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il pero
coltivazione Tecnica colturale Stefano Musacchi
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Tecnica colturale Introduzione Negli ultimi anni la tecnica colturale del pero ha subito notevoli innovazioni, le quali hanno determinato cambiamenti che hanno portato a un aumento della produzione: aumento che è avvenuto nel pieno rispetto dell’ambiente e del miglioramento della qualità e della salubrità dei frutti. Di seguito verranno descritte le principali tecniche colturali: preparazione del materiale di moltiplicazione, impianto del frutteto, concimazione, irrigazione, potatura e raccolta.
Principali tecniche colturali
• Preparazione del materiale di moltiplicazione
• Impianto del frutteto • Concimazione • Irrigazione • Potatura • Raccolta
Preparazione del materiale di moltiplicazione L’impiego di piante da frutto ottenute dall’unione di due o più bionti è una pratica comune. Nel pero, infatti, oltre il 95% degli alberi è bimembre, cioè composto da un ipobionte (portinnesto o soggetto) che formerà l’apparato radicale e un epibionte (nesto o oggetto) che costituirà la parte aerea (chioma dell’albero). Questo permette di ottenere individui tutti uguali tra loro attraverso la moltiplicazione vegetativa. La tecnica utilizzata per la formazione della pianta bionte viene detta innesto. La parte superiore, nesto, può essere costituita da una porzione di ramo detta marza, oppure da una gemma detta occhio o scudetto, proveniente dalla pianta che si vuole moltiplicare. L’innesto è una tecnica antica, infatti è conosciuta fin dai tempi di Teofrasto e Virgilio. L’unione dei due bionti si ottiene grazie alla formazione di un callo, che si genera fra le due superfici tagliate, e precisamente nelle zone di contatto tra i due meristemi cambiali.
Formazione della pianta
• La pianta di pero è ottenuta dall’unione di due bionti: portinnesto o soggetto e nesto o oggetto
• In alcuni casi, soprattutto per superare problemi di disaffinità d’innesto, fra il portinnesto e il nesto, può essere inserito un intermedio affine con entrambi
Formazione della pianta adulta a partire da una marza innestata su portinnesto
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La marza
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La saldatura di innesto Il portinnesto
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tecnica colturale Tipologie di innesto I tipi d’innesto adottati e noti sono numerosi (fino a 200). Per semplicità possiamo raggrupparli rispetto alla forma, all’epoca e allo stadio di sviluppo in cui l’innesto si esegue. In base alla forma: – per approssimazione. Pratica realizzabile solo tra piante contigue, in quanto si deve asportare un tratto di corteccia a entrambi i soggetti, per mettere allo scoperto i rispettivi cambi che dovranno combaciare con esattezza; – a gemma (occhio o scudetto). Si pratica prelevando dalla pianta madre un pezzo di corteccia, comprendente una gemma a forma di scudetto, che viene inserito sotto la scorza del soggetto previo idoneo taglio a T, oppure viene prelevato, con un taglio obliquo, uno scudetto, comprendente una porzione di corteccia e legno, che viene inserito in una incisione omologa sul portinnesto (chip budding); – a marza. Si esegue utilizzando una porzione di ramo, generalmente di un’anno di età, recante due o tre gemme, che viene inserita nel portinnesto. L’innesto più diffuso è detto a triangolo; si tratta di un particolare innesto a incastro nel quale la base della marza è tagliata secondo due piani convergenti in modo da assumere una forma triangolare.
Punto di innesto di una combinazione con un franco
Successione degli eventi dopo l’innesto
• Le cellule presenti nell’interfaccia
dell’innesto collassano e formano uno strato necrotico temporaneo
• Le cellule vive dei due bionti si
In base all’epoca: – fine inverno. Viene impiegato materiale prelevato durante l’inverno in grado, avendo già soddisfatto il fabbisogno in freddo, di vegetare subito dopo l’attecchimento dell’innesto; – maggio-giugno (innesto vegetante). Il materiale per l’innesto viene prelevato in inverno e conservato in condizioni di basse temperature e alta umidità per evitarne il disseccamento; – luglio-settembre (innesto dormiente). Si tratta di innesti effettuati con materiale fresco, prelevato appena prima dell’innesto,
insinuano nella zona necrotica
• Nel tessuto necrotico si forma, per
divisione cellulare, un callo parenchimatico
• Dalle cellule parenchimatiche si differenzia prima il cambiforme e poi nuovo cambio
• Si completa la connessione vascolare con la produzione di nuovo xilema e floema
Attecchimento di un innesto a gemma Corteccia del portinnesto Legno del portinnesto Cambio del portinnesto
Corteccia del nesto Cambio del nesto Legno del nesto
Differenziazione del cambiforme
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coltivazione
Obiettivi dell’innesto
• Rapida diffusione di nuove cultivar • Controllo dello sviluppo vegetativo • Adattamento a differenti terreni • Resistenza ad avversità biotiche • Accorciamento giovanilità dei semenzali • Sostituzione di cultivar non più remunerative
Innesto a triangolo appena eseguito (sinistra) e particolare a fine stagione vegetativa (destra)
che non ha ancora soddisfatto il fabbisogno in freddo e che, dopo l’innesto, resta dormiente fino alla primavera successiva. In base allo stadio di sviluppo. Completamente lignificato, parzialmente lignificato (semilegnoso), erbaceo quando i bionti sono formati da germogli erbacei. Oltre ai criteri sopra indicati è possibile classificare gli innesti in base all’età delle piante che si innestano e alla posizione della marza sul soggetto. Nei vivai industriali, per l’innesto del pero, sono generalmente impiegate la tecnica del chip budding, l’innesto a triangolo e l’innesto a macchina. Quest’ultimo si attua attraverso l’esecuzione di tagli omologhi sui due bionti sagomati in modo da consentirne l’incastro. I due bionti, data la tipologia dell’innesto, devono essere per quanto possibile isodiametrici.
Innesto a chip budding prima della ripresa vegetativa
Innesto a chip budding: particolare della crescita del germoglio Innesto a V eseguito a macchina
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Macchina innestatrice
tecnica colturale Disaffinità d’innesto Le definizioni di disaffinità di innesto sono molteplici, ma quella più significativa è stata proposta nel 1988 da Feucht il quale descrisse la disaffinità come un fenomeno di prematura senescenza dell’albero causato da processi fisiologici e biochimici anomali. Occorre ricordare anche gli studi di Garner nel 1979, che definì la disaffinità di innesto come l’incapacità di formare una forte unione, oppure come l’incapacità di una pianta innestata di crescere normalmente o ancora come la prematura morte della pianta innestata. Questi fallimenti sono correlabili a differenze fisiologiche tra portinnesti e cultivar. I sintomi della disaffinità d’innesto si presentano in modo diverso da specie a specie, e in generale quelli endogeni normalmente precedono la manifestazione di quelli esogeni. Inoltre il floema sembra essere normalmente più danneggiato dello xilema. Di seguito vengono riportati i principali sintomi individuati da vari autori nella disaffinità d’innesto.
a
Sintomi endogeni. Nell’analisi dei sintomi endogeni della disaffinità di innesto nelle piante arboree è possibile riscontrare una eccessiva suberizzazione e ispessimento della corteccia dovuti a una eccessiva produzione di tubi cribrosi, a una scarsa produzione di tracheidi e a un accumulo di tannini indicati da una colorazione scura della corteccia e da una ondulata conformazione delle cerchie annuali con formazione di necrosi. Nelle unioni disaffini il cambio neoformato va incontro a un anormale funzionamento con produzione di parenchima al posto di xilema. In altri casi non si ha la formazione di connessioni e i tubi cribrosi collassano e lignificano. È stato evidenziato anche un anormale accumulo di composti fenolici nella zona dell’innesto e in particolare di epicatechina.
b
c
Sintomi esogeni. Sono riconducibili a diverse manifestazioni: – maggiore sviluppo di uno dei due bionti; – ipertrofie o iperplasie tissutali sopra e sotto il punto di innesto (questi sintomi non sono sempre imputabili alla disaffinità); – facile rottura dell’albero nel punto d’innesto; – ritardo nella schiusura delle gemme; – anormale morfologia e prematura senescenza delle foglie; – riduzione della crescita associata alla morte dei germogli e della pianta; – perdita di turgidità delle foglie e riduzione del tasso di traspirazione durante il giorno; – perdita di colore delle foglie dovuta alla discontinuità vascolare nella zona d’innesto. La rottura della zona di innesto, dovuta alla totale assenza o alla presenza di poche connessioni vascolari tra nesto e portinnesto in grado di conferire una resistenza meccanica significativa, vie-
d
Esempi di combinazioni d’innesto affini e disaffini: a) William / MC (cotogno) unione disaffine b) William / franco (pero) unione affine c) Butirra Hardy / MC (cotogno) unione affine d) Butirra Hardy / franco (pero) unione affine
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coltivazione ne considerata come il più evidente sintomo di disaffinità. Il caso della disaffinità d’innesto tra pero e cotogno è riconducibile alla tipologia localizzata in cui il diretto contatto tra i bionti porta alla traslocazione di tossine prodotte da uno dei due genotipi e molti Autori considerano questi metaboliti come la causa della disaffinità. Tali sostanze appartengono al gruppo dei glucosidi cianogeni, presenti in molte specie (circa 1000) e derivati da differenti aminoacidi. Il meccanismo d’azione di questi composti è stato descritto per le combinazioni Pyrus communis (pero europeo)/ Cydonia oblonga (cotogno). Come spiegazione alcuni Autori indicavano la presenza di un glucoside cianogeno (la prunasina) che, prodotto dal soggetto Cydonia oblonga, veniva traslocato nel nesto (Pyrus communis) ed entrava in contatto con enzimi (β-glucosidasi e mandelonitrile-liasi) che lo demolivano liberando una molecola di glucosio, aldeide benzoica e acido cianidrico; quest’ultimo, tossico per le cellule, ne causava la morte, provocando disordini nell’attività cambiale, con la conseguente comparsa dei sintomi della disaffinità. Secondo diversi Autori le cultivar di Pyrus communis che sono affini con Cydonia oblonga contengono enzimi capaci di degradare la prunasina prima che questa venga idrolizzata, evitando la formazione di cianuri. In altri casi è stato ipotizzato che le cultivar affini siano in grado di detossificarsi sia dai cianuri sia dalla aldeide benzoica. Dal punto di vista pratico la disaffinità d’innesto, nel pero, viene superata con la tecnica dell’innesto intermedio che consiste nell’interposizione di un terzo bionte affine sia con la cultivar disaffine, sia con il portinnesto cotogno.
