosi [...] evitando la quale, almeno in parte, la nostra Provincia diverrebbe una delle più ricche e più felici d’Italia. Niente pare più atto ad un tale rimedio quanto le patate”. La coltivazione del prezioso tubero, grazie alla fertilità e alle particolari caratteristiche del suolo bolognese, oltre alle condizioni climatiche, poteva essersi affermata già da tempo se non avesse

Albori della pataticoltura nel Bolognese: alcuni dati

• Nel 1773 l’agronomo Pietro Maria

Bignami presenta al governo di Bologna un documento sugli esiti delle proprie sperimentazioni nel campo della pataticoltura, fornendo fra l’altro dati interessanti circa il suo rendimento. Ogni pianta è in grado di produrre da 10 fino a 50-60 patate, vale a dire, in peso, da 3 a 5 libbre bolognesi l’una (da 1 a quasi 2 kg per pianta). Ma c’è di più: i terreni che hanno ospitato le patate offrono condizioni favorevoli per le successive coltivazioni cerealicole, portando a raccolti più abbondanti

• Nel 1816 la provincia è colpita da una

grave crisi cerealicola che provoca una forte denutrizione negli strati popolari e causa numerose vittime. All’epoca sono soltanto 8 i proprietari terrieri che si dedicano alla coltivazione del tubero, tra cui uno spagnolo, Diego Pinalvert, e un francese, Davide Bourgeois. Complessivamente dalle loro coltivazioni si raccolgono 110.000 libbre di prodotto, ovvero quasi 380 q. Se la pataticoltura fosse stata più sviluppata non si sarebbero verificate tante morti, se è vero che di lì a poco (1817) si scomoderà il cardinale Opizzoni in persona per incoraggiare i coloni a intraprendere il cammino della pataticoltura

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storia e arte incontrato l’ostilità dei contadini: “le dette patate sono già state da molti provate, ma per una solida avversione alle cose nuove, i nostri coloni si sono perciò stancati e ne hanno abbandonata la coltivazione appena cominciata”. Per superare questi pregiudizi il Bignami invitava a non demordere e a “far in modo che i padroni non si sgomentino, anzi obblighino i loro coloni alla coltivazione delle patate, additandone loro i molti vantaggiosi usi, sperando che succederà a tutti ciò che è successo a me nelle persone de’ miei coloni che, dopo averle per quattro anni disprezzate, alla fine, vedendone il vantaggio che ne ho ritratto se ne sono invogliati [...]. E non pochi ne hanno mangiate cotte sotto le ceneri con gusto grande, pregandomi a provvederne loro il prossimo autunno. E nella pubblica piazza ne ho vendute molte, ricavandone buon prezzo e, finite che le ebbi, continuarono premurose domande”. Dalla propria esperienza il Bignami aveva tratto una serie di dati preziosi sui terreni più idonei nei quali produrre patate e sui sistemi di coltivazione. Nel Bolognese le patate potevano allignare “in ogni sorta di terreno in qualunque posizione egli sia, non ripugnando alla posizione di settentrione”, quindi anche nelle pianure della Bassa. L’autore fornisce anche dati interessanti circa il rendimento dei primi esperimenti di pataticoltura nel Bolognese. Ogni pianta era in grado di produrre da 10 fino a 50-60 patate, vale a dire, in peso, da 3 a 5 libbre bolognesi l’una (da 1 a quasi 2 kg per pianta). Ma c’è di più: i terreni che avevano ospitato le patate offrivano condizioni particolarmente favorevoli per le successive coltivazioni cerealicole, consentendo raccolti più abbondanti.

Foto G. Roversi

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patata nel Bolognese Pane di patate: economico e squisito Riguardo alle prime utilizzazioni della patata bolognese, il Bignami la giudica particolarmente adatta alla panificazione: “per gli uomini se ne fa ottimo pane con metà farina di formento”. Ecco comunque il modo di preparazione: “Si fa il lievito con la farina di formento al quale si aggiungono le patate cotte a lesso in acqua, dopo averne levato la pellicola, indi, pestate nel mortaio, s’impastano col medesimo lievito e col resto della farina, non mettendovi acqua, servendo d’acqua la loro umidità. E ben impastate con la farina se ne fa il pane e, lievitato secondo il bisogno, si fa cuocere”. Il prodotto risultava di ottimo gusto. Anzi l’autore ricorda di averne dato più volte ai propri domestici, “a quali tanto piace che spontaneamente ne mangerebbero sempre (!) com’è piaciuto a chiunque ne ho fatto gustare”. Per avvalorare le sue asserzioni il Bignami ne offriva – assieme ad alcune patate crude – un assaggio ai membri dell’Assunteria di Abbondanza del Senato bolognese, accompagnandolo con un altro tipo di pane preparato con metà farina di mais e metà di patate, “il quale potrebbe servire tanto per i coloni che per gli operai in città”. Questo pane di patata e granturco aveva un altro pregio: “si conserva anco per lungo tempo, ben lontano ad incontrar durezza, come a divenire muffato”. Anche a Bologna – è lo stesso Bignami a confermarlo – con la patata mescolata a farina di frumento, orzo, segale, mais o altro cereale, si preparavano già da anni, analogamente a quanto avveniva in altri Paesi europei e in America, “frittelle, bignè, tagliatelle” e altre specialità. Foto R. Angelini

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storia e arte Molto vantaggioso si era rivelato anche l’impiego del tubero nell’alimentazione dei polli, dei piccioni, dei cavalli e, soprattutto, dei bovini, che ne erano ghiottissimi e che trovavano in esso un provvidenziale sostituto del foraggio specialmente in autunno e in inverno. Una razionale coltivazione della patata, sempre a detta del Bignami, oltre a permettere di diminuire l’importazione di cereali forestieri destinati alla panificazione e alla pastificazione, poteva favorire l’allevamento del bestiame e la produzione di una maggiore quantità di concime, con il risultato di più abbondanti raccolti di granaglie, canapa, uva e foraggio. Tutti questi benefici indotti dalla pataticoltura erano destinati a riflettersi positivamente sul tenore di vita degli abitanti del territorio bolognese, innescando una sorta di virtuosa reazione a catena (più bestie da macello, più pollame, più uova, più latticini, più maiali) tale da consentire una maggiore disponibilità di beni di consumo, favorendo l’aumento della popolazione e, come immediata conseguenza, una crescita delle attività industriali.

Foto M. Curci

Filippo Re biasima l’ostilità dei contadini a coltivare i “pomi di terra” L’esperienza del Bignami suscitò un notevole interesse nei membri del governo bolognese di ancien régime. A stimolarne l’attenzione fu soprattutto il parere dei due indiscutibili esperti: i sopra citati Gaetano Lorenzo Monti e Giovanni A. Brunelli. Il loro responso fu sostanzialmente favorevole al tubero americano, anche in considerazione dell’“insufficienza della provincia Foto R. Angelini

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patata nel Bolognese di Bologna ad alimentare cogli ordinari prodotti suoi la numerosa popolazione così della città come del contado”. Pur riconoscendo che la campagna bolognese presentava una straordinaria compatibilità con la coltura della patata e che il prodotto era ottimo, i due professori non potevano nascondersi che il successo della coltivazione e la sua definitiva affermazione dipendevano esclusivamente dai gusti alimentari del popolo: “tutto dipende dal gradimento onde verranno ricevute le patate dal popolo minuto, il quale, se si compiacerà di usarle frequentemente a modo di cibo ordinario, apprestate nelle maniere più semplici [...] avverrà senza fallo che i proprietari delle campagne e i loro coloni, animati dalla speranza dell’utile [...] si studieranno di acquistarne la razza e di allargarne vieppiù sempre le coltivazioni”. Circa gli usi in cucina non c’era che l’imbarazzo della scelta. Grazie alla loro squisita qualità le patate bolognesi si prestavano magnificamente a essere mangiate lesse o “ammollite sotto le ceneri calde”, oppure fritte, o ancora preparate in altri modi. Al lungimirante Bignami, vero profeta della pataticoltura nel Bolognese, i fatti dettero ben presto ragione. A cavallo tra il Settecento e l’Ottocento gli estimatori del tubero risultavano in continua crescita, anche se il numero dei coltivatori registrava solo lievi aumenti. Sulle prevenzioni che ancora impedivano il definitivo decollo della patata traccia un quadro colorito il grande agronomo Filippo Re, docente di agricoltura all’università di Bologna. “Regna ancora fra i nostri proprietari ed agricoltori – scrive negli Elementi di agricoltura (1798) – una quasi invincibile ripugnanza alla piantagione delle patate. Sebbene tutti siano persuasi per i saggi fatti, che

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storia e arte esse riescono ottimamente in collina, nel piano e nelle valli, pure rifiutano di coltivarle. V’è chi sospetta che ciò derivi dal timore che hanno i contadini – naturalmente inclinati a pensar male de’ loro padroni – di dovere poi essere costretti a cibarsi di esse e che loro venga perciò levato il grano. Altri vogliono che provenga dalla solita ragione che il contadino ostinatamente rifiuta qualunque novità. Comunque sia, almeno i castaldi ed i veggenti proprietari cerchino coi mezzi che sono posti nelle loro mani, di allettarli dolcemente violentarli a sì fatta coltivazione, dalla quale si trarranno solo vantaggi”. Neppure venti anni più tardi, nel 1815, lo stesso Filippo Re, nell’opera Nuovi elementi di agricoltura, testimonia che, nonostante il perdurare di pregiudizi duri a morire, la pataticoltura aveva già rafforzato le sue radici, con indubbi benefici per l’agricoltura e l’approvvigionamento alimentare, lamentando tuttavia l’ostinazione di molti agronomi ed economisti a vedere nel tubero soprattutto un succedaneo del frumento nella panificazione. A offrire stimoli determinanti perché la pataticoltura bolognese facesse un salto di qualità furono la dominazione napoleonica dei primi tre lustri dell’Ottocento e gli stretti rapporti con la Francia, dove la patata si era già affermata, come pure la presenza a Bologna di un folto numero di soldatesche straniere, con la conseguente necessità di provvedere al loro sostentamento. Crisi cerealicola del 1816 e l’intervento del cardinale arcivescovo Carlo Oppizzoni Nel 1816, quando Bologna era rientrata sotto il dominio pontificio, la provincia venne colpita da una grave crisi cerealicola che proFoto R. Angelini

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patata nel Bolognese vocò una forte denutrizione negli strati popolari e causò numerose vittime, che sarebbero certamente scampate alla morte se la pataticoltura fosse stata più sviluppata. A quell’epoca erano infatti soltanto otto i proprietari terrieri che si dedicavano alla coltivazione del tubero, tra cui uno spagnolo, Diego Pinalvert, e un francese, Davide Bourgeois, entrambi trapiantati a Bologna. La loro presenza attesta la funzione stimolatrice svolta dagli stranieri sulla pataticoltura bolognese. Complessivamente dalle loro coltivazioni si raccoglievano 110.000 libbre di prodotto, ossia quasi 380 q. Un impulso determinante fu dato in quegli stessi anni dal cardinale arcivescovo di Bologna, il milanese Carlo Oppizzoni, che intendeva mettere al riparo la popolazione dalle ricorrenti penurie di cereali e sollevare le sorti degli strati sociali più indigenti, spesso privi dei beni di sostentamento. Incaricato di trovare una soluzione di pronta e immediata attuazione sotto il profilo agricolo fu il professor Giovanni Francesco Contri, successore di Filippo Re alla cattedra di agricoltura dell’università felsinea. Sulla base dei risultati conseguiti in altri Stati italiani ed europei e facendo tesoro delle esperienze sul campo dei pionieri bolognesi della pataticoltura, il Contri dette alle stampe cinquecento copie di un opuscoletto intitolato Istruzione alli agricoltori della provincia di Bologna sul coltivamento dei pomi di terra. Con questo lavoro egli contribuì al decollo della coltura delle patate nel Bolognese, segnalandosi come il sostenitore più convincente della sua diffusione e del suo potenziamento. Foto R. Angelini

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storia e arte Nel contempo il cardinale Oppizzoni, al fine di corroborare l’azione del Contri, il 19 febbraio 1817 indirizzò una circolare ai vicari foranei dell’arcidiocesi affinché diventassero gli apostoli della propagazione della coltura delle patate nell’intera provincia, istruendo i parroci sui vantaggi del tubero, con l’obbligo di riversare sui parrocchiani tutte le nozioni ricevute, e incoraggiandoli a intraprendere il cammino della pataticoltura. I maggiori beneficiari di questa iniziativa dovevano essere le genti di montagna, le più prostrate dalla carestia. Ironia della sorte, le maggiori resistenze alla diffusione della coltura vennero proprio dagli abitanti dell’Appennino, che incolpavano la patata di rovinare i pascoli. Erano anche convinti che il governo bolognese volesse far piantare le patate nelle vallate montane in modo da consentire la risicoltura in pianura, a tutto vantaggio degli “egoisti risaioli”. Il Contri offre anche un quadro preciso delle varietà più adatte alla coltivazione nel territorio bolognese: la grossa bianca, la rossa lunga, la gialla “di scorza tendente al nero”, la piccola bianca, la piccola gialla schiacciata, la patata di color violetto e la primaticcia. La più diffusa agli inizi dell’Ottocento era la grossa bianca perché offriva un rendimento maggiore rispetto alla gialla e alla rossa, pure esse coltivate e da molti considerate più saporite. Maggiore interesse rivestono gli impieghi alimentari della patata descritti dal valente agronomo. Il modo più comune era quello della cottura in acqua bollente, illustrato nei minimi dettagli, come pure quello della cottura a vapore. C’era però chi le preferiva cotte al forno o sotto la cenere, oppure fritte, rosolate nel burro o con-

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patata nel Bolognese dite in insalata, sia da sole sia con altri legumi e verdure. In ogni caso se ne poteva ricavare un “cibo gratissimo e sommamente apprezzato anche dai palati più fini”. Dove però il Contri indugia più a lungo è sull’utilizzo dei “pomi di terra” nella panificazione. La polpa di patate rivelava un’estrema duttilità potendosi mescolare sia alla farina di frumento sia a quella di mais o a entrambe, fornendo sempre pagnotte di sapore e consistenza eccellenti. Ma poteva anche mischiarsi con farina di segale o d’orzo, oppure con la crusca o con il “tritello” o ancora con altri sottoprodotti, migliorando in ogni caso il pane “nella qualità nutritiva e nel sapore”. Preferibile era comunque l’impasto di polpa di patate con farina di frumento in parti uguali: “questo pane riesce buono e bello altrettanto quanto quello fatto con la sola farina di grano e si mantiene mangereccio per più lungo tempo” (una pagnotta vecchia di due mesi risultò ancora squisita, soprattutto per le zuppe). Apprezzabile era inoltre l’abbinamento patata-granturco. Con una sola precauzione, però, valevole in tutte le alternative: la patata doveva essere preventivamente cotta e ridotta in poltiglia perché, viceversa, ne sarebbe scaturito un pane “disgustoso”. Cibo da maiali? La positiva esperienza di Paolo Benni nella montagna bolognese dimostra il contrario Fra i pionieri bolognesi della pataticoltura dai quali Giovanni Contri attinse le sue notizie figura Paolo Benni, un ricco possidente e stimato orologiaio che aveva iniziato la coltivazione fin dall’anno 1800 in uno dei suoi fondi di montagna in località San Giorgio di Val di Sambro. Nel 1817, l’anno stesso in cui furono pubblicate

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storia e arte le Istruzioni del Contri, il Benni fece stampare in poche copie un opuscolo in cui raccoglieva tutti i dati ricavati in sedici anni di esperienze nella produzione della solanacea. L’opera (Osservazioni sopra la coltivazione delle patate o pomi di terra praticata nell’alta montagna da Paolo Benni) affronta tutti gli aspetti essenziali della coltura. Per vincere la ritrosia dei contadini il Benni piantò i tuberi assieme al granturco, conseguendo un ottimo raccolto di entrambi i prodotti. Anzi, il mais risultò ancora più bello e maturo nei punti in cui le sue radici si intersecavano con quelle delle patate. Ciò invogliò anche i coloni dei poderi vicini a intraprendere la coltivazione promiscua delle due piante, ma quasi tutti poi abbandonarono l’impresa. Solo il Benni andò avanti senza tentennamenti, convinto della bontà del prodotto, anche se poi era smerciato a “vilissimo prezzo” o destinato al mantenimento del bestiame, specie delle vacche (che aumentavano la quantità di latte), delle pecore, del pollame e dei maiali (i quali, una volta vinta la prima riluttanza a cibarsi di patate, rifiutavano le ghiande e andavano persino a scalzare i tuberi nel campo). Di grande valore economico risultò pure l’amido ottenuto dal Benni, che aveva messo a punto anche alcune macchine per facilitare le operazioni di estrazione. “Oltre alla bellezza e bianchezza come la neve – si legge nelle sue Osservazioni – a questo amido gli si dà il pregio di non corrompere in verun modo la biancheria la più fina [...] mentre la materia fibrosa che rimane può servir di cibo al bestiame, anzi agli uomini stessi, facendola seccare per ricavarne farina e fare del pan bigio”. Foto R. Angelini

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patata nel Bolognese Le conclusioni del Benni sono incoraggianti: “Pareva una volta all’opinione de’ contadini il cibo delle patate solo cibo da maiali. Non era possibile fargliene mangiare. La combinazione di diversi anni, durante i quali non è maturato in montagna il formentone, privando i contadini di questo sussidio, ha fatto diventare eccellenti le patate ed essi ne hanno preparato di sovente minestre a guisa di navoni, suggerimento da me insinuatogli. Cominciarono poco alla volta ad assuefarsi a questo cibo e ne divennero ghiotti come della loro solita polenta di formentone. Da prima c’era a chi facevano male, c’era chi non le curava. Poi venne il momento che piacquero a tutti e più non recarono pregiudizio ad alcuno. Furono coltivate più per forza che per amore e per genio, ma per il solo motivo che della parte dei contadini ne faceva acquisto il padrone per lo più a sconto del loro debito. Totalmente oggi è cambiata la loro opinione. Le coltivano adesso con trasporto ed attenzione, ma non vi volevano che le accadute disgrazie a persuaderli e così comprimere la loro passata ostinazione. Io sono stato – conclude il Benni – per ben quattordici anni il ludibrio e la derisione di costoro. Sono convinto che centinaia e migliaia di volte fui onorato del grazioso titolo di sciocco, ma non fu mai per questo sovvertita la mia costanza, né da tali ingiurie né da qualunque satira [...]. Non mancherò certo a dare sinceramente quei lumi tutti che saranno a mia cognizione e questo con vero animo d’esser proficuo al pubblico bene e specialmente a sollievo della vera indigenza [...]. Dirò soltanto che si può fare un intiero pranzo ove da per tutto sianvi le patate, cominciando dal pane e così di tutto il resto, avendo osservato che queste, unite a qualunque altro genere o farina, ricevono qualunque gusto”. Foto R. Angelini

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Papa peruana nella cultura andina Gladys Julia Torres Urday

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storia e arte Papa peruana nella cultura andina Dipinto di Giuliana Baca Ruiz

Misticismo nella coltura della patata La patata nativa peruviana ci invita a percorrere un affascinante viaggio attraverso la storia della cosmovisione andina, un percorso millenario, ancestrale, nei luoghi dove sembra che il tempo si sia fermato, dove i campesini (gli agricoltori locali) hanno saputo conservare le loro tradizioni, nonostante il passare degli anni e di fronte a tante difficoltà. Nella cosmovisione andina fondamentale è la relazione tra uomo, natura e spiritualità, quest’ultima basata sul rispetto e sul dialogo con tutti gli elementi del cosmo e con la pachamama (madre terra). La patata nativa non fu solamente la base dell’alimentazione delle culture preispaniche, ma ebbe un ruolo importante nelle tradizioni e nelle consuetudini, poiché il sacro si fonde con il quotidiano in ogni atto della vita andina, e la patata è più di una risorsa genetica: è considerata sacra. I reperti archeologici ci dimostrano che le culture mochica e nazca nel 100 e nel 600 d.C. avevano già stabilito una relazione fra l’universo soprannaturale e la patata (che apparteneva all’Ukju-Pacha – mundo de abajo –, ovvero il mondo sotterraneo). È in questo contesto che nelle Ande persistono ancora oggi antichi rituali tramandati di generazione in generazione. Rituali con protagonista la patata, che si celebravano prima degli Inca e che

Cultura Mochica Panorama di Machu Picchu, la città perduta degli Inca, costruita nella roccia a 2350 metri sul valico di una montagna le cui pendici si gettano nella sottostante valle dell’Urubamba. È uno spettacolo di rovine e terrazzamenti dove venivano coltivate le patate native

Foto R. Angelini

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papa peruana continuarono durante la dominazione spagnola fino ad arrivare ai nostri giorni. Nelle comunità altoandine, per esempio, la cerimonia della semina della patata è considerata sacra. Il rituale prevede il sotterramento di una patata con foglie di coca come offerta alle apus (montagne), con la popolazione che si esibisce in danze e canti tipici. È a più di 3000 m intorno al lago Titicaca che la patata nativa, figlia prediletta della pachamama, ha la sua origine. Qui è considerata il regalo più generoso che la madre terra ha donato al mondo intero, e per questo è diventata per gli abitanti locali il “vero tesoro degli Inca”. Non c’è dubbio che la storia della patata è legata alla cultura inca. Gli Inca hanno il primato di aver raggiunto livelli altissimi in tutti i campi, principalmente nell’agricoltura e nelle tecniche di produzione e, per primi, hanno messo a punto la disidratazione della patata al fine di conservare il prodotto in condizioni estreme. Hanno incontrato difficoltà di ogni tipo, di carattere sia morfologico sia climatico, ma hanno saputo superarle realizzando opere che ancora oggi vengono ammirate dal mondo intero. Per quando riguarda la conservazione di questi valori storici, encomiabile è il lavoro che realizza il Centro Internazionale de la Papa (CIP), fondato a Lima (Perú) nel 1971. Il CIP è la più grande istituzione mondiale d’investigazione scientifica sulla patata e altri tuberi e radici. Possiede la banca genetica più ricca del mondo, con oltre 5000 varietà diverse tra patate selvatiche e coltivate, e possiede per ogni varietà il seme (libero da contaminazioni e di facile trasporto) pronto per essere usato in caso di catastrofi naturali o emergenze,

Dipinto di Giuliana Baca Ruiz

La raccolta - Cultura Nazca

Terrazzamenti concentrici a Moray, nella provincia di Cuzco (Perú). Con un diametro di oltre 150 metri, seguono esattamente l’andamento del terreno. In questo luogo gli Inca sperimentavano le coltivazioni (patata, mais, chinoa, fava) per studiare le relazioni con temperatura, altitudine, esposizione

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storia e arte al fine di fornire l’opportuno contributo genetico per la produzione di questo importante tubero. Congiuntamente al CIP, esistono anche il Parco della Patata, situato a Pisac (Cuzco), e le Comunità altoandine come Huancavelica, Andahuaylas e Puno. Tutte queste entità hanno un obiettivo comune: porsi a salvaguardia delle identità genetiche e storiche, lavorando accomunati dalla consapevolezza dell’importanza della biodiversità genetica.

Papas con uchucuta (patate bollite in salsa piccante – ricetta di Catalina Borda, Cotahuasi, Perú)

• Ingredienti:

- 1 kg di patate native bollite - 100 g di aji mirasol giallo - 100 g di arachidi - 4 foglie di chichipa (erba aromatica che cresce sulle Ande) - ½ tazza d’acqua - sale

Simbolismo andino della patata I miti e i rituali andini stabiliscono parallelismi fra il ciclo degli astri e le stagioni. Interagiscono con la crescita delle piante coltivate (patate e mais), come nella vita dell’uomo. Questa ritualità viene celebrata in forma collettiva, seguendo un calendario cerimoniale, oppure viene vissuta personalmente e altrettanto personalmente trasmessa all’interno delle famiglie. I riti sono sempre caratterizzati dall’osservazione del cielo stellato (principalmente le Pleiadi) e segnano il ciclo annuale che, a differenza del nostro calendario, inizia con il solstizio d’inverno (giugno nell’emisfero opposto al nostro) sino alla stagione secca. Il culmine della visibilità delle Sette sorelle si ha a novembre, con il solstizio d’estate, che coincide con la stagione umida; esse scompaiono dal cielo a maggio, mese che segna la fine del calendario. Gli Inca osservavano con molta attenzione, al fine di piantare la patata, il movimento del sole durante l’anno, festeggiando i solstizi e gli equinozi, e tenendo in grande considerazione i pas-

• Procedimento: abbrustolire

leggermente l’aji mirasol, metterlo a bagno e quindi toglierne i semi. Passarlo al frullatore con le arachidi, le foglie di chichipa, un pizzico di sale e l’acqua. Servire come accompagnamento alle patate bollite

Parco nazionale della patata di Cuzco, circa 9000 ettari di campi coltivati condotti da piccoli proprietari dove ogni famiglia detiene circa 100 m² di terreno. Queste terre hanno visto nascere la patata oltre 6000 anni fa

Foto R. Angelini

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papa peruana saggi del sole nello zenit (l’intersezione della perpendicolare al piano dell’orizzonte con l’emisfero celeste). Il calendario andino era luni-solare: i dodici mesi erano soliti variare, e questa variante determinava il periodo di semina e di raccolta del prezioso tubero. Nell’altopiano peruviano (zona di Puno) si dice che la donna, il seme e la pachamama sono la stessa persona, perché sono considerate sacre, ed è per questo che nelle comunità dell’antico impero inca il significato culturale è molto più che un “ricordo” genetico. Questo è il motivo per cui ancora oggi si celebrano le feste e i rituali di mille anni fa. Nella società inca ognuno agisce secondo le proprie attitudini e le proprie abilità, non tutti possono fare tutto. Alcuni hanno più familiarità con gli animali, altri con la coltivazione del grano, chi con la produzione di cibo, chi con l’irrigazione e chi con la coltivazione della patata. Ogni singolo momento della “vita” della patata è vissuto come un momento solenne. Anche la scelta delle varietà rappresenta un momento fortemente legato al rito. Ci si affidava al cielo per capire che tipo di andamento meteorologico poteva avere la stagione in corso. Il responso determinava la semina di patate con caratteristiche differenti: patate resistenti alle gelate, alle intemperie o alla siccità.

Chuño con papas

• Ingredienti:

- 200 g di chuño bianco - ½ kg di patate native - formaggio fresco serrano - 3 cucchiai d’olio - ½ litro di latte - sale

• Procedimento: mettere a bagno il

chuño bianco per 2 ore e farlo cuocere in una pentola con acqua salata. Cuocere le patate native e sbucciarle. Mescolare in una ciotola l’olio, il latte e un pizzico di sale. Tagliare il chuño al centro e sistemare all’interno dell’incisione una fetta di formaggio. Adagiarlo in una pentola insieme alle patate, unendovi il formaggio rimasto, irrorare con il composto liquido preparato in precedenza e cuocere il tutto per 5 minuti

Foto R. Angelini

La divinazione è molto importante nei riti religiosi e viene affidata al sommo sacerdote

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storia e arte Altro aspetto interessante è il connubio tra natura e influenza divina. Il germogliamento della patata era, ed è, considerato un vivere in armonia con la natura e le deità. La saggezza e la ricerca spirituale nella coltivazione si tramandano di generazione in generazione da quasi 8000 anni e fanno da trait d’union fra diverse tipologie di saperi e di esperienze. Per la cultura inca ogni momento della vita è motivo di apprendistato, alla scoperta di nuovi saperi e di nuovi segreti per coltivare la patata, che mutano quotidianamente. La semina o la raccolta delle patate non è vissuta come un momento qualsiasi, bensì con il massimo del rispetto. Tutto aveva il suo tempo, il suo preciso momento. Nella ritualità le patate andine non sono semplici patate. Sono diverse l’una dall’altra. Ogni patata ha il suo segreto, la sua terra, la sua forma, il suo carattere. Sono capricciose, non crescono ogni anno; tutto dipende dalla pachamama, la madre terra, non da noi umani. Nel periodo della raccolta vengono selezionate: patate da mangiare, patate per fare il chuño (una patata che viene disidratata per consentirne una più lunga conservazione) e patate da semina, che saranno adoperate l’anno successivo. Il segreto della coltivazione della patata è un’arte che si impara con l’esperienza, giorno dopo giorno, come un apprendistato in cui molto importanti sono anche le emozioni e i sentimenti. Non devono interferire elementi negativi, perché potrebbero danneggiare la coltivazione: questa pratica rituale è un insieme di positività e amore per quello che si sta facendo. Nella cultura inca l’agricoltura non è solo abilità nel lavoro materiale, ma piuttosto il connubio ancestrale tra uomo e pianta, indi-

Lomo saltado

• Ingredienti:

- 1 kg di patate sbucciate e tagliate a bastoncini - ½ kg di carne (filetto) - 3 cipolle rosse tagliate in 8 pezzi - 2 cucchiai di aceto - 2 cucchiai d’olio - 1 aji (vegetale giallo della famiglia dei peperoni) tagliato a strisce sottili - 2 pomodori tagliati in 8 pezzi - un ciuffo di prezzemolo tritato fine - sale e pepe q.b. - 1 spicchio d’aglio schiacciato

• Procedimento: friggere le patate e a

fine cottura eliminare l’unto in eccesso con carta assorbente. Tagliare la carne a strisce sottili e condire con aglio schiacciato, sale e pepe. Saltare la carne in padella, aggiungere la cipolla, il pomodoro e completare con l’aceto. Mescolare il tutto, cuocere per 1 minuto, coprire e togliere dal fuoco. In un vassoio disporre le patate fritte, unire il preparato di carne e mescolare, insaporendo alla fine con il prezzemolo. Servire accompagnando con riso bianco

Foto R. Angelini

Valle sacra dell’Urubamba e terrazzamenti coltivati a patate

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papa peruana spensabile per avere quantità e qualità nella produzione. Bisogna tenere presente che per gli Inca “la patata non cresceva mai da sola ma era sempre accompagnata da situazioni favorevoli e positive, unite in un unicum inscindibile”.

Papa chaque (zuppa di patate schiacciate – ricetta di Catalina Borda, Cotahuasi, Perú)

Raccolta della patata andina: un rituale antico Nel processo produttivo della patata nativa, se si vuole un buon prodotto, è necessario seguire alcune regole ben precise che riguardano l’utilizzo di semi di qualità, sani e resistenti, la scelta della terra, che deve essere ubicata a più di 3800 m s.l.m., la semina, che prevede una distanza tra pianta e pianta di almeno 90 cm, e la raccolta, che avviene nel mese di maggio, per poi lasciare “riposare la terra” fino a luglio-agosto e ricominciare con la semina. Una curiosità è legata a un rito che avviene subito dopo la raccolta: la huatia. La huatia prevede la cottura della patata sotto terra subito dopo la raccolta. Nella cultura inca e pre-inca viene praticata sin dai primordi. Per la raccolta, è normalmente il proprietario della chacra (terra di coltivazione) che si fa carico di dirigere il gruppo usando un attrezzo molto speciale, chiamato azadon. Nella chacra il proprietario delimita gli spazi e dà inizio alla raccolta. Tutto è in perfetto ordine e si svolge ritmicamente, come una danza, avanzando di solco in solco sino alla fine prima di dare inizio a un altro filare. La terra, come in un balletto, si muove, e le persone incaricate raccolgono le patate per poi posarle sul bordo dei solchi. Un’altra persona raccoglie le patate, le pulisce e le sistema dentro ai sacchi, per poi portarli ai confini della chacra.

• Ingredienti:

- 1 kg di patate native - 1 cipolla - 1 carota - 3 spicchi d’aglio schiacciato - 2 l di brodo vegetale - 4 uova - 200 g di formaggio fresco - prezzemolo o coriandolo tritati

• Procedimento: sbucciare le patate

e la carota tagliandole a rondelle sottili. Schiacciare il tutto. Preparare in una pentola il brodo, aggiungere le patate e le carote, la cipolla tagliata a julienne, l’aglio schiacciato, e mettere sul fuoco. A metà cottura aggiungere le uova, che risulteranno “in camicia” e, a fine cottura, spolverare con il formaggio sminuzzato. Insaporire con un po’ di prezzemolo o coriandolo tritato

Foto R. Angelini Foto C. Borda

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storia e arte In quel preciso istante inizia il rito della huatia, che in lingua quechua significa “cottura sotto la terra”. La persona che si occupa di preparare la huatia in genere è un uomo riconosciuto nella sua comunità come esperto in questa tecnica. Costui prepara una buca nella terra e la riempie di legna, mentre altre persone raccolgono i rami delle patate che, posati sopra il legname, serviranno da letto per la speciale pentola di terracotta utilizzata per la cottura. Finito di preparare la buca, si selezionano le patate appena raccolte e le si lavano a una a una per poi collocarle nella pentola senz’acqua. Si posiziona la pentola capovolta sopra i rami incrociati con la legna e si accende il fuoco, lasciandola coperta per 35-40 minuti. Appena la pentola diventa gialla – è il colore della terra cotta quando è secca – è il momento di ritirarla dal fuoco: le patate sono cotte a puntino, pronte per essere mangiate con cachipa (tipico formaggio fresco della Sierra andina).

Pastel de papas (patate al forno)

• Ingredienti:

- 1 kg di patate - 200 g di formaggio fresco - ½ l di latte - 4 cucchiai d’olio - 4 uova - sale

• Procedimento: sbucciare le patate,

tagliarle a rondelle e cuocerle fino a metà cottura direttamente sul fuoco, per poi terminare la cottura in forno. In una ciotola unire il latte, l’olio, il sale e le uova. Mescolare il tutto e amalgamare leggermente con una frusta. Tagliare il formaggio a fette. In una teglia sistemare le patate in tre strati alternandole con il formaggio. Coprire con il formaggio rimanente e con il composto a base di latte. Ultimare facendo gratinare in forno

Foto C. Borda

Inizio al tarpuy (semina) rituale d’offerta alla pacha mama (madre terra)

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papa peruana Cultura ancestrale della patata Conoscere la cultura ancestrale andina è come fare un viaggio nella storia dell’antico Perú. La cultura ancestrale peruviana dimostra che la patata fa parte della vita quotidiana ed è l’asse centrale della famiglia stessa, elevandola simbolicamente a un livello di sacralità. Gli uomini e le donne delle Ande conoscevano tre mondi sacri: – Hanan-Pacha, il mondo di sopra; – Chay-Pacha, il mondo presente; – Ukju-Pacha, il mondo sotterraneo. In quest’ultimo mondo, Ukju-Pacha, l’uomo andino trovò la base del suo sostentamento giornaliero: la patata. Nel processo di coltivazione della papa peruana si perpetuano rituali mistici che costituiscono parte integrante del processo di produzione, atti che sono direttamente correlati al mondo magico-religioso. Nelle comunità dove si celebrano questi rituali la produzione della patata nativa è molto singolare: tutto è ritualità, anche le più normali pratiche agricole. Nel mese di aprile, con il Chacmaruyacuy o Yapuy (giramento della terra), si deve fare un pago (offerta) alla pachamama. In pratica si chiede il “permesso” per realizzare l’attività sia alla madre terra sia agli apus. Durante i mesi di ottobre e novembre, invece, si effettua il K’orpeo (la preparazione della terra) e si procede al Tarpuy (la semina). Durante quest’ultima tappa si realizza un secondo pago di grande importanza per propiziare la semina, che è la parte cruciale del processo di coltivazione. Nel pensiero andino il “se-

Piccante de papas con Cochayuyo (patate in salsa piccante con alghe marine)

• Ingredienti:

- 1 kg di patate native - 1 cipolla bianca tagliata finemente - 1 spicchio d’aglio schiacciato - 2 aji panca - 1 tazza di brodo vegetale - 2 cucchiai d’olio - 100 g di formaggio sminuzzato - 100 g di alghe marine secche - sale, pepe e cumino a piacere

• Procedimento: cuocere le patate,

sbucciarle e sminuzzarle con le mani. Mettere a bagno l’aji panca per un’ora, passarlo al frullatore con un po’ d’acqua. Mettere in ammollo le alghe, lavarle e immergerle in acqua calda per mezz’ora. Fare un soffritto con le cipolle tagliate a cubetti e l’aglio schiacciato, aggiungere aji panca, sale, pepe e cumino. Mescolare il tutto e lasciare cuocere per 5 minuti, aggiungere le patate con il brodo e mescolare. Unire le alghe marine e far cuocere per altri 2 minuti. Completare con il formaggio

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Varietà di chuño bianco e nero (patate disidratate) al Parco Nazionale della Patata Pisac, Cuzco, Perú

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storia e arte minare” è dare vita a un altro essere, che sarà complementare alla nostra stessa vita. Per questa delicata cerimonia il proprietario della terra incarica uno Yachaq (il maestro che sa). Questi si “consulterà” con gli apus e darà inizio ai preparativi. Gli ingredienti che comunemente si utilizzano in suddetti rituali sono: la Pichiwira (il grasso del petto dell’alpaca), l’incenso, la coca e il cocaruro (il seme della coca), i petali di garofano (rosso, bianco e bicolore) e il Sullo (un feto di lama destinato all’aborto). A questo punto lo Yachaq si riunisce insieme a un suo collaboratore, il Kamanchi, e agli Aynicuk (persone preposte alla semina della patata) formando un circolo attorno al tavolo su cui si trovano tutti gli elementi per la cerimonia. Lo Yachaq, chiesto il permesso ai presenti, prende una pietra piatta con del carbone, vi versa dell’incenso e, rivolgendosi al cielo, pronuncia la parola Licenciallaykimanta, che significa “con il vostro permesso”, e i presenti rispondono Taitachak licenciallanmanta, “con il permesso di Dio”. A questo punto aggiungono altro incenso e, indicando il cielo, recitano preghiere in lingua quechua, il loro idioma nativo, mostrando i semi di patate di tutte le varietà e indicando gli andenes (i terrazzamenti) dove saranno seminate. Nel frattempo il Kamanchi prepara il pit’o (miscuglio di mais, grano macinato con chicha – un fermentato di mais, la birra degli Inca) e lo spruzza sopra le patate da semina dicendo causay allinlla q’espepunki

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Vaso Moche

Foto R. Angelini Foto R. Angelini

Vaso Nazca Vaso Moche a forma di patata

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papa peruana pachamamapac, che in lingua quechua significa “che tu, seme, raggiunga vivo il ventre della pachamama”, e tutti ringraziano pronunciando in coro la frase pachamama santa terra voluntarnillanta, “che sia fatta la volontà della Santa Madre Terra”. Successivamente vengono benedetti gli strumenti atti alla coltivazione della patata stessa, e in particolare la Chakitaclla, uno speciale attrezzo utilizzato solo dagli uomini per bucare la terra e introdurre il seme della patata, nonché la P’ejrona, usata solo dalle donne per coprire il buco seminato, rappresentando, con questi gesti, la dualità, di fondamentale importanza nella cosmovisione andina. Lo Yachaq conclude la cerimonia con la frase augurale “che il frutto di questa semina porti abbondanza e prosperità al popolo”, e in questo modo inizia il papa h’iloy (la semina della patata). Ancora oggi, e solo nelle comunità andine, si celebrano questi riti ancestrali che sono un lascito degli antichi Inca.