Sezione di una combinazione d’innesto disaffine con evidente necrosi dei tessuti
WILLIAM
William β-glucosidasi
HCN Cotogno MC
Prunasina
QUINCE C
Meccanismo della disaffinità nel caso del pero su cotogno. Il glucoside prunasina prodotto dal portinnesto viene catabolizzato dall’enzima b-glucosidasi con produzione di acido cianidrico (HCN) tossico per la pianta
Differenti sintomi esterni di disaffinità di innesto
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tecnica colturale
Vivaio di Butirra Hardy per la produzione di doppie marze Innesto a triangolo con doppia marza (cultivar e intermedio) preparata a macchina
Per questo motivo quando si devono innestare su cotogno cultivar disaffini come Kaiser e William occorre utilizzare Butirra Hardy o altre cultivar affini come intermedio. Per evitare, in questi casi, l’allungamento del ciclo produttivo a tre anni, si ricorre alla tecnica della doppia marza che permette di ottenere piante trimembri in due anni. La doppia marza può essere ottenuta in due modi: utilizzando l’innesto a macchina con un incastro a V per unire l’intermedio e la cultivar oppure innestando a chip budding con la cultivar disaffine astoni di un anno di età dell’intermedio, da cui poi verranno prelevate le doppie marze. In entrambi i casi la marza bimembre viene innestata a febbraiomarzo con l’innesto a triangolo. Ottenimento dei portinnesti La quasi totalità dei portinnesti utilizzati per le pomacee è di origine clonale. Il pero (Pyrus communis) viene in larga parte innestato su cotogno (Cydonia oblonga) perché permette un migliore controllo della vigoria e favorisce una rapida entrata in produzione dell’albero. I genotipi di pero sono utilizzati come portinnesti (franchi) solo in particolari condizioni, quando non è possibile l’impiego del cotogno (per esempio in terreni calcarei e asfittici). I portinnesti franchi si ottengono da seme e quindi tutti gli individui sono geneticamente differenti tra loro. Questo causa una notevole variabilità nei frutteti perché possono essere presenti genotipi caratterizzati da un diverso grado di vigore. La micropropagazione è una tecnica usata per la produzione di soggetti difficili da far radicare; è il caso dei franchi, che con le tradizionali tecniche non si raggiunge un’adeguata percentuale di radicazione. In questo caso si parla di franchi clonali, cioè individui originariamente ottenuti da seme ma poi moltiplicati con una tecnica vegetativa. Un altro impiego della micropropagazione è la produzione di materiale di base per la costituzione delle ceppaie.
Particolare di piante innestate per la produzione delle doppie marze con innesto a chip budding
Innesto a triangolo con doppia marza ottenuta attraverso l’innesto a chip budding
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coltivazione A causa però dei numerosi problemi di ringiovanimento osservati, attualmente si tende a privilegiare tecniche che utilizzano materiale vegetale adulto. Tra le tecniche di propagazione, la più diffusa per il cotogno è quella del margottaggio (margotta di ceppaia e propaggine di trincea). È possibile, comunque, produrre portinnesti cotogni anche attraverso la tecnica del taleaggio. Portinnesto da seme. È una tecnica molto antica che consiste nel seminare i semi in un particolare ambiente, chiamato semenzaio. Le giovani plantule vengono allevate e poi trapiantate in vivaio. Nel pero questa tecnica è ancora impiegata quando si vogliono produrre alberi da piantare in terreni con alto contenuto di calcare attivo o in caso di cultivar che non possono essere innestate direttamente su cotogno perché presentano un’elevata disaffinità di innesto. Semi di pero in germinazione per l’ottenimento dei portinnesti franchi
Margotta di ceppaia e propaggine di trincea. I genotipi di cotogno sono caratterizzati da una elevata capacità di radicazione e sono quindi propagati con la tecnica della margotta di ceppaia e/o propaggine di trincea. Il materiale di partenza per la costituzione di un campo di piante madri è rappresentato da piantine ben sviluppate e radicate. Anche l’epoca di impianto è variabile. Normalmente si pianta già dall’autunno se si utilizzano piante radicate, mentre con le piante micropropagate, a radice in pane di terra, il trapianto viene fatto in primavera. La distanza di piantagione dipende dal grado di meccanizzazione, dal tipo di macchine impiegate (va ricordato che, se si escludono le operazioni di impianto e le lavorazioni al primo anno, oggi è possibile meccanizzare quasi interamente il ciclo della ceppaia)
Margotta di ceppaia
• È una tecnica di riproduzione
agamica adottata dai vivaisti per la moltiplicazione dei portinnesti clonali
• Consiste nel recidere il fusto della
pianta madre a livello del terreno. Al di sotto del taglio sviluppano dei germogli che vengono indotti a radicare attraverso l’eziolamento
Fasi della moltiplicazione dei portinnesti per mezzo della tecnica di margotta di ceppaia Comparsa delle radici alla base dei germogli eziolati
Asportazione dei germogli radicati “barbatelle”
Copertura con terreno della base dei germogli
Pianta madre pronta per un nuovo ciclo produttivo
Pianta madre
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tecnica colturale e dal tipo di terreno. Normalmente la distanza tra le file varia da 130 a 160 cm, mentre lungo la fila si passa da 25-30 cm per la margotta di ceppaia a 35-40 cm per la propaggine di trincea, a seconda della vigoria della ceppaia a maturità. È di particolare importanza la scelta del terreno, che dovrà essere sciolto. Occorre evitare i terreni pesanti (con ristagni idrici) e i reimpianti. Nei terreni sabbiosi, alla base del colletto e durante la successiva rincalzatura, vengono aggiunti substrati organici leggeri, come la pula di riso e la paglia, allo scopo di favorire la radicazione, le operazioni di pulizia e l’estirpazione meccanica delle piante. Al secondo anno le rese sono pari al 30% del totale e, di norma, già al 4°-5° anno la ceppaia può considerarsi in piena produzione. La ceppaia richiede il mantenimento di alti livelli di fertilità del terreno e un accurato controllo sia sanitario sia delle infestanti. In queste condizioni è possibile conservare a pieno il potenziale produttivo per 15-20 anni (per produzioni certificabili il limite è stabilito in 15 anni). Dopo lo svellimento delle piantine (fine inverno) si seleziona il materiale per classi di calibro del fusto.
“Ceppaia” per la produzione di portinnesti
Talea. Il cotogno è una specie che si presta alla moltiplicazione per talea in quanto radica molto facilmente. Infatti la tecnica del taleaggio si utilizza nelle specie dotate di iniziali radicali preformati o di una elevata attitudine rizogena. Questa tecnica si esegue prelevando una porzione di legno, generalmente di un anno di età, durante il periodo invernale e mantenendolo in ambienti freddi e umidi fino all’epoca di piantagione, che solitamente avviene al termine dell’inverno. Le talee sono lunghe da 15 a 30 cm e per favorire la radicazione vengono impiegati composti auxinici. Micropropagazione. Con questa tecnica si possono rapidamente ottenere, in maniera svincolata dai cicli vegetativi stagionali, tantissime piante (cloni) partendo da un’unica pianta madre. La rapidità e l’efficienza della micropropagazione fanno si che questa tecnica sia molto usata per l’introduzione sul mercato in tempi brevi di nuovi portinnesti o cultivar, oppure per propagare specie che con i metodi tradizionali trovano difficoltà. I protocolli di lavoro usati prevedono un ciclo composto da quattro fasi principali: espianto, moltiplicazione, radicazione e ambientamento e una fase intermedia (allungamento dei germogli). La micropropagazione, dati gli alti costi, ha trovato campi di applicazione nelle pomacee solo per portinnesti difficili da propagare per margotta o per favorire una rapida introduzione di nuovi cloni. Questa tecnica è infine utilizzata per la propagazione di materiale “di base”, certificato sanitariamente, necessario per la costituzione dei campi di piante madri nei centri di moltiplicazione. Le varietà autoradicate hanno trovato scarsa diffusione e limitatamente alle cultivar William, Conference e Abate Fétel.
Trapianto dei germogli (micropropagazione)
Germogli “in vitro”
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coltivazione Cicli di produzione delle piante in vivaio In questo settore le innovazioni negli ultimi dieci anni sono state molteplici e accanto al tradizionale ciclo biennale per la produzione di piante bimembri, sono stati sperimentati con successo i cicli brevi annuali, la produzione di piante “knip”.
Produzione delle piante (astoni) in vivaio
• Ciclo biennale • Ciclo biennale con innesto a marza • Ciclo breve con innesto vegetante a
Ciclo biennale. Questo ciclo di produzione di piante in vivaio prende avvio poco prima dell’inizio della primavera (fine febbraio-marzo) con la messa a dimora dei portinnesti. L’anno in cui viene eseguita questa operazione è totalmente dedicato allo sviluppo del portinnesto e all’innesto (in genere si fanno innesti a gemma dormiente, a chip budding e a T), mentre il secondo anno è impiegato per ottenere l’astone finito. L’innesto viene eseguito da fine luglio-agosto in avanti, in modo tale che i portinnesti siano sufficientemente cresciuti e presentino ancora una buona attività vegetativa tale da permettere un facile sollevamento della corteccia (nel caso dell’innesto a T) e una buona formazione di callo per chiudere la ferita e ricostruire i tessuti. Le gemme vegetative devono essere già differenziate e mature. I rami da cui sono prelevate vengono defogliati a mano o a macchina avendo cura di lasciare, nel caso dell’innesto a T, un breve tratto del picciolo per rendere più semplici le operazioni di innesto. Per avere un buon risultato è bene usare solo le gemme che si trovano nella parte mediana del ramo, infatti quelle basali hanno scarsa attitudine al germogliamento mentre quelle apicali sono ancora immature.
chip budding
• Ciclo breve con innesto a macchina • Astoni ottenuti con la tecnica “knip” • Pianta a doppio asse, Bibaum® • Piante tricauli
Ciclo biennale di produzione degli astoni con l’innesto a chip budding dormiente Secondo anno
Primo anno
Feb
Apr
Mag-Giu
Lug-Ago
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Feb
Apr
Mag-Giu
Dic
tecnica colturale L’innesto viene solitamente eseguito a un’altezza di circa 15-20 cm; questa misura è da tenere in particolare considerazione perché la presenza di un tratto di portinnesto più o meno lungo regola sia il vigore della pianta sia la sua precocità di messa a frutto, e inoltre, in questo modo, anche se l’astone venisse piantato troppo in profondità, non si correrebbe il rischio dell’affrancamento del nesto. Passate due o tre settimane dall’esecuzione dell’innesto, si controlla l’attecchimento della gemma che, comunque, resta quiescente fino alla primavera successiva quando, per permettere lo sviluppo del germoglio, viene asportata la parte di soggetto sopra a essa. Questa operazione viene fatta con macchine trinciatrici e poi rifinita a mano. Dalla gemma si svilupperà un germoglio che costituirà la parte aerea. Un’importante operazione è la stimolazione della formazione di rami anticipati; non tutte le varietà, infatti, emettono questo tipo di ramo, e per le cultivar difficili occorre aiutare l’astone attraverso l’uso di regolatori di crescita a base di citochinine e gibberelline.
Astoni in attiva crescita
Ciclo biennale con innesto a marza. Questa tecnica viene impiegata per tutte le piante trimembri e per il ripasso degli innesti a gemma dormiente che non sono attecchiti, per evitare di avere tare nel vivaio. Tale tipologia d’innesto permette di ottenere piante coetanee a quelle prodotte con la tecnica della gemma dormiente; ovviamente, a fine ciclo, le due tipologie di piante si troveranno mescolate e normalmente non vengono separate. Occorre però precisare
Piante pronte per l’estirpazione
Ciclo annuale di produzione degli astoni con l’innesto a chip budding vegetante
Feb
Apr
Mag
Giu
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Dic
coltivazione che le piante di pero ottenute con questa tecnica hanno un minore valore commerciale poiché inizialmente presentano un punto d’innesto più fragile (almeno nel primo anno) rispetto a quelle ottenute con l’innesto a gemma dormiente. Nelle combinazioni trimembri (per superare la disaffinità di innesto), si ricorre esclusivamente all’innesto con la doppia marza per ridurre la durata del ciclo produttivo a due anni. Solitamente l’innesto a marza si esegue a fine febbraio-inizio marzo con il metodo a triangolo e il materiale da innestare deve essere raccolto per tempo e conservato in locali refrigerati in modo tale che le gemme restino quiescenti. Cicli brevi. Tecnica dell’innesto vegetante chip budding. Per eseguire questo particolare tipo di tecnica, come nel ciclo biennale, vengono utilizzati portinnesti messi a dimora a fine febbraio-inizio marzo. Le gemme impiegate nell’operazione di innesto, però, non provengono da rami sviluppati nell’anno, ma da rami dell’anno precedente conservati in frigorifero. In questo modo, quando vengono innestate a maggio, le gemme sono pronte a schiudersi. Le operazioni di innesto sono identiche a quelle descritte per il chip budding dormiente.
Estirpazione delle piante in vivaio
Tecnica dell’innesto a macchina. Questa tecnica è ampiamente impiegata nelle pomacee. La scelta del materiale è importante, infatti, sono da preferire portinnesti ben radicati con classi di diametro medio-grandi (9-11 e oltre 11). La conservazione invernale del materiale deve essere effettuata in cella frigorifera (2-4 °C) e le radici devono essere mantenute sempre umide se si prevede di innestare verso marzo. Le marze devono essere di diametro corrispondente a quello del soggetto e andranno raccolte durante l’inverno e conservate in celle frigorifere (4-6 °C). Prima dell’innesto, il soggetto viene accorciato e le sue radici subiscono una potatura di pulizia. I rami del nesto, invece, vengono suddivisi in marze con 2 o 3 gemme che vengono innestate a macchina o, se le due parti presentano grosse differenze di diametro, a mano. Affinché l’innesto abbia buon esito, non si abbia disidratazione e il rischio di infezioni sia minimo, i due bionti devono essere perfettamente uniti, per far ciò si assicura la zona di innesto con una legatura e la si isola con paraffina. Normalmente si effettua un taglio a V in modo da conferire anche una buona resistenza meccanica. Se si innesta presto, le piante andranno conservate in cella frigorifera a 4-6 °C in adeguate condizioni fino al momento in cui verranno piantate in pieno campo.
Innesto realizzato a macchina
Rami anticipati di un astone di due anni
Produzione di astoni “knip”. Particolare interesse, infine, hanno gli astoni di due anni già ramificati detti anche “knip”. I rami an102
tecnica colturale ticipati di questi astoni devono essere qualitativamente uniformi e inseriti all’altezza corrispondente al primo palco delle forme a fusetto. Questa pratica viene impiegata per anticipare l’entrata in produzione rispetto alle piante ottenute con il ciclo biennale. La tecnica “knip”, originaria dell’Olanda, prevede l’ottenimento di un astone, con un innesto a chip budding vegetante o con innesto a macchina, che al termine del primo anno può essere lasciato in loco o venire estirpato e trapiantato in un altro vivaio con distanze di impianto più ampie. A questo punto viene cimato all’altezza desiderata, solitamente 50-60 cm, e lasciato sviluppare liberamente per tutto il secondo anno di vivaio. Si tratta quindi di alberi la cui chioma è disetanea, infatti la parte basale ha due anni e la parte superiore solamente uno. Nuove tipologie di piante. Recentemente si è diffusa un’innovativa tipologia di pianta denominata “Bibaum®” che permette di ottenere astoni bi-cauli preformati in vivaio. Questo tipo di albero permette di evitare la cimatura degli astoni in campo e la conseguente perdita di un anno per la formazione della parte aerea nel caso di allevamento a V o a Y. Vengono inoltre prodotte piante tri-cauli adatte alla forma a candelabro. Astone tipo Bibaum® caratterizzato da due assi ottenuti attraverso la cimatura in vivaio
Estirpazione e conservazione del materiale di moltiplicazione Al termine del ciclo produttivo gli astoni vengono estirpati utilizzando o il tradizionale aratro scuotitore a braccio eccentrico o il più moderno sistema Oliver che consente, grazie a una apposita piattaforma su cui possono lavorare tre persone, di selezionare il materiale in base al numero di rami anticipati e all’altezza dell’albero. Gli astoni vengono poi confezionati in mazzi da 10 che possono essere conservati all’aperto in apposite tagliole oppure per periodi più lunghi in celle frigorifere umidificate e a bassa temperatura per evitare la disidratazione dell’albero e in particolare dell’apparato radicale. Nelle celle è possibile conservare
Astone a tre assi per forme a candelabro
Conservazione degli astoni in pieno Astoni di pero conservati in celle campo: “tagliola” frigorifere
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coltivazione il materiale anche 3-4 mesi per permettere un’ampia epoca di impianto del frutteto. Sistemazione del terreno La sistemazione del terreno pre-impianto, effettuata con lo scopo di evitare ristagni d’acqua, deve essere molto accurata. In primo luogo occorre procedere al livellamento del terreno, operazione che viene eseguita utilizzando mezzi dotati di livello laser. Dove è possibile e per meglio permettere la meccanizzazione delle operazioni colturali, gli appezzamenti è bene siano piuttosto lunghi, anche oltre 200 m. La larghezza, invece, dipende dalla natura del terreno e da come vengono smaltite le acque superficiali. Se il terreno è argilloso la larghezza può essere di 25-30 m, mentre con terreni di medio impasto può aumentare fino a 40 m e oltre. Nelle aziende medio-grandi si sta diffondendo la pratica del drenaggio sotterraneo con tubi corrugati di plastica posti a distanze variabili in funzione del tipo di terreno: 8-10 m nei terreni più compatti e 12-14 m in quelli più sciolti. Normalmente questi sono collocati a una profondità leggermente superiore al franco di coltivazione (80-90 cm) con una pendenza di circa 1-1,5‰. I dreni possono poi scaricare direttamente in fossi principali (molto profondi) o in collettori principali di plastica di sezione maggiore. Questa tecnica consente un perfetto sgrondo dell’acqua e riduce le tare improduttive aziendali. Se si volesse utilizzare il sistema di drenaggio per la sub-irrigazione occorrerebbe ridurre di circa il 30-50% la distanza tra i dreni. Per aumentare la capacità di sgrondo delle acque del terreno si ricorre spesso all’impiego dell’aratro talpa, formato da un braccio terminante con una estremità sferoidale (ogiva) in grado di formare una galleria di drenaggio che normalmente è in direzione perpendicolare a