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Vaso cerimoniale che rappresenta la pianta della patata

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Donna Collagua durante la raccolta della patata nel tipico costume di ispirazione spagnola impreziosito da coloratissime decorazioni: indossano due o tre camice e vivaci cappelli con nastri e ricami

Patata nell’arte andina “Mate burilado”

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Storia economica e sociale della patata Giorgio Amadei

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storia e arte Storia economica e sociale della patata Foto R. Angelini

Cibo dello schiavo Quando Cristoforo Colombo approdò all’isola di Santo Domingo, credendo di essere giunto nelle Indie per via di mare, non trovò altro che boschi e terreni incolti o malamente coltivati, abitati da popolazioni primitive e poverissime. Sia in queste terre sia nelle altre circostanti in cui approdò, e che esplorò in seguito, trovò pochi animali adatti a fornire nutrimento per gli uomini, mentre riguardo ai vegetali, in qualche modo coltivati, scoprì piante sconosciute, giudicate curiose, ma lontane dal garantire un cibo paragonabile al frumento e al pane, in cui si sostanziava la nutrizione degli europei. Il mais, la patata, la manioca e molte altre piante, che furono portate come curiosità botaniche in Spagna e nel resto d’Europa da Colombo e dai navigatori che gli succedettero, andarono ad arricchire gli orti e i giardini dei signori, ma non generarono per molto tempo nuove consistenti produzioni e conseguenti commerci. Forse un’eccezione fu il Capsicum, il peperoncino, capace di sostituire il prezioso pepe in numerose preparazioni alimentari, ma proprio perché di facile coltura e adattabilità a ogni ambiente non alimentò attività commerciali di rilievo. Tra i prodotti non alimentari scoperti nel Nuovo mondo ci fu il cotone, che già gli europei conoscevano, ma che importavano come tessuto, non possedendo ancora una propria efficace tecnologia di trasformazione della materia prima. Quindi, anche il cotone fu guardato con disinteresse.

Mercato di San Juan Chamula in Chiapas, Messico Espansioni della patata - Poster presso il centro I.C.P. di Lima, Perú

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storia economica e sociale Colombo, in mancanza del rinvenimento delle ricchezze che dovevano giustificare la sua impresa, sostenne dinanzi al re di Spagna che nella terra scoperta c’era abbondanza di metalli preziosi, oro e argento, portando come prova i poveri ornamenti sottratti alle popolazioni indigene. Questo bastò, tuttavia, per generare il mito di El Dorado, la città tutta d’oro, che mosse, a distanza di circa trenta e quarant’anni, i conquistadores spagnoli verso il Messico e il Perú. Ma, di oro, ne fu trovato poco. Fu rinvenuto, invece, dopo qualche tempo (1545) l’argento (nell’alto Perú fu scoperto il Cerro Rico, con i suoi cinque grandi filoni del prezioso metallo), per il cui sfruttamento gli Spagnoli obbligarono al lavoro di scavo le popolazioni locali, in condizioni disumane. Ciò portò, insieme alle epidemie trasmesse dagli stessi Europei, a una traumatica riduzione della popolazione nativa. Per questo i conquistatori spagnoli dovettero ricorrere all’importazione di schiavi dall’Africa, pratica che già era stata sperimentata a Santo Domingo, per mettere a coltura le terre finite sotto il dominio della corona di Spagna. Il commercio degli schiavi divenne monopolio della marineria portoghese che, allo scopo, mise a punto navi dedicate (le cosiddette tumbeiros, “tombe”), atte a trasportare numerosi uomini incatenati per lunghe traversate. Per nutrire gli schiavi nel corso di questi viaggi, i portoghesi utilizzarono le produzioni agricole dei Paesi conquistati – la manioca, la patata e il mais – integrandole con poche altre, come i fagioli, le fave e talora il riso e la semola. Pertanto, la patata giunse in Europa con l’immagine di cibo povero,

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Mercato in Chapas, Messico Patata, oca, mais e quinoa furono le piante che incontrarono i conquistadores e che costituivano l’alimento delle popolazioni locali

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storia e arte da schiavi, inadatto a nutrire uomini civilizzati. In più, in Europa non piaceva che il tubero si formasse entro il terreno, restando imbrattato di terra e di impurità, e al contempo non si trovò subito il modo di conservarlo e di prepararlo per il consumo. Fu accusato di procurare la lebbra e la tubercolosi, di generare disturbi vari e di essere velenoso (fatto reale, quest’ultimo, che si verificava quando la patata era conservata in ambienti inadatti). Passò dunque un lungo periodo di tempo perché la pianta della patata si adattasse ai climi dei vari Paesi europei, perché, tentativo dopo tentativo, gli agricoltori imparassero a coltivarla e a utilizzarla, e perché si formasse un mercato dei tuberi. Qualcosa di simile avvenne, però, anche per altre specie vegetali, come per esempio per il mais, che peraltro fu di più facile adozione dal momento che, come cereale, era più conforme alle conoscenze e alle esperienze europee.

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Risorsa preziosa Ciò che i seguaci di Cristoforo Colombo cercavano nel Nuovo mondo, l’oro e l’argento, e ciò che poi di fatto trovarono divennero per l’Europa una fonte di gravissimi squilibri politici tra gli Stati nazionali di più o meno recente formazione. In particolare, il ritrovamento dell’argento, oltre a scatenare una forte inflazione, rafforzò l’aggressività della Spagna, che ebbe a disposizione i mezzi per allargare la sua area di dominio, in concorrenza con Francia e Gran Bretagna, e più tardi con l’Impero austro-ungarico. Le guerre sanguinose che ne scaturirono, con le loro distru-

Raccolta delle patate sugli altipiani peruviani

Aratro per l’escavazione delle patate, Perú

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storia economica e sociale zioni, ebbero come ulteriore conseguenza numerose carestie, aggravate oltretutto da andamenti climatici anomali e da epidemie altrettanto disastrose. In questo panorama diventò importante l’approvvigionamento di beni alimentari e, con l’incertezza e l’onerosità dei trasporti, i governi si preoccuparono molto delle produzioni agricole all’interno delle aree amministrate, degli stoccaggi delle materie prime alimentari, della loro distribuzione alla popolazione e dei relativi prezzi. Ciò accentuò la ricerca di fonti alimentari alternative al frumento, soggetto a forti fluttuazioni produttive, soprattutto nell’Europa settentrionale. Fu allora che le piante di origine americana, ritenute poco più di curiosità, si rivelarono invece risorse di importanza molto superiore a quella dei metalli preziosi tanto desiderati. Adam Smith, nella sua opera La ricchezza delle nazioni, scrisse (alla fine del Settecento) che l’espansione della coltura della patata era stata di immensa portata economica, sociale e demografica, e che intere regioni europee ne stavano facendo il cardine della propria produzione agricola e della sicurezza alimentare. Spiegò anche che la sostanza secca alimentare di un acro coltivato a patate era almeno tre volte quella del frumento, e che il prezzo unitario delle patate era per unità di peso (considerata la minore conservabilità) un quarto del prezzo del frumento. Dunque, la patata era diventata, in una fase delicata di sviluppo demografico e di incipiente affermazione dell’industria moderna, un cibo a basso costo, di buona qualità, in grado di assicurare un potere di acquisto soddisfacente ai salari, non certo elevati, delle masse di lavoratori

Terrazzamenti agricoli (andenes) scavati nei fianchi della montagna a Machu Picchu. Producevano cibo per oltre 1000 abitanti e la patata era il tesoro più prezioso che verrà scoperto da Francisco Pizzarro

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Raccolta delle patate a Cuzco, Perú

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storia e arte che andavano inurbandosi. Naturalmente, il prezzo delle patate, succedanee del frumento, dipendeva strettamente da quello del cereale in tutta l’area in cui la sostituzione diventava un fenomeno sistematico.

Patata in Inghilterra

• Uno dei Paesi europei in cui la coltura

Sviluppo tardivo della coltura in Italia L’Italia, che pure aveva avuto nell’esploratore del Nuovo mondo Antonio Pigafetta uno dei pionieri a dare notizia della pianta della patata, e in Gaspare Bauino il primo botanico europeo a riprodurne un’immagine, trascurò la coltura più a lungo degli altri Paesi. Probabilmente ciò avvenne per la più radicata cultura del pane e, in relazione a questa, per le politiche fortemente dirigistiche praticate nei vari Stati in cui era suddiviso il Paese, tese ad assicurare un approvvigionamento di frumento adeguato al fabbisogno e prezzi ridotti del pane. Ciò non impediva affatto il verificarsi di periodiche carestie, con tragiche ricadute sulla popolazione, e creava condizioni permanentemente depresse per l’agricoltura, bloccata dai calmieri e dalle proibizioni commerciali, che riguardavano tutte le derrate alimentari. In aggiunta a questo, occorre ricordare che per tutto il Seicento e per buona parte del Settecento l’Italia fu area di decadenza economica e sociale, quindi di scarsa innovazione. Naturalmente, un ruolo fondamentale giocarono le condizioni pedologiche e climatiche assai meno favorevoli alla coltura rispetto a quelle dei Paesi nordeuropei, mentre quasi contemporaneamente un’altra coltura di origine americana, il mais, trovò un’accoglienza molto favorevole in buona parte della Pianura Padana, ma anche nell’Italia

della patata trovò un’accoglienza precoce fu l’Inghilterra, dove fu introdotta verso la fine del Cinquecento da John Hawkins

• Questi, capitano di grande coraggio,

cercò di infrangere per primo il monopolio marittimo portoghese sul trasporto degli schiavi. Tra il 1562 e il 1568 fece molti viaggi, senza licenza, tra Inghilterra, Africa (dove ebbe occasione di comprare schiavi) e Americhe, dove li vendeva, riportando poi in patria pelli, cotone, perle, zucchero, zenzero e altre merci. Diede così inizio al commercio triangolare, che divenne consueto e straordinariamente lucroso quando, dopo il naufragio e la sconfitta dell’Invicibile Armata spagnola (1588), l’Inghilterra acquistò il predominio delle rotte atlantiche e il monopolio del trasporto degli schiavi

Foto R. Angelini

• Secondo Filippo Re, che nel 1817

pubblicò un saggio sulla patata, Saggio sulla coltivazione e su gli usi del pomo di terra, la coltura della patata passò dall’Inghilterra alla Germania e alla Francia

Patate appena raccolte a Chinchero, Perú

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storia economica e sociale centrale. La polenta diventò allora il sostitutivo del pane per tutte le categorie sociali povere (e, tra queste, per i coltivatori della terra). Il vantaggio economico del mais era una produttività agricola circa doppia rispetto a quella del frumento e un prezzo altrettanto ridotto. Dunque, anche la polenta diventò un cibo dei poveri, ma con prezzo di sostituzione del frumento meno vantaggioso rispetto alla patata, che poteva, a sua volta, sostituirlo nel cosiddetto autoconsumo. Occorre anche aggiungere che in talune aree di collina e di montagna, dove il clima era simile a quello nordeuropeo, la patata fu adottata nelle piccole aziende familiari abbastanza precocemente, ma come coltura orticola, necessaria a integrare la dieta delle famiglie contadine. Questa tendenza si diffuse in larga parte dell’agricoltura italiana tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, restando peraltro in secondo piano rispetto alla diffusione più importante delle altre innovazioni agronomiche, relative alle rotazioni colturali con la sequenza di rinnovi, foraggiere e colture sfruttanti, alle concimazioni, ai trattamenti antiparassitari, all’espansione della zootecnia e alla prima meccanizzazione delle operazioni colturali. Nonostante ciò, anche in Italia la patata giocò un ruolo importante nel fenomeno di rafforzamento e diffusione delle aziende a base familiare, le quali spostarono gli autoconsumi verso il mais e la patata, accrescendo in questo modo la commercializzazione del frumento. Fu così, appunto, che queste poterono aumentare le entrate monetarie

Patata in Irlanda

• In Irlanda la coltura della patata fu

introdotta da Walter Raleigh, navigatore, esploratore, corsaro e anche poeta. Fu fondatore di colonie nel Nuovo mondo, esploratore della Guyana e dei territori lungo l’Orinoco, dove inseguì il mito di El Dorado, senza successo

• La coltura della patata nelle piccole

e poverissime aziende agricole irlandesi consentì un lungo periodo di accettabile disponibilità alimentare, stabilizzando la struttura agricola del Paese. Tuttavia, quando a metà dell’Ottocento la peronospora distrusse gran parte della coltura, si verificò una terribile carestia (la Great Famine), che indusse molta parte della popolazione a emigrare verso l’America settentrionale. Ciò accadde perché, con l’ammodernamento della navigazione, i tempi di percorrenza delle navi che trasportavano le patate subirono una sensibile riduzione, e ciò ebbe l’effetto di conservare in vita il micelio della peronospora, che in precedenza soccombeva ai lunghi trasferimenti

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Patata attaccata da peronospora. Le parti verdi possono essere completamente distrutte ma soprattutto i tuberi possono andare incontro a completa imputrescenza

Attacco di peronospora

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storia e arte aziendali, accumulare finalmente risparmi di qualche significato e realizzare investimenti in nuovi capitali, in un’epoca in cui il credito era assai poco sviluppato e piuttosto costoso. Senza l’innovazione apportata dalle colture americane sarebbe difficile capire la partecipazione delle piccole e medie aziende a base familiare al mutamento dei processi di produzione avvenuto agli inizi del Novecento e in seguito, almeno fino a quando la ricerca genetica non modificò profondamente la produttività della coltura granaria e della relativa redditività. D’altra parte, anche le colture succedanee del frumento registrarono elevati aumenti di produttività, con ovvie conseguenze sui prezzi relativi e sulla destinazione finale delle produzioni. L’ammodernamento dell’agricoltura nel Novecento ebbe l’effetto di ridurre a quote minime gli autoconsumi aziendali e, in parallelo, di aumentare fortemente la parte della produzione immessa sui mercati. Ciò supponeva il formarsi di mercati sempre più vasti, in termini di quantità di merci esitate e, soprattutto, di consumi. Era necessario, cioè, che non solo il frumento, ma tutte le produzioni agricole trovassero una domanda al di fuori del mondo che li produceva. Lo sviluppo demografico, economico e sociale determinò un mutamento epocale che, anche in un Paese povero di risorse naturali come l’Italia, portò a enormi progressi in tutte le attività e al formarsi di un sistema tecnologico di innovazioni nei vari settori tra loro concatenati, per cui ciascuna attività si rifletteva su tutte le altre, in un continuo movimento evolutivo. In questo vasto fenomeno ogni produzione agricola seguiva un destino diverso, in funzione di molteplici fattori, connessi alle potenzialità originarie, alle possibilità di sfruttarle utilmente con nuove tecnologie, all’adattamento delle

Patata in Italia

• Vincenzo Dandolo, senatore del Regno

d’Italia e sostenitore della diffusione della coltura della patata nelle regioni settentrionali, in una lettera a Filippo Re (Nuovi cenni sulla coltivazione de’ pomi di terra e vantaggi della medesima in rapporto al ben essere dell’uomo), documenta con chiarezza i vantaggi della coltura per i coloni e i proprietari terrieri, ma anche la ritrosia dei primi a farne una parte sistematica dell’ordinamento produttivo aziendale: “Quelli tra i miei coloni, che con più fervore si sono dati alla coltivazione de’ pomi di terra, non hanno punto sofferto quest’anno del grand’aumento ne’ prezzi de’ generi. Sono vissuti in inverno con pomi di terra, hanno ritratto contante vendendone, hanno risparmiato il formentone, e se l’hanno conservato pel tempo del maggiore bisogno, quando per averlo avrebbero dovuto consumarvi tutti i piccioli dei loro capitali, come ad altri è accaduto”

Patata a inizio fioritura nella campagna bolognese

Foto R. Angelini

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storia economica e sociale produzioni ai consumi e ai relativi mutamenti. I risultati di questo processo sono stati spesso sorprendenti. Si pensi al mais, la cui destinazione era stata pensata e volta in precedenza verso la nutrizione umana, che invece è diventato la principale fonte alimentare per il bestiame, a sua volta cresciuto a dismisura per l’imponente aumento della domanda di carni, latticini e uova. Anche per la patata si è manifestata una tendenza analoga, ossia la parte dedicata all’allevamento animale ha sopravanzato, soprattutto nell’Europa settentrionale, la “fetta” utilizzata per la nutrizione umana, che attualmente è stimata pari alla metà di quella zootecnica.

Vantaggi della patata

• La patata, dunque, secondo

l’esperienza di Vincenzo Dandolo, non era solo conveniente come succedanea del frumento, ma anche del mais

• I vantaggi erano i seguenti: “[...] se

il colono potesse accertarsi, che la coltivazione de’ pomi di terra [...] fosse per esser di vantaggio, ne risulterebbe chiaramente: 1) la coltivazione de’ pomi di terra progredirebbe rapidamente e proporzionalmente ai bisogni di consumazione in parecchi mesi dell’anno. 2) Che per essa il proprietario troverebbe grandissimo lucro pel miglioramento de’ fondi, che ne seguirebbe [...]. 3) Che questo miglioramento di fondi trarrebbe seco l’aumento di ogni genere di prodotto, e quindi del loro valore, e del capitale nazionale. 4) Che allora diverrebbe universale l’idea, che una saggia liberalità figlia dell’incivilimento è l’anima vera dell’agricoltura; onde cedendo la povertà al ben essere, disparirebbe per conseguenza la barbarie, e l’ignoranza, per dar luogo nelle campagne alla moralità, ai lumi, alle più care affezioni tra proprietari, e coloni”

Una pianta, ora europea, per molte destinazioni In origine la pianta della patata rappresentava una sola innovazione di prodotto. Poi, cambiando il volume e la qualità della domanda, da quell’innovazione ne sono scaturite molte altre, recepite dall’agricoltura come diversificazione produttiva e commerciale. Il modo più semplice per valutare questo fenomeno complesso è considerare le utilizzazioni che si sono delineate con il formarsi di una domanda esogena all’agricoltura. In primo luogo il consumo alimentare si è spezzato in due: è in parte primaverile per le varietà precoci, che giungono sul mercato ad aprile-maggio, e in parte autunnale e invernale, rivolto alle patate comuni e conforme alla tradizione originaria europea. Le prime soddisfano la richiesta di un prodotto fresco in un momento in cui pochi altri ortaggi sono disponibili, le seconde invece si rivolgono ai consumi di maggiore rilevanza quantitativa, che riguardano le numerose preparazioni inventate in tanti Foto R. Angelini

Campi baulati per la semina nel Fucino (AQ)

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storia e arte anni di pratica alimentare. I mercati che su queste si sviluppano sono diversi, essendo nel primo caso quello dei prodotti freschi, soggetti a rapide variazioni dei prezzi in funzione della domanda più o meno elevata, mentre per le seconde, che possono essere conservate a lungo, i prezzi sono più stabili, anche se risentono della concorrenza internazionale, da quando i trasporti facili, veloci e poco costosi hanno messo in contatto aree tra loro molto lontane. Tant’è che il mercato europeo è fortemente influenzato dalle produzioni settentrionali, dove le condizioni ambientali sono più favorevoli alla coltura. Nel passato si pensava che, per un prodotto così semplice, la coltura si sarebbe rifugiata appunto al Nord Europa, dove i costi unitari di produzione appaiono minori. Ma poi si è visto che i margini di miglioramento qualitativo della patata sono notevoli, in funzione dell’aspetto del tubero, delle varie destinazioni alimentari e dei contenuti nutritivi specifici, che possono essere accresciuti con opportune tecniche colturali. Così sono sorte linee di produzione, caratterizzate da specifici nutrienti (generalmente microelementi come il selenio e lo iodio). Ma ciò corrisponde a un indirizzo nuovo, consistente nell’utilizzare la pianta come portatrice di fattori nutritivi particolari, nonché di principi farmacologici. È la cosiddetta nutraceutica, ora nella fase iniziale, che promette la formazione di un alto numero di nicchie di mercato, talune di grande interesse economico. Essa non riguarda solo l’uomo, ma tutti gli allevamenti zootecnici che, come si è accennato, consumano complessivamente la metà della produzione mondiale di patate. Anzi, dal punto di vista mangimistico c’è tutto un campo da esplorare, vale a dire la creazione di varietà

Rifiuto dei coloni

• Per capire l’ultima considerazione

espressa da Vincenzo Dandolo (vedi Box La patata in Italia) occorre ricordare il rifiuto dei coloni per la coltura della patata, che lo stesso Dandolo riferisce così: “Un timore solo a quanto penso, può alienare il colono da questa coltivazione, e forse questo timore è fondato sull’esperienza. Suppone il colono, per quanto ascolto, che traendo egli da poca terra, e con poca fatica con che sussistere, possa il proprietario impiegare a suo pro tutti gli altri mezzi, e tutto il restante de’ suoi terreni. In tal ipotesi il colono avrebbe il suo nutrimento favorito per assumere un altro contrario alle sue abitudini, trovandosi del pari costretto a travagliare per aumentare soltanto vantaggi al proprietario”. Singolare motivazione per gli uomini d’oggi, ma concreta nella già avanzata Lombardia del primo Ottocento

Raccolta delle patate in Perú

Foto R. Angelini

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storia economica e sociale adattate alle esigenze specifiche dei vari tipi di bestiame, nelle diverse fasi di sviluppo. Inoltre, si è visto che l’adattamento del prodotto al mutare delle condizioni e dei modi di consumo implica fenomeni di forte di integrazione tra agricoltura e industria di trasformazione, consolidando la produzione a livello territoriale. La trasformazione delle patate in chips è stato il primo esempio di successo in questo campo, e ha consentito di mantenere e accrescere consumi che altrimenti, in una società divenuta molto dinamica, con poco tempo da dedicare ai pasti, sarebbero stati soddisfatti da altri prodotti. Poi, naturalmente, le chips hanno trovato, a loro volta, numerose diversificazioni, andando a riempire gli scaffali della distribuzione. Un altro capitolo importante, affermatosi da molto tempo in talune aree, è l’utilizzo dell’amido delle patate per produrre etanolo in generale, ma anche bevande come la popolare vodka dell’Europa centro-orientale, la quale, benché sconsigliata dagli esperti di dietetica e di nutrizione, è fortemente consumata e genera commerci di rilievo. Un utilizzo prevalentemente non alimentare della patata è quello dell’industria amidiera, cresciuta sull’onda delle eccedenze produttive sistematiche legate alla politica dei prezzi dell’Unione europea e della forte espansione degli impieghi non alimentari, come nella produzione cartaria, nella produzione di materiale facilmente degradabile per l’impacchettamento di merci di ogni genere, e come eccipiente per le produzioni farmaceutiche. Anzi, in tempi recenti, ciò ha stimolato la messa a punto di varietà di patate specializzate per la produzione della frazione di amido utilizzata per tutti questi

Filippo Re e Antoine Parmentier

• Filippo Re, nei primi anni dell’Ottocento,

quando cominciò a manifestarsi in Italia un certo interesse per la coltura della patata, condivise il parere di alcuni agronomi francesi che suggerivano di chiamare la pianta con il nome di “parmentiera”, abbandonando il termine comunemente usato, che poteva essere confuso con quello di una specie botanica diversa, nota per i tuberi dolci (il Convolvulus batatas). Il nome proposto voleva rendere onore ad Antoine Parmentier, che in Francia aveva dato grande notorietà e impulso alla coltura della patata

• Antoine Parmentier, come farmacista

incaricato delle necessità alimentari dell’esercito francese, durante la Guerra dei Sette anni contro Gran Bretagna e Prussia sperimentò l’impiego della patata nella nutrizione umana, mettendo a punto numerose ricette. Di ritorno dalla guerra scrisse una memoria, con cui vinse un concorso sul tema della sostituzione dei cibi di uso comune durante le carestie, che divenne famosa, convincendo i suoi concittadini, fino ad allora timorosi della tossicità della patata, a consumarla senza preoccupazione e, soprattutto, a considerarla un cibo pregiato, degno di figurare sulla mensa dei ricchi. Ciò ebbe un effetto promozionale di grande rilievo, generando un rapido sviluppo del mercato. Tale sviluppo si estese e si consolidò nel periodo napoleonico, allorché, in seguito alle sanguinose guerre, si manifestò una grave carenza di generi alimentari

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Patata dolce (Ipomea batatas) in Cina

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storia e arte scopi (le amilopectine), eliminando l’altra parte (l’amilosio), che rappresenta un ostacolo costoso e inquinante per i processi di trasformazione. Dato che, nonostante gli sforzi profusi con le tecniche del miglioramento genetico tradizionale, non è stato possibile arrivare a una pianta ideale produttrice della sola parte utile, con l’ingegneria genetica, di recente, è stato possibile ottenere una varietà in cui il gene che codifica la parte indesiderata è stato disattivato. Dunque, non si è trattato dell’aggiunta di un nuovo gene, preso da altre piante o addirittura da animali (come è accaduto, invece, per altre colture, per esempio il mais), bensì del silenziamento di un gene da sempre esistente. Tuttavia, il fatto che la nuova varietà sia stata ottenuta con le tecniche dell’ingegneria genetica ha scatenato l’aspra polemica di quanti in Europa, e particolarmente in Italia (che pure non ha un’industria amidiera fondata sulla patata), si oppongono a tutti gli organismi geneticamente modificati, ottenendone finora l’interdizione generale. Eppure, nello specifico caso menzionato, la nuova varietà sarebbe di grande utilità, sia per l’industria che potrebbe ridurre il costo dell’amido e che avrebbe interesse a stabilire un rapporto di stretta integrazione con l’agricoltura, concordando con essa precisi contratti di produzione (con tutta una serie di garanzie sui prezzi molto importanti per gli agricoltori), sia per la società tutta, perché taluni sottoprodotti della trasformazione industriale inquinanti per l’ambiente si ridurrebbero a poco o a nulla. Tuttavia, in seguito alla proibizione della patata GM, pare che un importante istituto di ricerca europeo abbia ottenuto, con tecniche diverse da quelle dell’ingegneria genetica, il medesimo risultato.

Patata nel mondo

• Insieme a frumento, riso e mais,

la patata è una delle quattro più importanti risorse per la nutrizione dell’umanità. La crescita mondiale della sua produzione è elevata, oggi concentrata nei Paesi a più alto sviluppo demografico ed economico – ma con scarsa dotazione di terra coltivabile – come Cina, Indonesia e India

• È nei Paesi europei, tuttavia, che la

ricerca e lo sviluppo della coltura hanno raggiunto i livelli più elevati, in termini sia di quantità sia, soprattutto, di qualità. In Europa il Paese guida è l’Olanda, che ottiene rese produttive medie di 45 t/ha, con la prospettiva di arrivare presto al raddoppio

• Anche senza utilizzare le tecniche

dell’ingegneria genetica, risultati di rilievo sono ottenuti, per il miglioramento della qualità, con i marcatori molecolari, mentre per la resistenza alle malattie esistono varietà, in questo caso GM (ancorché cis-geniche, ossia con geni che provengono da piante selvatiche della stessa specie), pronte per essere utilizzate, a cui manca solo l’autorizzazione amministrativa

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Raccolta delle patate nella Valle del Colcha

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storia economica e sociale Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

La strada dell’innovazione, e quindi della differenziazione ulteriore della patata in funzione dell’utilizzazione, è aperta. Ma su questa strada, nonostante le inevitabili resistenze, molti altri passi sono da attendersi e, insieme a essi, grandi trasformazioni delle organizzazioni produttive. Pertanto, è prevedibile che per un lungo periodo la concorrenza tra le varie aree di produzione del mondo sarà sempre più legata alla capacità innovativa, ossia alla ricerca e allo sviluppo, che traducono le molte potenzialità inespresse della coltura in realtà agro-industriali. In questo campo l’Europa ha la maggiore esperienza e svolge una funzione di guida, perché, dopo secoli dall’arrivo per mezzo delle tristi navi negriere, la patata è diventata, a pieno titolo, europea.