Macchina posa dreni in azione
Aratro talpa con ogiva in grado di scavare una galleria per favorire lo sgrondo dell’acqua Terreno perfettamente livellato e drenato
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tecnica colturale quella dei tubi corrugati di plastica. La successiva lavorazione del terreno avviene attraverso una aratura la cui profondità dovrebbe essere legata alla conoscenza della stratigrafia del suolo; normalmente non vengono superati i 60-70 cm. Dopo la sistemazione del terreno e le lavorazioni più profonde si interviene con attrezzi più leggeri, come l’erpice a dischi per frantumare le zolle più grosse e preparare così il terreno per l’impianto degli astoni. Strutture di sostegno e copertura antigrandine Il progressivo aumento delle densità di impianto e la riduzione della mole degli alberi attraverso l’impiego di portinnesti nanizzanti hanno modificato anche il sistema di sostegno delle piante. Attualmente la palificazione si attua con pali di cemento precompresso e, più raramente, con pali di legno trattato, pur avendo questi ultimi un costo simile. La distanza a cui vengono posti i pali sulla fila dipende dal tipo di portinnesto utilizzato e dalla produzione che si pensa di ottenere. Normalmente negli impianti ad alta e altissima densità la distanza tra i pali sulla fila varia da 6 a 8 m. Dopo aver eseguito la squadratura del terreno si procede a tracciare con picchetti i punti in cui dovranno essere inseriti i pali di sostegno. I pali vengono piantati utilizzando macchine agevolatrici fornite di pinze in grado di afferrare il palo direttamente dal rimorchio e di posizionarlo nel punto di impianto. La macchina piantapali, con l’ausilio di personale che tiene il palo in posizione, è in grado di esercitare la pressione necessaria per infiggerlo nel terreno. Esistono anche macchine con iniettori d’acqua a pressione, che però hanno trovato una scarsa diffusione rispetto alle precedenti. Ultimata la posa dei pali si procede alla messa in opera delle ancore di sostegno e dei fili di supporto dei pali di testata e dei fili lungo il filare. Quello situato a circa 1 m di altezza è il più importante perché viene utilizzato per posizionare gli astoni alla distanza voluta. Per i frutteti tradizionali, con distanze d’impianto maggiori (1,5-2 m sulla fila), viene ancora utilizzata la tecnica delle buche fatte con particolari trivelle portate da trattori e in grado di fare fori di differenti dimensioni. L’impiego di coperture antigrandine si sta sempre più diffondendo a causa dell’aumento dei costi assicurativi e dei problemi legati al colpo di fuoco batterico. Infatti, questa malattia è favorita dalla presenza di lesioni che consentono al batterio di penetrare nella pianta e di svilupparsi nei tessuti sottocorticali. Molte sono le aziende che preferiscono accettare il vincolo della copertura antigrandine pur di ridurre l’incidenza dei danni diretti e indiretti provocati dalla grandine stessa. Questi fattori hanno dato un nuovo impulso alla copertura contro la grandine e accanto agli impianti tradizionali a capannina si sono diffuse nuove tipologie di protezione a rete piana o semipiana.
Esempio di strutture di sostegno per frutteti ad alta densità
Particolare di pali di cemento armato precompresso
Macchina agevolatrice a pinze per il posizionamento dei pali
105
coltivazione
Costo della copertura antigrandine al variare delle distanze tra le file (€/ha) Distanza tra le file (m)
4
3,5
2,5
N. di file
14
16
22
Costo materiali
6296
6742
8076
Lavoro
4400
4840
5280
Totale (€)
10.696
11.582
13.356 Copertura antigrandine a capannina Copertura antigrandine piana
I costi di queste coperture sono grosso modo paragonabili; i sistemi a capannina richiedono minori costi di materiale e maggiori costi di manodopera per la messa in opera; i sistemi in piano necessitano, invece, di una maggiore palificazione e quindi maggiori costi di materiali e minori spese di manodopera per la messa in opera. In entrambi i casi il costo finale si aggira tra 10.000 e 13.000 €/ha comprensivi del costo delle strutture. La rete incide per circa 3000-3500 €/ha. La differenza nel costo della copertura è data dalla distanza tra le file. Variando la distanza tra le file da 2,5 m a 4 m il costo diminuisce di circa 2600 €. Accanto alla tradizionale rete nera che garantisce una maggiore durata viene oggi impiegata una rete mista dove solo la zona del colmo e le cuciture sono nere, mentre il resto è bianco. Questo permette un maggiore passaggio della luce e non pregiudica la durata della rete.
Messa a dimora delle piante (immagini pagina seguente)
• a) Aratro in azione per aprire il solco in cui verranno posti gli astoni
• b) Apertura del solco lungo il filare • c) Distribuzione di mazzi di piante
Messa a dimora degli astoni Nei pereti intensivi, con l’ausilio di un aratro, viene aperto un solco sulla fila e mediante rimorchi vengono distribuiti i mazzi di piante nel filare. Questi vengono poi aperti dal personale che posiziona le piante in corrispondenza dei segni di vernice sul filo alla distanza stabilita, a volte la pianta viene fissata al filo con una fascetta di plastica in grado di mantenerla nella posizione voluta. Una volta posizionate tutte le piante si passa con una macchina fresatrice tipo “Speedo” in grado di ricoprire l’apparato radicale con terra fine. Successivamente, il personale provvede a compattare il terreno intorno all’apparato radicale, pestandolo. Questo sistema è molto rapido e consente un notevole risparmio di manodopera dato che gran parte delle operazioni sono realizzate a macchina. A seconda della forma di alleva-
in campo
• d) Posizionamento delle piante • e) Legatura • f) Piante a dimora • g) Fresatrice per la copertura delle radici • h) Rincalzatura • i) Braccetto di testata divaricatore alle cui estremità vengono fissati due fili per il posizionamento delle branche
106
tecnica colturale
a
b
c
d
e
f
g
h
i
107
coltivazione mento scelta occorrono appositi dispositivi per posizionare le branche degli alberi. Nei pereti allevati a fusetto è ormai molto diffuso l’impiego di braccetti divaricatori di varie dimensioni. Questi permettono, opportunamente posizionati, di dare la giusta inclinazione ai rami e facilitano le operazioni di legatura degli stessi.
Vantaggi e svantaggi dell’inerbimento
• Aumento della portanza del terreno • Riduzione dei fenomeni
Inerbimento L’inerbimento riveste un ruolo rilevante in frutticoltura, specialmente negli impianti a gestione biologica. Questa tecnica favorisce, in particolare, il mantenimento della fertilità del terreno e previene l’erosione, soprattutto nelle colture in pendio.
di compattamento del terreno
• Più facile eliminazione dei ristagni idrici in primavera
• Capacità di penetrazione radicale e produzione di essudati radicali con rilascio di chelanti naturali (fitosiderofori)
Semina del prato. Prima della semina il terreno dovrebbe essere dissodato, lavorandolo a una profondità di circa 20 cm. La zona di semina dovrebbe essere preparata senza distruggere la struttura di superficie, come potrebbe accadere con fresature troppo intense. La semina, generalmente, viene effettuata con la seminatrice meccanica. Dopo la semina, per garantire una germinazione ottimale, è necessario reincorporare i semi con l’erpice a denti o lo strigliatore e riconsolidare il terreno con il rullo. Dopo la semina, inoltre, è opportuno provvedere a una adeguata bagnatura. Nelle condizioni climatiche della Pianura Padana il periodo ottimale per la semina del manto erboso è aprile, perché le precipitazioni sono abbondanti e le temperature non sono troppo elevate e quindi viene favorita la germinazione dei semi. Nel caso di impianti già esistenti, dove deve essere garantita la
• Maggiore consumo idrico e quindi
necessità di maggiori volumi irrigui
• Competizione per i nutrienti
Frutteto con inerbimento tra le file
108
tecnica colturale transitabilità dei mezzi per la difesa fìtosanitaria, il periodo della semina può essere posticipato anche alla seconda o terza decade di maggio. Una tecnica per garantire la transitabilità nel frutteto è quella di inerbire le file alternativamente, in due anni successivi, in modo da potere transitare per le varie operazioni colturali dove non è stato seminato, lasciando così il tempo necessario alla costituzione del cotico erboso nel filare dove si è seminato.
kg di elementi asportati
Elementi minerali asportati dai frutti (50 t)
Concimazione Per la nutrizione degli alberi da frutto viene di norma utilizzato il criterio della restituzione delle asportazioni. Per ogni specie e cultivar, infatti, è stato possibile determinare il quantitativo di macro e micro elementi che vengono asportati e come prassi si procede alla restituzione degli elementi nutritivi in funzione delle relative quantità asportate con la produzione.
100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Melo Pero
N
P2O5
Modalità di applicazione dei concimi Gli elementi minerali possono essere forniti al terreno in vario modo: su tutta la superficie o localizzati, in superficie o interrati. La scelta del metodo di somministrazione dipende principalmente dal tipo di terreno, dal metodo irriguo e dalla praticità. La concimazione tradizionale prevede la distribuzione dei fertilizzanti (in forma granulare) sulla superficie del terreno e per essere efficace deve essere effettuata in adatte condizioni di umidità del suolo tali da permettere ai nutrienti il raggiungimento della zona in cui sono presenti le radici. Il concime deve quindi essere solubile e deve entrare nel terreno veicolato dalle piogge o dall’irrigazione. In condizioni aride, i concimi possono restare in superficie molto a lungo e subire trasformazioni e perdite che li rendono meno disponibili per lo sviluppo delle piante.