Scene di vita delle popolazioni andine

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Origine del nome Roberta Maresci

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storia e arte Origine del nome Patata: da fiori per nobili a tubero per i poveri Gesù l’aveva detto: “Sta scritto, non di solo pane vivrà l’uomo”. Tant’è che ci sono anche le patate: alimento base per più di un miliardo di persone in tutto il mondo anche grazie ad Antoine Augustin Parmentier che sposò la causa della “mela di terra” o pomme de terre, come i francesi chiamano la patata; traduzione di aardappel coniato dagli olandesi, diventato ‫חופת‬-‫המדא‬ in ebraico (spesso scritto solamente ‫ )דופ‬ed erdaepfel in tedesco austriaco. Può sembrare strano all’attuale generazione di ragazzi cresciuti a patatine fritte e purè ma fino al Settecento la patata era considerata una pianta ornamentale i cui fiori venivano usati dalle dame alla moda per adornare i propri capelli e non fu un’impresa facile per Parmentier farne accettare le doti gastronomiche. Dato agli Inca il merito di battezzarla così come oggi la intendiamo, mentre per la botanica è Solanum tuberosum, si affermò in tutta l’area mitteleuropea nella variante kartoffel, che deriva invece dall’italiano tartuffoli, e basta rispolverare alcuni dialetti del Friuli (dove si dice anche patacje) per ritrovare la variante latinizzata di cartufole o cartufolaria. Storpiature inevitabili risalenti all’epoca in cui il tubero, vegetale esotico e sconosciuto, giunse in Italia: era il XVI secolo. Fu portato dalla Spagna dai carmelitani scalzi che lo chiamarono, per la sua somiglianza con i tartufi, tartuffo o tartufflo o tartufolo, nome che i francesi cambiarono in cartoufle. Da non confondere con la cartufule o il cartofule che per i friulani è invece

Come si dice “patata” in alcuni Paesi e lingue

• Angola: batata, ekapa, mbala za puto, hapa, lumbatata wa imbari, muanza, epa, nbala

• Australia: potato, spud • Azerbaijan: kartoşka, kartof, yeralması • basco: patata • Belgio: aardappel, pomme de terre, kartoffel

• Bielorussia: бульба • Brasile: batata inglesa • Bulgaria: • Canada: potato, pomme de terre, patata • cinese: • Croazia: krompir • Danimarca: kartoffel • ebraico: ‫המדא חופת‬ • Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia: ‫سطاطبلا‬

• esperanto: terpomo • Estonia: kartul • Finlandia: peruna • Francia: pomme de terre • Germania: Kartoffel • Giappone: じゃがいも (jagaimo), 馬鈴薯 (ばれいしょ, bareˉsho)

• Grecia: πατάτα • Indonesia: kentang • inglese: potato • Irlanda: práta, potato • Italia: patata • Kazakhstan: Картоп segue

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origine del nome il topinambur, quella specie di girasole in piccolo (Helianthus tuberosus), che cresce anche spontaneo e produce tuberi eduli. In una delle situazioni più drammatiche della sua vita, fatto prigioniero dai Prussiani durante la Guerra dei Sette anni (1756-1763), Parmentier venne sfamato dalle razioni di patate concesse dai carcerieri germanici. Federico II di Prussia aveva da tempo introdotto questo alimento nel rancio delle truppe, non senza lamentele da parte dei soldati che ancora lo consideravano cibo per gli animali e veniva chiamato con il nome dialettale di patätsche e pataken. Ma la situazione non ammetteva pretese: il regnante impose le patate nelle cucine da campo. Tornato alla libertà, Parmentier cominciò la sua opera di propaganda, faticando non poco per convincere la gente a mangiare grundbirne o “pere di terra”, da cui derivano i termini krompir del croato, brambor del ceco, peruna del finlandese, jordpäron dello svedese e klumberis del lituano. Altra è l’origine del nome nella lingua del popolo slovacco, che chiama la patata zemiaky, assegnando al termine il significato di “terra”. È lì che Parmentier piantò il tubero mettendo a segno il punto che gli valse la promozione della patata: da fiori per nobili a tubero per i poveri. Dopo averne coltivate nella pianura dei Sablons, e prima di proporre altri usi dello sciroppo di vino, tra un perfezionamento e l’altro dei metodi praticati nella macinazione e nella panificazione, dal giorno in cui Parmentier offrì un mazzo di fiori di patata a Luigi XVI a quando elaborò un banchetto tutto a base di patate, nel 1787, trascorse ben poco tempo. C’è da scommettere che stesse ancora assaporando il gustoso cibo quando, rivolgendosi al futuro ispettore generale della Sanità (nel 1803), il re disse: “La Francia, un giorno, le sarà grata di aver trovato il pane per i poveri”. Molta gente infatti riuscì a sfamarsi grazie a questa umile ma preziosa alternativa al pane e alla pasta. Avvenne anche a casa nostra, dove la patata aveva avuto più fortuna con il nome di tartifola, per via di quella somiglianza nella forma e nella sostanza al tartufo, che i bulgari hanno chiamato e i russi . Sopravvissuto solo in alcuni dialetti del Nord Italia (ligure, piemontese e lombardo), il termine tartifola (storpiato anche in trüffa o batàtta dai genovesi) ha subito non poche modifiche dopo le guerre napoleoniche, scendendo a patti con le regioni, smussando il nome, tenendo conto delle diverse forme di patata censite. Così, accanto alla puma de terra novella di Messina è del tutto normale trovare la pateda, tipica dell’Emilia. Non stupisce neppure che la qualità patatis cojonariis friulana venga detta carùfule o cartufulaia. La molisana patata lunga di S. Biase è conosciuta come tapane e ha un gusto diverso rispetto al papagno, quella calabrese prodotta sulla Sila. Che dire della patìta o patana pugliese? Della patèta umbra? Sono assolutamente distanti dalla petatera (pianta) o patata (tubero), come si

continua

• Kenya: kiazi, egiasi, mbatata, potato, enkwashei

• Kyrgyzstan: картофель, картуршкур

• limburghese: irpel • Lituania: bulve˙ • Malawi: mbatata, potato • Nigeria: potato, nduko, dankalin turawa, duku, atsaka

• Norvegia (bokmål): potet • Nuova Zelanda: potato, taewa, rīwai • Olanda: aardappe, pieper, patat • Pakistan: ‫ولآ‬ • Polonia: ziemniak, kartofel, pyra • Portogallo: batata, batatinha • Regno Unito: potato, taten, buntàta • Rep. Islamica Iraniana: ‫ينيمز ب‬ • Repubblica ceca: brambor • Romania: cartof • Russia: • Rwanda: ibirayi, pomme de terre, potato

• Slovacchia: zemiaky • Slovenia: krompir • spagnolo: papa • Sudafrica: aartappel, igwili, itapile, izambane, letapola, potato

• Svezia: potatis, potät, jordpäron • Turchia: patates • Ucraina: картопля • Uganda: kiazi, lumonde, potato • Ungheria: burgonya • urdu: ‫ولآ‬

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storia e arte dice nel Veneto il tubero che ricambia nome in petata a Cappadocia, mentre in Cadore diventa pestorte: poteva la provincia di Belluno rimanere estranea al discorso? Assolutamente no, infatti nella zona è facile trovare le “patate cornette” o “patate bigole” (patate piccole): il loro nome, ovviamente, si deve alla forma allungata che tende alla virgola. Comunque la si chiami, la patata, insieme ad altre colture, ha scandito e determinato le vicende umane, per il cibo ma non solo per quello. Un esempio fra i molti possibili: la necessità di trovare terre fertili per coltivare ulivi, ortaggi e cereali incentivò l’espansione di Roma antica, evento che ebbe una serie di conseguenze tra cui disboscamenti, bonifiche, acquedotti, strade e nuove città. C’è da dire che le patate comunque non arrivarono in Europa con Cristoforo Colombo ma con i Conquistadores, provenienti dall’Estremadura, quando presero di mira il Perú dove trovarono l’umile tubero (il vero tesoro) che il popolo andino coltivava da tempo. La storia la conoscono bene anche in Cile e in Bolivia, dove gli spagnoli hanno attinto per coniare il termine patata giunto a noi per loro tramite, prendendo la parola papa (che in quechua significa appunto tubero) e unendola con l’haitiano batata. Risultato? Povera, amata e odiata, come era stato per il mais tra le popolazioni più povere, la patata è diventata multietnica. Anche se papa è il termine usato ancora oggi nelle regioni che per prime l‘assaggiarono: le Canarie, l’Andalusia e l’Estremadura, regione confinante con il Portogallo il cui nome vuol dire “terra negli estremi”, terra nel limite delle frontiere che ha dato i natali a molti Conquistadores, figli d’una terra ingrata che offriva poche risorse. Furono questi contadini a chiamare la patata turma de tierra, che letteralmente significa “testicoli di terra”, un appellativo popolare dei tartufi nell’Estremadura. Invece nel resto della Spagna il tubero si chiama “patata” che trae origine da potatl (in lingua nahuatl), forse per analogia con la sorella dolce Ipomoea batatas, la cosiddetta “patata dolce americana” che molti di quei soldati andati nelle Americhe riportarono nascosta nelle loro sacche da viaggio: la chiamarono batata e la diffusero con la convinzione di aver trovato un raro tartufo più alla portata di tutti. Per gli svedesi è potatis. Per gli inglesi è potato. Ma su una cosa gli esperti di tutto il mondo sono d’accordo: la sua diffusione fu piuttosto lenta. La diffidenza nei suoi confronti, alimentata dalla superstizione, dagli effetti nocivi provocati dall’uso improprio, a poco a poco si dissipò e la patata conquistò il posto che le spetta sulla mensa dei popoli tanto che Friedrich Engels, celebre economista tedesco, tessendone gli elogi, arrivò ad affermare che la patata ha rivoluzionato la storia quanto la scoperta del ferro. 66


origine del nome Apprezzata in America del Nord e in Europa, la patata non ha goduto di un particolare successo in Giappone, in tutta l’area islamica e in Cina dove però sono stati coniati tanti termini per indicarla; quello che va per la maggiore è “tubero per cavalli” ( 马铃薯 - mǎlíngshǔ), tallonato da “fagiolo di terra” (土豆 - tˇudòu) e “taro straniero” (洋芋 - yángyù). In parecchie lingue indiane settentrionali e nepali, la patata è chiamata alu. In indonesiano diventa kentang. Come si è visto, i nomi che hanno accompagnato il suo progresso nella storia sono stati tali e tanti da spingere, nel 1777, Engel a illustrarne alcuni, scherzosamente, attraverso la descrizione delle peripezie di un carico di tuberi partiti dall’Irlanda alla volta di Lione e poi del suo orto. Avevano lasciato l’Irlanda come potatoes, erano giunti a Bordeaux come patatas ed erano ripartiti come truffes rouges o truffes blanches. Alla dogana di Lione diventarono truffes sèches e furono sottoposti a dazio. Nel frattempo gli fu dato anche il nome di truffières anche se per tutti erano pommes de terre. A volte alcuni termini si incontrano in luoghi molto distanti da quello di origine: in Malesia e a Ceylon, giunto al seguito degli olandesi, troviamo aartappel. In altre zone è stata adottata una forma tradotta: in Persia il tubero è chiamato con il nome di sibii-Zamini (mela di terra) e in Transilvania è conosciuto come mere de parmint (dove mere deriva da malum e quindi indica la mela, mentre parmint significa “terra”). È “mela di terra” anche in Finlandia dove si pronuncia come maaomena. In Polonia e Ucraina diventa rispettivamente ziemniak e zemnyak. Adotta questa forma anche la Grecia moderna con geomelon. Nell’area danubiana si è diffusa la definizione “pera di terra”: dal tedesco grundbirne al bulgaro krumpir e gombiri con la forma plurale gombelki. In serbo diventa krompir e krumpir, in sloveno krompir e in ungherese krumpli. Nel corso della sua affermazione in Europa, la “mela di terra”, caduti nell’oblio i termini meno noti di poire de terre, poirette e pomette, fu capace di conquistare anche uno degli scienziati più celebri di tutti i tempi. Alessandro Volta, di ritorno da un suo viaggio in Francia, portò come dono alla sua famiglia uno strano ortaggio dalla forma ovoidale. Il grande fisico contribuì e non poco alla diffusione e alla coltivazione della patata nella sua terra. La patata guadagnò il suo posto a tavola grazie anche a Pellegrino Artusi e al suo libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Opera pubblicata a Firenze nel 1891, dopo numerosissime ristampe, ha contribuito all’unificazione nazionale più di quanto non abbia fatto il romanzo I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Prodiga di ricette a base di patate (budini, sformati, piatti in umido, stufati, insalate), descrive al lettore anche un dolce fatto di patate, che Grazia Deledda definiva “rotonde e lisce come uova di marmo giallo”. 67


la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata nell’arte Beatrice Buscaroli

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storia e arte Patata nell’arte Giuseppe Arcimboldo: il primo “ritrattista” della patata nella storia dell’arte Cibo poverissimo, poco attraente sul piano della sua raffigurazione, e apparso alla ribalta alimentare relativamente tardi, la patata compare di rado nella storia dell’arte. Prima che la povertà diventasse un tema da raffigurare in pittura, prima che la patata si diffondesse per sfamare i poveri, a partire dalle campagne di Luigi XVI (si veda il romantico Interno d’Atelier, Pittore accanto al camino di Octave Tassaert del 1845, Parigi, Louvre) fino a quelle di Federico II di Prussia, la patata conobbe il suo vero ritrattista. Era appena arrivata nel Vecchio continente, non era ancora simbolo della miseria, giungeva attraverso la Spagna nell’Europa che celebrava l’ultima sontuosa stagione dell’arte degli imperi. Nato da un pittore di nobile famiglia, Giuseppe Arcimboldo “pittore raro, e in molte altre virtù studioso” interpretò il tramonto del Rinascimento con l’invenzione di “teste composte”. I ritratti di Arcimboldo sono eseguiti accostando cose, frutti e fiori, simbolicamente connessi al soggetto raffigurato. Arte profondamente manierista, nel senso dell’eleganza e dello svelamento, della metafora e dell’enigma, Arcimboldo ritrasse la patata appena giunta in Europa. Pittore di corte di Massimiliano II d’Asburgo a Vienna, una delle capitali del manierismo internazionale, il bizzarro milanese dipinse le Quattro stagioni, oggi al Louvre. E nell’Autunno, verdastra caduta di grappoli e tralci di uve, raffinatissima variazione di gialli e arancioni, proprio al centro del collo

Manierismo

• Il termine Manierismo apparve verso

la fine del Settecento ma fu adottato dalla critica moderna per indicare alcuni aspetti della cultura figurativa cinquecentesca. Deriva da “maniera” e può avere, di volta in volta, significato negativo o positivo. Ristudiato e rivalutato nel secolo scorso, oggi serve per indicare gli accadimenti artistici compresi tra la morte di Raffaello (1520) e l’inizio del barocco

Giuseppe Arcimboldi, L’Autunno (1573), Museo del Louvre, Parigi (© Archivi Alinari, Firenze)

Octave Tassaert, Interno d’atelier (1845), Museo del Louvre, Parigi (© 2011 White Images/Archivio Scala, Firenze)

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patata nell’arte campeggia quella che probabilmente è la prima patata della grande storia dell’arte. Tornerà ancora, vent’anni dopo, sempre a sorreggere parte del collo del nuovo protettore, Rodolfo II d’Asburgo raffigurato come Vertumno, dio romano delle stagioni (Stoccolma, Skoklosters Slott, Styrelsen). In un tripudio di ortaggi e colori, zucche, ciliegie e fiori degni di un miniaturista fiammingo, la patata di Arcimboldo è raffigurata nella sua disarmante essenzialità. E vi batte sopra un raggio di luce forte e preciso. Lo seguirono Nicola van Houbraken alla fine del Seicento, che, nella sua Cesta con ortaggi e germani (Poggio a Caiano, Villa Medicea, Museo della Natura Morta), inserì due patate tra un cavolfiore e alcuni sedani, e uno dei protagonisti del Settecento europeo, quel Jean-Baptiste-Siméon Chardin che, nella sua Natura morta di Gand (Museum voor Schone Kunsten) raffigurò una cascata di tuberi, in una variazione di gialli, ocra, marroni, silenzio e mansuetudine.

Arcimboldo

• Giuseppe Arcimboldi o Arcimboldo

(1527-1593) è uno dei più significativi rappresentanti della cultura manierista internazionale. Nato e formatosi a Milano, nel 1562 venne chiamato a Vienna, dove divenne il pittore prediletto dell’imperatore Massimiliano II, e, più tardi, a Praga che Rodolfo II elesse capitale dell’impero

• Inventò un tipo completamente nuovo

di ritratto, dove le sembianze del soggetto sono raggiunte attraverso l’assemblaggio di cose inerenti la sua natura. Così la Primavera è una fanciulla composta di fiori ma mantiene le sembianze di una fanciulla, e l’arcigno Bibliotecario prende le sembianze da un ammasso di libri. L’idea, concettualmente raffinatissima e complessa, si lega al gusto per l’allegorismo magico-alchemico delle corti tardo cinquecentesche, al senso del magico, all’attrazione per il “capriccio”

Vincent van Gogh: dagli scavatori e mangiatori di patate... Dopo aver fatto l’impiegato per qualche tempo, dopo essere stato licenziato, dopo aver provato che cosa significasse vivere accanto ai più derelitti e ai più miseri, i tessitori e i contadini che appartenevano, diceva, a una “umanità completamente diversa da quella di noi uomini civilizzati”, dopo aver tentato la strada della teologia, Vincent van Gogh decise di fare il pittore. Studiava sui libri e disegnava dalle fotografie di opere famose, completamente autodidatta o quasi. Era ancora nel Borinage, la zona mineraria vicina a Bruxelles, dove predicava liberamente la

Nicola van Houbraken, Cesta con ortaggi e germani morti (1680-1710 ca.), Museo della Natura Morta, Poggio a Caiano, Villa Medicea (© Archivi Alinari, Firenze)

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storia e arte parola del Vangelo, quando, il 20 agosto del 1880, chiese a suo fratello Théo, già da allora suo confidente e protettore, di prestargli e “lasciargli per qualche tempo” una riproduzione dell’opera Fatiche nei campi di Jean-François Millet. Stava allora osservando, accanto a sé, “lo svolgersi gratuito della grande università della miseria”, la vita stenta di questi uomini e donne che vivevano nella povertà e nell’abbandono. “Cerchiamo di capire la parola definitiva contenuta nei capolavori dei grandi artisti, dei veri maestri, e vi si troverà Dio”, aggiungeva. L’intento era nobile e chiarissimo: il passaggio dalla predicazione alla pittura sembrava tendere allo stesso fine. Quando gli giunse l’immagine, il ventisettenne Van Gogh stava concentrandosi sul nuovo dovere: imparare a disegnare. Tra l’agosto del 1880 e il maggio dell’anno seguente eseguì decine di copie, schizzi, disegni e bozzetti dall’opera dell’illustre collega come dall’Angelus, sempre di Millet, di cui conservava una fotografia che gli aveva prestato un amico. Erano disegni a tecniche miste, a matita, gessetti, acquerelli, studi che riproducevano contadini, zappatori e gli scavatori di patate, come nell’Angelus. Ne mandò due a suo padre, con il quale aveva un rapporto di dolorosa incomprensione: “Ho mandato entrambi i disegni al papà – scrisse a Théo – così può sincerarsi del fatto che sto lavorando”. Cinque anni dopo tornò a vivere insieme ai genitori, a Nuenen, la città del Brabante del nord dove il padre era pastore protestante. La convivenza fu ardua, quotidianamente conquistata. In quei mesi, con lo studio stretto tra il deposito del carbone e il letamaio, compì decine e decine di studi dal vero, teste, per

Jean Baptiste Simeon Chardin, Natura morta, Museum voor Schone Kunsten, Gand (© 2011 Archivio Scala, Firenze)

Vincent van Gogh, I mangiatori di patate (1885), Museo Van Gogh, Amsterdam (© Photo ART Resource/Archivio Scala, Firenze)

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patata nell’arte prepararsi alla prima grande prova, la definitiva conquista dello status di pittore di figura che sarà la tela con I mangiatori di patate (Amsterdam, Museo Van Gogh). Nello studio aveva costumi, oggetti, attrezzi, povere cose che metteva in mano ai suoi modelli per descriverne la vita. Gli abitanti del villaggio posavano volentieri per lui, soprattutto i contadini durante l’inverno, mentre i tessitori “sono persone assai difficili da disegnare perché in quelle piccole stanze non ci si può allontanare abbastanza da poter disegnare il telaio”. I disegni di Nuenen rappresentano un’immersione completa nella pittura e in ciò che Van Gogh si prefigge di raffigurare. In una sorta di dolorosa identificazione tra soggetto e oggetto, tra gli spessori sgraziati di materie grosse e bituminose e la durezza del mondo che si deve rappresentare. Pennellate violente, sgraziate, contrasti di luce spietati. I mangiatori di patate è primo e ultimo quadro di figure di Vincent van Gogh e il gesto conclusivo di questa esperienza. Due contadini piantano tuberi di patate (Zurigo, Kunsthaus), opera di quel tempo e di quelle atmosfere, li mostra, quasi gli stessi, forse gli stessi, visti da dietro, da un occhio appena distante, e il tocco è grosso e approssimativo come in un bozzetto. Se in questi anni Jean-François Millet è la guida ideale da seguire come fosse un maestro vero e proprio, Rembrandt e Frans Hals sono i modelli irraggiungibili a cui ispirarsi. Olandese fino in fondo, nella affocata miseria della piccola tavola da pranzo ha messo, insieme, echi dell’uno e dell’altro: i contrasti di Frans Hals e le accensioni di Rembrandt. L’eccesso espressionista che dà ai volti la maschera di caricature è la sua disperazione.

Georges Rohner, Raccoglitori di patate (1956), Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Parigi (© White Images/Archivio Scala, Firenze)

Arkadi Plastov (XX sec.), La raccolta delle patate, Museo Statale Russo, San Pietroburgo (© 2011 Archivio Scala, Firenze)

Vincent van Gogh, Due contadini piantano tuberi di patate (1885), Kunsthaus, Zurigo (© The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, Firenze)

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storia e arte Il quadro, seguito da una litografia, suscitò molte critiche. Non piacque a Théo, che ne giudicò le figure troppo piatte, né all’amico pittore Anthon van Rappard, che stava seguendo i progressi del lavoro di Vincent. “Sarai d’accordo che un lavoro del genere non è da prendere sul serio! – gli scrisse impetuosamente Rappard – sei capace di ben altro”. Nel silenzio allucinato, nel chiarore saltellante che si sprigiona dalla lampada a olio appesa al soffitto, la famiglia è seduta al tavolo su cui campeggia l’unico piatto di patate. Nessuno sguardo, nessuna parola. I volti, studiati e ristudiati nei fogli dei mesi precedenti, sono deformati fino al grottesco: “Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi del piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute”, scrisse Van Gogh del suo quadro. “Il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che qui i contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole”.

Angelus di Millet

• Al principio degli anni Trenta

il surrealista spagnolo Salvador Dalì dedicò all’Angelus di Millet un libro molto particolare, trascrizione letteraria di un “fenomeno delirante” accadutogli, e frutto di “un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione critico-interpretativa dei fenomeni deliranti”. Dalì era venuto a sapere che in un primo tempo “Millet aveva dipinto, tra i contadini raccolti in preghiera, una bara che racchiudeva il figlio morto, a destra presso i piedi della madre”. L’artista sarebbe stato convinto a cambiare idea da un amico che gli aveva consigliato di evitare l’impatto del pubblico con scene troppo tragiche

... alle due contadine che raccolgono patate e alla Natura morta con cesto di patate Se per giungere a I mangiatori di patate, terminato all’inizio di maggio del 1885, Van Gogh aveva eseguito molti studi di teste e di figure all’interno delle case, nei mesi seguenti, durante l’estate e l’autunno, aveva ritratto all’aperto i contadini al lavoro. Due contadine che raccolgono patate è una teletta di pochi centimetri sulla quale un pennello grasso e sommario stende le sagome curve di due vecchie intente a zappare (Otterlo, Kröller-Müller

• Dalì convinse i conservatori del

Louvre a esaminare il quadro, icona della pittura francese dell’Ottocento e da pochi decenni acquisito dallo stesso museo, facendo eseguire una radiografia nella quale realmente compare, ai piedi della donna, una massa scura che sarebbe la bara davanti alla quale pregano i due contadini

• Scomparso durante l’occupazione

tedesca, il libro, intitolato Il mito tragico dell’Angelus di Millet, fu ritrovato ventidue anni più tardi e pubblicato per la prima volta nel 1963

Petrov-Vodkin Kuzma (1878-1939), Natura morta con aringa, Museo Statale Russo, San Pietroburgo (© Archivio Scala, Firenze)

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patata nell’arte Rijksmuseum). Bisogna dipingere un contadino che stia veramente zappando, spiegava a suo fratello: “Il contadino deve essere un contadino e lo zappatore deve zappare”. Così è la piccola tela con la Donna intenta a pelare patate del Metropolitan Museum di New York, dello stesso 1885, studio di riflessi e atmosfera insieme, ancora intriso di memorie rembrandtiane. La Natura morta con cesto di patate, eseguita nel medesimo 1885 (Amsterdam, Museo Van Gogh), ha la stessa luce de I mangiatori di patate. Variazione sui toni del bruno, del marrone, dell’ocra, del grigio, la tela è prospetticamente semplicissima, elementare. La luce cade dall’alto, la superficie è scabra e rugosa. Tre anni dopo, quando van Gogh si metterà davanti un altro recipiente pieno di patate, la Scodella del Kröller-Müller Rijksmuseum di Otterlo, cambierà completamente colori e stile. Sono gli anni della Provenza, della luce del Mediterraneo, della rinnovata fiducia in se stesso che lo porteranno alla pienezza raggiunta soltanto in quei mesi del 1888. Contrasti sottili accostano i colori, il giallo della ciotola getta riverberi luminosi, lo sfondo, realizzato con un intreccio di pennellate azzurre, sfiora l’astrazione. Jean-François Millet: L’Angelus della sera L’Angelus della sera, opera eseguita da Jean-François Millet tra il 1858 e il 1859, era stato esposto al Salon del 1863 con enorme successo. Il dipinto, il primo su cui Van Gogh si fosse concentrato nella solitudine attenta della sua formazione, era diventato in pochi anni una delle immagini più riprodotte della storia dell’arte del suo secolo. Diffuso in decine e decine di esemplari su alma-

Vincent van Gogh, La pelatrice di patate (1885), Metropolitan Museum of Art, New York (© The Metropolitan Museum of Art/Art Resources/Archivio Scala, Firenze)

Nelly Trumel, Patate (1998), collezione privata (© 2011 BI, ADAGP, Paris/Archivio Scala, Firenze)

Jean François Millet, L’Angelus, Musée d’Orsay, Parigi (© 1990 Archivio Scala, Firenze)

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storia e arte nacchi e cartoline, raffigurava due contadini còlti a pregare alla fine di una giornata di lavoro. È il tramonto e il sole spande i suoi raggi sulla vasta piana, le figure sono maestose e solenni. La luce avvolge le due meste sagome intente alla recita dell’Angelus rendendole parte del paesaggio stesso. Forcone, cesto, sacchi e carriola sono sparsi a terra per il momento di quiete, prima del riposo notturno. Quando si procurò la fotografia dell’Angelus, Van Gogh aveva già tre copie di un’incisione del quadro, acquistate da Durand-Ruel nel 1876, a un franco ciascuna. “Il quadro di Millet con l’Angelus della sera, questo è un esempio di poesia”, aveva scritto due anni prima. Cantore di un idillio campestre dove il contadino è parte naturale del paesaggio, il bretone Millet, cresciuto in una fattoria sulla Manica, aveva per la prima volta raffigurato questo mondo con ostinata insistenza. Uno dei suoi primi contadini era stato esposto al Salon del 1848, l’anno del Manifesto comunista e delle prime lotte operaie. Alcuni anni dopo aver compiuto il quadro, Millet ricorderà: “L’Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo i campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il tocco della campana, ci faceva smettere per recitare l’Angelus in memoria dei poveri defunti”.

Realismo e realismo sociale

• Alla metà dell’Ottocento le questioni

sociali e politiche che attraversavano la storia fecero la loro apparizione in arte. E Gustave Courbet, oltre a definire “Realismo” il proprio programma, proclamò che scopo dell’artista era quello di “fare dell’arte viva”. L’affermazione secondo cui “l’arte storica è per sua natura contemporanea” creò enorme scandalo ma allo stesso tempo aprì la strada a opere di alto contenuto “sociale”: dagli Spaccapietre dello stesso Courbet alle immagini che rappresentavano i poveri, gli alienati e i diseredati dalla società, le donne perdute

• La ricerca di questa realtà, comune

tanto ai francesi quanto ai preraffaelliti inglesi e a molti rappresentanti delle diverse scuole pittoriche italiane, cambiò definitivamente anche il ruolo dell’artista stesso nella società e il significato del suo lavoro. L’espressione “realismo sociale” si usa ancora oggi per indicare lo stesso argomento, ossia una pittura che tratti realisticamente problemi sociali economici e politici della società contemporanea, dagli immensi proclami politici novecenteschi di Renato Guttuso ai contemporanei inglesi e americani (Ben Shahn, Kitchen Sink School)

Camille Pissarro, Raccoglitori di patate (1881), Metropolitan Museum of Art, New York (© The Metropolitan Museum of Art/Art Resources/Archivio Scala, Firenze)

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patata nell’arte Da Pissarro a Mirò a Guttuso Negli stessi anni in cui Van Gogh lavorava su questi temi, Camille Pissarro, spirito generoso e libero, il solo a non mancare nessuna delle esposizioni impressioniste succedutesi dal 1874 al 1886, esibì la sua precoce adesione alle teorie “puntiniste”, con la teletta a olio de I raccoglitori di patate (New York, Metropolitan Museum), del 1881. Un campo sghembo, illuminato da una luce che si sfrangia in minuscole schegge, raggi che colpiscono da dietro tre contadini di cui si vedono soltanto le sagome, sospesi in un momento di quiete, di riflessione, di riposo. Rarissime eccezioni, nel percorso storico in cui la patata significa principalmente povertà e miseria, anche e soprattutto dal punto di vista della pittura, spiccano soltanto Joan Mirò, con la macchinosa Patata del 1928, teatrino vibrante di spunti, motivi, colori (New York, Metropolitan Museum), e la Baked Potato di Claes Oldenburg, del 1967 (Los Angeles County Museum of Art), dove il soggetto, tra ironia e dissacrazione, assume la dignità di una vera e propria scultura. In Italia, in particolare, la patata si diffuse soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento. Il contadino di Riano Flaminio di Renato Guttuso del 1951 è un dipinto animato dallo stesso spirito che fu di Van Gogh. L’afflato sociale, la protesta mormorata, l’intento è identico. Identici la fatica e l’abbruttimento, identica la deformazione artritica delle ossa delle mani.

Joan Miró, La patata (1928), Metropolitan Museum of Art, New York (© The Metropolitan Museum of Art/Art Resources/ Archivio Scala, Firenze)

Roy Lichtenstein, Patata al forno (1962), Museum of Modern Art (MoMA), New York (© Museum of Modern Art, New York/ Archivio Scala, Firenze)

Claes Oldenburg, Baked Potato (1967), Los Angeles County Museum of Art (LACMA), Los Angeles (CA) (© 2011 Museum Associates/LACMA/Art Resources NY/Archivio Scala, Firenze)

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata negli atlanti botanici e nei trattati di farmacopea Paolo Puddu

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storia e arte Patata negli atlanti botanici e nei trattati di farmacopea Cronologia della patata, tra botanica e medicina

Tra scienza ed empirismo La patata (Solanum tuberosum) probabilmente raggiunse la Spagna dall’America attorno al 1560-1570, trasportata dagli esploratori spagnoli del XVI secolo. Una seconda introduzione in Europa, particolarmente in Inghilterra, è stata attribuita a sir Francis Drake, che nel suo viaggio attorno al mondo (1577-1580) incontrò le patate toccando la costa cilena nel 1578. Tuttavia, chiaramente le patate non sarebbero sopravvissute ai due anni di navigazione che lo ricondussero in madrepatria. Ciò rende poco credibili le ipotesi folcloristiche degli inglesi e degli irlandesi, che accreditavano a Drake l’introduzione della patata nei loro territori. La curiosità verso questa pianta esotica stimolò subito l’interesse scientifico dei botanici rinascimentali, e fra essi Charles de l’Escluse, nato ad Arras nel 1526, curatore dei giardini imperiali di Vienna e in seguito professore di botanica all’università di Leida, dove morì nel 1609. Clusius ricevette due tuberi e un frutto nel 1588 dal belga Philippe de Sivry, e descrisse per la prima volta la patata di origine andina facendola conoscere ai suoi allievi giardinieri in Germania, Austria, Francia e Paesi Bassi. Si deve al botanico svizzero Gaspard Bauhin (1560-1624) la descrizione della patata, che denominò Solanum tuberosum esculentum, e ne preparò una rappresentazione figurata, più stilizzata che scientifica, nel 1598. Nel Phytopinax theatri botanici del 1596 sospettò che la patata potesse essere veicolo di lebbra e causare stimoli sessuali eccessivi. Di qui le denominazioni folcloristiche di “pomo di Eva” o “testicoli della terra”. Ciò probabilmente contribuì a mettere all’indice il tubero nella Borgogna, come ha riportato John Gerard (1545-1612) nel suo Erbario del 1597, e quindi in altri Paesi europei. Va comunque attribuita a Gerard la prima illustrazione realistica della pianta, nel 1597, migliorata e resa più accurata nell’edizione del 1633. Meno credibili sono invece le affermazioni di Gerard quando riportò di aver ricevuto i tuberi dalla Virginia (chiamata anche Norembega), da cui il nome di “patata della Virginia”, da distinguersi dalle patate comuni (“patate degli Spagnoli” o Ipomoea batatas). Questa falsa designazione, che potrebbe anche essere frutto di una confusione con il vero tubero della Virginia (Apios tuberosa), si prolungò fino al secolo successivo, quando la patata già si era affermata nell’economia dell’Irlanda, che ne rivendicò pure la paternità in Europa. William Salmon (1644-1713), nel suo Erbario del 1710, distinse persino una “patata irlandese” dalla patata dolce. E proprio a partire dal Seicento le immagini della patata si diffusero negli atlanti botanici e negli erbari.

• La prima menzione della patata papa si trova nella Cronaca spagnola del Perú di Pedro Cieza de León (1512-1554), un cronista spagnolo al seguito dei conquistadores che descrisse l’uso alimentare dei tuberi cotti o seccati al sole, conservati come una specie di pane (chuño)

• Al botanico svizzero Gaspard Bauhin (1560-1624) si deve un’accurata descrizione della patata, oltre a una sua rappresentazione grafica (1598)

• John Gerard (1545-1612) riporta di aver ricevuto delle patate dalla Virginia, da cui il nome di “patata della Virginia”, che egli conia per distinguerle dalle patate comuni (“degli Spagnoli”)

• William Salmon (1644-1713), nel suo

Erbario del 1710, distingue una “patata irlandese” dalla patata dolce. A partire dal Seicento le immagini di questa coltura si diffondono negli atlanti botanici e negli erbari

• Ernest Roze (1833-1900) nella sua

Storia del pomo di terra, del 1899, ricostruisce il percorso storico della patata, che non esita a definire una manna celeste

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patata negli atlanti botanici Con il progredire delle conoscenze le edizioni a stampa hanno fornito una precisazione ulteriore sulla riproduzione delle piante e dei fiori, spesso di notevole interesse artistico, come quelle di Ulisse Aldrovandi (1522-1605), Fabio Colonna (1567-1640), Jan Commelin (1629-1692), Giorgio Bonelli e Niccolò Martelli (17721793), Filippo Re (1763-1817) e tanti altri autori. Non vanno, inoltre, dimenticate le immagini della patata fornite da sommi artisti, tra cui Vincent van Gogh, che oltre ad aver dipinto nel 1885 la miseria dei contadini ne I mangiatori di patate, nel 1888 raffigurò una Natura morta con patate.

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Dalla botanica alla scienza medica e alla farmacopea Il passo dalla botanica alla scienza medica e alla farmacopea fu breve. Nel Rinascimento la medicina era ancora intrisa di elementi magici, nel quadro del concetto dominante di malattia degli umori peccanti o, ancora più ingenuamente, di introduzione nel corpo di un demone del male o di una divinità offesa. La patata, giunta in Europa dopo la conquista spagnola del Perú, a causa di molti pregiudizi – non solo popolari, ma anche della medicina diplomata che ricercava nelle piante i rimedi per le malattie – inizialmente non si diffuse in modo rapido. Tra l’altro, era da taluni ritenuta dotata di poteri negativi sulla salute psicofisica. Eppure altri la comprendevano fra le piante munite di facoltà sovrannaturali benefiche: una patata cruda in tasca avrebbe esercitato un’azione protettiva contro i reumatismi. Con il trascorrere del tempo la patata, dapprima considerata solo una curiosità esotica e poi pianta decorativa e alimentare, giunge alla dignità di pianta medicinale. I suoi presunti poteri terapeutici erano certamente minori rispetto ai più potenti principi attivi di altri membri della sua famiglia, come, per esempio, la belladonna, lo stramonio ecc., anch’essi appartenenti alle so-

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Album Vilmorin, Tavola 15: 3 patata rossa d’Olanda; 6 patata viola

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Coltivazione di Ipomoea batatas Ipomoea batatas, vegetazione

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storia e arte lanacee. Il ruolo principale della patata rimase tuttavia quello di alimento, uso che risale alle popolazioni precolombiane degli altipiani andini, cilene e peruviane. Dopo che, verso la metà del Cinquecento, gli esploratori spagnoli di Francisco Pizarro le fecero traversare l’oceano, Filippo II re di Spagna, nel 1565, ne donò una grande quantità al papa. I tuberi vennero scambiati per una sorta di tartufi e, mangiati crudi nelle mense pontificie, suscitarono un ovvio disgusto. Vennero così chiamati in Italia tartufolli, denominazione che nulla ha a che vedere con il termine peruviano di papas. La prima menzione della patata papa si trova nella Cronaca spagnola del Perú (1550) di Pedro Cieza de León (1512-1554), un cronista spagnolo al seguito dei conquistadores che descrisse l’uso alimentare dei tuberi cotti o seccati al sole conservati come una specie di pane, il chuño. Una più celebre citazione si trova nel De rerum varietate (1557) del filosofo, medico e astrologo Gerolamo Cardano (1501-1570): “La papas è un tubero utilizzato come il pane, di forma simile alle castagne, ma di sapore più gradevole [...]”. Ernest Roze (1833-1900) riporta nella sua Storia del pomo di terra, pubblicata nel 1899, il racconto degli studiosi sui percorsi della patata e dei punti di vista storici, biologici, patologici, culturali e utilitaristici su questo tubero, che non esita a definire una manna celeste. Nel trattato, fra gli altri, non dimentica il famoso viaggio di Darwin a bordo del brigantino Beagle del 1835, il quale trovò la patata selvatica nell’arcipelago Chonos (Cile meridionale). Ciò confermava che la pianta poteva crescere, oltre che nelle montagne del Cile centrale, anche nelle foreste umide delle isole del Sud.

Patata nella farmacopea sette-ottocentesca

• I più famosi trattati settecenteschi

di medicina, come quelli di Étienne François Geoffroy (1672-1731) e di William Cullen (1712-1798), si limitano a osservare che il Solanum tuberosum produce fastidiose flatulenze

• Nell’Ottocento la dottoressa Nauche

riporta che le patate crude e grattugiate sono consigliabili come cataplasma rinfrescante per bruciature e piaghe infiammate. Riferisce anche dell’uso delle foglie della patata in decotto o come impiastro nelle affezioni curabili con il giusquiamo. Parmentier, invece, afferma che le patate possiedono soltanto un’azione diuretica

Machu Picchu, Perú

Foto R. Angelini

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patata negli atlanti botanici Nonostante la copiosa messe delle ricerche dei naturalisti esploratori, la patata ebbe tempi lunghi per affermarsi in Europa, essendo considerata da taluni come un frutto del diavolo, in quanto nasce e si coltiva sottoterra. In Italia un fautore del suo uso alimentare è stato il riminese Giovanni Antonio Battarra (1714-1789), che nel suo libro La pratica agraria del 1778 immagina un dialogo fra un padre e i suoi due figli, Ceccone e Mingone, affermando che “certe radici forestiere come i tartufi bianchi che chiamansi patate [...] sono un ottimo cibo per gli uomini non meno che per le bestie [...]. Da queste radici si fa pane, si mangian cotte in varie maniere”. Un grande estimatore della patata è stato certamente il frate benedettino Vincenzo Corrado (1738-1836), originario di Oria nel Salento, che fu un famoso gastronomo nella cerchia di Ferdinando IV di Borbone. Corrado privilegiava le verdure e la dieta salutare, ed espresse il suo credo culinario nell’opera Del cibo pitagorico, ovvero erbaceo, per uno de’ nobili e de’ letterati, pubblicata nel 1781, in cui egli si rifaceva addirittura a Pitagora, grande pensatore vegetariano. Nel suo più famoso volume del 1773, Il cuoco galante, Vincenzo Corrado si prodigava nell’illustrare gustose ricette vegetariane, e fra queste le “patate al sapor verde”, cioè condite con un pesto di prezzemolo, maggiorana, cerfoglio, targone e acciughe, stemperato in aceto. Il suo amore per le patate si espresse pienamente nel Trattato delle patate per uso di cibo del 1798, ricco di preziose, quanto gustose, ricette.

Patata nella medicina popolare

• Il succo del tubero fresco sarebbe

utilizzabile nei bruciori di stomaco, nelle gastriti e gastroduodeniti, in quanto normalizzante del pH gastrico

• Il tubero grattugiato applicato sulla

pelle sarebbe efficace nelle dermatosi e nelle ustioni

• I decotti di foglie portate a ebollizione

(20 g in 1 l d’acqua), raffreddate e unite al miele, sarebbero utili nelle malattie respiratorie (5-6 cucchiai al giorno) e come diuretico

Diverse varietà di patate native peruane (nei sacchi scuri), patate disidradate dette chuño (nei sacchi chiari) e oca

Foto R. Angelini

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storia e arte

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Impiego terapeutico delle patate nei trattati di farmacopea del Settecento e dell’Ottocento Prescindendo dalle ampie rassegne sulla coltivazione e sull’uso alimentare della patata, nei trattati di farmacopea del Settecento e dell’Ottocento gli esempi di applicazione di questa pianta in campo medico sono scarsi e per di più privi di reale valore scientifico. I più famosi trattati di argomento medico, tra cui quelli di Étienne François Geoffroy (1672-1731) e di William Cullen (1712-1798), si limitano a rammentare che il Solanum tuberosum produce noiose flatulenze. Nel Dizionario universale di materia medica e terapia generale del 1834, François Victor Mérat e Adrien Jacques de Lens dedicano un ampio capitolo alla patata, sotto il profilo storico e alimentare, nonché sulla sua coltivazione e sull’uso per la nutrizione del bestiame. In campo umano si sottolinea che la patata può rimpiazzare anche il pane di frumento, ma che l’uso dei tuberi germogliati e rammolliti può determinare intossicazioni. Gli autori ricordano inoltre la possibilità di utilizzare suoi derivati come la fecola nella dieta di persone convalescenti e di costituzione delicata. Dalla patata, sostengono gli autori, si può preparare una colla, una sorta di acquavite, aceto ecc. L’impiego terapeutico delle patate, soprattutto nell’Ottocento, è stato oggetto di varie ricerche. In particolare la dottoressa Nauche (Journal de chimie médicale, VII, 372) ha riportato che le patate crude e grattugiate sono consigliabili come cataplasma rinfrescante per bruciature e piaghe infiammate. Cotte e ridotte in poltiglia hanno un’azione emolliente e sono da applicare come calmante, ammorbidente e maturativo sulle contusioni, sulle lesioni cancerose ecc., rimedio che alcuni medici preferivano ai semi di lino e di senna. Un decotto leggero di patate bianche è un

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Album Vilmorin, Tavola 18: 3 patata tartufo d’agosto; 4 patata Blanchard

Terrazzamenti di Moray (Perú): coltivazioni di patate e quinoa nei primi tre anelli

Foto R. Angelini

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patata negli atlanti botanici blando lassativo, mentre quello di patate rosse avrebbe un’azione astringente e sarebbe efficace nelle bronchiti croniche, nelle malattie catarrali, nei disturbi vescicali, intestinali, uretrali e vaginali. Inoltre, per l’alto contenuto di vitamina C, avrebbe un’azione benefica per chi ha contratto lo scorbuto, ma anche per curare le nevrosi gastriche, sia come bevanda sia iniettato. Una decozione prolungata potrebbe calmare un attacco acuto di gotta, mentre un decotto leggero, da assumere negli intervalli fra gli attacchi, potrebbe dilazionare il periodo di ripresa dei sintomi acuti. I decotti erano ritenuti utili anche nelle costipazioni, nelle flatulenze, nelle congestioni epatiche, in talune lesioni organiche cardiache e contro l’idropisia. Secondo la Nauche vi sono differenze nella preparazione dei decotti a seconda delle malattie che si intendono curare. Per esempio “se si vuole agire efficacemente sul fegato, sul tubo digerente o sui reni dovrà essere prescritta una decozione leggera o meglio ancora una semplice infusione. Anche l’acqua di bollitura, che alcuni ritenevano velenosa, può essere efficace in talune circostanze”. Esisteva pure una teoria, assai stravagante, già sostenuta da J. Bauhin (1541-1613), che la patata fosse dotata di un’azione afrodisiaca. Tuttavia, secondo Mérat e De Lens tale asserzione è priva di fondamento. Parmentier affermava che le patate possiedono un’azione diuretica, nulla di più. Nauche riporta l’uso delle foglie della patata in decotto o come cataplasma nelle affezioni curabili con il giusquiamo, con qualche vantaggio. Anche i fiori in infusione sarebbero utili nelle malattie da raffreddamento. Qualcosa sull’attività terapeutica descritta nei testi ottocenteschi rimane tuttora nella medicina popolare. Ma fu necessario l’avvento della medicina moderna per assegnare alla patata un ruolo medicinale ben definito.

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Album Vilmorin, Tavola 17: 5 patata “Rognon” rosa; 6 patata Marjolin Tétard

Raccolta delle patate sull’altipiano di Cuzco, Perú

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Sogni&tuberi: la patata nel cinema di Hollywood Marco Spagnoli

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storia e arte Sogni&tuberi: la patata nel cinema di Hollywood Da Pulp fiction

Il dialogo di Pulp Fiction, riportato a lato, su come si mangiano le patatine fritte ad Amsterdam rispetto a quanto accade in America, è la celebrazione cinematografica pop più famosa della patata. Vincent Vega, il personaggio interpretato da John Travolta racconta con una buona dose di disgusto che in Olanda, infatti, le patatine fritte si mangiano con la maionese, soprannominata poco elegantemente dall’impreciso doppiaggio italiano “merda gialla”, rispetto agli Usa dove il killer portato sullo schermo da Samuel L. Jackson ha bene in mente, invece, che le patatine vengono accompagnate da vere e proprie ondate di ketchup. Per quanto apparentemente leggero, questo scambio di battute che segue considerazioni sugli hamburger hawaiani (kahuna burgers) e l’ostacolo rappresentato dal sistema metrico decimale e l’utilizzo da parte di McDonald’s degli stessi nomi per i panini, al di qua e al di là dell’Atlantico, si può considerare come la celebra-

• Vincent: “You know what they put on french fries in Holland instead of ketchup?” • Jules: “What?” • Vincent: “Mayonnaise.” • Jules: “Goddamn!” • Vincent: “I seen ’em do it. And I don’t mean a little bit on the side of the plate, they fuckin’ drown ’em in it.”

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Pulp fiction

• Regia: Quentin Tarantino • Protagonisti: John Travolta, Uma

Truman, Samuel L. Jackson e Bruce Willis

• Anno: 1994 • Riconoscimenti: Palma d’oro al Festival di Cannes del 1994; Oscar 1995 per la miglior sceneggiatura originale

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sogni&tuberi zione pop più famosa della cosiddetta junk culture ovvero quella koiné alimentare che nasce sul punto di confine tra cattive abitudini, campagne di marketing e un finto immaginario esotico collegato ai fast food e alla necessità di differenziare nomi e ricette. Le patatine fritte, così, restano protagoniste del cinema americano degli ultimi anni come l’emblema di un mondo, spesso, perfino cosciente delle controindicazioni derivate dal mangiare troppe patate. In Quel pazzo venerdì, per esempio, remake dell’omonimo classico della Disney, Jamie Lee Curtis e la poco più che adolescente Lindsay Lohan, non ancora nota per i suoi eccessi che tanto hanno fatto parlare di lei qualche anno dopo, interpretano una madre e una figlia che una maga cinese fa scambiare di ruolo. Quando la mamma si trova nel corpo della ragazza, la prima cosa che fa è assaggiare una patatina fritta con aria ispirata, domandandosi perché una cosa cosìbuona faccia così ingrassare... La cultura pop, però, non si ferma soltanto alla patata come cibo: in un altro film Disney, uno dei protagonisti assoluti e più amati è Mr. Potato Head, un noto giocattolo dall’inconfondibile forma. Le patate hanno sempre avuto un ruolo fortemente evocativo nell’arte visiva per eccellenza come il cinema. Le enormi distese di campi coltivati che chiamano alla memoria ambienti casalinghi, talora rarefatti, talaltra silenziosamente piovosi, trovano una corrispondenza nelle enormi masse di patate ammonticchiate l’una sull’altra pronte per essere “pelate”. Così come nel più celebre fumetto pubblicato durante la Seconda guerra mondiale, l’impavido Capitan America cela la sua identità segreta nelle cucine militari, sbucciando tonnellate di patate come Steve Rogers insieme al suo fidato aiuto Bucky, Stanlio e Ollio, ma anche Jerry Lewis e Dean Martin associano il rito del pelare patate al fondamento della vita militare. Si può, quindi, dire che al pelare patate insieme

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Mr. e Mrs. Potato Head

• Sebbene la saga di Toy Story abbia

al suo cuore il cowboy Woody e l’astronauta Buzz Lightyear, Mr. e Mrs. Potato Head, ovvero il Signor Testa di Patata e Signora, sono personaggi molto amati dagli spettatori per il loro humour e per i tanti scherzi che gli animatori della società di produzione Pixar hanno immaginato per queste due figure brillanti e molto lontane dalle idee preconcette che si possono associare alla parola tubero

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storia e arte viene associato una sorta di fondamento del cameratismo militare maschile. Un segno di virilità? Forse, certo è che Ang Lee utilizza gli stessi stilemi del genere western per il suo pluripremiato film sui rudi uomini, ma al tempo stesso innamorati, protagonisti di I segreti di Brokeback Mountain. E anche nel film che ha tanto polarizzato l’opinione pubblica americana, tra i tanti piccoli gesti che fanno da contorno all’insolito innamoramento tra due cowboys, c’è il pelare patate. Gesto, ovviamente, tutt’altro che galeotto ma che, al tempo stesso, è un segnale di un certo tipo di consuetudine utilizzata per raccontare altro. Fatto sta che Halle Berry, l’incantevole diva che è stata la prima afroamericana a vincere l’Oscar, dice, pubblicamente, che se un uomo vuole provare a sedurla la deve invitare a una cena dove le patate giocano un ruolo chiave per arrivare al cuore della splendida e simpatica interprete: patate al rosmarino e il tonno alla griglia

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I segreti di Brokeback Mountain

• Regia: Ang Lee • Protagonisti: Heath Ledger, Jake Gyllenhaal

• Anno: 2005 • Riconoscimenti: Leone d’oro alla

Mostra di Venezia del 2005; Oscar 2006 per la miglior regia, la miglior sceneggiatura non originale, la miglior colonna sonora

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sogni&tuberi con purè di patate. Ai cowboys bastava molto meno per restare sedotti, ma – si sa – il cinema spesso enfatizza le proprietà afrodisiache di luoghi e cibi, per esigenze di copione. Certo è che qualsiasi uomo considera la cena ideale quella del protagonista di Quando la moglie è in vacanza, che si vede piombare in casa Marilyn Monroe che porta con sé una bottiglia di champagne e un sacchetto di patatine... Mentre cerca di sedurla facendole ascoltare un pezzo di Rachmaninov, la donna più bella del mondo intinge una patatina nel bicchiere chiedendogli se ha mai mangiato patatine e champagne. “Una follia, vero?” – chiede lei… E dire che, lontanissimo da qualsiasi altra connotazione oltre a quella della noia, il gesto di pelare patate è disegnato nel primissimo cartone animato di Walt Disney con uno svogliato Topolino, addirittura, nel 1928. Più recentemente nella seconda parte de Il Signore degli Anelli, intitolata Le Due Torri, il mostruoso Gollum

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Quando la moglie è in vacanza

• Regia: Billy Wilder • Protagonisti: Marilyn Monroe, Tom Ewell

• Anno: 1955 • Riconoscimenti: Golden Globe nel 1956

per il migliore attore; nel 2000 è stato inserito al 51° posto della classifica delle 100 migliori commedie americane di tutti i tempi dall’America Film Institute

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storia e arte non apprezza le patate bollite che i due Hobbit in viaggio con lui si cucinano, restando piuttosto disgustato. La plasticità del purè viene utilizzata da Steven Spielberg per dare modo al personaggio interpretato da Richard Dreyfuss di capire il ruolo di una montagna nel primo incontro tra la razza umana e gli extraterrestri. In Incontri ravvicinati del Terzo Tipo, a tavola con suo figlio l’uomo inizia ad utilizzare una posata non per portare il cibo alla bocca bensì per realizzare una mini scultura rivelatrice. Sempre le patate, ma questa volta come cibo e oggetto di potere, sono al cuore di un altro film diretto da Spielberg: L’Impero del Sole, storia di un ragazzino occidentale, finito prigioniero dei Giapponesi, che grazie al suo méntore, interpretato da uno straordinario John Malkovich, sfrutta le imprevedibili proprietà negoziali legate alla patata bollita (e con la buccia...). “Non ti ho insegnato nulla?”– urla adirato l’uomo al ragazzino, interpretato da un giovanissimo Christian Bale, oggi noto per essere il Batman dei film

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Incontri ravvicinati del terzo tipo

• Regia: Steven Spielberg • Protagonisti: Richard Dreyfuss,

François Truffaut, Teri Garr, Melinda Dillon

• Anno: 1997 • Riconoscimenti: Oscar 1978 per la

migliore fotografia e premio speciale per gli effetti sonori

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sogni&tuberi di Christopher Nolan. “Sì – risponde l’esile adolescente – mi hai insegnato che le persone farebbero di tutto per le patate...”. Metaforicamente, poi, il cinema stesso si può associare alle patate e alla loro cottura. Un’idea, fortunatamente, non di chi scrive, bensì del regista Robert Altman. Incontrandolo in una delle sue ultime interviste, alla richiesta di notizie relative ai suoi progetti futuri, l’autore di pellicole indimenticabili come M*A*S*H, Nashville, America Oggi e Gosford Park disse: “Fare del cinema per me è come cucinare delle patate. Quelle che bollono prima ed emergono dal fondo della pentola sono quelle che mangio prima. Così va per i film. Quelli per cui trovo prima i soldi, quelli sono sempre i primi che faccio...”. Come dire: le patate e il cinema hanno un legame intimo e antico, perché seppure molto diversi hanno entrambi caratteristiche di popolarità e diffusione universale.

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Il signore degli anelli: Le due torri

• Regia: Peter Jackson • Protagonisti: Elijah Wood, Ian McKellen, Liv Tyler, Viggo Mortensen

• Anno: 2002 • Riconoscimenti: Oscar 2003 per il

miglior montaggio sonoro, per i migliori effetti speciali

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata nella fotografia Lamberto Cantoni

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storia e arte Patata nella fotografia Foto P. Barone

Dall’inizio del Novecento la fotografia non solo ha sconvolto il nostro modo di concepire la realtà visibile ma ha forzato la nostra sensibilità a esplorare nuove dimensioni estetiche. Adottando nuove tecniche e inediti punti di vista dai quali riprendere l’oggetto, i fotografi hanno rimesso in discussione le convenzioni classiche della prospettiva estendendo la portata delle immagini fotografiche al di là del paradigma realistico nel quale era stata confinata dall’epoca della sua scoperta. Pittorialismo, estetica modernista, costruttivismo, cubismo, surrealismo rivelarono anche attraverso la fotografia una bellezza sconosciuta, suscettibile di mostrare una duplice valenza dell’oggetto: il realismo dell’impronta e nello stesso tempo il suo divenire significazione complessa lungo gli assi metaforico e metonimico. Il dispositivo fotografico diviene l’agente di una metamorfosi del rea­le in grado di trasformare in bellezza convulsiva qualsiasi oggetto. Entra così nell’immaginario dell’estetica del Novecento un elenco sconfinato di oggetti trovati per caso, oggetti banali, apparentemente privi di valenza estetica, spesso volgari. Tra questo oggetti trasformati da interpretazioni fotografiche estreme, la patata si fa notare per le sue assenze dal repertorio dei grandi fotografi. In realtà, tranne i fiori, la rimozione colpisce tutti gli ortaggi. Le uniche eccezioni che conosco sono due straordinarie foto scattate nello stesso anno da due celebri fotografi. Edward Weston nel suo From My Day Book (1928) annotava: “Dalle conchiglie sono passato ai ravanelli, alle melanzane, al melone, infatti tutto il mercato è un’avventura – ogni giorno porta nuove scoperte”. La foto che vorrei segnalare si intitola Cabbage Leaf ed è una foglia di cavolo ripresa su sfondo nero; la luce disegna e modella le increspature della foglia conferendole un’eleganza sconvolgente. La bellezza dei drappeggi vegetali li rende paragonabili a uno degli abiti che in quegli anni rendevano famose Madame Vionnet e Madame Gres. Al contrario di quanto teorizzava Weston questa foto rivela un’eccedenza della forma rispetto alla sua funzione. Come spiegare altrimenti la bellezza estrema della foglia dell’umile ortaggio elevata a simbolo di perfezione? È chiaro che il supplemento in gioco non è altro che l’interpretazione magistrale del fotografo. L’altra fotografia alla quale ho fatto riferimento è di Brassai. Scattata nel 1931, intitolata Magique circostancielle, rappresenta una patata germogliata che, sotto l’obiettivo del fotografo, si trasforma in qualcosa di monumentale. Sono gli anni dominati dal surrealismo e non ci sono dubbi sul fatto che Brassai si ispirava alle teorie di André Breton sulle valenze misteriose degli oggetti trovati a caso. La messa in scena della patata, isolata da ogni riferimento spaziale e temporale, subisce lo straniante sradicamento tale da trasformarla in un oggetto dalla bellezza

Foto P. Barone

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patata nella fotografia convulsiva. Per dirla con le parole del fotografo: “Il surrealismo delle mie immagini non fu altro che il reale reso fantastico dalla visione. Cercavo solo di esprimere la realtà, poiché nulla è più surreale. Se non ci stupisce più, è perché l’abitudine l’ha resa banale”. L’aspetto onirico surreale della foto di Brassai probabilmente fu di ispirazione per Roman Polanski nei suoi anni più creativi. In un fotogramma del suo Repulsion del 1965 le patate appaiono con la stessa forza espressiva dello scatto del celebre fotografo rumeno-francese e, pittura a parte, è una delle poche occorrenze in cui la patata appare nell’immaginario artistico del Novecento. Sembra proprio che nel caso delle patate l’abitudine e la banalizzazione abbiano preso il sopravvento. A mia memoria nessun altro autore si è ispirato alle forme del tubero nel tentativo di metterne in luce lo stupore che si attiva quando ci poniamo di fronte a un oggetto come se lo vedessimo per la prima volta. È come se in contesto estetico l’immaginario della patata avesse fatto proprie le reticenze degli europei quando la scoprirono in Perú. Tra la soldataglia spagnola nacque la leggenda che questo bizzarro frutto della terra servisse per produrre il veleno per le frecce degli indigeni. Intimoriti i Conquistadores volevano bruciare sistematicamente i campi intorno ai villaggi nei quali veniva coltivata. Per fortuna si accorsero che dopo la raccolta il tubero veniva prontamente consumato come alimento dalla popolazione locale e pur con molti pregiudizi, il fatto che non maturasse en plain air deponeva a suo sfavore, lo sperimentarono e cambiarono idea. Tuttavia la patata arrivò in Europa con un’inquietante aura demoniaca che ne ritardò l’uso alimentare di massa fino al Settecento. I bigotti, forti del fatto che non venisse mai citata dalla Bibbia, la chiamarono la radice del diavolo. Il re di Spagna la spedì come frutto esotico a Roma, all’attenzione di Sua Santità. Nella città eterna la compararono a una specie di tartufo e tentarono di mangiarla cruda. L’effetto gustativo fu disgustoso e pensarono che potesse essere buon cibo solo per maiali. Passò molto tempo prima che la patata venisse coltivata dai contadini ed entrasse nella dieta alimentare della gente. Chissà, forse Brassai conosceva il mito negativo delle origini della scoperta della patata e nella sua fotografia cercò di raffigurare anche il fascino della parte maledetta che l’ignoranza degli europei aveva iscritto in un prodotto che si sarebbe rivelato cruciale per l’economia di interi Paesi. A distanza di settant’anni dalla foto di Brassai, se si escludono le pubblicazioni scientifiche volte a documentare tipologie di prodotto e modalità di lavorazione, il racconto per immagini della patata è stato confinato nell’infinito labirinto di immagini degli still life gastronomici e nell’incalcolabile repertorio di immagini di documentazione sociale. L’iperrealismo pop che caratterizza lo still life gastronomico (di solito sono scatti di piatti tipici) ha la piacevolez-

Foto P. Barone

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storia e arte za alla lunga nauseante della foto perfetta sottoposta all’ambiguo gioco della ripetizione. Senza un’operazione di lettura che tenga conto del nome del piatto (e degli ingredienti) questa categoria di immagini dal punto di vista percettivo tende a produrre assuefazione estetica annullando gli effetti emozionali creati dalla particolare messa in scena immaginata magnificare l’oggetto. Per dirla con W. Benjamin, il primo intellettuale a sottolineare l’impatto negativo della riproducibilità seriale e della ripetizione in rapporto al valore dell’oggetto, gli still life di piatti esemplari pubblicati possiedono un’aura puntiforme dalla durata di uno sguardo. Immaginate di sfogliare una delle innumerevoli riviste patinate in circolazione. Quasi sempre il palinsesto presenta le rubriche dedicate alla gastronomia. In queste pagine incontriamo gli still life del cibo culturalizzato. Prese una per una e con l’occhio innocente sono foto che colpiscono. L’evoluzione delle procedure di stampa e la specializzazione professionale tra i fotografi ci consentono di leggere la perfezione. Ma non la “sentiamo” o, se volete, la bellezza di una composizione gastronomica è estrema quanto

Paolo Barone: chi è Titolo box anni, con metà della Testo boxcatanese Testo box Testo box Testo box • 59

sua a Bologna prima di box Testovita boxvissuta Testo box Testo box Testo ritornare Sicilia. caso Testo boxinTesto boxFotografo Testo box per Testo box dopo abbandonato, alla box Testo aver box Testo box Testoquasi box Testo fine, studi in box Medicina, ha scoperto, Testogli box Testo Testo box Testo box sempre insoddisfatto dellebox teleTesto che box Testo box Testo box Testo “imbrattava” di colore, la magia della Testo box quasi trent’anni fa Testo box Testo box Testo box Testo • pellicola fotografia ha riversato boxallora Testonella box Testo box Testo box Testo • Da tutta la sua ricerca, la sua passione box Testo box Testo box Testo box Testo ebox il suo bisogno espressivo Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box Testo box

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patata nella fotografia dissipativa. Infatti se non siamo interessati all’informazione veicolata dal passaggio dal crudo al cotto, difficilmente ci soffermiamo su queste immagini. Le interpretiamo come comunicazione liscia, senza attriti, perfettamente digeribile per l’occhio, piacevole ma senza un significativo valore estetico. Tuttavia l’aura dissipata dall’inflazione di immagini perfette e patinate può essere ripristinata grazie a tecniche fotografiche, per la verità ampiamente conosciute fin dall’inizio del Novecento, e a ciò che potremmo definire l’attenzione alla composizione. Un buon esempio di come si possa strappare alle banalità visive le immagini fotografiche di patate sono gli scatti attraverso i quali Paolo Barone è riuscito a nobilitare sia dal punto di vista estetico e sia dal punto di vista culturale questo tubero sprovvisto di qualità visive sufficienti per suscitare le emozioni degli image maker. Nelle immagini prodotte per il libro Un tesoro per la terra. La patata, un’eccellenza bolognese una ricchezza per l’umanità il fotografo siciliano grazie al suo stile neopittorialistico trasforma gli still life della patata in suggestivi simboli che trasmettono al fruitore atmosfere e narrazioni insolite. Commentiamo alcune di queste foto. Una sedia anticata, lo deduco dalla pelle consunta, una vecchia valigia, un vaso, un coltello da cucina, due fogli di carta arrotolati come venivano conservate un tempo le mappe e un mappamondo ottocentesco. A fare da centro del raggruppamento di oggetti elencati troviamo tre gruppi di patate collocati in modo tale da costruire insieme al mappamondo un cerchio visivo che induce la probabile significazione primaria incapsulabile nell’espressione: “la patata è un prodotto-mondo”. Ma nel preciso momento in cui si focalizzano gli altri oggetti della composizione si estende il raggio delle significazioni possibili; ed ecco la patata diventare “viaggio”, “avventura”, “storia”. Com’è riuscito Paolo Barone a rendere plausibili queste significazioni? Le sue foto hanno il mood che evoca la pittura fiamminga del Seicento. Una luce dolce che accarezza gli oggetti, ne ammorbidisce i contorni trasmettendoci segni che si confondono con l’idea del tempo, della memoria. Chi si interessa di fotografia sa benissimo che esistono celebratissimi vangeli fotografici che interpretano il neopittorialismo di Barone come un affronto alla verità fotografica. Non ci sono dubbi sul fatto che i fanatici del moment decisif difficilmente apprezzerebbero la musica delle immagini del fotografo siciliano. Tuttavia non possiamo dimenticare la nostra contemporaneità. Oggi travolti da un’infinità di troppe inutili foto-verità, troviamo valore nei trucchi che confondono i linguaggi della pittura e della fotografia. Lo stile di Paolo Barone trasforma la patata in un potente simbolo capace di estendere le narrazioni in territori di senso imprevedibili dal senso comune. Osserviamo un’altra immagine che illustra lo stile del fotografo. Gli elementi della composizione dello still life cambiano: un libro

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storia e arte aperto, occhiali da lettura, una macchina da scrivere, fogli arrotolati con partiture musicali, una pistola con la fiaschetta della polvere appoggiata alla parete legnosa dello scrittoio, altri libri, una candela accesa… le patate invadono la scena da sinistra di chi guarda e sono sparse sullo scrittoio come se fossero in procinto di essere studiate, classificate. La probabile casualità della distribuzione degli oggetti non impedisce all’immagine di trasmetterci una forte propensione a narrare, nella forma dell’allegoria, storie possibili che vedono come protagonista il semplice tubero. La scelta pittorialista di Barone trasforma la follia della messa in scena (cosa c’entrano gli spartiti musicali con le patate? E cosa dire della contiguità tra una macchina da scrivere degli anni Quaranta e una pistola settecentesca?) in una composizione plausibile. La luce antica che si riversa in modo graduato su tutti gli oggetti cancella le incongruità e trasforma la scrivania nel tavolo delle meraviglie di uno sconosciuto studioso in procinto di valutare i tuberi impreziositi dal suo interesse. Notate come l’abbellimento delle patate proceda di concerto con il senso che ricaviamo dal possibile racconto al quale ho fatto riferimento. Non è dunque l’abbellimento

Paolo Barone: la ricerca

• Cimentandosi per esigenze

professionali anche nella fotografia pubblicitaria, ha voluto arricchire, nei suoi lavori, i prodotti da fotografare con una “narrazione intorno” fatta di presenze, di oggetti-simbolo, di luci e di atmosfere che rasentano le composizioni pittoriche fiamminghe. Un modo di interpretare i prodotti, spesso in totale contrapposizione alle indicazioni della committenza, finché la sua ostinazione interpretativa non si è fatta stile personale venendo accettata e appositamente ricercata

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patata nella fotografia fine a se stesso della comunicazione liscia compressa tra informazione pubblicitaria e spettacolo delle merci. La bellezza delle patate raffigurate da Barone non è una menzogna bensì il tentativo di proiettare sulla superficie esterna del tubero i suoi valori pratici. Esiste poi un vasto repertorio di immagini centrate sulla patata e i suoi mondi che potremmo classificare tra le foto di reportage umanistico e di documentazione antropologica. Si tratta di immagini che illustrano come la cultura della patata si integra in forme di vita diversificate. In un capitolo del suo I custodi della biodiversità (ed. Angolo Manzoni) il fotografo Pablo Balbontín Arenas propone un reportage sulla patata del Perú. La sensibilità del fotografo e la sua capacità di condividere il tempo della vita con gli abitanti dei villaggi gli anno permesso di riprenderli come se il fotografo fosse uno di loro, evitando con cura gli effetti distorsivi prodotti dalla presenza della macchina fotografica. Nelle foto di Pablo Balbontín Arenas la patata diviene l’elemento di congiunzione tra natura e cultura tanto celebrato dalla sensibilità ecologica del nostro tempo. Insieme alla bellezza nelle sue foto sentiamo l’autenticità dello sguardo fotografico che, pur non ritraendosi dalla funzione documentarista, partecipa con profonda umanità ai rituali produttivi della millenaria civiltà agricola che per prima addomesticò il tubero. Si può dire che la sintonia con i rituali di una forma di vita ci aiuta a comprendere il fascino di foto a sfondo antropologico che risalgono ai primi del Novecento. L’etica implicita nelle immagini di Pablo Balbontín Arenas non è dunque una novità. Rappresenta infatti un paradigma fotografico imposto come valore universale dalla generazione di fotografi che collaborarono negli anni Trenta, durante la Grande depressione, con la Farm Security Administration. Il progetto che vide come protagonisti Walker Evans, Dorothea Lange, C. Mydans, A. Rothstein, B. Shahn, R. Lee, M.P. Wolcott, J. Vachon aveva l’obiettivo di documentare l’impatto drammatico della crisi economica sulle condizioni di vita e di lavoro nelle campagne. La forza delle immagini dei fotografi andò ben oltre e risultò decisiva presso l’opinione pubblica per sostenere l’azione del Governo. Ma il reportage umanistico-antropologico prima di diventare una sorta di persuasivo vangelo per immagini era già stato esplorato grazie alla sensibilità di grandi fotografi come J.A. Riis e L. Hine e da un numero impossibile da decifrare di reporter sconosciuti al grande pubblico capaci di coniugare le responsabilità di chi desidera documentare scorci di vita vera con un’estetica pura, priva di effetti particolari, aderente al reale. Albert Steiner dedicò ai contadini del Cantone dei Grigioni in Svizzera uno dei suoi scatti, esposto nell’estate 2010 al Museo Retico di Coira nella mostra “Hardoffel. Tortuffel. Patate. Una storia di successo”. Le due contadine che lavorano le patate tra le montagne ci riportano a ciò che potremmo definire l’estetica della memoria. Non ci sono dubbi sul fatto che ci offrono informazioni preziose su come la patata si è inserita nella

Foto P. Barone

Foto P. Barone

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storia e arte vita delle popolazioni del Cantone dei Grigioni a fine Ottocento. Ma la nostalgica bellezza di questa immagine ci rimanda a un mondo di valori che stiamo riscoprendo dopo il crollo dei miti della postmodernità. Come possiamo evitare di sentire la purezza di una natura alleata dell’uomo? E la lentezza che indoviniamo nei gesti delle due contadine non è oggi un desiderio sempre meno latente, nato dalla fretta ansiogena che ci attanaglia? Nella foto di J.U. Meng intitolata Cernita due donne scelgono le patate più belle e sane probabilmente per indirizzarle al mercato. In questa immagine è possibile ritrovare un appello alla qualità perduta del nostro cibo. Così invece che affossare queste fotografie relegandole in una sorta di archivio documentaristico dovremmo ripensarle all’interno di una logica dell’estetica del documento suscettibile di trasmettere non solo informazioni circostanziali ma valori che, seppur intrisi di nostalgia, possono fungere da attrattori per il futuro. In altre parole la foto documento se si ricollega in qualche modo alla bellezza può dare visibilità a valori etici che motivano i possibili fruitori del messaggio. Consapevole dell’importanza sociale e politica di una documentazione fotografica in forma rinnovata rispetto alle mere esigenze di archiviazione, ovvero di uno stile fotografico che non si accontenta di essere strumentale alla rappresentazione di situazioni o a momenti ad alta concentrazione di umanesimo, ma che cerca anche nell’estetica dell’immagine nuove forme di impegno, la Fao e l’ONU nel 2008, l’anno internazionale della patata, lanciarono un grande Concorso mondiale per fotografi professionisti e dilettanti per premiare le immagini più pregnanti relative al tubero più diffuso nel mondo. Le foto di P.B. Arenas che ho descritto sopra, classificate al secondo posto dalla giuria internazionale, appartengono al repertorio di immagini che grazie al concorso Fao hanno avuto una diffusione straordinaria. Possiamo ricordare inoltre le immagini del peruviano Eitan Abramovich e i sorprendenti scatti di Viktor Drachev (Bielorussia). A me pare che tutti i fotografi in concorso, che ho citato, prendano di mira l’approccio formalista sponsorizzato da grandi musei con cui i curatori accortisi della attrattività presso il pubblico della foto reportage tentano di rivitalizzare le strutture dedicate all’arte contemporanea sempre più lontane dal gusto popolare. Ma al tempo stesso gli scatti di Arenas, Abramovich e Drachev evitano di indugiare nel concetto ingenuo di reportage sociale, abusando in romanticismi, evocazioni di povertà, precarietà, solitudine che spesso finivano con il promuovere l’autore senza generare particolari emozioni nei confronti del soggetto rappresentato (come vittima). Prendiamo la foto dei soldati di Drachev. Non c’è nulla che ci induca a interpretarla come se fosse una verità trasparente e oggettiva. Il fotografo sembra sottolineare invece la costruzione discorsiva a partire da un quadro di ricezione che mette in gioco soprattutto il suo punto di vista.

Foto P. Barone

Foto P. Barone

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patata nella fotografia Anche le immagini di Eitan Abramovich sembrano rispettare il criterio deideologizzante che ho evocato. Pur possedendo una notevole forza descrittiva le sue foto producono nel fruitore un effetto di distanza tale da impedire ogni lettura dogmatica e ingenua. Dobbiamo ringraziare il concorso Fao per averci dato immagini di grande efficacia documentaria e in linea con i criteri di leggibilità che hanno consentito al mondo della patata di promuoversi rispettando gli standard d’immagine necessari oggi per catturare l’attenzione dei lettori. A mio avviso tra le foto del concorso quella che promuove meglio la testimonianza di una cultura troppo spesso messa in secondo piano è lo scatto di Xi Huang (Cina): un contadino ripreso dall’alto fa ritorno o sta per approdare da qualche parte con il suo piccolo carico di patate raccolte nonsodove; io vi vedo una bellezza che non nega la capacità di descrivere il mondo… Condizione sine qua non affinché il mezzo fotografico sottoposto allo stress digitale continui, pur con tutte le precisazioni che si vuole, a mantenere intatta la nostra fiducia su una possibile verità fotografica.