Urea
Azoto
Fosforo
Potassio
Calcio
Magnesio
Actinidia
130-140
15-20
100-120
200-235
10-12
Melo
90-100
10-20
115-150
120-135
18-21
Pero
70-90
5-10
65-85
135-140
12-15
Pesco
90-150
10-20
100-125
110-130
21-24
Ciliegio
90-100
10-20
85-100
90-95
15-18
Agrumi
100-180
25-40
90-110
-
-
Vite
60-100
10-15
65-85
40-90
9-15
CaO
MgO
Foto R. Balestrazzi
Asportazioni medie annue (kg/ha) dei macroelementi per alcune specie frutticole Specie
K2O
Tagliavini et al., 1998
Fosfato biammonico
Cobianchi, 1995
109
Foto R. Balestrazzi
coltivazione Anche le modalità di somministrazione dei concimi durante la stagione possono variare in funzione dell’elemento minerale da apportare. Infatti, mentre è possibile distribuire il fosforo e il potassio con un unico intervento, è consigliabile applicare l’azoto in due o tre volte per evitare eccessive perdite per lisciviazione. In passato, la distribuzione dei concimi azotati avveniva erroneamente non frazionata, a spaglio e a fine inverno, spesso in anticipo sulla schiusura delle gemme, in una fase in cui l’assorbimento minerale è limitato e in cui l’albero utilizza sostanzialmente le riserve accumulate nell’anno precedente. Questa tecnica provoca un forte squilibrio fisiologico perché subito dopo la concimazione la quantità di nutrienti a disposizione della pianta diventa molto elevata, soprattutto nel caso dell’azoto. Tale errore non si limita a prolungare il ciclo vegetativo della pianta, ma provoca anche lo scadimento qualitativo dei frutti e ne compromette la conservabilità. La fertilizzazione del frutteto, specialmente quella azotata, è stata considerata erroneamente per molto tempo come uno strumento necessario per incrementare la produttività. Occorre invece evitare gli eccessi di questo elemento utilizzando somministrazioni annuali non superiori a 60-80 kg/ha nelle condizioni pedologiche della Pianura Padana. Una eccessiva concimazione azotata, ripetuta per più anni, è in grado di aumentare il contenuto di azoto nel terreno al punto che l’interruzione delle somministrazioni, per alcuni anni, raramente compromette l’esito produttivo in frutteti adulti. Queste considerazioni devono essere tenute presenti anche in chiave di impatto ambientale. Il problema della presenza di nitrati nella falda freatica e nell’acqua potabile, in particolare, è molto rilevante nel caso di terreni sciolti, ma non deve essere sottostimato anche nei terreni a tessitura più fine.
Concimazione fogliare
• Prevede la distribuzione del concime in soluzione acquosa sulla chioma
• La penetrazione degli elementi nutritivi, sottoforma ionica, avviene attraverso gli stomi ed i peli della foglia e quindi nella pagina inferiore l’assorbimento è più elevato rispetto a quella superiore
• I fattori che influenzano maggiormente l’efficacia dell’applicazione sono: la temperatura, il gradiente di concentrazione dello ione, la bagnabilità e il grado di diffusione degli ioni attraverso la cuticola
• La penetrazione dei cationi
è solitamente maggiore di quella degli anioni e inversamente proporzionale alla loro dimensione e quindi decresce passando da K a Mg e a Ca
• Il pH gioca un importante ruolo, infatti a pH 3 gli anioni sono favoriti mentre a valori superiori prevalgono i cationi
Azoto disponibile in natura
• Azoto molecolare N2 • Azoto nitrico NO3• Azoto nitroso NO2• Azoto ammoniacale NH4+ • Forma organica, sotto forma amminica negli aminoacidi e come azoto negli acidi nucleici
Distribuzione del fertilizzante
110
tecnica colturale Principali caratteristiche dei macro- e microelementi Azoto (N). Rappresenta l’elemento più importante per lo sviluppo e la produzione. L’azoto presenta numerosi stati di ossidazione. Sotto forma di azoto molecolare (N2), livello di ossidazione zero, è abbondantissimo (costituisce l’80% dell’atmosfera). La forma ammoniacale al di sopra di certi livelli può essere tossica per la pianta e per tale motivo viene utilizzata per la formazione degli aminoacidi in modo da evitare fenomeni di accumulo. È stato provato però che la forma ammoniacale, applicata durante la formazione delle gemme, anche per un breve periodo, esercita un effetto positivo. È probabile che l’ammonio esogeno induca anche cambiamenti ormonali influenzando la produzione di citochinine e di gibberelline. Alte concentrazioni di azoto nitrico agiscono invece in direzione opposta ritardando la fioritura e riducendo la differenziazione. II consumo di azoto per anno in un impianto medio di pero in piena produzione è di circa 40-50 kg/ha. La maggiore richiesta di azoto, da parte dell’albero, avviene nel periodo compreso tra fine aprile e inizio luglio. La maggior parte del fabbisogno di azoto per la fioritura deve essere coperto dalle riserve dell’albero, in quanto l’assunzione di sostanze nutritive da parte delle radici in quel periodo è ancora molto scarsa. Per rendere l’azoto del terreno disponibile alla pianta è determinante il processo di mineralizzazione, che a sua volta dipende dalle temperature e dall’umidità e dalle forme viventi presenti nel
Effetti della carenza di azoto
• Ridotto accrescimento della pianta • Formazione di foglie più piccole e clorotiche soggette a precoce filloptosi autunnale
• Produzioni scarse • Minore allegagione dei frutti • Minore pezzatura
Effetti dell’eccesso di azoto
• Ritardo nella maturazione • Minore fruttificazione
Foto U. Parmeggiani
Foto U. Parmeggiani
Fertirrigazione localizzata lungo la fila Distribuzione di un fertilizzante liquido
111
coltivazione Ciclo interno dell’azoto Foto R. Balestrazzi
Primavera Rimobilizzazione
Inverno
Assorbimento
Radici, fusto, branche e rami
Foglie
Estate
Assorbimento Ritraslocazione Autunno
Nitrato ammonico Millard, 1996; Quartieri et. al, 2002
Effetti della carenza di fosforo
terreno. A temperature del terreno inferiori ai 10 °C la mineralizzazione è scarsa, tra 17° e 20 °C, invece, è ottimale. La mineralizzazione è limitata anche nei terreni troppo secchi o troppo bagnati. Una buona aerazione del terreno consente di aumentare la mineralizzazione.
• Riduzione dello sviluppo di radici • Scarsa fruttificazione
Fosforo (P). Nelle cellule, il fosforo è presente principalmente sotto forma di fosfato inorganico. Il fosforo è un elemento strutturale del DNA e dell’RNA e serve per collegare le molecole fosfolipidiche delle membrane; è anche coinvolto nel trasferimento di energia attraverso la formazione di ATP e la sintesi di zuccheri. Il fosforo è un antagonista nell’assunzione dell’azoto. La presenza di fosforo favorisce invece l’assunzione di calcio e di magnesio. Il fosforo è per la maggior parte legato a livello organico ed è di difficile mobilizzazione nel terreno. La disponibilità dipende molto dal pH (valore ottimale del pH 5,5-6,5). A valori superiori o inferiori rispetto a quelli ottimali il fosforo viene fissato molto rapidamente e diviene inutilizzabile per le piante. Anche le micorrize sono fondamentali nei processi di liberazione e assimilazione del fosforo. Le piante assumono fosforo soprattutto all’inizio del ciclo vegetativo. Le radici assorbono fosforo quando la sua concentrazione nella soluzione circolante è compresa tra 0,5 e 10 micromoli. L’accumulo di questo elemento nelle foglie è massimo a luglio, mentre nei frutti il suo assorbimento segue l’accrescimento del frutto stesso e continua fino alla raccolta. Le asportazioni annue di fosforo sono pari a 25-50 kg/ha di P2O5 assimilabile.
Effetti dell’eccesso di fosforo
• Minore assorbimento di alcuni
microelementi (ferro, boro, zinco, rame)
• Ridotto assorbimento di azoto Foto R. Balestrazzi
Perfosfato triplo
112
tecnica colturale Potassio (K). Nella pianta il potassio è importante soprattutto per l’equilibrio idrico; infatti, è uno dei principali regolatori del potenziale osmotico. Il potassio è il più abbondante catione nel citoplasma cellulare e svolge una importante azione su: stabilizzazione del pH, osmoregolazione, attivazione di enzimi, sintesi di proteine, movimenti stomatici e fotosintesi. La sua capacità di riduzione della traspirazione è legata al fatto che gli stomi richiedono un accumulo di potassio a livello delle cellule di guardia per la loro apertura. In carenza di potassio si ha una riduzione della traspirazione poiché gli stomi non si aprono. Anche la colorazione del frutto è legata al livello di potassio perché a basse concentrazioni diminuisce la fotosintesi e quindi si ha una minore produzione di zuccheri che sono alla base della formazione di pigmenti colorati. Nella stagione vegetativa il fabbisogno di potassio inizialmente è piuttosto basso, ma aumenta rapidamente con la fruttificazione, parallelamente con la crescita dei frutti. Il contenuto di potassio è simile a quello di azoto e calcio. Valori di 1,5-1,8%, riferiti al peso secco delle foglie alla fine di luglio, sono generalmente considerati adeguati. I primi sintomi di potassio carenza compaiono, infatti, quando la concentrazione scende sotto lo 0,7%. Il potassio nei terreni argillosi è poco mobile, mentre nei terreni sabbiosi, poveri di particelle colloidali, è facilmente dilavabile. Il potassio viene assimilato maggiormente in condizioni di umidità elevata. Le asportazioni annue di potassio sono pari a circa 80-90 kg/ha di K2O.