Foto E. Abramovich

Foto E. Abramovich

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patate e pubblicità... con musica Lamberto Cantoni

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte Patate e pubblicità... con musica Patata nella pubblicità

Breve excursus sulla presenza e sui significati della patata nelle comunicazioni pubblicitarie che hanno fatto epoca Tra le narrazioni che raccontano i piccoli miti diffusisi insieme al successo tardivo della patata come fonte alimentare popolare, ve ne sono un paio che interessano il modo in cui un certo discorso sulla patata ha aperto la strada alla sua diffusione in Europa. Oggi definiremmo questa tipologia di discorsi appellandoci ai modi della comunicazione pubblicitaria. In definitiva se Maria Antonietta di Francia, la regina decollata nelle fasi culminanti della Rivoluzione francese, dichiarava di portare fiori di patata sui propri corpetti per convincere i sudditi a pensare alla patata come a un alimento prezioso, che cos’altro faceva di diverso dai testimonial ingaggiati nel nostro tempo per attirare l’attenzione su marche e prodotti? E quando Antoine Augustin Parmentier, il celebre farmacistaagronomo, convintosi delle virtù alimentari della patata, con uno stratagemma riuscì a incuriosire i contadini dei dintorni di Parigi inducendoli a pensare la patata al di fuori dei pregiudizi che ne avevano accompagnato i tentativi di diffusione, non stava forse applicando una tattica di comunicazione vecchia quanto i manuali di strategia guerresca? Per la cronaca, Parmentier nel 1773 fu in grado di dimostrare l’infondatezza dei pregiudizi legittimati dai luminari dell’Accademia di medicina di Parigi, scardinando le barriere che avevano impedito l’uso del tubero come alimento. Ma, dopo aver vinto la schermaglia scientifica, si trovò di fronte a un problema difficile da risolvere con i mezzi della sola razionalità. In Francia la cultura popolare aveva condannato la patata sulla base di pregiudizi ben più radicati e ineffabili rispetto a quelli pseudoscientifici dell’ordine medico. Il tubero era insignificante quanto a forma e colore; non s’era mai visto un frutto nascere e maturare interrato; i tentativi di mangiarlo crudo avevano prodotto una catastrofe gustativa, al punto che se ne consigliava l’uso solo per i maiali qualora non vi fossero ghiande disponibili. La religione aveva amplificato il problema diffondendo nelle campagne voci sulla natura diabolica dell’orrendo tubero, avvicinato alle stregonesche dicerie sulla mandragora. Come riuscì l’astuto Parmentier a dissipare il velo di ignoranza che nascondeva le virtù della patata? Chiese al re, con successo, i soldati necessari per sorvegliare, durante il giorno, i campi di patate che aveva fatto piantare tutt’intorno a Parigi. Contadini e curiosi interpretarono questa mossa come un tentativo di nascondere qualcosa di molto prezioso, e di notte approfittavano, pertanto, della studiata fine dei controlli per trafugare i tuberi. E così, fi-

• Tra i primi filmati pubblicitari incentrati

sulla patata si ricorda Mr e Mrs Potato, prodotto tra gli anni Cinquanta e Sessanta dalla Hasbro per reclamizzare un giocattolo composto da una serie di accessori (occhi, braccia, cappello ecc.) ideati per decorare una patata e trasformarla, appunto, in Mr e Mrs Potato. I due personaggi hanno avuto un successo di lunga durata, tanto che figurano tra i protagonisti del film di animazione della Disney Toy Story 3. La grande fuga (2010)

• In tempi recenti Google è ricorso

alla patata per pubblicizzare il proprio browser Chrome. Nello spot il dispositivo per la navigazione nel web viene sottoposto a una serie di bizzarri test di velocità, nel corso dei quali vediamo una patata “sparata” attraverso un alambicco che la trasforma e la proietta su una pagina Internet

• Lo spot dell’AMGAS, la municipalizzata del gas di Bari, presenta in stile reality televisivo alcune simpatiche massaie che raccontano come si cucina riso, patate e cozze alla barese

segue

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patate e pubblicità nalmente, anche in Francia la patata si avviò a divenire uno dei prodotti più importanti per l’alimentazione popolare. Oggi gli scenari sono clamorosamente cambiati. La patata è ora uno dei prodotti-mondo più conosciuti e apprezzati. La sua commercializzazione segue i dettami della comunicazioneprodotto imposti dal modo in cui l’Occidente diffonde le merci. Ovvero, attraverso le storie che qualsiasi prodotto non può non raccontare, pena l’esclusione dal mercato. Tuttavia, se in molti settori la comunicazione pubblicitaria ha raggiunto sofisticati livelli di complessità narrativa e d’immagine, la comunicazione che ha per oggetto la patata, come del resto avviene per la gran parte dei prodotti del settore primario, si è mantenuta per decenni su uno standard pubblicitario che non lascia tracce nella memoria.

continua

• Patasnella (Pizzoli) si affida al jingle

di Gianni Meccia, una canzonetta che in origine faceva parte della colonna sonora di un film dei primi anni Sessanta, diretto da Piero Vivarelli

• Il filmato di Amica Chips del 2007,

sulla scia dello slogan “la patata tira”, diventa immediatamente un piccolo mito comunicazionale, che fa ampio ricorso ai doppi sensi, oltre ad affidarsi a un testimonial d’eccezione, il pornodivo Rocco Siffredi

Mr e Mrs Potato Non è un caso se l’unico commercial vintage centrato sulla patata che ho potuto recuperare non fu, in realtà, ideato allo scopo di commercializzare questo frutto della terra. Si tratta infatti di Mr e Mrs Potato, prodotto tra gli anni Cinquanta e Sessanta dalla Hasbro, industria di giocattoli che allora godeva di una buona notorietà, consistente in un giocattolo composto da una serie di accessori (occhi, braccia, cappello ecc.) pensati per decorare una

• Selenella, nel suo spot più famoso,

gioca sul tema della conoscenza del selenio, un potente antiossidante di cui la patata in questione è arricchita

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storia e arte patata e trasformarla, appunto, in Mr e Mrs Potato. Sembra incredibile, ma pare che il giocattolo abbia avuto un successo tale da motivare investimenti pubblicitari di rilievo. Perché i creativi incaricati dalla Hasbro pensarono a una patata, e non a una pera, o a una mela, o ancora a un cocomero? Probabilmente in questa scelta entra in gioco il fascio di contenuti divenuti moneta corrente per il senso comune. La patata è diffusissima dal punto di vista alimentare, e nello stesso tempo non è tra i prodotti che si impongono per il loro aspetto. La percezione formale che abbiamo del tubero è più o meno quella che avevano i contadini francesi al tempo di Parmentier: rispettiamo la patata per le sue virtù culinarie, ma nessuno di noi vorrebbe avere un naso o un viso come una patata. Si capisce, allora, la scelta dei creativi del commercial: proprio perché ha una forma che non percepiamo come attraente, la patata può divenire per i bambini una fonte di intrattenimento, attraverso una sorta di rudimentale make up che la trasforma in un divertente sembiante umano. L’esempio del commercial della Hasbro ci dice inoltre qualcosa intorno ai valori simbolici della patata. Più che essere un valore in sé, la patata ha una valenza transitiva: serve, cioè, per configurare valore. In questa occorrenza uso il termine “valore” nell’accezione di significazione mitica (per quanto paradossale). Posso citare come esempio attuale l’uso della patata fatto da Google per pubblicizzare il proprio browser Chrome. Nello spot il dispositivo per la navigazione nel web viene sottoposto a una serie di bizzarri test per magnificarne la velocità di funzionamento. Infatti, non si effettuano esperimenti tra browser concorrenti, bensì Chrome se la vede con una patata, con la velocità del suono e con quella di un fulmine. Insomma, nelle immagini vediamo una patata “sparata” attraverso un alambicco che la trasforma e la proietta su una pagina web. Divertente e delirante, come spesso è la buona pubblicità. Un uso analogo della patata, a quanto pare, ha proposto lo spot dell’AMGAS, la municipalizzata del gas di Bari, con un videomessaggio in stile reality televisivo nel quale alcune simpatiche massaie d’una volta raccontano come si cucina riso, patate e cozze alla barese. La loro espressività fa venire l’acquolina in bocca all’uomo seduto a tavola, il quale, nel finale dello spot, implora fremente: allora quando si mangia? Abbiamo dunque un uso metonimico della patata, che da prodotto (non mostrato direttamente) attraverso la voce delle protagoniste si trasforma in significante culinario, e infine in desiderio. Che cosa c’entra l’azienda del gas? Evidentemente il creativo di turno suppone che nel nostro cervello si attivi una passeggiata inferenziale tale da produrre le interrelazioni cibo-pratica culinaria-gas (l’energia necessaria per la trasformazione degli alimenti da crudi a cotti). La significazione profonda emergereb98


patate e pubblicità be circondata dall’aura emozionale prodotta dalla simpatia delle protagoniste. Il “vangelo pubblicitario” dei nostri giorni definisce come efficace il messaggio che ci arriva anticipato da un flusso emozionale. In un altro spot, molto chiacchierato su Internet, a questa strategia ha fatto recentemente ricorso Patasnella (Pizzoli). In questo caso l’anticipo emozionale sui contenuti commerciali è interamente dominato dal jingle di Gianni Meccia, una canzonetta che in origine faceva parte della colonna sonora di un film dei primi anni Sessanta, diretto da Piero Vivarelli, appartenente al genere dei musicarelli. Nello stesso anno il brano fu presentato anche al festival di Sanremo nell’interpretazione di Wilma De Angelis. Le immagini dello spot sono banali, e il fattore portante del messaggio è senza dubbio il brano di Gianni Meccia. I risultati del recupero del vecchio tormentone musicale sembrerebbero ambivalenti. Dai commenti subito apparsi sul web molte ragazze hanno coperto di ingiurie i creativi responsabili della scelta, oltre al paroliere e al povero Meccia; d’altro canto i ragazzi si sono fatti attrarre in modo morboso dalle allusioni sessuali sottese al termine “patatina”, cogliendo l’occasione per reiterarne la presenza nei blog, e finendo con l’innervosire ancora di più le naviganti. Tuttavia, a voler essere utilitaristi e cinici, si può sostenere che, con uno spot che sembra fatto in casa e un motivetto da Oscar della stupidità, la marca in questione ha fatto il pieno di notorietà. I pubblicitari di solito vanno fieri di questi paradossi comunicazionali (dissemino un guazzabuglio di chiacchiere, per lo più negative, ma acquisisco quote di attenzione insperate). La “patatina” di Gianni Meccia, usata come metafora di ragazzina graziosa, ci introduce a significazioni morbose del termine “patata”, usato in gergo come riferimento all’organo sessuale femminile (forse per l’aspetto? oppure perché, come ricordava Sigmund Freud, molti maschi isterici, non sopportando la visione dell’organo femminile, ne abbassano con il linguaggio il reale valore? Come si è detto, la patata è quanto di più familiare ci sia nella nostra dieta, ma è brutta e indigesta al naturale, un supporto materiale perfetto per gli spostamenti nel simbolico dell’isteria). Per fortuna in circolazione non ci sono solo “isterici”. Lo attesta Aldo Busi nel suo Aloha!!!!!: “L’ha guardata da gran intenditore negli occhi e le ha detto ad alta, altissima voce, ‘Sai che hai una bella patata? Se potrei te la pelerei con la lingua’”. Come il protagonista del libro di Busi possa inferire la configurazione estetica dell’organo femminile della malcapitata di turno guardandole gli occhi è un bel mistero. Tuttavia lo scrittore attesta l’ambivalenza del termine “patata” come metafora dell’organo sessuale, che a questo punto ribalta la significazione isterica, magnificandolo come oggetto di valore.

Patata: il jingle di Gianni Meccia

• Patatà, patatì, patatina come te... Bambina piccolina, patatina Col naso piccolino, patatino...

Foto Pizzoli

Pubblicità di Patasnella, Pizzoli

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storia e arte Le “patatine” di Rocco Siffredi Chiedo scusa al lettore per le lungaggini, ma indugiare sull’ambivalenza, sull’oscenità e sulla comicità di “patata” ci permette di capire le ragioni della scelta dei pubblicitari che hanno prodotto lo spot per la patatina Amica Chips, divenuto subito un piccolo mito comunicazionale. Sulla scia dello slogan “la patata tira” i creativi al servizio dell’azienda produttrice nell’aprile del 2007 mettono in onda il loro capolavoro. Tra un programma e l’altro, teleutenti italiani sbigottiti vedono apparire verso l’ora di massimo ascolto – l’ora in cui di solito tutta la famiglia si riunisce davanti alla tv – il pornodivo Rocco Siffredi mentre si aggira in un party in piscina animato da bellissime e sensuali ragazze. Pose, colori e ritmo delle immagini ci riportano ai brevi intermezzi realistici che tengono assieme le sequenze chiave dei film porno, tentando di conferire loro un improbabile filo narrativo. Chi ne abbia visto uno, anche solo di sbieco, percepisce facilmente che di lì a poco nella piscina si scatenerà l’inferno. Rocco Siffredi, mentre sul video si materializza lo slogan “A chi piace la patatina”, ci spiega di aver provato tante patatine, ma che nessuna è come Amica Chips. Le sue parole, espresse con un tono da “saraffone” di lungo corso, sono un trionfo di doppi sensi: “Io di patate ne ho viste tante... Non ce la faccio a fare senza... Ne ho conosciute tante: americane, tedesche, francesi, italiane... le prenderei così, senza tanti complimenti, anche tre alla volta...”. Pubblicità delle crocchette Pizzoli

Foto Pizzoli

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patate e pubblicità Inutile dire, lo spot si rivela un successone. Nel suo genere un colpo di genio, reso ancora più clamoroso dall’ottusità del Gran Giurì della pubblicità che, impossibilitato a coglierne la comicità, subito lo bandisce dalle televisoni, garantendogli lunga vita su YouTube. Non dubito che, tra tante risate, vi siano state altrettante persone irritate e indignate per le allusioni oscene contenute nello spot. Ma, come si è detto, questa catastrofe passionale quasi sempre calcolata può accelerare il successo di una pubblicità. Se Amica Chips gioca a trasformare la patata in un simbolo che esalta le virtù erotiche dell’uomo, Selenella ci introduce a un percorso di senso inverso. Nel suo spot più famoso, giocato sulla conoscenza del selenio – un potente antiossidante di cui la patata in questione è arricchita –, ci dice che gli uomini non dovrebbero mai occuparsi di patate, dal momento che non ne hanno l’intelligenza; le donne invece sì. In sintesi, più la patata è buona, più si diventa intelligenti: le donne lo sanno, ergo le donne sono più intelligenti degli uomini. Ristabilita la parità tra i sessi, per concludere non resta che prendere atto dello straordinario e profondo simbolismo che in poco più di due secoli si è imperniato sulla patata, radicandosi nella cultura popolare. Su questi strati di significazione la pubblicità al servizio della patata-merce non ha certo prodotto capolavori assoluti. Ma i contenuti incentrati sul tubero che essa riconfigura e propone toccano tutti gli aspetti di ciò che una volta si definiva l’umanità. Pubblicità delle patatine Pizzoli

Foto Pizzoli

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Musei della patata in Italia e nel mondo Laura Pappacena

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte Musei della patata in Italia e nel mondo La più amata nel mondo, ma anche avversata per oltre un secolo come il “frutto del diavolo” perché nata sottoterra e temuta oggi soprattutto da chi ha un metabolismo lento. Parliamo della patata, già protagonista di quadri celebri quali I mangiatori di patate di Vincent van Gogh, è diventata una star indiscussa da quando le sono stati intitolati veri e propri musei in diverse parti del mondo. Esistono, è vero, numerosi musei del gusto dedicati a prodotti alimentari, ma pochi tra questi si possono vantare di averne uno solo per loro.

Principali musei della patata

• Potato Museum di Albuquerque, New Mexico (USA)

• Idaho Potato Museum di Blackfoot, Idaho (USA)

• Frietmuseum di Bruges (Belgio) • Kartoffelmuseum di Monaco di Baviera (Germania)

Musei stranieri Il più noto si trova negli Stati Uniti. Si tratta del Potato Museum di Albuquerque, nel Nuovo Messico. La sua storia è davvero particolare, per cui vale la pena accennarla brevemente. Il giovane Tom Hughes, studente della scuola internazionale di Bruxelles, in occasione della ricerca scolastica di fine anno, realizzò un’ampia raccolta di oggetti e documenti riguardanti le patate. La ricerca fu talmente apprezzata che, dopo altri tre anni di raccolta, venne esposta dalla scuola in tre aule in disuso, con il nome di Museo delle Patate.

• Centro Internazionale della Patata di Lima (Perú)

• Museo della Patata di Budrio (Bologna)

Vasi della civiltà Inca che rappresentano varie forma di patate: sono i reperti più antichi custoditi nel Frietmuseum di Bruges

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musei della patata Il ragazzo nel tempo divenne insegnante, ma la passione per le solanacee non lo abbandonò, quindi decise di cessare l’attività scolastica per dedicarsi completamente alla ricerca storica e sociale di questo alimento. Cominciò così a viaggiare per l’Europa, documentandosi e raccogliendo materiale e informazioni nei diversi centri di ricerca nazionali. Nel 1983 Tom fu invitato negli Stati Uniti, sua terra di origine, a tenere conferenze in moltissime scuole e nei musei. La sua presenza in televisione ne decretò la notorietà. Il successo fu tale che Tom decise di trasferirsi a Washington. Trasmise la sua passione anche alla moglie Meredith che, riprendendo i risultati delle ricerche del marito, pubblicò un libro dal titolo The Great Potato Book. Grazie al contributo di R. Sawyer e J. Niederhauser, ricercatori del CIP, il Centro Internacional de la Papa del Perú, la maggiore istituzione mondiale in tema di patate, il valore scientifico delle ricerche di Tom fu suggellato con la fondazione di un’associazione culturale. Ma i coniugi Hughes non si accontentarono dei risultati ottenuti e continuarono le loro ricerche e la loro attività in tutto il mondo, curando, tra l’altro, numerose mostre. La loro attività divenne sempre più conosciuta anche grazie ai servizi che le televisioni dedicarono al museo che diventò, così, nel tempo, una grande attrazione della città. L’eccessivo traffico che si creò per le numerose visite dei locali e dei turisti indusse,

Foto R. Angelini

Museo del Centro Internazionale della Patata di Lima (Perú) Patate native presso il Centro Internazionale della Patata di Lima (Perú)

Foto R. Angelini

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storia e arte però, il proprietario della struttura a ritirare le autorizzazioni. Perciò la famiglia Hughes, insieme al museo, si trasferì ad Albuquerque, nel Nuovo Messico, dove tuttora si trova. Il nuovo allestimento diede vita, altresì, al Food Museum, una grande raccolta di testimonianze del ruolo culturale del cibo. Anche oggi Tom e Meredith continuano instancabili le loro attività di ricerca e di produzione di materiale educativo e informativo sulle patate. Quello di Albuquerque non è però l’unico museo statunitense. A Blackfoot, la capitale della patata, nella contea di Bingham, si trova, dal 1912, l’Idaho Potato Museum. L’Idaho è la terra dei cercatori d’oro, i quali a un certo punto compresero che avrebbero guadagnato di più coltivando ed esportando patate. I primi tuberi furono piantati dal reverendo Henry Spalding, ma lo sviluppo della produzione ebbe un vero impulso con l’arrivo dei pionieri nel luglio del 1847. Il museo ne ripercorre la storia, in un viaggio attraverso la rivoluzione dell’industria della patata, dalle prime coltivazioni alle recentissime patatine della Pringle’s Company. Fornisce inoltre informazioni complete sul passato del famoso tubero, sul suo potere nutrizionale, sulle modalità di semina, coltivazione e raccolta, insieme a tante curiosità e a percorsi didattici. All’Idaho Potato Museum sono esposte anche vecchie attrezzature agricole.

Particolare di una sala del Frietmuseum di Bruges Entrata del Frietmuseum di Bruges

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musei della patata Tra le curiosità: la patata più grande al mondo e il negozio dove è possibile acquistare gadget (da non perdere la maglietta di Marilyn Monroe con indosso un vestitino di iuta tappezzato dai loghi delle patate) e articoli prodotti con questo alimento, oltre alla possibilità, ovviamente, di comprare ottime patate fresche dell’Idaho.

Foto R. Angelini

L’introduzione, nella metà del Cinquecento, della patata in Europa ha segnato indelebilmente le abitudini gastronomiche del Vecchio continente, tanto che la migliore patata fritta si ritiene sia quella belga. In uno dei più antichi quartieri di Bruges, e precisamente in un elegante edificio del XIV secolo, chiamato Saaihalle e situato in Vlamingstraat 33, si trova dal 2008 il Frietmuseum, il museo delle patate fritte. L’idea è nata da Eddy Van Belle che, con suo figlio, ha già al suo attivo la fondazione del museo della cioccolata. La vocazione del museo è didattica e illustra la storia sia della pomme de terre, sia della sua frittura e dei differenti condimenti che abitualmente l’accompagnano. I visitatori possono ammirare la collezione di macchinari utilizzati per la coltivazione, la raccolta, la pulizia e la frittura delle patate e come esse sono state oggetto d’interesse nelle arti, nella musica e nei film. La visita si snoda su tre livelli: al pianterreno viene ripercorsa l’emozionante storia del tubero, la cui presenza sembra attestaPatate peruane

Foto R. Angelini

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storia e arte ta nella regione delle Ande probabilmente 2000 e più anni prima della Conquista; il primo piano è dedicato in particolare alla storia delle patate fritte e della loro origine belga; infine, nelle cantine medievali, dopo aver così sollecitato l’appetito, le si possono finalmente degustare. Da non perdere il Kartoffelmuseum, che si trova in Grafinger Straße, a Monaco di Baviera. La patata in Germania è una vera e propria istituzione culinaria, al punto che Federico II di Prussia (1712-1786), sovrano illuminato, promosse l’introduzione della patata in Germania. Aperto nel 1996 da Otto Eckart, è l’unica galleria al mondo che studia esclusivamente questo tubero come protagonista nella storia dell’arte. La famiglia Eckart, tra l’altro, fu la fondatrice della Pfanni, la prima società produttrice di polvere secca di patate che permise, anche a chi non possedeva particolari doti culinarie, di preparare un ottimo purè, con la sola aggiunta dell’acqua. Dipinti a olio, acquerelli, incisioni, disegni, litografie, stampe, pitture su vetro, hanno tutti come tema la patata.

Foto R. Angelini

Musei in Italia: il museo di Budrio In Italia, la patata è celebrata a Budrio, nel museo ideato da Mario Pasquali. Questo tubero, infatti, si è ben adattato nel nostro Paese, così da diffondersi dalle zone pianeggianti a quelle montane. D’altronde, il territorio emiliano cominciò molto presto a occuparsene:

Patate native (Perú) Diverse varietà di patate native peruane (Museo del Centro Internazionale della Patata di Lima, Perú)

Foto R. Angelini

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musei della patata le sue proprietà furono osservate nell’orto botanico dell’Università bolognese nei primi anni del Seicento, dove il botanico Giacinto Ambrosiani la descrisse come pianta medicamentosa, ma ancora non alimentare. Il museo è stato inaugurato nel 2008, l’anno internazionale della patata, anche per segnalare un importante traguardo per le aziende della zona che operano in questo settore. La collezione è divisa in tre sezioni: la prima è dedicata alle macchine pianta e scava patate; la seconda agli attrezzi utilizzati per la raccolta e la terza agli irrigatori, tutti strumenti fondamentali per la coltivazione. Gli arnesi esposti sono, in parte, realizzati da agricoltori-meccanici o da artigiani locali, che hanno sfruttato il loro ingegno per risolvere problemi di natura pratica, costruendo pezzi unici, molto spesso con materiali di recupero. è il caso, per esempio, di una macchina piantapatate degli anni Sessanta in cui vengono utilizzati i porta saponette come contenitori dei tuberi da piantare, mentre le ruote sono quelle di una carrozzina. Per ogni strumento viene sempre ricordato il costruttore: così la macchina piantapatate del 1967 è opera della famiglia Giuliani di Budrio, che si è servita di ruote di bicicletta, inferriate e gomma; mentre il tagliapatate, che a seconda della grandezza del tubero consentiva di tagliarlo in due o più parti, si ricorda essere opera di Dino Mioli.

Foto R. Angelini

Museo del Centro Internazionale della Patata di Lima (Perú) Patata nel presepe andino

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patate nella... predica Giovanni Biadene

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storia e arte Patate nella... predica I rapporti con la Chiesa, tra luci e ombre L’argomento che ci proponiamo di trattare in questo scritto non è che l’ultimo anello di una serie di rapporti che, in un quadro più vasto, legarono la nuova pianta, fin dal suo primo apparire in Europa, alla fede religiosa allora diffusa in tutto il Vecchio mondo. Ne accenniamo brevemente perché ciò che andremo a esporre appaia più chiaramente nel suo complesso. Santa Teresa d’Avila mangiava patate I primi tuberi di patata arrivarono in Spagna, e quindi nell’Europa meridionale, più precisamente a Siviglia, il solo porto spagnolo al quale, per disposizione regale, dovevano approdare tutti i navigli provenienti dal Nuovo mondo, per poterne meglio controllare i carichi di oro e di altre possibili merci preziose, già note nel Vecchio continente, e non certo per sorvegliare i traffici di patate, ancora del tutto sconosciute: queste vi arrivarono quasi clandestinamente, alla spicciolata. E infatti non si sa chi ve le abbia introdotte né, con esattezza, quando ciò sia avvenuto. Ma proprio a Siviglia, nel 1576, abbiamo le prime notizie su di esse dai registri dell’Hospital de la Sangre della città, gestito, come tante altre opere caritative, da religiosi. E ne abbiamo notizia addirittura da una delle figure di spicco della Chiesa cattolica, pure in Spagna e sempre in quegli anni, la fondatrice della riforma dei carmelitani, santa Teresa d’Avila, la quale ne parla in due lettere, datate 1578, con cui ringrazia la superiora del monastero di quell’ordine a Toledo, che le aveva inviato qualche tubero di Foto P. Barone

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patate nella... predica patata, evidentemente già prodotto e raccolto in una delle prime coltivazioni in suolo europeo. Si potrebbe dubitare che si trattasse della vera patata, bensì della batata, o patata dolce, con cui per molti decenni si continuò a fare confusione, come dimostra spesso la prima letteratura italiana in proposito. Dubbio giustificato, perché la patata dolce, che cresce nelle zone rivierasche dell’America centrale e insulare, fu conosciuta certamente prima della vera patata, che gli Spagnoli incontrarono solo più tardi, dal 1538 in poi, quando cominciarono ad avventurarsi nell’interno dei Paesi andini. E le lettere di Teresa d’Avila, di quarant’anni dopo, ci tranquillizzano, quindi, su questo punto. In Italia il primo accenno sicuro alla patata appare in un lavoro edito postumo nel 1625, del padre vallombrosano Vitale Magazzini, defunto nel 1606, data alla quale bisogna dunque far risalire la priorità della documentazione italiana certa su questo argomento. E vediamo come l’autore – anche lui, guardacaso, un consacrato – parli della nuova pianta quasi con semplicità e naturalezza: “[...] si piantano in buon terreno fresco e umido, le patate portate nuovamente qua di Spagna e Portogallo dalli reverendi Padri Carmelitani Scalzi”, dove quel “nuovamente” sta per recentemente oppure, se si vuole, può significare come novità. Da altre fonti sappiamo che santa Teresa d’Avila fu grande mistica, sì, ma anche ottima organizzatrice pratica e conoscitrice della psiche umana, tanto che, per l’espansione della sua riforma in Italia, aveva individuato nel suo confratello padre Nicolò Doria la persona più adatta allo scopo, per le sue buone capacità imprenditoriali. Costui, infatti, di chiara origine genovese, si era straordinariamente arricchito in Spagna con la mercatura, al punto da poter concedere prestiti allo stesso re, ed era passato poi alla vita

Patata nei testi di autori ecclesiastici

• Il sacerdote Giovanni Battarra di Rimini pubblica, nel 1778, la sua Pratica agraria distribuita in vari dialoghi, una serie di dialoghi tra un padre e i suoi due figli su argomenti di agraria, il dodicesimo dei quali è dedicato alla coltivazione della patata. Il testo ebbe numerose ristampe fino al 1854

• Dello stesso spirito e altrettanto

fortunati furono i Calendari dodici ossia corso completo di agricoltura pratica (1793), opera del proposto Marco Lastri di Pistoia, dove si descrivono le opere e i giorni dell’anno agrario, compresa la coltivazione del tubero

• Il milanese P. Glicerio Fontana aveva

dedicato alla patata, nel suo Dizionario universale economico rustico, ben 67 pagine. Il testo viene riportato per intero dal sacerdote ligure Nicolò Dalle Piane nella sua Istruzione economica sui pomi di terra (1793)

• Con una circolare del 1817 il cardinale

Foto R. Angelini

Opizzoni di Bologna sollecitava i parroci a leggere e a diffondere tra i fedeli una Istruzione agli agricoltori della provincia di Bologna sul coltivamento e gli usi del pomo di terra, opuscoletto che il professor Contri dell’università felsinea aveva scritto su invito del cardinale stesso

segue

Batata o patata dolce

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storia e arte monastica con il nome di Nicolò di Gesù Maria. Egli iniziò la sua opera partendo proprio da Genova, dove la Repubblica gli concesse una chiesetta dedicata a sant’Anna, ai margini della città, che divenne così il primo convento riformato in Italia. E se egli qui gettò il seme della riforma teresiana, che poi condusse con successo contro la resistenza dei confratelli romani (che, di riforme, non ne volevano sapere), contemporaneamente nell’orticello di cui la chiesetta era dotata vennero piantate anche le prime patate in suolo italico; forse non proprio da lui, incaricato di ben altri problemi, ma dai due fratelli che lo accompagnarono nell’impresa, i quali magari se n’erano portati qualche tubero nelle bisacce. E chissà che non lo abbiano fatto proprio su suggerimento della stessa santa Teresa. Ciò avvenne nel 1584, cioè ventidue anni prima della morte di padre Magazzini, che quindi ne venne a conoscenza in quel lasso di tempo, durante il quale la novità poté diffondersi verso sud, lungo il litorale di levante, fino in Toscana, ed egli ebbe modo di parlarne come di notizia, per quei tempi, decisamente fresca, ma già da lui sperimentata. Anche tenendo conto dell’anello mancante, cioè una traccia scritta della vicenda, questa ricostruzione non sembra troppo azzardata ma ragionevolmente verosimile.

continua

• Don Luigi Della Bella, parroco di

Arbizzano ( Verona), con un suo opuscolo del 1816 si rifà, arricchendolo di notizie aggiuntive, a un modesto scritto anonimo comparso sempre nel Veronese circa quarant’anni prima, con il titolo A Villici, dedicato alla coltura della patata

• Tra Veneto e Friuli circolano, dal 1816

in poi, due trattatelli sulla patata. Si tratta della Istruzione sulla coltivazione ed usi dei pomi di terra o sia patate e di Coltivazione delle patate, o pomi di terra, ne’ campi montuosi denominati zappativi di V.S. riordinata ed accresciuta da G.A.T.

L’arcivescovo di Bologna e i vescovi di Ancona e Molfetta incoraggiano la coltura delle patate Tornando al mondo cattolico, se le prime tracce storicamente accertate della diffusione dell’umile tubero in Europa e in Italia sono legate, come si è visto, all’intervento di personalità eminenti del cristianesimo, per arrivare a quei rappresentanti del basso clero in genere, che sono propriamente l’argomento di questo capitolo, il passo non fu certo breve: il percorso durò parte del XVIII e tutto il XIX secolo. Se volessimo ripercorrerlo anche in fretta, lungo di esso incontreremmo, oltre al cardinale Carlo Opizzoni, arcivescovo di Bologna (di cui parleremo più avanti), altri due uomini di chiesa, come il vescovo di Ancona monsignor Bacher, che propugnò la coltura della patata bisestile, e quello di Molfetta, Giuseppe Maria Giovene, teorico ante litteram della coltivazione invernale della patata in Puglia. Ma incontreremmo soprattutto più d’uno di quegli abatini settecenteschi, del cosiddetto clero secolare, tra i quali di un certo valore fu l’abate Carlo Amoretti, un poligrafo che non disdegnò di parlare dell’umile tubero, come al contrario fece il suo stesso editore che, stampando l’opera omnia dell’abate, stimò disdicevole includervi proprio il trattatello sulla patata, giudicato favorevolmente dai successivi critici. Incontreremmo, poi, sacerdoti a tutti gli effetti, spesso veri studiosi in abito talare, come Berardo Quartapelle e Nicola Onorati Columella, tutte figure meritevoli, la cui opera, però, mai giungeva ai veri destinatari, cioè i contadini, e se anche vi fosse arrivata la materia 110


patate nella... predica era esposta in forme troppo complicate per poter essere da loro recepita. Solo qualche “possidente” un po’ più illuminato avrà letto qualcuna di queste opere, per lo più guardandosi bene dal trasmetterne i contenuti ai propri coloni, a lui bastando i redditi sicuri ricavati dalla cerealicoltura, specie in pianura, senza rischiare nulla in novità. E comunque gli stessi contadini sarebbero stati poco disposti ad accettarle, tali novità, convinti com’erano da secolare diffidenza che ciò che veniva loro proposto dal padrone era solo a suo vantaggio, e quindi a loro danno. In Italia, infatti, come il sacerdote Giovanni Battarra di Rimini scriveva, la situazione era assai diversa che non “in Inghilterra dove non vi è casupola di contadini che non abbia almeno una sufficiente raccolta di libri agrari che leggono o fanno leggere ai loro figli e famigli”. Ed è su questo esempio che egli immagina di pubblicare, nel 1778, una serie di dialoghi tra un padre e i suoi due figli su argomenti di agraria, dedicandone il dodicesimo, di alcune paginette, alla coltivazione della patata. L’idea ebbe successo, tanto che questa Pratica agraria distribuita in vari dialoghi venne ripetutamente ristampata fino al 1854. Dello stesso spirito e altrettanto fortunati furono i Calendari dodici ossia corso completo di agricoltura pratica, opera del proposto (altro grado della gerarchia ecclesiastica) Marco Lastri di Pistoia, nella quale vengono descritti le opere e i giorni dell’anno agrario, compresa la coltivazione della patata. Editi la prima volta nel 1793, vennero ristampati a più riprese fino al 1834. Foto R. Angelini

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storia e arte Ci si può a questo punto domandare perché proprio il clero in genere, ai suoi vari livelli, si occupasse tanto attivamente di un argomento così... terra terra come la patata. La società del tempo era ancora articolata nei ben noti tre stati, al secondo dei quali, il clero, erano state devolute – dall’epoca in cui gli appartenenti al primo, i detentori del potere, erano analfabeti – le competenze culturali, retaggio dei monasteri medievali che nei loro scriptoria le avevano non solo conservate e tramandate, ma anche sviluppate. Esattamente come all’arrivo della patata in Europa, questa prerogativa era ancora a tal punto salda che istruzione, scuole, collegi, biblioteche, studi e ricerche ecc. erano in mano al clero, malgrado l’interruzione napoleonica. Della cultura spicciola, soprattutto nelle campagne, continuava a occuparsi ancora il basso clero. In tale situazione il cardinale Opizzoni di Bologna si rese conto che, per la diffusione della pataticoltura presso il ceto rurale, ciò che mancava era la fase del passaggio dalle conoscenze teoriche all’applicazione pratica, e ciò poteva avvenire solo con il decisivo coinvolgimento del parroco: quasi sempre lui stesso proveniente dal contado, egli si trovava a quotidiano contatto con i problemi dei parrocchiani, che in certe situazioni (per esempio nel corso delle frequenti carestie) non era esagerato definire di sopravvivenza. In una famosa circolare del 1817, in cui si riconosceva, appunto, come anche chi si occupava dei problemi ultraterreni, dell’anima, dovesse in certe circostanze tenere conto anche di quelli terreni, del corpo, qualora essi fossero di comune vantaggio, il porporato bolognese (ma di origine lombarda) ufficializzava in un certo senso questo salto di qualità che doveva subire la diffusione della nuova coltura. Con tale lettera, infatti, i suoi subalterni venivano sollecitati a leggere e a diffondere tra i fedeli una Istruzione agli agricoltori della provincia di Bologna sul coltivamento e gli usi del pomo di terra, un opuscoletto che il professor Contri dell’università felsinea aveva scritto allo scopo in forma chiara e piana, su sollecitazione del cardinale stesso, e di cui una copia veniva allegata alla missiva. Don Michele Dondero e don Nicolò Dalle Piane, pionieri della patata in Liguria A dire il vero, non è che in Italia nessun appartenente alla classe destinataria della lettera del cardinale Opizzoni non avesse mai pensato anche da sé a tale problema, e a come risolverlo in proprio. Anche tra i parroci vi furono quelli che – chi informandosi, chi “scopiazzando” e chi facendo ristampare interi testi altrui senza nemmeno citarne la fonte o l’autore – diedero alle stampe degli scritti sulla patata ad usum delphini, ovvero dei propri parrocchiani. Ciò dovette accadere, per esempio, una prima volta a Roccatagliata, un povero paesello sperduto dell’Appennino ligure, ad opera del parroco don Michele Dondero, che resse quella parrocchia dal 1778 al 1813, il quale non fu uno sprovveduto pretuncolo adeguato alle trascurate condizioni in cui aveva trovato la sua nuova sede. 112


patate nella... predica Anzi, non digiuno di medicina, studiata a Genova, egli si diede subito da fare per migliorare le condizioni di vita dei suoi parrocchiani, introducendo in quelle contrade la coltivazione della patata con tanto successo da poter concludere così una sua comunicazione: “[...] da vent’anni a questa parte si sono rese stabili 20 circa famiglie che andavano vagando e che erano per espatriare e altre 20 circa si sono rimpatriate con l’introduzione delle patate”. Un notevole risultato, quindi, soprattutto dal punto di vista sociale, raggiunto ben quarant’anni prima della circolare del cardinale bolognese, grazie all’iniziativa di un parroco che evidentemente non aveva perso tempo a scrivere opuscoletti, ma si era affidato alla parola e soprattutto all’esempio pratico, come quando consumò in pubblico un piatto di patate per convincere i propri fedeli che il nuovo frutto della terra non era velenoso, bensì nutriente e saporito. Un bell’esempio di quei preti di campagna per i quali i Tedeschi avevano coniato il nomignolo, scherzoso ma non irriverente, di Knollenprediger, predicatori dei tuberi, ché evidentemente anche nei paesi di lingua tedesca, sia cattolici sia protestanti, era stata intrapresa questa via per la diffusione della patata, ivi facilitata dal clima. Il fatto che i parroci di allora, al di qua e al di là delle Alpi, avessero la funzione svolta oggi dai mass media, ci viene testimoniato da un quadro del pittore tedesco J.B. Pflug, che, vissuto dal 1765 al 1866, conobbe direttamente questa realtà, tanto da dedicare al soggetto ben due dei suoi dipinti, diversi tra loro solo per qualche particolare, catalogati con la medesima didascalia. In entrambi egli ritrae un sacerdote che, non dal pulpito ma appoggiato a un bancone che potrebbe essere quello di un’osteria, legge a voce alta da una gazzetta rivolgendosi a un gruppetto di ascoltatori, vario ma attento: leggeva forse qualcosa sulla patata? Solo con una certa difficoltà possiamo immaginare che i parroci parlassero della patata addirittura dallo stesso pulpito dal quale avevano commentato il Vangelo, e quindi possiamo più facilmente pensare che ciò avvenisse in qualche luogo non consacrato, forse nella canonica o piuttosto nell’osteria, che spesso era vicina alla chiesa, costituendo entrambe i punti d’incontro delle comunità agricole, per lo più analfabete; esse si completavano quindi, ciascuna secondo le proprie competenze, nella diffusione delle informazioni, e insieme erano attive nella funzione che più tardi venne assolta specialmente dalla stampa quotidiana, mano a mano che questa veniva favorita dal progredire dell’alfabetizzazione. È certo, però, che l’occasione offerta da una messa, di avere insieme un folto gruppo di quella popolazione maschile più direttamente interessata all’argomento, era assai attraente, e non escludiamo che essa venisse anche effettivamente utilizzata, confondendo con sancta simplicitas il sacro con il profano. Un esempio di tale saggio compromesso fu quello dei parroci liguri, che decisero di far seguire al termine di ogni messa un Discorso sulla agricoltura e sopra le arti che esercitansi nelle parrocchie (Atti 113


storia e arte della Società Economica di Chiavari, 1864). Ancora, nel 1793 fu sempre un sacerdote ligure, Nicolò Dalle Piane, a dedicare una sua Istruzione economica sui pomi di terra “ai molto rev. Parochi Rurali del Dominio della Serenissima Repubblica di Genova”; in tale opera viene citato un certo P. Geremia Fanelli di Vernazza, che nel suo “Giornale del Parroco” di vent’anni prima, cioè del 1773, già parla della nuova pianta. Questa annotazione ci fa risalire ai tempi del parroco di Roccatagliata, che si confermano, quindi, tra i più interessati alla solanacea e tra i più interessanti per la sua storia in Italia, la quale sembra cominciare proprio da Genova. È strano, tuttavia, che nessuno di tali autori faccia riferimento allo scritto di Vitale Magazzini, forse perché non ligure, e al suo accenno ai carmelitani spagnoli. Ma non bisogna dimenticare che, da quella prima testimonianza fino al riaccendersi dell’attenzione verso la solanacea, in tutta la Penisola si ebbero per la nuova coltura oltre centocinquant’anni di assoluto disinteresse, sulle cui cause non possiamo dilungarci in questa sede. A ogni modo, anche al rinnovarsi dell’interesse, la diffusione delle conoscenze rimane di carattere libresco e si arresterebbe sulle labbra dei parroci rurali, se questi non si ingegnassero e non si impegnassero a tradurle in una forma parlata, anche dialettale, accessibile prima agli orecchi e poi alla mente dei rurali stessi. L’opera di Nicolò Dalle Piane può essere vista come un’anticipazione dell’iniziativa del cardinale Opizzoni, in quanto anch’essa fornisce una fonte specifica ai colleghi delle parrocchie rurali, che la devono utilizzare dal loro pulpito. Non sappiamo con quale autorità il Dalle Piane lo abbia potuto fare, perché, a quanto ci consta, egli non era un porporato, né era abbastanza esperto in questa particolare branca dell’agricoltura, Foto P. Barone

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patate nella... predica tanto che non poté far altro che riportare nel suo scritto ciò che un altro religioso, il milanese P. Glicerio Fontana, aveva dedicato alla patata (che, nel suo Dizionario universale economico rustico, occupa ben 67 pagine del XVI tomo). A quei tempi era abbastanza frequente che un testo già dato alle stampe venisse incluso in una nuova pubblicazione di altro autore, per lo più citandone almeno la fonte. Questo è ciò che, invece, il Dalle Piane si esime dal fare, con ogni probabilità impunemente, non essendovi allora alcuna legge a protezione della proprietà letteraria; e se questo veniva tollerato tra confratelli, è strano che lo fosse anche dagli stampatori. Istruzioni di don Luigi Della Bella ai “Villici” veronesi Tra i parroci di campagna non troviamo solo degli esecutori di iniziative provenienti dai superiori, bensì anche chi, da pari a pari, sentì il bisogno di informare i colleghi delle parrocchie vicine sulla nuova pianta. Ne fu un tardivo esempio don Luigi Della Bella, parroco di Arbizzano, in provincia di Verona, con un suo opuscolo del 1816 che si rifà, arricchendolo di notizie aggiuntive, a un modesto scritto anonimo, di 16 paginette, comparso sempre nel Veronese circa quarant’anni prima, con il semplice titolo A Villici, dove l’ignoto autore, a prova dell’approssimazione delle sue informazioni, quegli incavi del tubero che ospitano i germogli e che poi vennero da tutti chiamati occhi definisce alquanto grossolanamente “buchi”. Tra Veneto e Friuli circolarono, dal 1816 in poi, due trattatelli sulla patata, accomunati dal fatto di essere entrambi, se non proprio anonimi, almeno semianonimi, in quanto in ambedue i casi l’autore viene indicato con delle iniziali che permisero solo successivamente di risalire al nome. Si tratta della Istruzione sulla coltivazione ed usi dei pomi di terra o sia patate, la cui dedica termina appunto con le due lettere B.A., e di Coltivazione delle patate, o pomi di terra, ne’ campi montuosi denominati zappativi di V.S. riordinata ed accresciuta da G.A.T. In entrambi i casi le sigle, B.A. e G.A.T., rendono i testi alquanto misteriosi, e appare lecito chiedersi a che cosa sia dovuta questa segretezza o quanto meno riservatezza, così insolita in opere del genere. Ma da quando si è riconosciuto nella sigla B.A., come autore del primo opuscolo, il nome di Bartolomeo Aprilis, si possono immaginare le ragioni di tale prudenza. Il friulano Bartolomeo Aprilis, infatti, laureato in medicina a Padova, di nobile casato e ricco possidente, era implicato in attività irredentistiche tanto da dover riparare a Istanbul per sfuggire alla polizia austriaca. Non sarebbe stato certo prudente citarne il nome a piene lettere in un opuscoletto dedicato a un rappresentante della potenza occupante, qual era il “Signor Cav. de Torresani-Lanzfeld, I.R. Consigliere di Governo e regio deputato nella provincia del Friuli”. Così come non si volle coinvolgere in pericolosi sospetti di tal fatta il revisore, per così dire, della seconda pubblicazione, il sacerdote 115


storia e arte Giacomo Antonio Talamini, cui corrisponde esattamente la sigla G.A.T., come chiarisce il professor Contri, di cui si è detto. Sembra che il Cernazai, altra personalità friulana interessata ai vari problemi dell’agricoltura locale, che viene citato nella prefazione a questo secondo libretto, abbia fornito il testo al sacerdote con l’incarico di adattarlo all’ambiente di montagna. Lo sponsor, diciamo così, della seconda pubblicazione aveva comunque capito che solo un parroco di quelle zone alpine in cui si voleva diffondere la coltivazione della patata avrebbe usato, per un argomento così insolito, un linguaggio capace di essere recepito dai fedeli, e ne incaricò quindi don Talamini. Era infatti noto che quest’ultimo avesse parlato della patata in una sua Memoria sull’agricoltura del suo paese. Già nel titolo si accenna, come si è visto, ai campi “zappativi”, ovvero quegli appezzamenti in cui era frazionata la proprietà in montagna, che per la pendenza del terreno e per le ridotte dimensioni non potevano essere lavorati con l’aratro a traino animale, bensì solo a forza di braccia, utilizzando la zappa e la vanga, di cui con precisione viene descritto l’uso quando vengano impiegate per coltivare le patate. Tutto il trattatello è poi redatto in uno stile asciutto, incisivo, quasi telegrafico, ma non per questo meno esatto e chiaro, e non scevro da accenni umanitari e sociali. Si potrebbe pensare in questo caso che anche per la patata si sia ricorso a una forma di collaborazione tra il mondo laico e quello consacrato, non rara, del resto, là dove trono e altare avevano ripreso ad andare d’accordo, come nel Veneto, tornato sotto il dominio austriaco dopo la parentesi napoleonica. Ciò viene quasi ufficializzato da una copia del primo opuscoletto semianonimo,

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patate nella... predica sulla cui copertina figura ancora ben chiara la raccomandazione al parroco di Martellago (Venezia), vergata di pugno da un solerte “I e R Cancelliere del Censo” (con sede a Noale, Venezia), di esporne ai fedeli il contenuto riguardante la nuova coltivazione, “per vincere il pregiudizio che ancora vi sussiste”. Il marchigiano don Giuseppe Bertoletti detto “il patata” dai suoi parocchiani Consci che ben altre testimonianze saranno sfuggite alla nostra ricerca, e altre sono state tralasciate in questa rapida carrellata, ci sembra di non poterla chiudere degnamente, se non citando il necrologio pubblicato dal “Giornale di Agricoltura del Regno d’Italia” (anno VI, vol. XI, 1869), che qui volentieri riportiamo: “Marche (Sasso-ferrato) Omaggio al Parroco Patata: omaggio di riconoscenza a Don Giuseppe Bertoletti, di Colle della Noce, Villa di Sasso-ferrato, il quale spirò nel bacio del Signore il 17 maggio 1869, dopo aver arricchito i suoi popolani e il Contado colla coltura da lui introdotta della patata, del gelso e dell’industria serica con tanto beneficio dei poveri, i quali per riconoscenza lo chiamarono ‘patata’ nome che gli sopravvive in attestato di gratitudine di quel bene che tutti usufruirono. (L. Tartufari)”. Un semplice ma spontaneo, e quindi commovente, attestato di gratitudine che dovrebbe essere esteso a tutti quei parroci che, dalla pianura ai monti, parteciparono a questa laboriosa impresa per debellare il tenace pregiudizio verso la patata, una pianta che, così lontana dalla sua patria d’origine, non solo in Italia ma nel mondo si sarebbe dimostrata di enorme utilità, tanto da non poterla più pensare assente dalle nostre economie globalizzate.

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Confessione di un adoratore delle patate Luca Goldoni

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte Confessione di un adoratore delle patate Questa è la storia del mio rapporto con la patata: tanti piaceri e un complesso di colpa. Cominciamo con la mia infanzia, gastronomicamente felice. Dei miei primi anni a Parma ricordo i memorabili panini imbottititi di prosciutto di Langhirano e di salame di Felino (più tardi, in giro per l’Italia, ho dovuto ripetutamente spiegare che Felino è una località, non un gatto). Fra i salumi della mia terra c’era anche il mitico culatello, soprattutto come oggetto di desiderio. Ne feci conoscenza quella volta che zio Pippo si alzò da tavola e ricomparve dopo poco tenendo religiosamente in braccio, come un neonato, quel paffuto salume. Dalla parsimonia con cui ne tagliò qualche fetta e dalla rapidità con cui lo fece sparire, capii che non lo riponeva in cantina ma in cassaforte. Ricordo poi le scaglie di formaggio parmigiano rubate in cucina: forse la più ecumenica fra le ghiottonerie infantili. E a proposito di universalità nelle predilezioni alimentari, come dimenticare il purè di patate: alzi la mano un ex bambino che non ha preferito quel tenero passato a tutte le cotolette, e polpette, e fettine piene di Foto R. Angelini

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adoratore delle patate nervetti, e dolciastre bistecche di cavallo, insomma la detestata “ciccia” (mi piacerebbe leggere il saggio di qualche autorevole pediatra sulle ragioni che, fino a una certa età, fanno preferire la pappa alla pietanza). Andai pazzo anche per le crocchette di patate e gli gnocchi conditi con il sugo rosso. Invece non amai i tortelli di patate, cucinati fuori dall’Emilia: preferivo i nostri tortelli di erbette che contribuivo a confezionare, tagliando rettangoli di sfoglia con l’apposita rotellina. Il mio incontro con le patate lesse (poi divenute cult) avvenne così. Tornavo da un lungo viaggio, la casa era deserta (moglie e figlio erano in vacanza lontano), mestamente spoglio anche il frigorifero. Ma era sera avanzata, ero stanco e non avevo voglia di andare al ristorante. L’unico alimento che scovai in un ripostiglio era un cesto di patate. Ma non sapevo come cucinarle. L’unica raggiungibile telefonicamente era mia sorella e non ho più dimenticato la sua ricetta: metti le patate in una pentola d’acqua fredda. Non sbucciarle! Lasciale bollire una mezz’ora abbondante senza sale perché se no si sfaldano. Quando sono pronte – e come faccio a saperlo? – infili uno stuzzicadenti e valuti la morbidezza. Sbucciale a mano e non con il coltello. Poi filo d’olio, sale e un’ombra di prezzemolo. Fu amore a prima vista e, siccome giravo il mondo come inviato speciale, mi trascrissi “patate lesse” in tutte le lingue. Dai pommes de terre bouillies francesi alle gekochte Kartoffeln tedesche, alle boiled potatoes britanniche, alle patatas cocidas spagnole, fino alle otvarnyn kartofelem russe e alle tu dòu cinesi. Questa fissazione delle patate lesse mi costò un complicato incidente politico negli anni Sessanta alla frontiera fra Ungheria e Unione Sovietica. Il gendarme russo esaminò la mia agendina e si insospettì all’elenco di patate nelle varie lingue, compresa la sua. Mi sequestrò l’agenda e mi ordinò di entrare con la macchina in un recinto. Qui dei poliziotti cominciarono a frugare nel baule mentre altri infilarono un grande specchio a rotelle sotto la macchina per controllare che non ci fossero fagotti tra balestre e ammortizzatori. Certamente mi sospettavano un narcotrafficante con patate imbottite di coca. Dopo un’ora tentarono di capire la mia spiegazione in inglese: il medico mi aveva prescritto patate lesse, otvarnyn, e non per esempio fritte: zharenyi. A sentir parlare di patate fritte, un poliziotto disse che erano molto meglio (luchshe) di quelle bollite. Si mise a ridere e capì che ero un maniaco e non un contrabbandiere. Ho detto all’inizio che le patate mi hanno creato un senso di colpa. Questo: sono invecchiato senza saper fare un’iniezione. In altre parole non mi sono mai allenato a piantare la siringa in una patata, storico equivalente di una natica. Bisogna che mi decida a lavare questa macchia. 119


la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata nei modi di dire, nei proverbi, negli aforismi e nel linguaggio figurato

Roberta Maresci

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte Patata nei modi di dire, nei proverbi, negli aforismi e nel linguaggio figurato Alcuni modi di dire

La frase si presta a tali doppi sensi che, poco tempo fa, uno spot televisivo con Rocco Siffredi, attore pornografico, è stato sospeso. Però è proprio così: la patata piace. E piace così tanto che è addirittura l’ingrediente che rimane più spesso sulla bocca della gente. Qualcuno è pronto a giurare sia proprio quello il posto che si merita. Lo sappiamo tutti: nella gastronomia nazionale e internazionale è apprezzata in qualsiasi salsa. Ma la patata è stata capace di andare oltre, entrando a far parte della nostra terminologia e del nostro linguaggio abituale. Scagli la prima pietra quell’innamorato a cui non è mai capitato di dire alla sua bella “patatina mia”. Può sembrare una delle tante frasi da Bacio Perugina e in effetti è solo un modo come un altro per scambiarsi effusioni, volendo fare i teneri. Magari ci può stare perfino che qualcuno preferisca usare la fragolina al posto della patata. A patto non usiate la pesca, in sostituzione di altra frutta: significa rompiscatole. A pensarci bene, nella versione italiana di Pulp Fiction i due rapinatori si chiamano affettuosamente l’uno con l’altro usando termini come “carotina” e “zucchina” che, almeno in italiano, suonano così strani da non essere stati tradotti: un po’ per la difficoltà, e un po’ perché una coppia già stravagante poteva avere nomignoli privati quantomeno bizzarri. Resta un film americano, tant’è che zucchina e carotina non sono entrati nell’uso italiano dei vezzeggiativi. Ecco, sicuramente la patata è più popolare di questi due ortaggi. Ma non pensate questo sia “spirito di patate!”. Si dice

• Spirito di patate • Avere le patate in bocca • È una patata bollente • Sacco di patate • Sei proprio una patata! • Fare le gomme con le patate • Idem con patate • Naso a patata

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patata nei modi di dire quando si vuole indicare una battuta spiritosa non riuscita, perché il distillato alcolico che si ricava dalle patate è insipido. Anche se in Polonia, Russia e Finlandia, si produce e si esporta la vodka a base di patate o cereali. Altro modo di dire è quello di “avere le patate in bocca”, volendo indicare che qualcuno sta parlando in modo non chiaro. Si tira in ballo la patata anche quando si parla di argomenti imbarazzanti, caldi, tant’è che in questo caso il tubero diventa “bollente”. Oppure quando qualcuno è maldestro nel fare le cose, lo si apostrofa esclamando “sei proprio una patata!”. Che dire di chi sembra un “sacco di patate”? Pare calzi a pennello nella descrizione di chi è goffo, semplice e sciocco. La metafora trae origine dall’informe rotondità del tubero commestibile, secondo Gianfranco Lotti e il suo Dizionario degli insulti. A guardare il pelo nell’uovo, il termine raramente indica la protuberanza alla base dell’alluce; quella dolorosa sporgenza ben nota anche come “cipolla”, che in fondo si riferisce all’alluce valgo. Ma tra i modi di dire ce n’è un altro ancora, sinonimo di stringere la cintura. Si scrive kartoffelkuren e ormai è un’espressione diventata comune tra chi rammenta un’operazione finanziaria fatta sotto il governo di Schlüter, in Danimarca. Forse ricorderete. Avvenne nell’anno di grazia 1986, durante le “ferie della patata”; periodo festivo che capita in autunno. Si tratta di una settimana in cui vengono chiuse le scuole e i bambini rimangono a casa per aiutare nella raccolta delle patate. Durante questa settimana, venne attuata un’importante manovra finanziaria. E accadde che il primo e ultimo governo guidato dal partito conservatore danese decise di tagliare le spese come mai e Foto R. Angelini

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storia e arte nessuno prima aveva fatto. Non solo, perché venne aumentato pure il costo dei prestiti al consumo e per l’acquisto delle case. La manovra fu chiamata “la cura della patata” appunto, contro il deficit. Che sia di pasta gialla o di pasta bianca, poco o nulla importa se invece pensiamo ad alcune invenzioni che ha facilitato. Una per tutte quella della fotografia a colori, nata anche grazie alle patate. I fratelli Lumière, infatti, usarono la fecola di patate per mettere a punto, nel 1904, le lastre Autochrome, antenate delle pellicole fotografiche moderne. Che dire dei sovietici, che si diceva facessero “le gomme con le patate”? Non era una battuta che circolava fra gli studiosi di chimica industriale negli anni Trenta del secolo scorso. Tutto vero. Tanto che la frase è riemersa dalle ceneri, come un’araba fenice, dopo che la Commissione europea ha autorizzato la produzione di patate geneticamente modificate che serviranno a usi industriali, grazie alla maggiore quantità di amido contenuto nei tuberi. Cercando tra i modi di dire, se ne trova uno che tira in ballo perfino un difetto. Si tratta del detto: il “naso a patata”. In fondo si tratta di una crescita eccessiva della parte cartilaginea della punta del naso, ovviamente di forma praticamente sferica. Visibile soprattutto di profilo, può essere notato anche frontalmente se il naso è largo. Altri dettagli spiegherebbero l’origine del neo in questione, ma rischierei di dilungarmi in chiacchiere senza aggiungere poi niente di così importante più di quanto vi abbia già

Alcuni proverbi

• La patata dà più forza quando è cotta con la scorza

• Cruda, arrosto oppur lessata benedetta la patata

• L’è mei öna patata buida ’n cö che negota domà

• L’amore non è una patata

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patata nei modi di dire detto. Ecco che però forse mi troverei a spiegarvi, in concreto, un altro detto: “idem con patate”. Un modo di dire che passa per il canale popolare ed economico delle patate, risaputamente prodotti di basso prezzo, che, quindi, aggiunte a una pietanza, certamente non la arricchiscono. Il detto poco gentile ha origine nelle trattorie germaniche economiche, quelle da poco prezzo, dove veniva servito un piatto unico. Qui, mentre un commensale mangiava, l’altro che gli era accanto, ironicamente diceva idem, lo stesso, chiedendo di aggiungere un contorno praticamente a costo zero: le patate, appunto. Lo sapevate che “la patata dà più forza quando è cotta con la scorza”? Gli risponde un altro proverbio: “cruda, arrosto oppur lessata benedetta la patata”. Gli fa eco “belin come butta a patata”? Tipica espressione genovese per dirvi di stare in campana, con gli occhi bene aperti, allerti, attenti. Anche se un genovese dice belin ogni tre per due, non trattandosi di un semplice intercalare, ma di uno stile di vita. Ovviamente, dato che per belin si intende l’organo genitale maschile, viene da pensare se i genovesi non debbano riflettere su un disagio che neppure Sigmund Freud, in preda ad un picco ormonale, potrebbe interpretare. Il punto è però che l’intercalare è tale, e non si riferisce per forza a “quello”. Ora, dopo averne fatte di cotte e di crude, viene da chiedersi davvero se valga la pena appellarsi a un proverbio, secondo cui “L’è mei öna patata buida ’n cö che negota domà”. Modo di dire in dialetto bergamasco che suggerisce: “È meglio una patata bollita oggi che niente domani” e, in fondo, fa il verso al più celebre “È meglio un uovo oggi che una gallina domani”: entrambi consigliano in sostanza di cogliere l’attimo. Magari riflettendo per esempio sul proverbio “l’amore non è una patata”, che si usa per descrivere l’innamoramento come una perla rara da trovare e coltivare, e non come le patate, facili da reperire. Comunque, gira che ti rigira, siamo arrivati a parlare del termine patata o patatina, riferendoci al nome della “cosa”. Proprio così: il più desiderato e bramato degli “oggetti” ha almeno 800 modi per essere chiamato, se solo non pensate alla patata che trovate nel menu di Mc Donald’s. L’etimologia dell’insulto “patata” ci aiuta a ricostruire l’origine dell’espressione figurata per indicare l’organo genitale femminile, che nel Napoletano e in Calabria viene detto patanella, diminutivo di patana o “patata”. Metafore e nomignoli relativi alla natura della donna, si sa, si sono ispirati anche alla prugna, alla castagna, alla susina e alla ballotta (castagna lessata con la buccia). Anche se tra tutti i frutti la brigna è quella che pare somigli di più alla vulva, con quel taglio tra la picula e il fondo del frutto. Fate vobis. Ma usate il nomignolo “patatina” solo quando vi riferite al genitale di una bambina. 123


la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata magica tra tradizione, superstizione e rimedi popolari Maria Teresa Zanetti

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storia e arte Patata magica tra tradizione, superstizione e rimedi popolari Per la sua affermazione relativamente recente, la patata non appartiene alle piante rivestite di carattere simbolico e magico del mondo classico, medievale e rinascimentale. Fu tuttavia utilizzata nella farmacopea popolare successiva occupando anche un posto di un certo rilievo in magia per esempio per scacciare i diavoli, come troviamo in pratiche molto diffuse in Africa, dove si utilizzavano le radici della pianta conosciuta dagli stregoni come “patata dolce e selvaggia” (umnyanja), in Asia, nel Sudamerica e in vasti territori della Russia. Patate volanti contro i diavoli Mességué nel suo volume Ce soir, le diable viendra te prendre (Parigi, 1968) incentrato su un’indagine riguardante gli antichi segreti degli stregoni delle Antille, riferisce di una casa stregata che due religiosi tentarono di liberare attraverso parole e rituali cristiani. Una volta che essi uscirono dalla casa “attraversando il cortile videro dirigersi verso di loro delle patate volanti. Quando stavano per colpirli deviarono e vennero a schiacciarsi ai loro piedi”. Le manifestazioni cessarono quando i proprietari della casa

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patata magica licenziarono la loro domestica. Nella tradizione popolare italiana non si riscontra invece l’utilizzo di questo tubero per liberare luoghi da influssi maligni o per pratiche magiche in generale. Poiché tutte le parti verdi della pianta sono velenose, germogli e bacche furono utilizzati per comporre intrugli micidiali allo scopo di uccidere le persone, pratica conosciuta alla corte di Luigi XIV. L’avvelenamento tramite i tuberi germoglianti si manifestava con dolori addominali, malessere e debolezza, vomito, costipazione, bassa temperatura e difficoltà di respiro conducendo il più delle volte a morte il povero malcapitato il quale fino all’ultimo rimaneva cosciente a differenza di quanto accade con l’azione di altri veleni. Proprio per questo ultimo aspetto, fu difficile inizialmente comprendere quale tipo di veleno fosse stato ingerito. Se la farmacopea ufficiale indicava di utilizzare il succo fresco della pianta per curare ulcere interne, gastriti e affezioni infiammatorie dell’apparato respiratorio (soprattutto per sciogliere il muco), la farmacopea popolare utilizzava cataplasmi preparati con la raschiatura del tubero per lenire le scottature provocate da acqua bollente. Se poi una persona inghiottiva per sbaglio piccoli oggetti pungenti, veniva somministrata una polentina di patate per conglobare i corpi estranei impedendo che questi lacerassero le parti molli interne. La patata venne utilizzata (ed è ancora pratica comune) per fermare le diarree, mentre le signore che non potevano permettersi l’acquisto di costosi cosmetici usavano la polpa cotta e spappolata unita ad acqua per conservare o migliorare la bellezza della propria pelle. Ma la fantasia e la conoscenza portarono a ben altre usanze popolari: in mancanza di colla, se ne creava facendo bollire quattro o cinque patate per una buona mezz’ora in un litro d’acqua e come conservante si aggiungevano tre o quattro prese di allume in polvere. Patate detersive Le patate hanno poi svolto una funzione determinante nella pulizia di diversi oggetti: le bucce servivano per togliere il calcare dal fondo dei recipienti, mentre pezzetti di patata uniti a un cucchiaio di sale servivano per rendere linda una bottiglia, dopo avere ben agitato il tutto. Vetri e specchi risplendevano grazie a fette di patata strofinate energicamente su di essi e l’acqua della loro cottura veniva utilizzata per pulire l’argenteria. Con fette di patata si toglievano le impronte lasciate sulle porte, mentre i colori dei tappeti si ravvivavano strofinando su di essi patate lasciate in infusione in acqua calda per due ore. Se poi si doveva spostare un pesante mobile era sufficiente alzarlo un attimo e mettere sotto i suoi piedi alcune bucce, garantendo in tal modo una sua facile rimozione, indolore ancor più per i pavimenti. 125


la patata Foto R. Angelini

storia e arte In cucina e nei secoli Giovanni Ballarini

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte In cucina e nei secoli Cucina americana precolombiana Poco sappiamo sul modo di cucinare le patate del periodo precolombiano. È noto per esempio che le patate erano essiccate al sole e al gelo: i tuberi così trattati, denominati chuño, si conservavano bene per numerosi giorni e venivano usati come pane. Dato che non è possibile mangiare le patate crude, è da ritenere che fossero bollite o arrostite, e nel 1538 Cieza de León osserva che, quando viene bollita, la patata diviene tenera come una castagna cotta. Nel 1653 Bernabé Cobo rileva che le donne spagnole, macinando il chuño, ottengono una farina più bianca e fine di quella di grano, e la utilizzano per ricavarne l’amido, oltre che per confezionare torte e varie prelibatezze, che preparano solitamente con le mandorle e lo zucchero; con le patate verdi cotte preparano invece frittelle deliziose. Cucina europea Le prime utilizzazioni culinarie della patata nel mondo occidentale sembrano essere quelle spagnole nel vitto di bordo, o delle guarnigioni nelle Fiandre, mentre nel 1573 le patate sono presenti nelle forniture dell’Ospedale del Sangre per la dieta degli ammalati poveri. Tuttavia, dopo queste segnalazioni vi sono lunghi silenzi, peraltro interrotti da varie indicazioni contrarie all’uso alimentare della patata. John Gerard, nella seconda edizione del suo Herball (prima edizione 1597), riferisce che Bauhin aveva riportato la voce secondo cui queste radici erano proibite in Borgogna (dove erano Foto P. Barone

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in cucina e nei secoli chiamate carciofi indiani) perché si riteneva che un loro consumo eccessivo provocasse la lebbra. Un’opinione che si protrasse a lungo, trasferendosi anche dall’uomo agli animali, in particolare al maiale, per il quale la si ritrova ancora diffusa agli inizi dell’Ottocento (lebbra del maiale era chiamata la idatidosi, una malattia parassitaria). Superate le paure e i sospetti, anche per vincere la fame, la patata si diffonde nell’alimentazione popolare, ma assenti o scarse sono le notizie sul modo di cucinarla. Sulla scia di quanto avveniva per altri tuberi similari, come le rape, si ritiene che due fossero i metodi: bollitura o arrostimento. Una delle prime ricette è di Jules Charles de l’Écluse (Carolus Clusius), al quale si deve la diffusione della patata in Olanda; nel 1601 egli afferma che aveva l’abitudine di mangiare le patate bollite, private della buccia e messe a bagno, tra due piatti, in un brodo grasso di montone, rape e ravanelli; trovandole non meno saporite e gradevoli al palato delle rape stesse, sostiene che crude sono eccessivamente grossolane e favoriscono la flatulenza, e conclude il discorso con la frase, che sarà spesso citata, secondo cui “alcuni le usano per sollecitare Venere”. L’inglese John Parkinson nel Paradisi in sole (1629) annota che le patate spagnole sono arrostite sulla brace e, dopo essere state sbucciate, tagliate a fette e immerse nel sacke, sono mangiate con o senza zucchero. Un’altra ricetta suggerisce di cuocere le patate al forno con marroni, zucchero e altri ingredienti, per farne torte da usare come pietanza prelibata e sontuosa. In Francia la patata entra nella cucina popolare e in quella militare, e si suppone che le campagne napoleoniche abbiano contribuito alla sua diffusione.

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storia e arte Cotte sulla brace o sotto le ceneri dei bivacchi, le pommes de terre sono molto buone, e si rivelano ottime come sostituto del pane, con il vantaggio di essere sempre pronte per essere cucinate: una dote impagabile per la rapidità degli spostamenti – chiave di volta della strategia del grande Corso – evitando alle truppe di trasportare farina di grano facilmente deteriorabile, ma soprattutto rendendo non più necessario il laborioso e lungo processo di panificazione. Dalla cucina popolare e militare, la patata viene introdotta nell’alta cucina, o gastronomia, per opera di Antoine Augustin Parmentier (1737-1813), il quale, dopo aver suggerito l’uso della fecola di patata per la panificazione, ma con scarsi risultati, ha successo con le sue ricette a base di patate per le zuppe e le guarnizioni. In gastronomia molte preparazioni che hanno per protagonista la patata ancora oggi sono definite, quale tributo all’agronomo francese che la impose in Europa, à la Parmentier. È tuttora celebre la crema o zuppa Parmentier a base di patate, e la Parmentier indica una preparazione in cui uno strato di carne (ma anche di volatile o pesce o verdure) viene ricoperto da purè di patate e cotto al forno. Un’ulteriore consacrazione gastronomica della patata si collega con uno dei più famosi cuochi francesi, Marie Antoine (Antonin) Carême (1784-1833), in particolare con la ricetta delle crocchette di patate, ancora in uso. Il grande chef presenta la patata in diversi suoi piatti, e tra questi les pommes de terre à la vainille. Dall’alta cucina francese la patata si diffonde alla cucina borghese di tutta Europa.

© Jill Battaglia

Cucina italiana La patata fa il suo primo, timido, ingresso nell’alimentazione italiana attraverso la cucina povera, nella quale sostituisce la rapa e si affianca alla castagna. È alla fine del Settecento che il tubero comincia a diffondersi nella nostra cucina. Il primo a fornire una ricetta per cucinarlo sembra sia stato Francesco Leonardi nel suo L’Apicio moderno (prima edizione 1790 e seconda edizione, in Roma, 1797) a proposito di un “Ragù di pomi di terra”. Tuttavia si tratta di una citazione isolata, e in Piemonte, area di forte influsso francese, La cuciniera piemontese del 1798 (Stamperia Soffietti, Torino) e Il cuoco piemontese del 1815 (Agnelli, Milano) non riportano ricette con patate. Nella quinta edizione de Il cuoco galante di Vincenzo Corrado, del 1801, compare un Trattato delle patate, con un ricco elenco di preparazioni in tema, tra le quali patate in polenta, in crema, in polpette, bignè, arrostite, ripiene, al burro ecc., con la comparsa delle “patate in gnocchi”, prototipo dei celebri gnocchi di patate. Da questo momento il tubero inizia la sua inarrestabile marcia alla conquista di un ruolo di rilievo nella cucina borghese e nella gastronomia italiana, non mancando in nessun ricettario, a iniziare da quello di Pellegrino Artusi. 128


in cucina e nei secoli Gnocchi di patate, invenzione innestata sulla tradizione Gli gnocchi di patate sono un’invenzione che si basa su di un’antica tradizione. La parola “gnocco” ha un’origine antica e probabilmente deriva dal longobardo knohhil, che indicava il nodo del legno, e a questo termine sarebbero da riportare i Knödel altoatesini, dai quali derivano anche i canederli trentini. Proseguendo il suo cammino cuciniero verso sud, compaiono le voci “gnocco” o “gnocchi”, termini che nel secondo millennio della nostra era si sono diffusi nel Veneto e nella Pianura Padana per significare bocconcini di pasta, simili ai nodi del legno (il vocabolo, cambiando di genere, è poi passato anche nel vernacolo licenzioso per indicare il sesso femminile). Gli gnocchi erano un piatto povero, che raramente trovava posto nei ricettari gastronomici dell’alta cucina. Costituiti da farina impastata con acqua o tutt’al più con qualche uovo, foggiati come un piccolo e corto cilindretto, spesso deformato per impressione su di una superficie irregolare (parte interna di una grattugia o di una forchetta), lessati e conditi con sugo o burro e formaggio, sono divenuti un piatto tradizionale della cucina veneta, emiliana, piemontese e anche romana. Il termine “gnocco” ha poi acquisito altre accezioni, per esempio quella di gnocchi alla romana, costituiti da semolino, oppure di gnocco fritto reggiano, nel quale la farina di grano tenero, impastata con acqua, viene tirata in sfoglia e tagliata in forma di sottili losanghe, che poi sono fritte nello strutto. Gli gnocchi, nati come pezzetti di pasta di farina cotta nell’acqua, appartengono alle paste di grano tenero che fanno colla e che gli Foto P. Barone

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storia e arte antichi greci denominavano χoλλα (colla), almeno se dobbiamo credere a Costanzo Felici (1525-1585). Per vedere citati gli gnocchi, come oggi li intendiamo, bisogna arrivare al Libro contenente la maniera di cucinare di un anonimo reggiano della seconda metà del Settecento, per la casa dei conti Cassoli residenti a Reggio Emilia, che descrive una ricetta di “Gnocchi di Miglio con l’Aglio”, mentre Vincenzo Corrado (17341836), nel suo Il cuoco galante, descrive gli “Gnocchi alla Panna e gli Gnocchi alla Dama”. A proposito della prima ricetta, Corrado scrive: “Di gnocchi alla panna – Si faccia cuocere fior di farina con latte, in maniera che divenga una soda pasta nella quale, prima di levarla dal fuoco, vi si mettano gialli d’uova e qualche chiara e si faccia d’un tavoliere freddare. Freddata. Si stenda e se ne formino gnocchi alla lunghezza d’un mezzo dito, quali incavati si riempino con farsa di petti di capponi condita di parmegiano, gialli d’uova o panna di latte, e fette di tartufi, si copriranno e si farà il timballo cuocere”. Vincenzo Corrado riporta la prima ricetta italiana degli gnocchi di patata come segue: “Patate in gnocchi – Cotte che saranno al forno le patate, la loro più pulita sostanza si pesta con una quarta parte di gialli d’uova duri, altrettanta di grasso di vitello e anche di ricotta. Si unisce e si lega dopo con qualche uovo sbattuto, si condisce con spezie e si divide in tanti bocconi lunghi e grossi come ad un mezzo dito, i quali infarinati si mettono nel fuoco bollente, e bolliti per poco si servono nel piatto incaciati e conditi con sugo di carne”. Nel corso dell’Ottocento la patata entra negli gnocchi delle cucine dell’Italia settentrionale e quindi nelle cucine emiliana, veneta e piemontese. Gli gnocchi sono preparati con farina di frumento

Ricetta dell’Artusi degli gnocchi di patate

• Patate grosse e gialle, grammi 400.