Ruolo del potassio
• È fondamentale per l’espansione cellulare, in quanto favorisce l’allargamento del vacuolo
• Influenza la colorazione dei frutti
Effetti della carenza di potassio
• Riduzione della traspirazione • Disseccamento del margine fogliare e degli apici
• Formazione di frutti piccoli • Scarsa colorazione dei frutti • Ridotta conservabilità dei frutti • Minore resistenza al freddo
Magnesio (Mg). II fabbisogno di magnesio è particolarmente elevato in caso di crescita intensa. Il pero è, tra le piante da frutto, mediamente esigente di questo elemento. In caso di magnesio carenza si possono verificare fenomeni di clorosi e di anticipata filloptosi. Il magnesio è un elemento mobile e in caso di carenza può venire trasportato dalle foglie vecchie a quelle giovani. Questo, di conseguenza, provoca la comparsa di sintomi di clorosi internervale e successivamente la caduta delle foglie più vecchie. Il suo contenuto fogliare varia da 0,3 a 0,5% del peso secco rispetto all’1,2-1,8% del calcio. L’assorbimento di magnesio può essere negativamente influenzato, quando il pH è basso, da altri cationi quali NH4+, Ca2+, Mn2+, H+ e, soprattutto, da K+. L’asportazione annua è di circa 20 kg/ha come MgO.
Effetti dell’eccesso di potassio
• Ridotto assorbimento di magnesio e calcio
Ruolo del magnesio
• È un componente essenziale della clorofilla
• È importante nella formazione dei carotenoidi
Calcio (Ca). Il movimento del calcio nei tessuti richiede una elevata quantità di fotosintati. L’assorbimento di calcio, infatti, diminuisce quando viene inibita la traspirazione. Occorre quindi considerare il calcio come un elemento che richiede energia. In modo analogo all’assorbimento anche la sua traslocazione è passiva. Il calcio viene trasportato per via xilematica e segue il flusso traspiratorio. Nelle piante in attiva crescita il calcio è traslocato principal-
• Indirettamente è responsabile
dell’approvvigionamento di assimilati da parte del frutto
113
coltivazione mente all’apice del germoglio in crescita. Il trasporto ai punti in attiva crescita è garantito dall’acido indolacetico (IAA) prodotto dagli apici, questo garantisce la formazione di protoni e l’allungamento dell’apice stesso. Il trasporto basipeto dell’IAA prodotto durante la crescita forza lo ione Ca2+ a venire traslocato verso l’alto. Questo è importante perché il trasporto del calcio al frutto diminuisce quando la sintesi dell’IAA cessa; ecco perché si dice che il calcio deve essere accumulato precocemente, 4-6 settimane dopo la fioritura. Il calcio, inoltre, non viene trasportato per via floematica; questo significa che le applicazioni di calcio devono essere mirate al frutto perché se applicato alle foglie non viene traslocato ad altre parti dell’albero. L’accumulo del calcio nelle foglie avviene finché il flusso traspiratorio si mantiene elevato.
Ruolo del calcio
• È probabilmente l’elemento più
importante per la qualità della frutta, permettendone una conservazione prolungata
• Legandosi nella lamella mediana
all’acido poligalatturonico forma i pectati, che assicurano un’elevata coesione tra le cellule
• Favorisce la lignificazione e aumenta la resistenza al freddo
Ferro (Fe). È un elemento coinvolto in numerosi processi all’interno della pianta e, in particolare, svolge un’azione importante nella sintesi della clorofilla; la sua carenza, infatti, può indurre la comparsa di un fenomeno chiamato clorosi, che consiste in un ingiallimento più o meno pronunciato degli spazi internervali delle foglie apicali, che nei casi più gravi può originare delle necrosi. Questo fenomeno fisiologico compare in diverse specie, quando sono coltivate in suoli calcarei, ma diventa particolarmente grave quando il pero è innestato su cotogno. Infatti, il cotogno è molto sensibile all’azione del calcare attivo (frazione solubile) e induce, al superamento della soglia del 3-4%, forti sintomi di clorosi influenzando negativamente l’efficienza fotosintetica delle foglie colpite.
Effetti della carenza di calcio
• Minore sviluppo delle radici • Minore serbevolezza dei frutti • Maggiore sensibilità al freddo Effetti dell’eccesso di calcio
• Clorosi ferrica Piante in ottime condizioni vegetative
114
tecnica colturale Occorre inoltre ricordare che gli alberi da frutto sono specie poliennali; di conseguenza la clorosi ferrica che si manifesta in una stagione vegetativa influenza negativamente anche la nutrizione ferrica nell’anno successivo. Le fasi della ripresa vegetativa e della fioritura vengono sostenute dal ferro immagazzinato l’anno precedente. Infatti, è noto che gli alberi accumulano notevoli quantità di ferro nelle loro radici il quale può essere rimobilizzato. La clorosi si manifesta soprattutto in quel settore della chioma direttamente collegato alla porzione del sistema radicale che non assorbe il ferro. Dal punto di vista dell’assorbimento del ferro da parte dell’apparato radicale, le piante possono essere suddivise in specie a “strategia I” e “strategia II”, a seconda del sistema di assorbimento del ferro che sono in grado di adottare. Il pero, come tutti i fruttiferi, rientra fra quelli a “strategia I”, in cui l’assorbimento del ferro dal suolo è preceduto dalla sua riduzione da Fe3+ a Fe2+. Altre specie vegetali, come per esempio le graminacee, adottano la “strategia II” di assorbimento e cioè liberano nel terreno composti, chiamati fitosiderofori, capaci di chelare il ferro. Nelle piante a “strategia I” la riduzione del ferro avviene ad opera di un enzima (Fe-chelato-reduttasi) che, associato al plasmalemma, è in grado di trasportare elettroni da NADH citosolico a Fe3+ apoplastico chelato a varie molecole organiche. L’attività della Fe-chelato-reduttasi è influenzata dal pH della rizosfera e viene inibita a valori superiori a 6. Boro (B). Il boro entra in numerosi processi fisiologici dell’albero, tra i principali possiamo ricordare il metabolismo glucidico, l’induzione antogena e la germinabilità del polline. Il boro, inoltre, aumenta la divisione cellulare e la sintesi di acidi nucleici nei frutti in crescita e questo esercita una grossa influenza sull’allegagione. Condizioni di boro-carenza sono generalmente associate a una reazione anomala del terreno o a squilibri idrici. Nel pero, la carenza può provocare scarsa allegagione, deformazioni dei frutti, aree suberose nella polpa. Gli internodi dei germogli possono essere raccorciati e formare una sorta di rosetta. La normale concentrazione nelle foglie è di 35-40 ppm, mentre livelli di 25 ppm sono considerati insufficienti; al di sotto di 12 ppm i sintomi di carenza diventano visibili e al di sopra di 80 ppm diventano evidenti gli effetti tossici da eccesso. Le applicazioni autunnali di boro aumentano il contenuto nella pianta nella primavera successiva e quindi sono una pratica comune nel pero. I trattamenti con formulati a base di chelati vengono effettuati anche in primavera, dall’inizio fioritura, evitando applicazioni in piena fioritura.
Sintomi di clorosi ferrica su pero
Prevenzione della clorosi ferrica
• L’applicazione di chelati di ferro è
attualmente il mezzo di cura più diffuso contro la clorosi ferrica
• L’applicazione di questi formulati può
essere eseguita: - al terreno, mediante fertirrigazione o con pali iniettori oppure con semplici sistemi a goccia nel periodo della ripresa vegetativa - alla chioma, mediante irrorazione fogliare
115
coltivazione Analisi del terreno Le analisi delle caratteristiche fisiche e chimiche dovrebbero essere sempre effettuate prima di mettere a dimora un frutteto per sapere l’idoneità del terreno a ospitare le differenti specie frutticole. Gli interventi colturali possono poi modificare le caratteristiche del terreno, variandone anche la fertilità. Per questa ragione occorre monitorare periodicamente il terreno attraverso l’analisi chimica per valutare eventuali problemi e attuare, in caso di necessità, adeguati interventi.
Analisi di base del terreno
• Scheletro • Tessitura (sabbia, limo, argilla) • Carbonio organico • Reazione del suolo • Calcare totale e calcare attivo • Conduttività elettrica • Azoto totale • Fosforo assimilabile • Capacità di scambio cationico (CSC) • Basi di scambio (potassio scambiabile,
Foto P. Viggiani
calcio scambiabile, magnesio scambiabile, sodio scambiabile)
Analisi accessorie del terreno
• Microelementi assimilabili (ferro, manganese, zinco, rame)
• Acidità • Boro solubile • Zolfo • Fabbisogno in calce • Fabbisogno in gesso
Strumento per la misura della stabilità della struttura del terreno
Diagnostica fogliare Negli ultimi anni la diagnostica fogliare è diventata sempre più importante perché permette, insieme alle analisi del terreno, di impostare un razionale piano di fertilizzazione. Nella pianta, le foglie, oltre a compiere importanti processi fisiologici come la fissazione del carbonio, la respirazione e molti altri processi, svolgono anche la funzione di accumulo di sostanze di riserva. Di conseguenza, valutando in un de terminato periodo del loro sviluppo il livello raggiunto dagli elementi nutritivi, si può fornire una risposta precisa sullo stato nutrizionale delle piante. Altra importante funzione è la diagnosi precoce di condizioni di squilibrio, in particolare dei microelementi, non facilmente individuabili attraverso il solo esame visivo. Il contenuto in nutrienti presenti nelle foglie dipende da vari fattori: l’età, il tipo e la posizione della foglia, la disponibilità di nutrienti del suolo, la combinazione nesto-portinnesto, l’entità della produzione, la funzionalità dell’apparato radicale ecc.