Farina di grano, grammi 150. Cuocete le patate nell’acqua bollente o, meglio, a vapore e, calde bollenti, spellatele e passatele per istaccio. Poi intridete colla detta farina e lavorate alquanto l’impasto colle mani, tirandolo a cilindro sottile per poterlo tagliare a tocchettini lunghi tre centimetri circa. Spolverizzateli leggermente di farina e, prendendoli uno alla volta, scavateli col pollice sul rovescio di una grattugia. Metteteli a cuocere nell’acqua salata per dieci minuti, levateli asciutti e conditeli con cacio, burro e sugo di pomodoro, piacendovi. Se li volete più delicati cuoceteli nel latte e serviteli senza scolarli; se il latte è di buona qualità, all’infuori del sale, non è necessario condimento alcuno o tutt’al più un pizzico di parmigiano

Foto P. Barone

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in cucina e nei secoli tenero e patate lessate e poi accuratamente passate, a volte con aggiunta d’uovo come legante; sono quindi fatti bollire e conditi con burro e formaggio oppure con sughi. Alla fine del secolo gli gnocchi, dalla cucina povera italiana passano a quella borghese, come testimonia Pellegrino Artusi nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. In proposito “la famiglia de’ gnocchi è numerosa”, afferma il grande gastronomo. Oltre a quelli in brodo vi sono quelli di patate e di farina gialla per minestra, quelli di semolino e alla romana, e quelli al latte per dolce. Gli gnocchi, con l’Artusi, entrano anche nell’alta gastronomia, come dimostra la seguente ricetta. “Gnocchi – È una minestra da farsene onore; ma se volete consumare appositamente per lei un petto di pollastra o di cappone, aspettate che vi capiti l’occasione. Cuocete nell’acqua, o meglio a vapore grammi 200 di patate grosse e farinacee e passatele per istaccio. A queste unite il petto di pollo lesso tritato finissimo colla lunetta, grammi 40 di parmigiano grattato, due rossi d’uovo, sale quanto basta e odore di noce moscata. Mescolate e versate il composto sulla spianatoia sopra a grammi 30 o 40 (che tanti devono bastare) di farina per legarlo, e poterlo tirare in bastoncini grossi quanto un dito mignolo. Tagliate questi a tocchetti e gettateli nel brodo bollente ove una cottura di cinque o sei minuti sarà sufficiente. Questa dose potrà bastare per sette od otto persone. Se il petto di pollo è grosso, due soli rossi non saranno sufficienti”. Dopo l’Artusi, gli gnocchi, anche di patata, divengono un classico della cucina e della gastronomia italiana, con lo sviluppo di una grande varietà di condimenti, che vanno dai sughi di carne a quelli di verdure. Foto P. Barone

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte “Pataturismo”: utopia o realtà? Magda Antonioli Corigliano

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storia e arte “Pataturismo”: utopia o realtà? Italia. Il Paese del buon vino. Il Paese del buon olio. Il Paese delle… buone patate? Perché no? L’Italia vanta un turismo legato ai prodotti enogastronomici, tipici delle proprie tradizioni, di tutto rilievo e in costante crescita a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Sia nelle componenti trasversali che compongono qualsiasi forma turistica alla voce ristorazione, sia quale segmento turistico specifico, ovvero di chi si mette in viaggio per scoprire usi, tradizioni e ricette, l’enogastronomia contraddistingue sempre più l’offerta turistica nazionale, e va ad aggiungersi a tutti gli effetti in quel già vasto e variegato patrimonio di risorse culturali che a tutto tondo contraddistingue la nostra terra. Accanto a prodotti per così dire primari, quali: vino, olio, formaggi, salumi, solo per citarne alcuni, i singoli territori offrono un vasto insieme di prodotti definibili di nicchia, fra i quali trova posto anche la patata. Se guardiamo alla “quantità”, l’Italia non brilla in Europa né dal punto di vista della produzione, né dal punto di vista del consumo: ne produciamo una quota inferiore al 5% di quella europea totale (dati FAO 2009), con un consumo pro capite annuo intorno ai 40 kg, a fronte di valori almeno doppi nel resto d’Europa (dati Coldiretti 2009). Pur non identificando tipicamente la cucina come avviene per buona parte dei Paesi del Centro e del Nord Europa ‒ come per esempio per la realtà inglese (fish & chips), belga (moules et pommes frites), nonché tedesca (knödel) ‒ nel nostro Paese e sebbene meno presente nell’immaginario collettivo, la patata contribuisce comunque a qualificare varie aree,

Prodotti agroalimentari tradizionali

• Abruzzo: patata di montagna del Medio Sangro, patana muntagnola; patate degli altipiani d’Abruzzo

• Basilicata: patata rossa di Terranova del Pollino

• Calabria: patata della Sila • Campania: patata novella • Emilia-Romagna: patata di Montese • Friuli-Venezia Giulia: patate di Ribis

e Godia; patatis cojonariis, patatis di Vidiel, cartufulis cojonariis, patate colonarie, patate topo

• Lazio: patata dell’Alto Viterbese; patata di Leonessa

• Liguria: patata cabannese, sarvèga,

purchina, matta; patata cannellina nera, cannellina; patata di Pignone; patata morella, muella, muellina; patata quarantina bianca, quarantina genovese, quarantina, bianca di Montoggio, di Reppia, di Rovegno, di Torriglia; patata quarantina gialla, giana riunda, giana de masùn, franseize de servàesa; patata quarantina prugnosa, prugnosa, quarantina vera, quarantina rossa, brignùna; patata salamina, calice al cornoviglio segue

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pataturismo dei cui piatti tipici costituisce la base. Se ne vantano infatti ben 47 varietà iscritte tra i “Prodotti Agroalimentari Tradizionali” riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari, appunto in quanto produzioni consolidate nel tempo secondo regole tradizionali e omogenee per tutta l’area interessata. Solo la Valle d’Aosta, la Sardegna e le Marche, pur essendo comunque aree di coltivazione delle patate, non figurano tra i territori di provenienza di questi tuberi “speciali”. Per contro, Veneto, Liguria, Piemonte e Toscana si collocano al vertice della classifica per numero di varietà identificate. Patate “di nicchia” sono quindi diffuse in tutto lo Stivale: dalla patata di Campodolcino in Lombardia a quella lunga di San Biase in Molise, dalla patata di Leonessa nel Lazio a quella della Sila in Calabria, solo per citarne alcune. Nella lista stilata dal Ministero si trovano poi in particolare due varietà di patata ‒ quella quarantina coltivata sulle alture dell’entroterra genovese in Liguria e quella rossa di Cetica in Toscana ‒ inserite da Slow Food tra i prodotti dell’Arca del Gusto, vale a dire tra quei prodotti di eccellenza gastronomica a rischio di estinzione ma con reali potenzialità produttive e commerciali, quindi particolarmente da tutelare, promuovere e far conoscere. Allora, l’Italia (tutta) sembra dunque avere le carte in regola per poter essere definita, e quindi promossa, anche come un “Paese delle buone patate”. La minore necessità di acqua e di terreno rispetto ad altre coltivazioni ha favorito la diffusione del tubero ‒ da nord a sud ‒ in quasi tutte le regioni italiane. Le peculiarità chimico-fisiche dei terreni di coltura, il microclima delle aree di produzione e processi di lavorazione specifici hanno invece favorito la produzione con connotazioni organolettiche diverse in fun-

continua

• Lombardia: patata di Campodolcino • Molise: patata lunga di s. Biase • Trentino: patata trentina di montagna • Piemonte: patata quarantina bianca

genovese; patate dell’Alta Valle Belbo; patate di Castelnuovo Scrivia; patate di montagna di Cesana; patate di san Raffaele Cimena

• Puglia: patata di Zapponeta; patata

novella Sieglinde di Galatina, siglinda te Galatina

• Sicilia: patata novella di Messina; patata novella di Siracusa

• Toscana; patata bianca del melo;

patata di Regnano; patata di santa Maria a Monte, la tosca; patata di Zeri (patate “rosse, bianche, zale” di Zeri); patata rossa di Cetica (patata rossa del Pratomagno, patata rossa del Casentino)

• Umbria: patata rossa di Colfiorito • Veneto: patata americana di Anguillara

e Stroppare; patata americana di Zero Branco; patata cornetta; patata del Montello; patata del Quartier del Piave; patata di Cesiomaggiore; patata di Chioggia; patata di Montagnana; patata di Posina; patata dorata dei Terreni rossi del Guà; patate di Rotzo

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storia e arte zione dei territori di provenienza. Italiana per livello di diffusione sul territorio nazionale, la patata (nelle sue molteplici varietà) ha quindi caratteristiche tali da renderla espressione delle specifiche realtà geografiche. A sottolineare l’ulteriore vincolo con i territori di produzione ‒ soprattutto nella loro dimensione storica, culturale e sociale ‒ risulta essenziale il diverso uso che delle patate è stato fatto nelle cucine locali. Solo per citarne alcuni: ripieno mescolato al formaggio nei culurgiones (ravioli tipici dell’Ogliastra in Sardegna), sostituto della farina nel celeberrimo pane di patate della Garfagnana (presidio Slow Food in Toscana), ingrediente principale della tiedda (piatto della tradizione culinaria barese a base di riso, cozze e patate). Un motivo in più quindi per inserirla nella ristorazione e nei driver del turismo enogastronomico. Precisi connotati storico-culturali e materiali segnano, dunque, l’appartenenza di questa coltura e dei piatti che da loro derivano a determinati territori tanto da poterli caratterizzare come prodotti tipici e di tradizione di quei luoghi e in quanto tali risorse preziose da poter utilizzare per promuovere il turismo, per entrare nei disciplinari delle strade e dei percorsi del gusto, legando così la tradizione agroalimentare al paesaggio, all’ambiente naturale, alla storia, alla cultura e al genius loci del territorio. Tuttavia non si trascuri che, se tutte le località capaci di trasmettere ai propri prodotti una specifica identità culturale possono essere considerate come potenziali destinazioni di turismo enogastronomico, affinché abbiano quel giusto riconoscimento dettato dalla domanda – che si traduce in volume di visite e debito riconoscimento oggettivo ‒ devono di fatto necessariamente essere corredate da altrettante idonee informazioni e adeguate notizie che il turista va ricercando.

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pataturismo Un prodotto tipico (sia esso la patata o altro) e il suo territorio di produzione non sono però di per sé sufficienti a soddisfare le aspettative del turista enogastronomico. Il turista enogastronomico non vuole solo trovare prodotti di qualità, ma si aspetta di assaporare i piatti della cucina tipica, di incontrare i produttori, di essere trattato ovunque con cortesia e di vivere la località ricercando un contatto diretto e immediato con tutti i suoi elementi di identità culturale. Per promuovere il turismo enogastronomico, non bastano quindi una forte integrazione tra prodotto e territorio e la garanzia della qualità e della tipicità delle produzioni, ma è necessario garantire la qualità dell’accoglienza (dalla ricettività in contesto rurale ai resort di estremo livello), la professionalità degli operatori (turistici e non), la promozione con altre forme di turismo, per così dire, lungo tutta la filiera che contraddistingue l’interfaccia con il fruitore/turista. È solo attraverso la corretta integrazione tra enogastronomia e territorio, intesa come una rete fra tutti gli elementi che contraddistinguono il passaggio fra le terre e le produzioni tipiche, che è possibile promuovere un turismo delle patate. Di fatto non esiste oggi in Italia un “pataturismo”, ma promuovere un turismo enogastronomico legato alle produzioni di patate di nicchia non è un’utopia, come testimonia anche il successo dei numerosi eventi in onore del tubero organizzati da quasi trent’anni nelle diverse aree di produzione: dalla sagra del Bartolaccio a Tredozio in Emilia-Romagna a quella della patata a Oreno di Vimercate in Lombardia, dalla sagra della patata quarantina a Roccatagliata in Liguria a quella delle patate fritte a Serra Pistoiese in Toscana, passando attraverso la sagra degli gnocchi a Montescudo in Emilia-Romagna e a quella della patata di Leonessa nel Lazio.

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata negli States: appunti e spunti Bob Lear

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte Patata negli States: appunti e spunti Le patate sono i tuberi più famosi d’America, sia nelle tavole private sia in quelle dei ristoranti. Si tratta di una pietanza tradizionale nei pasti delle famiglie americane, ma anche nella cucina slow e nei fast food, nei menu quotidiani e in quelli festivi. La loro popolarità è trasversale: accomunano gruppi etnici, età, estrazioni sociali e livelli di reddito diversi. Si può a buon diritto affermare che le patate sono gli amidi democratici della dieta americana.

Consumo pro capite di patate negli Stati Uniti Totale

57 kg

Congelate

24 kg

Fresche

20 kg

Fritte

7 kg

Disidratate

6 kg

Consumo e produzione: storia e numeri La patata è onnipresente sul suolo americano. Dall’ultimo indice (2007) emerge che gli Stati Uniti si classificano al 5° posto nella produzione mondiale di questo tubero, dopo Cina, Russia, India e Ucraina, con una quantità annua di 17.700.000 t. Sebbene in passato Maine e Idaho fossero per tradizione le aree di maggiore produzione, oggi l’umile tubero viene coltivato per il commercio in tutti gli stati, e le quote produttive più elevate si sono spostate verso ovest.

Fonte: USDA 2007

Origini La fronzuta pianta della patata, di cui solo il tubero (Solanum tuberosum) è edibile, è originaria del Sudamerica, in particolare della zona meridionale delle Ande peruviane, dove nel XVI secolo fu scoperta dai conquistadores, che la esportarono in Spagna. Gli archeologi fanno risalire le prime varietà domestiche intorno all’8000 a.C. nella regione del lago Titicaca, nel Perù meridionale, a un’epoca corrispondente alla fine della fase preceramica. Nel Foto R. Angelini

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patata negli States vasto territorio dell’impero inca venivano coltivate oltre 1000 varietà di questo tubero, molte delle quali selvatiche, ma in Europa ne vennero introdotte relativamente poche. Dalla Spagna, poi, la patata si diffuse verso nord ed est, arrivando in Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Inghilterra e Irlanda, e da qui nel 1719 ritornò, insieme ai coloni scozzesi-irlandesi, nel continente americano, per la precisione a Londonderry, nel New Hampshire. La specie oggi più comune veniva chiamata “patata irlandese” perché era diventata l’alimento base della dieta irlandese alla fine del XVII secolo. Se l’Irlanda avesse coltivato più di una sola specie, avrebbe resistito e superato la Grande carestia (nota come Potato Famine) del 1845-52, causata da una malattia letale (la peronospora) che distrusse tutti i raccolti uccidendo un milione di persone. Quasi un altro milione emigrò in America in una tragica, seconda immigrazione collegata alla penuria di questo tubero. In effetti, prima che nel New Hampshire, la patata era apparsa nella “colonia perduta” di Roanoke Island, in Virginia (oggi parte del North Carolina), fondata da Sir Walter Raleigh nel 1585-86, in onore di Elisabetta I, la Regina Vergine. Le piante di patata che Raleigh portò in Inghilterra nello stesso anno vennero in realtà raccolte durante le spedizioni da lui autorizzate in Sudamerica, al ritorno dalle quali era stata prevista una sosta in Virginia. In Inghilterra, però, si credeva che fossero originarie del Nordamerica e venivano chiamate dai botanici inglesi “patate della Virginia”. Nel 1597 l’autore inglese (nonché appassionato di giardinaggio e piante rare) John Gerard, il quale aveva ricevuto radici di patate della Virginia da parte di Walter Raleigh e Francis Drake, scrisse nel suo libro The Herball: “Le patate della Virginia [...] crescono e prosperano nel mio giardino come nella loro terra d’origine”.

Illustrazione da John Gerard, The Herball, or, The Generall Historie of Plants, 1597

I 10 stati americani con la maggiore produzione di patate

La patata americana si sposta verso ovest La resistenza e la rapida proliferazione del tubero, storicamente una coltura anticarestia cui si attribuisce il merito di aver sfamato le nazioni europee durante la guerra e promosso la rivoluzione industriale, ha avuto un peso fondamentale nell’espansione degli Stati Uniti verso ovest, nel periodo compreso tra la fine della guerra d’indipendenza (1775-83) e l’inizio della guerra civile (1861-65). Anche nel suolo arido delle Grandi Pianure, la patata ha sostenuto la coltivazione di sussistenza di contadini e pionieri. Successivamente, negli anni Trenta del secolo scorso, quando la Grande depressione e le tempeste di sabbia imperversavano, devastando le praterie americane e spingendo i piccoli coltivatori ad abbandonare le loro terra ed emigrare a ovest per cercare lavoro come operai, i raccoglitori di patate erano i più numerosi tra i poveri agricoltori nomadi. La loro vita di stenti e difficoltà in California fu immortalata in una famosa serie di fotografie scattate nel periodo della depressione da Dorothea Lange, tra i fondatori della fotografia documentaria americana.

Stato

Produzione annua (in miliardi di chilogrammi)

Idaho

5,85

Washington

4,08

Wisconsin

1,33

North Dakota

1,16

Colorado

1,09

Minnesota

0,93

Oregon

0,84

Maine

0,82

California

0,68

Michigan

0,64

Fonte: USDA 2006

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storia e arte Importanza delle patate per i nativi americani e collegamento con l’Irlanda Considerando che la patata fu usata in origine dagli inca del Perù e venne coltivata da una miriade di popoli nativi americani in tutto l’impero inca, è sorprendente quanta scarsa attenzione sia stata rivolta al ruolo di questo tubero nella cultura dei nativi americani del Nordamerica. Del resto, molti dei territori che in seguito divennero coltivazioni di patate per i coloni e i pionieri americani erano stati sottratti dalle tribù native, che erano state allontanate forzatamente dalle terre dei loro antenati con il pretesto messianico del “destino manifesto” (anglosassone). La nazione choctow fu una delle cinque popolazioni dei nativi americani (Cherokee, Choctow, Creek, Chicasaw e Seminole) che, cacciate dalle loro terre avite, percorsero a piedi 500 miglia (800 km) arrivando fino in Oklahoma meridionale, lungo quello che fu definito “il sentiero delle lacrime”. Il loro numero si ridusse di oltre la metà a causa della denutrizione, del freddo e delle malattie. Nel 1847, al culmine della Grande carestia irlandese, la nazione choctow fece una colletta e donò 700 dollari, allora una somma enorme, all’Irish Aid, sentendosi vicina a quel popolo che era stato a sua volta decimato, costretto a emigrare e aveva sofferto la fame. Oggi una targa che ricorda il dono dei Choctow è affissa alla Mansion House a Dublino, a testimonianza dell’empatia umana. Clan della patata bianca presso i Cherokee La società cherokee è organizzata intorno a sette clan matrilineari. Alla nascita i bambini entrano a far parte del clan delle loro madri. Le questioni relative alla società, tra cui le violazioni delle regole

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patata negli States e delle tradizioni cherokee, sono decise in riunioni della comunità e giudicate da un consiglio comune delle anziane che rappresentano i sette clan. Uno di questi clan è l’An-ni-ga-to-ge-wi o Clan della patata bianca. I membri di questo clan erano contadini e raccoglitori di piante di patata selvatiche nelle paludi (da cui il nome gatogewi, palude), con cui si produceva farina o pane, i quali presero il nome da queste. Erano considerati i custodi e i protettori della terra. Il Clan della patata bianca aveva la propria maschera, realizzata con una zucca a forma di patata e incorniciata da “capelli” fatti con corteccia di pioppo sminuzzata. La leggenda della patata bianca dei Creek (Muskokee) I Creek e i Cherokee erano civiltà vicine, che spesso condividevano strutture sociali, tra cui il matrilineare Clan della patata bianca. Secondo una leggenda, le mogli di razza mista potevano entrare a far parte insieme ai propri figli della nazione creek se trovavano una pianta sottoterra nei pressi delle paludi e piantavano i suoi “occhi” di nuovo nella terra natia dei creek perché nutrisse per sempre la nazione. Questa pianta era la patata e coloro che seguivano la “voce divina”, secondo la leggenda, divennero noti come il Clan della patata bianca. Uso erboristico e terapeutico della patata bianca (irlandese) tra i nativi americani Tradizionalmente la civiltà inca usava le patate nei rituali religiosi e nella medicina erboristica. Alcuni degli usi medicinali si diffusero nelle altre società dove fu introdotta la patata andina. L’uso più frequente a scopo terapeutico prevedeva di strofinare il tubero per alleviare i dolori dei reumatismi. Tra i Cherokee, la “patata irlandese” (Solanum tuberosum) veniva usata come sollievo psicologico. Con le foglie e i gambi si preparava un infuso per indurre il vomito (emetico), allo scopo di alleviare il senso di solitudine dopo la morte di un familiare. Gli Irochesi usavano la raschiatura della patata come impiastro per lenire le infiammazioni agli occhi. I Rappahannock applicavano le patate ammaccate sulle verruche.

Foto R. Angelini

Patata e invenzione del cibo americano Patatine Uno degli snack più famosi del mondo, le patatine, fu creato per caso nel 1853 in un ristorante di Saratoga Springs, nello stato di New York, da uno chef nativo americano, George Crum. Nell’estate di quell’anno un importante ospite dell’On Moon Lake Lodge, che si pensa fosse l’industriale americano Cornelius Vanderbilt, si lamentò che le patatine fritte (introdotte per la prima volta in America da Thomas Jefferson) erano troppo spesse, inzuppate d’olio 139


storia e arte e sciape. Allora Crum tagliò le fette più sottili. Quando Vanderbilt rimandò indietro il piatto per la seconda volta, lo chef, irritato, tagliò la nuova porzione talmente sottile da poter essere mangiata solo con le dita. Vanderbilt rimase estasiato. Le patatine divennero poi una specialità del ristorante; successivamente vennero confezionate e con l’invenzione del pelapatate meccanico, nel 1961 da contorno si trasformarono in uno snack di produzione di massa grazie all’imprenditore Henry Lay (proprietario della società Frito-Lay di Dallas, in Texas). Oggi gli americani consumano più patatine di qualsiasi altro popolo al mondo; un’inversione di tendenza dall’epoca coloniale, quando gli abitanti del New England gettavano le patate ai maiali e ritenevano che mangiare il tubero accorciasse la vita a causa di una sostanza afrodisiaca in esso contenuta. Non a caso ai tempi di Shakespeare la patata veniva chiamata “mela dell’amore”.

Foto R. Angelini

Patate fritte congelate Le confezioni di patate fritte congelate, vendute in quasi tutti i supermercati, sono nate negli Stati Uniti, alla J.R. Simplot Company di Boise, nell’Idaho. Vennero provate per la prima volta nel 1945 nell’impianto disidratante a congelamento veloce ideato da Simplot. L’invenzione fu brevettata nel 1953 e la società divenne il principale fornitore della catena di fast food più grande del mondo. Fiocchi di patate disidratate Nel 1953, il Centro di ricerca regionale orientale del Ministero dell’Agricoltura statunitense (United States Department of AgriFoto R. Angelini

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patata negli States culture, USDA) iniziò uno studio per la lavorazione dei “fiocchi di patate”. Dal 1960, la società di prodotti alimentari The Idahoan inventò le confezioni di fiocchi di patate disidratate, prodotti dalle patate rosse dell’Idaho, come rifornimento alimentare all’esercito americano, con i quali preparare velocemente il purè. Il prodotto, noto oggi come “purè di patate istantaneo”, è diventato da allora un marchio distribuito a livello internazionale. Patata nella cultura popolare americana Con tutta probabilità non esiste immagine più eloquente per simboleggiare il ruolo della patata nella cultura americana della famosa foto di Marilyn Monroe vestita solo con un sacco di patate, esposta presso l’Idaho Potato Museum di Blackfoot, nell’Idaho. L’adattamento cinematografico del romanzo di John Steinbeck Furore, per la regia di John Ford, è la testimonianza più importante sulle vicissitudini dei contadini americani, spinti dalla siccità, dai disastri e dalla Grande depressione a girovagare per la nazione negli anni Trenta del secolo scorso. L’argomento era lo stesso trattato da Dorothea Lange nelle sue fotografie dei raccoglitori di patate nomadi, che testimoniavano l’impoverimento dei lavoratori legati alla terra. Le due opere insieme costituiscono l’omologo americano del quadro di Van Gogh I coltivatori di patate. In una versione più allegra, uno dei giocattoli per bambini più diffusi e apprezzati degli Stati Uniti, Mr. Potato Head, è apparso anche in film d’animazione (Toy Story) e in televisione (Mr. Potato Head Show). Mr. Potato Head è stato inventato nel 1949 ed è presente sul mercato senza interruzioni dal 1952. In origine era un gioco che consentiva ai bambini di decorare le patate creando delle facce, mentre oggi è un modello di plastica con occhi, orecchie e bocca applicabili. La patata è anche entrata nel vocabolario popolare americano. L’espressione couch potato definisce qualcuno che molto pigro e ama starsene tutto il giorno disteso sul divano a guardare la TV e mangiare patatine. Couch potato può essere considerato una sottospecie di potato head, espressione con cui si stigmatizza qualcuno che ha la vivacità mentale di una patata. Meat and potatoes è l’espressione che indica la preferenza per cibi semplici e modi di vita spartani. I bambini di tutta l’America sono cresciuti cantando la filastrocca “One potato, two potato, three potato, four”. Small potatoes è un’espressione usata da grandi pensatori, o da grandi personalità, per minimizzare la realizzazione di compiti molto impegnativi. Non si dimentichino, infine, le hot potatoes, ovvero le questioni scottanti relative a razza, religione, politica e sessualità, che devono essere affrontate con tatto o evitate, come si farebbe proprio con le “patate bollenti”. 141


la patata Foto R. Angelini

storia e arte Patata in Piemonte e Lombardia Carlo Giani

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storia e arte Patata in Piemonte e Lombardia Ho quasi sessant’anni ma ancora adesso, quando, sul finire di maggio, inoltrandomi in campagna vedo le distese bianche dei fiori di patate, provo un’emozione indicibile: una gioia grande, mista a nostalgia e a un po’ di malinconia. E tanti ricordi riaffiorano nitidi alla mia memoria. Programmazione A giugno, liberati i campi di grano dai covoni, vi si spargeva il letame, e poi mio padre, con un trattore innovativo per quei tempi, a cui agganciava un altrettanto innovativo aratro, provvedeva ad arare il terreno. Era fra questi campi che, per motivi di rotazione, si sarebbero scelti gli appezzamenti destinati, nella primavera successiva, alla coltivazione delle patate. E nelle grigie e fredde sere d’inverno, rivedo con chiarezza mio padre e nonno Rinaldo. Seduti al tavolo o accanto alla stufa in cui la legna scoppiettava per “fare la brace” da mettere nello scaldino del prete, mentre nell’aria si diffondeva il profumo delle mele che cuocevano nel forno della stufa, mio padre e mio nonno facevano un bilancio dell’annata e decidevano le colture e i campi a cui destinarle. Roncone, il campo dell’aia, la Caliera erano, ricordo, quelli destinati alle patate. Già allora era presa in considerazione la vocazione del terreno, poiché le patate migliori venivano, e vengono, solo in alcuni terreni.

Trapiantatrice a nastro: particolare del sedile e del nastro a “scodellini”

Foto R. Angelini

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in Piemonte e Lombardia A volte nonno Rinaldo, fra l’altro premiato dal Ministero nel 1955 per l’aumento della produttività dell’azienda di famiglia, era in disaccordo con mio padre, e allora la discussione si protraeva fino a quando uno dei due riusciva a convincere l’altro. Io, seduto sul divano o intento a giocare, ascoltavo: ho ancora nelle orecchie le argomentazioni, e talvolta i toni accesi, di allora. Discutevano anche sulle varietà da seminare, all’epoca solo patate da consumo fresco: la Kennebec era quella su cui concordavano sempre. E poi si doveva decidere a chi ordinare il seme. Mio padre proponeva di rivolgersi a Saglia, un suo amico mediatore; nonno Rinaldo, invece, esprimeva la sua preferenza per un commerciante di un paese vicino. Arrivo del seme In ogni caso sul finire dell’inverno, in genere a febbraio, un vecchio camion arrivava a consegnare i sacchetti del seme delle patate. Veniva abbassata la sponda di legno, e i braccianti scaricavano i sacchi e li portavano nella “stanza del vino”. Non si trattava della cantina (per quella si scendeva sottoterra) ma di una stanza particolarmente fresca in cui venivano conservati i bottiglioni di vino. Lì, prendendoli per gli angoli, i sacchi venivano ammucchiati con ordine: erano di iuta spessa, e su ognuno spiccava la scritta HOLLAND. Questa dava loro un che di prezioso perché provenivano da un mondo per tanti, e soprattutto per me, lontano, misterioso e irraggiungibile. E su questo mondo mi capitava di fantasticare mentre mio padre, prima di ricoprire il mucchio con un telone, scuciva con atten-

Trapiantatrice a nastro: l’attrezzo, trainato dal trattore, serviva per la semina. L’operatore, seduto sul sedile posteriore, depositava manualmente il seme negli “scodellini”

Foto R. Angelini

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storia e arte zione alcuni sacchi per verificare la qualità del seme, non certo calibrato come ai giorni nostri.

Foto V. Bellettato

Preparazione del seme Quando il tepore della primavera scaldava l’aria, in cascina fervevano i preparativi per le semine. Al mattino io andavo a scuola ma, appena rientrato a casa, mi ingozzavo per poi gironzolare nell’aia a curiosare e a rendermi utile. Nel primo pomeriggio arrivavano la Delia, la Mari e la Giovannina per tagliare il seme. Avevano già iniziato al mattino scucendo con cura i sacchi per rovesciarne il seme sotto al portico, fino a formare un mucchio. Nel pomeriggio ognuna di loro continuava il lavoro riempiendo di patate la propria cesta. Tutte, poi, si avvicinavano al muro alla fine del portico, si sedevano ciascuna su di uno sgabello accostandosi la cesta e, dopo aver estratto un coltellino affilato dalle tasche dei grembiuloni, prendevano una patata e, rigirandola tra le mani ruvide e arrossate, guardavano attentamente i germogli per “decidere i tagli”: ogni patata, infatti, veniva divisa in tre o quattro pezzi, ognuno dei quali aveva il germoglio, e i pezzi venivano quindi sparsi sul fondo di terra battuta del portico perché dovevano asciugare. Mano a mano che le patate tagliate coprivano la terra battuta, le donne spostavano gli sgabelli all’indietro, verso l’apertura del portico, e poi riprendevano a riempire le ceste e a tagliare. Nel frattempo nonna Carolina, seduta in disparte, radunati accanto a sé i sacchi di iuta vuoti, ne scuciva i lati per aprirli completamente. Non si sprecava nulla. Anche i sacchi erano materiale prezioso: Foto R. Angelini

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in Piemonte e Lombardia ricuciti insieme, come le toppe del vestito di Arlecchino, sarebbero serviti per preparare dei teloni utilizzabili per coprire gli stessi mucchi di patate, una volta raccolte, o per proteggere i filoni di tabacco dalle nebbie autunnali, o ancora per ricoprire i mucchi di mais sgranato, alla sera, quando veniva raccolto al centro dell’aia. Il giorno seguente sopra le patate tagliate venivano stese delle assi, e gli uomini, muovendosi in equilibrio su queste, con il rastrello rigiravano con attenzione i pezzi per farli asciugare. Preparazione del terreno Nei campi destinati alla coltura delle patate, gli uomini preparavano il terreno per la semina. Guidando il trattore che trainava l’erpice, passavano sulle zolle lasciate dall’aratura autunnale, e le rompevano per affinare il terreno fino a renderlo sciolto e uniforme. Semina Il giorno della semina era un andirivieni continuo. Quando tutto era pronto, si riempivano le ceste con le patate tagliate e poi le si caricavano su di un carretto di legno con le sponde, che veniva trainato sulla capezzagna del campo da seminare e lì sganciato; mio padre, guidando il trattore, tornava in cascina, agganciava la seminatrice e, con un’accelerata che lanciava fuori dal tubo di scappamento un pennacchio scuro di fumo, imboccava la stradina che correva fra i campi seguito dalla Delia, dalla Giovannina e dalla Mari; queste pedalavano di gran lena su biciclette che sussultavano a ogni buca. Il più delle volte anche nonno Rinaldo si incamminava pedalando adagio,

Selezionatrice semimanuale: particolare della disposizione dello scivolo che guidava la caduta del prodotto nei contenitori

Foto R. Angelini

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storia e arte il sigaro in bocca, mentre io, se non ero riuscito a salire sul parafango del trattore, ero l’ultimo della fila e con le mie gambette pedalavo veloce sul mio biciclino rosso per non perderli, attento a non cadere. Quando arrivavo, stavano già riempiendo la tramoggia della seminatrice: questa sul dietro aveva due sedili, sui quali prendevano posto la Delia e la Mari. Le due donne dovevano recuperare il seme dalla tramoggia e posizionare velocemente un pezzo in ognuno dei piccoli settori di un nastro che, girando, lasciava cadere i pezzi di patata. Il seme cadeva nel solco aperto dai vomeri anteriori della stessa seminatrice, e veniva ricoperto dalla terra smossa dai vomeri posteriori. Era la Giovannina, con la zappa, a chiudere il solco all’inizio e alla fine del campo, e a riempire la tramoggia quando questa era vuota. La semina era per me un momento emozionante, soprattutto se si era deciso di mettere le patate anche nei campi oltre l’argine del fiume, tra le file delle piantumazioni ancora giovani, e perciò non ancora alte e ombrose. Lì, fra i filari stretti dei pioppi, il trattore non riusciva a passare con la seminatrice; pertanto si seminava alla vecchia maniera, e io avevo un ruolo importantissimo: guidavo il cavallo. Ai finimenti di Gino, un cavallo da tiro che ormai aveva i suoi anni, veniva agganciato un piccolo aratro semplice che aveva due lunghi manici, le stegole, e che poggiava a terra con un trampolo terminante con una ruota di ferro. Io prendevo la cavezza e, a un segnale, camminando adagio guidavo il cavallo cercando di andare diritto, mentre mio padre, afferrate saldamente le stego-

Selezionatrice semimanuale: gli operatori riempivano manualmente la tramoggia, e il nastro, azionato dal motore elettrico, portava le patate verso altri operatori. Questi, disposti ai lati, selezionavano il prodotto prima dell’insacchettamento

Foto R. Angelini

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in Piemonte e Lombardia le, doveva tenere in piedi l’aratro impedendo che si rovesciasse mentre apriva il solco. Dietro, le donne, chinandosi, distanziavano il seme appoggiando la parte del taglio verso la terra scura e umida; arrivati a fine campo, si tornava indietro posizionando l’aratro di fianco al solco aperto: in questo modo, aprendo un nuovo solco, si chiudeva il precedente. Tutto compreso nel mio ruolo, io non lasciavo la cavezza. Ogni tanto, la terra mi entrava nelle scarpe, ma questo faceva parte del mestiere. Mentre sentivo il fiato caldo del cavallo sulla mano, mi guardavo intorno. In fondo, fra le ramaglie delle robinie, a tratti si scorgeva il fiume che scorreva pigramente colorandosi di bagliori; a destra e a sinistra si stendevano i campi in cui il grano verdeggiava; in lontananza la barriera scura dei pioppeti chiudeva l’orizzonte. Regnavano una pace e una tranquillità profonde: il rumore sordo degli zoccoli che affondavano leggermente nella terra e lo sbuffare del cavallo, la voce di mio padre che incitava l’animale, il chiacchiericcio delle donne. Da lontano, il tamburellare veloce di un picchio o il canto di un cuculo rompevano talvolta quel silenzio quasi innaturale.

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Fioritura Passata una ventina di giorni, a volte prima se pioveva o faceva caldo, mio padre iniziava ad “andare a vedere i campi”. Sapeva che io non aspettavo altro, e allora mi chiedeva se volessi unirmi a lui. La mia risposta era sempre affermativa. Lui, già in sella alla bicicletta, i piedi a terra, mi prendeva in braccio, mi metteva a sedere sulla canna e poi iniziava a pedalare. Foto R. Angelini

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storia e arte I campi scorrevano ai lati della stradina delle Tre sorelle, e lui mi faceva osservare le coltivazioni e mi istruiva: spiegava che era necessario eliminare le infestanti in un campo di granoturco, che si doveva zappare un campo di tabacco, che era ora di pulire i fossi di scolo. Ascoltavo attentamente e, mano a mano che ci avvicinavamo al campo di patate, aguzzavo la vista per essere il primo a scorgere i ciuffi di foglie tenere che avevano bucato la terra. Nel giro di poco tempo le piante crescevano: le foglie si allargavano nascondendo e ricoprendo tutto. Poi sbocciavano i primi fiori. Il campo, allora, era punteggiato qua e là di bianco, ma ben presto diventava una distesa verde in cui le macchie candide si susseguivano con campiture regolari. Sembrava un giardino! Ci si incamminava lungo le file per scavare e controllare lo stato dei tuberi. Quindi, per mantenere rigogliosa la parte fogliare, con un’irroratrice a zaino che mio padre si caricava sulle spalle veniva spruzzata sulle piante una miscela a base di verderame. Selezionatrice manuale: particolare della disposizione della stuora a piano inclinato per favorire il rotolamento dei tuberi

Irrigazione Quando non pioveva, nei mesi estivi, la calura assetava i raccolti. Mio padre allora metteva in funzione un innovativo impianto di irrigazione che gli permetteva di adacquare a pioggia le colture. Sotto le capezzagne, collegata a una turbina, correva una rete di tubi che riemergevano ogni tanto con un terminale a cui si agganciava una colonna di tubi metallici, collegata a sua volta a uno o più irrigatori. Quando la turbina, fissata al trattore, veniva azionata, l’acqua sprizzava dagli irrigatori e bagnava il terreno. Le piante di patate Foto R. Angelini

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in Piemonte e Lombardia traevano beneficio dall’irrigazione e il raccolto risultava più abbondante.

Foto R. Angelini

Raccolta Verso la fine di agosto si iniziava la raccolta, che durava parecchi giorni. Mio padre nei giorni precedenti andava più volte a estirpare qualche pianta per vedere se i tuberi erano “finiti” e se “si poteva portare a casa”: ormai in gran parte rinsecchite, le piante erano piegate; il campo non era più una distesa verde, e qua e là occhieggiava la terra secca. Si iniziavano i preparativi. Le donne scopavano il pavimento di cemento del magazzino e preparavano i sacchi ammucchiandoli; gli uomini allestivano gli sfiatatoi: inchiodando a due cerchi, distanziandole, sottili liste di legno, ottenevano dei cilindri alti che, posizionati verticalmente sul pavimento del magazzino, sarebbero serviti ad arieggiare i mucchi di patate. Il giorno della raccolta io riuscivo a svegliarmi di buonora: non indugiavo a letto e, fatto colazione, correvo sull’aia impaziente di partecipare. Con il trattore si trainava sulla capezzagna il rimorchio su cui si erano caricati sacchi e secchielli; anche le donne, sistemate le biciclette sul rimorchio, vi salivano e si facevano trasportare fino al campo. Il più delle volte anch’io mi univo a loro. Preferivo sedermi sui sacchi, che mi facevano da cuscino, in un angolo del rimorchio, per potermi tenere alle sponde quando si sobbalzava. Sganciato il rimorchio, il trattore tornava in cascina per agganciare un attrezzo che serviva ad aprire i solchi. E la raccolta iniziava. Foto R. Angelini

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storia e arte Imboccando la fila delle patate, l’attrezzo, simile a un aratro, entrava con la punta e apriva un solco che sollevava i tuberi rovesciandoli sul terreno. Era meraviglioso vedere quante patate, grandi e piccole, la terra aveva nascosto fino ad allora! La loro “pelle” chiara e liscia spiccava fra le zolle in modo inconfondibile, e si capiva subito se il raccolto sarebbe stato scarso o abbondante. Le donne, inginocchiandosi, le raccoglievano tutte buttandole nel secchiello che si tiravano appresso e che, una volta pieno, svuotavano nel sacco che io tenevo aperto. Una volta riempiti, i sacchi legati e chiusi venivano caricati sul rimorchio grande, portati nel magazzino e subito svuotati fino ad arrivare a uno spessore di circa un metro. Nei giorni seguenti le finestre del magazzino venivano aperte per arieggiare l’ambiente e per fare sì che le patate asciugassero. Quindi le finestre venivano oscurate, e le patate potevano rimanere lì anche tutto l’inverno senza gelare, perché nel magazzino, il grande seminterrato della nostra vecchia casa, la temperatura, anche nelle giornate più fredde, non scendeva mai sotto lo zero. Entrando in casa, ricordo che si sentiva subito l’odore particolare delle patate: un odore forte di terra, di polvere, di muschio.

Foto V. Bellettato

Commercializzazione Nelle settimane successive, al martedì e al venerdì, mio padre seguiva il mercato delle patate: incontrava i mediatori, chiedeva loro il prezzo della giornata e le previsioni, sentiva altri agricoltori. Quando le condizioni di vendita gli sembravano buone, con una stretta di mano suggellava il contratto con il mediatore e, tornato a casa, ne dava notizia. Le patate venivano vendute a sacchi, ed era il mediatore a portarne la quantità che serviva. Nello spazio del seminterrato rimasto libero, si procedeva alla cernita e all’insacchettamento. Sopra a due cavalletti, uno più alto dell’altro, si sistemava una stuora con un fondo di listelli di legno distanziati fra di loro, per favorire la caduta della terra che si staccava dai tuberi e, nello stesso tempo, per operare una prima selezione. La stuora, dalla parte che veniva appoggiata sul cavalletto più basso, si restringeva a imbuto e aveva dei ganci a cui si appendeva il sacco. Un uomo, con il forcone, prendeva le patate dal mucchio e le buttava sulla stuora, mentre due donne disposte ai lati, muovendo velocemente le mani, scartavano le patate marce o tagliate e buttavano in una cesta quelle piccole. Le altre, rotolando sul piano inclinato, arrivavano nella parte stretta, e mio padre le aiutava a scendere nel sacchetto; questo, una volta pieno, veniva sganciato e cucito con un ago lungo e grosso, dalla punta leggermente ricurva, recante lo spago. I sacchetti venivano poi accatastati fino a che il carico era completo.

Foto R. Angelini

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in Piemonte e Lombardia Al mercato, il martedì o il venerdì seguente, mio padre avvertiva il mediatore e con lui concordava il giorno in cui sarebbero venuti a ritirare la merce. Quando il camioncino arrivava, attraverso un finestrone i sacchetti venivano passati a due persone che li sistemavano su di un piccolo montacarichi di legno, che poi li trasportava sul camioncino, dove altri due li impilavano ordinatamente. Un camioncino di allora riusciva a trasportare circa venti quintali di patate e, a volte, per caricare tutti i sacchetti preparati doveva fare più viaggi. Le patate scartate venivano ammucchiate e conservate: cotte nel pentolone di rame insieme alla crusca, sarebbero servite come pastone per il maiale e per i polli, e avrebbero richiamato i passeri in cerca di qualcosa da piluccare; messe nei sacchetti, venivano regalate ai frati che mandavano un vecchio camioncino a prelevarle. E nelle sere fredde, intorno alla stufa a legna, si tornava a fare bilanci e progetti per la bella stagione. Sono passati più di cinquant’anni. Io ripercorro le stesse stradine per andare in quei campi che hanno mantenuto i nomi di allora. Ancora oggi, nelle giornate di primavera, il cielo è azzurro e terso e senza nuvole; le Tre sorelle, tre pioppi che sembrano avere la stessa origine tanto sono vicini, si ergono imponenti; nei campi il grano è un mare d’erba. In fondo, però, non vedo più le barriere fitte dei boschi che chiudevano l’orizzonte verso il fiume, e poco lontano, a sinistra, il rombo continuo delle auto che corrono in autostrada sovrasta il canto degli uccelli, lo stormire delle fronde e la voce del fiume che, al di là dell’argine, scorre calmo. Non ci sono più attrezzi “primitivi”: i trattori, le seminatrici, gli erpici, le macchine per scavare e raccogliere le patate sono estremamente perfezionati, spesso computerizzati. Ora si ha un approccio più scientifico, più tecnico: analisi del terreno, semi controllati, distanze calcolate, concimazioni calibrate, trattamenti programmati per avere la massima produzione, con spese contenute e tempi razionalizzati, fanno parte della normale attività agricola. Si sono persi anche i ritmi placidi della vita di allora e il piacere di lavorare in compagnia. A quei tempi, in campagna, non si era mai soli: le donne chiacchieravano, si raccontavano le novità e ridevano mentre zappavano; gli uomini, che fingevano di non ascoltare, ogni tanto si interrompevano per riprendere fiato o per bere dal bottiglione. Oggi le attrezzature moderne non richiedono personale e, anche quando è necessario, lo riducono al minimo. Gli addetti al lavoro agricolo non possono distrarsi perché tutto scorre veloce, tutto si svolge con estrema precisione, e non si può sbagliare: un errore comporta perdite economiche che non ci si può permettere. La legge dell’ottimizzazione governa anche la vita dei campi. Io, che sono un sentimentale, ho un po’ di nostalgia dei tempi passati.

Selezionatrice manuale: consisteva in una stuora a doghe di legno su cui le patate, spinte manualmente verso il sacco, venivano selezionate

Foto R. Angelini

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la patata Foto R. Angelini

storia e arte Lungo cammino di pregiudizi e virtù Paolo Puddu

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti - IstockPhoto: pagg. 97 - 98 - 100 - 101 - 108 (in alto) - 111 - 112 - 113 - 115 - 116 - 117 (in basso) - 118 - 120 - 121 - 122 - 125 (in alto) - 126 (in alto) - 127 - 128 - 129 (in alto) - 131 (in alto) - 132 - 133 - 134 - 135 - 136 - 138 - 139 (in alto) - 141 - 178 - 180 (in basso) - 182 (in alto) - 195 (in alto) - 196 - 198 - 200 - 201 - 203 (in basso) - 206 - 207 (in basso) - 208 - 209 (in alto) - 210 - 211 213 - 240 (in basso) - 242 (in basso) - 243 (in basso) - 249 (in alto) - 250 (in alto) - 260 - 264 (in basso) - 265 - 266 (in basso) - 267 - 270 (a destra) – 271 (a sinistra) - 274 - 275 - 276 - 278 - 279 - 287 (in basso) - 289 - 291 (in alto) 296 (destra) 297 (sinistra) 298 (basso) 299 (in alto) 306 - 307 346 (in alto) - 685 (in alto) - 687 - 691 - 761 (in alto) - 763 (in basso) - 764 (in alto) 765 (in basso) - 857 (in basso). DreamsTime: pagg. 119 - 164 - 165 - 166 - 167 - 169 170 - 171 - 173 - 174 - 175 - 176 - 177 - 179 - 180 (in alto) - 181 - 182 (in basso) - 186 - 187 - 214 (in alto) - 241 - 242 (in alto) - 255 (a sinistra) - 261 (in basso) - 263 (in alto) - 264 (in alto) - 266 (in alto) - 272 - 273 - 277 - 632 - 634 - 673 - 675 - 676 - 681 - 763 (in alto) - 786 - 787 788 - 789 - 857 (in alto).


storia e arte Lungo cammino di pregiudizi e virtù Foto R. Angelini

Molti si sorprenderanno nello scoprire che il destino della patata sia legato nell’Europa settecentesca all’opera di uno speziale, Antoine Augustin Parmentier. D’altronde, nella storia dell’alimentazione, spesso i farmacisti hanno rivestito un ruolo primario nel successo di cibi e bevande che sono stati diffusi in ogni parte del mondo. Basti ricordare, oltre a Parmentier, i farmacisti John Pemberton, che nel 1886 inventò la Coca Cola, e Ippolito Mège Mouries, che nel 1869 brevettò la margarina. La storia socio-alimentare e la storia medica della patata sono spesso così intimamente intrecciate da rendere evanescenti i rispettivi contorni. Fame, carestie, epidemie ed esigenze di sopravvivenza si rincorrono, e rendono estremamente intricati gli eventi che hanno caratterizzato la diffusione di questo umile tubero nello scenario della nutrizione umana. La storia alimentare della patata ha origini remote, da quando il tubero selvatico originario delle Ande fu coltivato, dall’era neolitica, nelle zone costiere del Perú dopo la fine del secondo periodo glaciale. I resti più antichi delle patate coltivate sono stati rinvenuti a 2800 m di altitudine nelle grotte peruviane delle Tres Ventanas, e risalgono a 8000 anni a.C. Eppure già 13.000 anni a.C. i tuberi della specie selvatica Solanum maglia, rinvenuti in un sito archeologico

Terrazze di Collagua, Perú

Isola galleggiante degli Uros sul Lago Titicaca davanti a Puno, Perú. La zona del Titicaca è la culla di tutte le antiche tradizioni della regione. Per migliaia di anni gli isolani hanno vissuto coltivando patate e quinoa sulle colline, pescando, tessendo e allevando i lama, uno stile di vita conservato ancora gelosamente

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pregiudizi e virtù del Cile meridionale, sono stati mangiati dagli antichi abitanti. La coltivazione su grande scala iniziò in seguito, 2000 anni a.C., nella regione del lago Titicaca, a cavallo fra il Perú e la Bolivia. Da allora una grande varietà di specie selvatiche, almeno 100, e oltre 400 specie coltivate si diffusero nel continente sudamericano nei territori compresi fra le alte montagne e le aree più calde delle valli e delle foreste subtropicali, oltre alle zone semiaride delle valli costiere. L’uso culinario delle patate da parte delle popolazioni andine comprendeva la produzione del chuño, una sorta di patata congelata e disidratata, poi essiccata alla luce del sole non diretta, che veniva sbucciata e quindi ammorbidita in acqua corrente fredda per 1-3 settimane. Indi essiccata al sole per 5-10 giorni, produceva una crosta bianca. Questo prodotto è privo di glicoalcaloidi amari, è leggero e facilmente trasportabile, e può essere conservato per diversi anni. Per una più rapida consumazione la patata poteva essere messa in ammollo per un mese e poi bollita. Il chuño, che a lungo ha sfamato le popolazioni andine, è stato descritto dai primi cronisti spagnoli, e fra essi José de Acosta nel 1590. Con le patate veniva confezionato anche un prodotto disidratato (papa seca), ottenuto con la bollitura, la sbucciatura, il taglio in fette, l’essiccamento al sole e quindi la riduzione in polvere amidacea tramite macinatura. L’introduzione della patata in Europa fu operata da Pizarro in Spagna; da lì il tubero si diffuse in Italia e successivamente nei Paesi

Foto R. Angelini

Famiglia contadina della tribù Collagua raccoglie le patate nella Valle del Colca, Perú

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storia e arte Bassi, quindi in Austria, Germania e Svizzera. L’introduzione del tubero ebbe modalità differenti in Inghilterra, dove avvenne verso la fine del Cinquecento per opera dei colonizzatori di sir Walter Raleigh. Questi ricevette nel 1584 dalla regina Elisabetta una “patente reale” che lo autorizzava a colonizzare un territorio dell’America del Nord chiamato Virginia in onore della sovrana. Dalla Virginia Raleigh portò nella madrepatria dei tuberi simili alle patate trasportate dagli Spagnoli nel 1588 e consegnate al loro sovrano, che ne fece dono anche al papa. Il pontefice fece esaminare i tuberi, che furono chiamati taratufoli dal botanico Charles de l’Escluse, detto Clusius, il quale li piantò in un terreno e per la prima volta illustrò nelle tavole di botanica i frutti della sua coltivazione. Nel 1569 John Gerard, un botanico inglese, pubblicò un catalogo delle piante coltivate nel suo giardino in cui menziona la patata sotto il nome di Papus orbiculatus. Successivamente, nel 1597, in un Erbario della storia generale delle piante riprodusse una figura e una descrizione della patata, che denominò “patata della Virginia”. Ciò dimostra che anche in Inghilterra la pianta era coltivata già nel 1596, anche se era differente dalla comune patata scoperta dagli Spagnoli e consacrata in Francia dal celebre agronomo Olivier de Serres nel Seicento. È interessante notare che, sebbene la patata fin dal XVII secolo fosse sufficientemente conosciuta per le sue qualità alimentari, la sua coltivazione era ben lontana dall’essere praticata su vasta scala. I “tuberi verginiani” di sir Raleigh non entusiasmarono i botanici e gli agronomi inglesi, che dedicarono loro un’attenzione solo momentanea, dettata dalla curiosità, e ne sdegnarono l’uso gastronomico. Persino agli inizi dell’Ottocento le patate erano considerate cibo per maiali.

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Collezioni presso il Centro Internazionale della Patata di Lima

Foto R. Angelini

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pregiudizi e virtù Alimento per i cavalli durante la guerra dei Sette anni Durante la guerra dei Sette anni alcuni militari spagnoli assoldati dai prussiani pensarono di coltivare patate quale alimento per i propri cavalli e, tutt’al più, nei periodi di carestia più grave, per loro stessi. In questo clima di fame e disperazione i contadini della Sassonia e della Westfalia rubavano patate all’esercito occupante, e cominciarono a mangiarle crude e senza sbucciarle. L’intossicazione cui spesso andavano incontro venne attribuita a epidemie come la peste. In Irlanda i lord inglesi divenuti proprietari terrieri in seguito all’occupazione dell’isola, a fronte di periodi di carestia endemica, inviarono ai contadini dei carichi di patate, con cui la popolazione calmò la fame, e persino i maiali cominciarono a ingrassare. In questo Paese la storia della patata si intreccia alla storia delle grandi carestie. La patata, specie se accompagnata da latte, forniva carboidrati, proteine, vitamine e oligoelementi quali i minerali in quantità soddisfacente per una dieta sufficientemente equilibrata. Ancora oggi essa contende al grano, al riso e al mais il primato del più importante alimento vegetale per l’uomo. Sebbene la patata fosse considerata inizialmente un cibo da contadini e destinato principalmente al bestiame, la sua coltivazione si diffuse con grande rapidità nell’Europa continentale, in Inghilterra e in Irlanda. Dopo un susseguirsi di lotte e di invasioni che risalgono al tardo Medioevo, nel Seicento l’Irlanda fu conquistata da Oliver Cromwell e ridotta a colonia. Parte della popolazione locale fu sterminata e cacciata dalle sue terre, e circa 14.000 soldati e 10.000 fra donne e bambini furono costretti a fuggire, in quell’esodo che fu chiamato “il volo delle oche selvatiche”. La conquista produsse un rapido incremento della deforestazione del territorio irlande-

Gravi carestie

• L’Europa è stata colpita da periodi di

fame popolare a partire dalla Grande carestia del 1315-1317, che determinò malattie e morti di massa. Gravi carestie si ripresentarono nell’ultimo decennio del XVI secolo, negli anni attorno al 1620 e fra il 1740 e il 1743, in rapporto ai cambiamenti climatici. Una devastante carestia colpì l’Irlanda fra il 1845 e il 1849, e fu causata, oltre che da un’ingiusta politica economica da parte del governo britannico di lord Russell, da un brusco aumento demografico e, soprattutto, da una distruzione massiva delle patate. Infatti, la patata era diventata il cibo quotidiano dei ceti più poveri, con un consumo medio di circa 5 kg al giorno a famiglia

Patate peruane appena raccolte

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storia e arte se, che permise ai proprietari, prevalentemente inglesi, di ricavare grandi guadagni dal legname e dal carbone di legno utilizzato per produrre ferro. Inoltre, il taglio delle foreste lasciava vaste aree di terreno fertile su cui si coltivarono ingenti quantità di patate. Queste divennero un cibo fondamentale per la popolazione irlandese che, vinta la fame, cresceva esponenzialmente fino a raggiungere, verso il 1840, gli 8 milioni di abitanti. Come spesso avviene in un periodo di relativa abbondanza, anche in Irlanda non vennero presi gli opportuni provvedimenti per ovviare ai rischi di una monocoltura che poteva essere aggredita dai parassiti. Eppure il disastro alimentare era stato preconizzato da periodi ricorrenti di infezione della patata, con il risultato di una generale carestia nel 1740 e di altre parziali perdite della produzione nel corso dell’Ottocento.

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Carestia in Irlanda: la grande emigrazione La nube nera della fame cominciò ad addensarsi sull’Irlanda fino al 1845, quando una grave malattia della patata dovuta al fungo Phytophthora infestans (la peronospora della patata) si diffuse repentinamente, facendo precipitare gli eventi. Le foglie ricoperte da una muffa biancastra avvizzivano e i tuberi erano ridotti a una massa spugnosa, marcescente e immangiabile. Questo tubero, che per alcuni ha contribuito alla crescita demografica durante la Rivoluzione industriale del Settecento, è stato il negativo protagonista della carestia irlandese di metà Ottocento. Per tre secoli era diventato l’elemento centrale e caratteristico della cucina regionale e poi nazionale europea, ma la sua popolarità esplose solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando la produzione industriale immise sul mercato suoi derivati

La peronospora della patata (Phytophtora infestans) è la più grave malattia causata da funghi. Compare sulla vegetazione con macchie in corrispondenza delle quali con umidità elevata compare una muffa grigiastra. I tuberi, anch’essi attaccati, possono andare incontro a marciumi molli o secchi

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pregiudizi e virtù quali le patate fritte o congelate, dando il via a una vera e propria globalizzazione della dieta. Un esempio tra i più eloquenti è offerto dall’esplosione nel mercato alimentare dei ristoranti drive-in della catena McDonald’s, nati a San Bernardino (California) nel 1940 e diffusisi negli anni seguenti sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo. Oggi i loro hamburger, accompagnati solitamente da patate fritte, hanno conquistato milioni di consumatori, specie fra i giovani, diventando un simbolo della genio americano nel commercio alimentare di massa. Inoltre, dopo aver trovato spazio nella medicina popolare, la patata è stata recentemente riproposta dall’odierna medicina accademica non solo per la nutrizione, ma anche per un possibile ruolo preventivo e terapeutico per alcune malattie dell’uomo.

Peronospora e fame

• Il misterioso fungo fu così responsabile della Great Famine che fra il 1845 e il 1852 condusse alla morte quasi 1 milione di persone per fame e altre 500.000 per gli effetti della malnutrizione

• In questo clima di sventura, per

sottrarsi alle conseguenze della fame molti cercarono scampo nell’emigrazione, specie verso gli Stati Uniti e il Canada, ma anche verso l’Inghilterra e il Galles. Spesso gli Irlandesi furono costretti a imbarcarsi su navi fatiscenti, carenti di viveri, di acqua e di servizi igienici, tanto da essere denominate coffin ships, navi bara, sulle quali trovarono la morte in un numero consistente oppure portarono con sé le malattie, in genere infettive, che trovavano terreno fertile in quei corpi denutriti e indifesi

Nuove prospettive per la salute umana: le proprietà farmacologiche della patata La medicina ufficiale contemporanea si è occupata sia delle proprietà nutrizionali sia delle attività biologiche della patata e delle relative applicazioni cliniche. Una recente rassegna di Camire e collaboratori (2009) ha preso in considerazione la presenza dei composti nutritivi e bioattivi nelle patate e il loro impatto sulla salute umana. Il valore nutrizionale della patata è stato oggetto di numerosi studi, che hanno dimostrato come la tendenza – o l’idea preconcetta – di molti consumatori a ritenere la patata più ricca di calorie e di grassi rispetto al riso e alla pasta sia erronea. Infatti, i tuberi coltivati contengono in media il 18-19% di amido (sulla base del peso fresco), proteine (di elevato valore biologico) tra l’1 e l’1,5%, 0,15 g di lipidi per 150 g di peso fresco, fibre (specie nella buccia), minerali (in

• La tragedia irlandese fu probabilmente

fondamentale non solo per l’attribuzione alla patata del ruolo di alimento anticarestia, ma per farla diventare anche una pianta da coltivare su larga scala

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storia e arte particolare potassio, e molto meno fosforo e calcio), vitamine (la C e la B6, e altre vitamine del gruppo B), e antiossidanti, in quantità modeste. Nella buccia sono contenute sostanze potenzialmente tossiche, come i glicoalcaloidi (alfa-caconina e alfa-solanina). Oltre a dispensare proprietà nutrizionali, le patate possono avere un ruolo importante per la salute umana. Purtroppo fino a oggi non sono state pubblicate ricerche di lunga durata sugli effetti complessivi di diete ricche di patate; tuttavia i dati finora resi noti di studi a breve e medio termine sembrano suggerire effetti benefici sul diabete e sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari, e perfino delle neoplasie. Prima di addentrarci nelle proprietà farmacologiche ritenute utili nella patologia umana, è necessario premettere che, nonostante l’enorme diffusione a livello mondiale, ancora oggi la patata continua a essere oggetto di pregiudizi legati alla temuta presenza di sostanze tossiche. Tali sostanze sono in effetti contenute nella buccia, e sono situate prevalentemente entro il primo millimetro della parte esterna del tubero. Infatti, in anni recenti è stata documentata la velenosità di membri della famiglia delle solanacee, e in particolare del genere Solanum, che comprende la patata e il pomodoro. Sono stati individuati dei composti chiamati, come si è detto, glicoalcaloidi. I due più importanti sono la solanina e la caconina, presenti in ogni parte della pianta della patata, ma concentrati soprattutto nei fiori, nelle foglie, nella corteccia e nei germogli, ma anche nella buccia e molto meno nei tuberi. Alcuni Autori affermano che una concentrazione di glicoalcaloidi pari a 200 mg/kg, generalmente accettata come limite massimo per l’uomo, vale per gli effetti acuti e subacuti della tossicità, ma non tiene conto dei possibili effetti cronici. Ciò richiederebbe una revisione critica delle linee guida sulla sicurezza alimentare e (a

Titolo box nutrizionale Contenuto della Testopatata box Testo box Testo box Testo box

• box Testo box Testocontengono: box Testo box tuberi coltivati in media • ITesto

box Testo box Testo box Testo box –Testo il 18-19% di amido (rispetto al peso Testo box Testo box Testo box Testo box fresco) box Testo box Testo Testo box –Testo di elevato proteine valorebox biologico Testo boxe Testo tra l’1 l’1,5%box Testo box Testo box –Testo g di lipidi per 150 g di peso 0,15box fresco • Testo box Testo box Testo box Testo –box fibre Testo box Testo box Testo box Testo –box (in particolare potassio, minerali Testo box Testo box Testo box Testo e molto meno fosforo e calcio) box Testo box Testo box Testo box Testo altre box vitamine –box vitamine (la C e la box B6, eTesto Testo box Testo Testo del gruppo B) box Testo box Testo box Testo box Testo –box antiossidanti, Testo box in quantità modeste

• Nella buccia sono contenute sostanze potenzialmente tossiche, come i glicoalcaloidi (alfa-caconina e alfa-solanina), oltre alle fibre

Foto R. Angelini

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pregiudizi e virtù nostro avviso) una maggiore diffusione delle informazioni sui potenziali pericoli attraverso suggerimenti e consigli, specie riguardo alla conservazione del prodotto da parte anche dei consumatori. Sono quindi da evitare le patate verdi, eccessivamente germogliate, avvizzite, mollicce, o mal conservate. La buccia delle patate novelle può essere tranquillamente mangiata, dopo avere lessato le patate intere, come suggeriscono gli esperti della Mayo Clinic e le analisi del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. L’uso alimentare delle bucce può determinare effetti benefici in quanto sono fonte di fibre, minerali e vitamina C, e infine di composti fenolici dotati di potere antiossidante. Ricordando che le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2008 “anno della patata”, Schieber e Aranda Saltaña hanno riassunto i dati della letteratura sull’utilizzazione delle bucce di patata, specie come fonte di composti impiegabili nell’alimentazione e in altri settori industriali. Ciò ha tenuto in considerazione il contenuto di fenoli e anche di glicoalcaloidi, utilizzabili anche nella sintesi degli ormoni steroidei. I dati della letteratura fino a qui riportati non consentono tuttora di definire la patata quale vero nutraceutico, ovvero sostanza alimentare dalle comprovate caratteristiche benefiche e protettive nei confronti della salute psicofisica dell’individuo, secondo la definizione di Stephen L. De Felice. Si potrebbe invece parlare in termini di alimento funzionale, cioè di un cibo che mostra proprietà benefiche tramite l’introduzione nell’alimentazione. Si è discusso sulle segnalazioni di tossicità dei glicoalcaloidi. Tuttavia esistono anche ricerche recenti sui loro effetti benefici, in particolare antiallergici, antifebbrili, antinfiammatori e ipoglicemizzanti. Sarebbero documentate anche attività antibiotiche, antibatteriche, antivirali, antiprotozoarie e antimicotiche. In vitro sono state inoltre osservate azioni antineoplastiche e antiproliferative

Glicoalcaloidi

• Si tratta di composti tossici individuati nelle solanacee. Nella patata i due più importanti sono la solanina e la caconina, presenti in ogni parte della pianta

• I glicoalcaloidi sono evoluti in

natura per proteggere le piante dalle aggressioni dei fitopatogeni

• Si concentrano principalmente nei

fiori, nelle foglie, nella corteccia e nei germogli, ma sono presenti anche nella buccia e molto meno nel tubero (soprattutto entro il primo millimetro della parte esterna)

• È noto che il contenuto di glicoalcaloidi

aumenta nelle patate acerbe, in condizioni di conservazione a basse temperature e di esposizione alla luce. La concentrazione non è alterata in modo significativo dalla cottura, se non a temperature superiori ai 210 °C, con riduzione di circa il 40%. In condizioni normali, però, i tuberi contengono basse concentrazioni di solanina

• L’avvelenamento da solanina, sostanza che ha un gusto amaro, è un evento molto raro

Foto R. Angelini

• Per evitare ogni rischio di tossicità

sono da evitare le patate verdi, troppo germogliate, avvizzite, mollicce, o mal conservate. La buccia delle patate novelle può essere mangiata, dopo avere lessato le patate intere

Raccolta delle patate sull’isola di Taquile, Lago Titicaca (Perú)

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storia e arte in cellule cancerose del colon e del fegato umano. Sono peraltro ritenute necessarie ulteriori ricerche nel vivente (Friedman 2006). Avvelenamento da solanina

Patate e radicali liberi Un nuovo campo di ricerca si è aperto quando sono comparsi alla ribalta della medicina attuale i radicali liberi. Si tratta di molecole instabili per la presenza di un elettrone spaiato nell’orbitale molecolare esterno e quindi particolarmente reattive e destabilizzanti per l’equilibrio elettrico di altre molecole vicine. I radicali liberi dell’ossigeno sono prodotti continuamente nell’organismo nei processi fisiologici normali della respirazione cellulare, e la loro attività viene in genere disattivata dalla produzione di sostanze antiossidanti in grado di renderli innocui. Solo quando i radicali sono prodotti in eccesso e le sostanze antiossidanti naturali scarseggiano essi producono effetti deleteri sulle cellule: si parla in questo caso di stress ossidativi. Il sistema antiossidante comprende meccanismi enzimatici (superossidodismutasi, catalasi, glutatione ridotto) e non enzimatici (vitamina A, vitamina C, carotenoidi, glutatione, selenio, polifenoli, licopene, acido alfa-lipoico, ataxantine, antocianine ecc.). Lo stress ossidativo è coinvolto nell’invecchiamento cellulare, nelle patologie allergiche e infiammatorie, in neoplasie, aterosclerosi, ipertensione, diabete, addirittura nell’Alzheimer ecc. In queste condizioni patologiche è necessario un trattamento specifico con sostanze antiossidanti. Inoltre, considerando che i radicali liberi costituiscono un importante fattore di rischio, specie per le malattie cardiovascolari, è razionale una prevenzione, che si ottiene facilmente anche con l’introduzione nella dieta di alimenti in cui siano presenti antiossidanti naturali, come per esempio gli ortaggi e la frutta. Queste brevi nozioni sono utili per comprendere le proprietà delle patate anche nei processi antiossidanti e antiradicalici. Così,

• L’avvelenamento da solanina, sostanza che ha un gusto amaro, è un evento molto raro

• McMillan e Thompson hanno riportato

il caso di 778 scolari inglesi che si sono ammalati dopo aver mangiato patate all’inizio dell’autunno. Le patate provenivano da un sacco conservato dall’estate. Diciassette studenti sono stati ricoverati in ospedale. I sintomi dell’avvelenamento coinvolgono l’apparato gastroenterico e il sistema nervoso: vomito, cefalea, febbre, diarrea, confusione mentale, agitazione e talora allucinazioni

• In letteratura non sono mai stati

documentati effetti letali. Le più serie complicanze sono rappresentate dalla disidratazione e dalle turbe elettrolitiche, da dispnea, tachicardia e ipotensione, dalla febbre e dai sintomi neurologici, che comunque possono essere adeguatamente curati con metodiche standard

• I sintomi di tossicità acuta compaiono generalmente quando sono ingeriti tuberi acerbi, avvizziti e germogliati, oppure foglie e bacche

Foto R. Angelini

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pregiudizi e virtù l’umile tubero, pacifico antidoto di tante carestie nel mondo, si trasforma in un versatile strumento per la prevenzione di pericolose malattie. Oggi la patata, il cibo dei poveri più diffuso nel pianeta, sembra entrare di diritto nella storia della medicina dotta, e non solo per il suo valore nutritivo, per il contenuto di potassio e di fibre e per l’arricchimento di selenio proprio di alcune coltivazioni emiliane. Infatti, le patate contengono potenti antiossidanti naturali che sono in grado di contrastare i radicali liberi, prevenendone i danni a livello cellulare. Tra questi proprio la vitamina C, il glutatione, i carotenoidi, l’acido alfa-lipoico ecc., con qualche differenza quantitativa nelle varie cultivar. Un importante capitolo, su cui peraltro non c’è un consenso unanime nella comunità scientifica, concerne la possibilità che nel lungo periodo il consumo di patate possa avere un ruolo nella prevenzione del cancro, attraverso l’azione delle antocianine, dei glicoalcaloidi e delle lectine. Alcuni studi sono stati dedicati alla prevenzione del diabete, ma i risultati sono resi incerti dalla combinazione di fattori quali l’apporto di glucidi e la presenza di fattori antidiabetici come gli antiossidanti, specie i polifenoli. Altre ricerche si sono focalizzate sul ruolo delle patate nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, specie se vengono consumate anche le bucce, ad alto contenuto in fibre. Sarebbe provato che una proteina del tubero contribuisce ad abbassare il colesterolo, mentre ancora una volta i fitochimici, e in particolare gli antiossidanti, appaiono implicati nel ridurre l’infiammazione, che espone al rischio di aterosclerosi. La medicina moderna attende la conferma di questi interessanti prospettive per la salute umana.

Foto R. Angelini

Pelatura delle patate al Centro Internazionale della Patata di Lima (Perú) per studiare le componenti nutraceutiche

Patate al mercato, Messico

Foto R. Angelini

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