Foto P. Viggiani
Campioni di terreno da sottoporre ad analisi
116
tecnica colturale
Foto P. Viggiani
Verifica del contenuto dei nutrienti Scelta dell’idoneo metodo irriguo
Scelta delle cultivar e dei portinnesti adatti
ANALISI DEL TERRENO
Ottimizzazione delle lavorazioni
Elaborazione del corretto piano di concimazione pHmetro per la determinazione della reazione del suolo
L’analisi del terreno rappresenta un supporto indispensabile ai fini di una corretta gestione della coltura
Foto P. Viggiani
L’interpretazione dei risultati delle analisi viene eseguita attraverso un confronto dei dati ottenuti con parametri di riferimento precedentemente individuati. L’interpretazione del dato analitico viene fatta basandosi sul fatto che, a una certa concentrazione dell’elemento nelle foglie, corrisponde un determinato stato nutrizionale (scarso, ottimale, eccessivo).
Concentrazione degli elementi minerali nelle foglie di Abate Fétel a metà luglio Elemento
Intervallo di variazione
Media
Min
Max
N (%)
2,00-2,45
2,23
1,79
2,69
P (%)
0,14-0,20
0,17
0,11
0,28
K (%)
0,80-1,50
1,15
0,59
1,88
Ca (%)
1,10-1,90
1,50
0,92
2,60
Mg (%)
0,35-0,50
0,43
0,3
0,65
B (ppm)
15-50
33
13
78
Fe (ppm)
60-95
77
50
127
Mn (ppm)
20-60
40
19
120
Cu (ppm)
25-195
110
17
380
Zn (ppm)
45-260
153
22
387
Kjeldal per la determinazione del contenuto di azoto nel terreno Foto P. Viggiani
Porosimetro a intrusione di mercurio
Toselli et al., 2002
117
coltivazione Dinamica dell’acqua nel terreno L’acqua è presente nel terreno in due forme: come soluzione circolante e come vapore. Il terreno ha una capacità di invaso complessiva che prende il nome di “capacità idrica massima” che corrisponde alla porosità e quindi alla quantità massima di soluzione circolante che può saturare il terreno. Lo stato di massima saturazione è comunque transitorio; infatti parte dell’acqua tende a percolare. Questo tipo di acqua è detta acqua gravitazionale o di percolazione e non è utilizzabile dalle piante. Quando l’acqua gravitazionale è stata eliminata, il contenuto idrico del terreno corrisponde alla capacità idrica minima (capacità di campo) che può essere pari al 40% del peso secco nei terreni a tessitura fine e sul 15% nei terreni a tessitura grossolana. L’umidità residua è formata da due frazioni: acqua capillare e acqua igroscopica. Solo l’acqua capillare è effettivamente disponibile per le piante. Questa disponibilità deriva dalle precipitazioni o dalle irrigazioni. L’acqua igroscopica è quella che un terreno essiccato a 120 °C è in grado di riassorbire dall’atmosfera. L’acqua igroscopica non è utilizzabile dalle piante; le radici non funzionano più quando il contenuto di acqua è prossimo al coefficiente di appassimento che per le specie più sensibili è intorno al 15% nei terreni a tessitura fine e al 4% per quelli a tessitura grossolana. Conoscendo la quantità d’acqua corrispondente alla capacità idrica di campo (CIC) e quella del punto di appassimento (PA) si può calcolare, per differenza, l’acqua disponibile (AD) o riserva
Capacità idrica del terreno
• Nel terreno l’acqua è presente
in diverse frazioni (gravitazionale, capillare, igroscopica), che nell’insieme costituiscono la “capacità idrica massima” di un terreno
• Le differenti frazioni variano in rapporto alla tessitura del terreno
• L’acqua capillare è l’unica
frazione utilizzata dalle piante e la sua disponibilità dipende dalle precipitazioni e dalle irrigazioni
Ripartizione delle diverse frazioni d’acqua nel terreno in funzione del suo peso secco (%) A. gravitazionale
50
(% peso secco)
A. igroscopica
A. capillare
40
30
20
10
ric
Acqua disponibile
0
T. argilloso
s gro
m
inim
te i
ica
am
ien
idr
aci tà id
ffic Coe
à cit pa Ca
Ca p
ico
a
cop
sim as
a
T. sabbioso (% peso secco)
50
40
118
30
20
15
10
4
0
tecnica colturale utile per le piante. L’esaurimento dell’acqua disponibile avviene per effetto dell’evaporazione dal terreno e dall’assorbimento-traspirazione delle piante. Alla diminuzione dell’umidità del terreno corrisponde un aumento delle forze (adsorbimento e tensione) che trattengono l’acqua nei pori. Queste forze originano il potenziale matriciale (Ψm), che viene misurato in bar. I metodi più utilizzati per la misura del contenuto idrico del terreno sono quelli tensiometrici ed elettrometrici. Il metodo tensiometrico si basa sull’utilizzo di uno strumento chiamato tensiometro, costituito da un cilindro alle cui estremità sono posti un serbatoio d’acqua e una coppetta porosa. Il tubo può avere una lunghezza variabile e può essere inserito nel terreno alla profondità alla quale si desidera misurare l’umidità ed è collegato a un manometro. L’acqua passa attraverso la coppetta porosa nel terreno fino a trovarsi in equilibrio con questo. Si determina quindi una depressione che viene misurata dal manometro. Questo strumento, di basso costo e di facile uso, è limitato pur troppo da un campo di misura compreso fra 0 e –0,8 bar. L’impiego di questo metodo richiede almeno due tensiometri posti a due differenti profondità, rispettivamente 20 cm e 40 cm, e a una distanza dal gocciolatore di 35 cm. Se vengono posizionati in modo erroneo le informazioni fornite saranno poco affidabili. Con il metodo elettrometrico, il contenuto idrico del suolo viene determinato attraverso la misura della resistenza elettrica di un oggetto posto in equilibrio idrostatico con il terreno. Solitamente sono utilizzati dei blocchetti di gesso detti “di Bouyoucos” in cui sono immersi i due elettrodi di misura collegati a un ohmetro.
Metodi per la misura del contenuto idrico del terreno
• Gravimetrico • Tensiometrico • Elettrometrico • Conducibilità termica • Termalizzazione dei neutroni
Irrigazione I volumi idrici utilizzati per l’irrigazione nel Sud Europa sono molto elevati a causa del clima mediterraneo caratterizzato da scarsa piovosità e da un’elevata evapotraspirazione nel periodo primaverile-estivo; questa fase coincide solitamente con lo sviluppo vegetativo delle principali colture. Nel nostro Paese esistono notevoli differenze: il deficit idrico medio annuo (evapotraspirazione di riferimento al netto delle piogge), durante il periodo marzo-settembre è di circa 650 mm negli ambienti meridionali e di 400 mm in quelli settentrionali. L’irrigazione delle colture frutticole è una pratica in forte espansione in tutti gli ambienti di coltivazione, essenziale per l’ottenimento di buoni risultati quanti-qualitativi e per la sostenibilità economica delle aziende frutticole. L’inizio della stagione irrigua è un momento molto importante, specialmente per l’irrigazione localizzata, perché con questo metodo si apporta l’acqua in una parte limitata del terreno. Se si inizia tempestivamente, le riserve profonde restano intatte. Occorre anche ricordare che le piante assorbono l’acqua dai punti più bagnati in prossimità del tronco e negli strati superficiali.
Tensiometro
Vantaggi dell’irrigazione
• Rapida entrata in produzione • Positivo effetto sulla pezzatura dei frutti
• Riduzione dell’alternanza di produzione
119
coltivazione Volumi e turni. Per definire questi parametri occorre conoscere le esigenze idriche della specie e la riserva utile del terreno. Il turno è l’intervallo che intercorre tra una somministrazione di acqua e l’altra. I consumi sono in relazione alla domanda evaporativa dell’ambiente e all’area traspirante. Occorre conoscere la piovosità, l’evapotraspirazione potenziale ETP o l’evaporato della vasca di classe A e i fattori di correzione (coefficienti colturali). Velocità di infiltrazione. Per scegliere la tipologia dell’impianto d’irrigazione e la portata degli irrigatori occorre conoscere la velocità con cui l’acqua attraversa il terreno; infatti la velocità d’infiltrazione dipende dalla porosità del suolo. Vengono definiti molto permeabili quei terreni la cui velocità di infiltrazione è maggiore di 60 cm/h; al contrario sono poco permeabili quelli in cui tale velocità è inferiore a 5 cm/h.
Pluviometro per la determinazione della piovosità
Volume massimo di irrigazione (mm)
Incrociando i valori percentuali di sabbia e argilla è possibile determinare la quantità d’acqua ottimale da distribuire alle colture, tenuto conto del tipo di terreno
Argilla % 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 0
53 53 52 52 51 51 51 50 50 49 48 48 47
5
52 51 51 51 50 50 50 49 49 48 48 47 47
Valori percentuali di argilla nel terreno
10 50 50 50 49 49 49 48 48 48 47 47 46 46 15 49 48 48 48 48 48 47 47 47 46 46 45 45 20 47 47 47 47 47 46 46 46 46 45 45 45 44 S a b b i a %
25 45 45 45 45 45 45 45 45 44 44 44 43 43 30 44 44 44 44 44 43 43 43 43 43 43 42 42 35 42 42 42 42 42 42 42 42 42 42 41 41
-
40 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40
-
-
45 38 38 38 38 38 39 39 39 39 39
-
-
-
50 36 36 36 36 37 37 37 37 37
-
-
-
-
55 33 34 34 34 35 35 35 35
-
-
-
-
-
60 31 32 32 32 33 33 33
-
-
-
-
-
-
65 29 29 30 30 31 31
-
-
-
-
-
-
-
70 26 27 27 28 28
-
-
-
-
-
-
-
-
Esempio di volume di irrigazione (m3/ha o mm/ha) ottimale da distribuire e da non superare (terreno con il 40% di sabbia e il 55% di argilla)
Valori percentuali di sabbia nel terreno Le tabelle per il calcolo del volume e del turno di irrigazione sono riprese da Batilani et. al., 1998.
120
tecnica colturale Turno di irrigazione (giorni) Argilla %
Incrociando i valori di sabbia e argilla è possibile determinare il turno di irrigazione ottimale per la coltura, tenuto conto del tipo di terreno
10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 0
16 16 16 16 16 15 15 15 15 15 15 14 14
5
16 16 15 15 15 15 15 15 15 15 14 14 14
10 15 15 15 15 15 15 15 15 14 14 14 14 14 15 15 15 15 15 15 14 14 14 14 14 14 14 13
Valori percentuali di argilla nel terreno
20 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 13 13 S a b b i a %
25 14 14 14 14 14 14 14 14 13 13 13 13 13 30 13 13 13 13 13 13 13 13 13 13 13 13 12 35 13 13 13 13 13 13 13 13 13 13 13 12
-
40 12 12 12 12 12 12 12 12 12 12 12
-
-
45 11 11 12 12 12 12 12 12 12 12
-
-
-
50 11 11 11 11 11 11 11 11 11
-
-
-
-
55 10 10 10 10 11 11 11 11
-
-
-
-
-
60
9
10 10 10 10 10 10
-
-
-
-
-
-
65
9
9
9
9
9
9
-
-
-
-
-
-
-
70
8
8
8
8
9
-
-
-
-
-
-
-
-
Esempio di turno: 14 = numero di giorni intercorrenti tra due momenti irrigui tenuto conto della composizione del terreno (argilla 40% e sabbia 20%)
Valori percentuali di sabbia nel terreno
Metodi di irrigazione Il principale metodo con cui viene praticata l’irrigazione è la distribuzione localizzata, anche se l’aspersione mantiene una certa importanza.
Evaporimetro di classe A
Impatto ambientale della pratica irrigua
Classificazione dei metodi irrigui
• In base a dove viene somministrata Caratteristiche del terreno
SCELTA DEL METODO IRRIGUO
Clima della zona
l’acqua si distingue tra: irrigazione soprachioma e sottochioma
Qualità dell’acqua
• In funzione del metodo di
somministrazione dell’acqua si distingue tra: metodi gravitazionali (scorrimento e sommersione), aspersione e irrigazione localizzata
Costi d’investimento e manutenzione
Aspetti da valutare per la scelta del metodo irriguo
121
coltivazione Irrigazione localizzata. È la tecnica che negli ultimi dieci anni ha avuto la maggiore diffusione nei nuovi impianti e spesso viene associata alla somministrazione di concimi. Le peculiari caratteristiche dell’irrigazione a goccia sono quelle di localizzare l’acqua senza bagnare l’intera superficie del terreno, e di irrigare con piccoli e frequenti volumi irrigui. Anche in questo settore si è assistito a una sorta di rivoluzione e si può affermare che la fertirrigazione si è diffusa per le densità di impianto più elevate. Gli impianti di irrigazione localizzata sono normalmente costituiti da ali gocciolanti autocompensanti, stese subito dopo l’impianto, che garantiscono un’uniforme distribuzione dell’acqua e dei fertilizzanti. I sistemi localizzati possono essere classificati in funzione della quantità di acqua erogata e delle modalità di distribuzione in: goccia, spruzzo, sorso, subirrigazione capillare, manichette forate. L’irrigazione localizzata prevede che ci sia una stazione di pompaggio fornita di apparati di filtraggio, regolatori di pressione e, se associata alla concimazione, anche pompe per l’iniezione del fertilizzante. È questo il metodo più recente e che si sta diffondendo maggiormente perché massimizza l’efficienza d’uso dell’acqua (90-95%).
Distribuzione localizzata dell’acqua
Vantaggi dell’irrigazione localizzata
• Acqua distribuita solo dove serve • Turni frequenti e volumi ridotti • Può servire anche per la distribuzione
Distribuzione dell’acqua nel terreno in funzione al tipo di suolo
di concimi (fertirrigazione)
• Controllo del pH della soluzione nutritiva
Particolare di una manichetta autocompensante con gocciolatore interno
122
Argilloso
Medio impasto
Sabbioso
Con suola impermeabile
tecnica colturale Esempio di cattiva distribuzione dei gocciolatori per eccessiva distanza Cause di inefficienza dell’irrigazione localizzata
• Eterogeneità delle portate tra i gocciolatori
220 cm
• Eccessiva localizzazione dell’acqua • Perdita d’acqua per percolazione • Posizione inadeguata dei gocciolatori
220 cm
L’applicazione di una gestione controllata dell’irrigazione è sicuramente la soluzione più efficace per risparmiare acqua salvaguardando le produzioni e la qualità dei frutti. Il momento d’intervento e la scelta del volume d’irrigazione sono determinati attraverso sistemi esperti di bilancio idrico. SDI (Subsurface Drip Irrigation: irrigazione a goccia sottosuperficiale). L’innovazione tecnologica più recente nell’irrigazione localizzata è rappresentata dalle ali gocciolanti autocompensanti interrate a profondità variabili da 20 a 50 cm. Questo sistema permette di apportare l’acqua direttamente nella zona esplorata dall’apparato radicale degli alberi, con una efficienza irrigua prossima al 100%. Recenti acquisizioni sperimentali hanno accertato, inoltre, la possibilità di impiegare la cosiddetta irrigazione a goccia fotovoltaica (solardrip), con la quale si abbina al risparmio idrico anche quello energetico.
Stazione di pompaggio dell’acqua e dei fertilizzanti
Impianto di irrigazione a goccia
123
coltivazione Stress idrico controllato. Il sistema dello stress controllato prevede 4 fasi caratterizzate da una differente disponibilità idrica. La prima, che va dalla fioritura all’allegagione, prevede che nel terreno sia presente circa l’80 % dell’acqua disponibile. La seconda inizia sessanta giorni dopo la fioritura e dura fino al termine dello sviluppo dei germogli; in questa fase occorre ridurre al 20% l’acqua disponibile. Nella terza fase occorre aumentare la disponibilità di acqua nel terreno fino a riportarla ai livelli di circa l’80% e tale valore va mantenuto durante lo sviluppo dei frutticini e la raccolta. Nell’ultima fase post raccolta la riduzione dell’acqua, quando è possibile, deve essere praticata fino al 20% dell’acqua disponibile per evitare riscoppi vegetativi in caso di temperature miti. Occorre evidenziare come questo sistema sia di difficile applicazione in aree caratterizzate da elevata piovosità estiva.
Foto U. Parmeggiani
Irrigazione localizzata e fertirrigazione. Uno dei vantaggi del sistema di microirrigazione a goccia è quello di poter essere associato alla distribuzione dei fertilizzanti secondo la tecnica detta di fertirrigazione. Utilizzando la fertirrigazione i risultati produttivi sono quasi sempre migliori rispetto all’aspersione abbinata alla fertilizzazione tradizionale.
Cisterne nelle quali viene preparata la soluzione nutritiva
Metodi per aspersione. Possono essere classificati, in base al tipo di installazione, in: fissi, semifissi, semoventi e mobili. Nella moderna pericoltura, quelli più importanti sono i fissi che possono essere utilizzati, oltre che per l’irrigazione, anche per modificare il microclima (antibrina, climatizzazione estiva) e i semifissi. Questi hanno la stazione di pompaggio e la condotta principale fissa mentre le ali sono mobili. Gli impianti mobili sono poco utilizzati perché hanno un alto costo di gestione; vengono impiegati generalmente nei vivai. L’efficienza di distribuzione dell’acqua è del 65-75% circa.
Calcolo del fabbisogno irriguo VI x Eff = ET + D + R - P - Af -S (m3/ha) (10 x Sb)
• VI = volume idrico da restituire (m3/ha) • Eff = efficienza dell’impianto irriguo (%) • Sb = superficie di suolo bagnata dall’impianto irriguo (%)
• 10 =3 coefficiente di conversione da mm a m /ha
Foto O. Nicoli
• ET = consumi per evapotraspirazione (mm)
• D = perdite per drenaggio e percolazione (mm)
• R = perdite per ruscellamento superficiale (mm)
• P = apporti idrici naturali da pioggia (mm) • Af = apporti idrici naturali da falda (mm) • S = apporto idrico dalla riserva idrica del suolo (mm)
Applicazione dell’irrigazione antibrina
124
tecnica colturale Salinità La salinità è uno dei principali fattori limitanti la produttività delle piante. Gli effetti negativi della salinizzazione secondaria sono molto diffusi in frutteti irrigati. Si stima che oltre il 20% dei terreni irrigati sia interessato da problemi di salinità. Solitamente il pero è coltivato in zone in cui la salinità è relativamente limitata. Però in alcune aree costiere e quando si utilizza il sistema della fertirrigazione queste problematiche possono diventare molto frequenti. La tolleranza al sale è legata alla capacità di molte specie di controllare l’assorbimento radicale di sodio e cloro e il loro trasporto alle foglie. I genotipi di pero e di cotogno hanno evidenziato un diverso comportamento nell’assorbimento e nel trasporto di sodio e cloro. Infatti i cotogni non sono in grado di evitare questo accumulo, mentre il pero, attraverso una strategia di esclusione, riesce a evitare tale accumulo nelle foglie.
Effetti da eccesso di salinità
• Marcata diminuzione del potenziale idrico del terreno
• Accumulo di sodio e cloro a livelli tossici • Squilibrio nutrizionale legato
all’assorbimento anomalo di altri elementi
Cause della stanchezza del terreno
• Nematodi • Patogeni del terreno (funghi e batteri) • Tossine • Diminuzione della fertilità (fisica
Reimpianto e stanchezza del terreno L’impiego di protezioni antigrandine ha portato all’aumento delle problematiche legate al reimpianto, in quanto il frutticoltore tende a reimpiantare gli alberi nella stessa posizione. I problemi del reimpianto possono essere specifici e non specifici. I primi si manifestano solo quando è la stessa specie a
e chimica) del terreno
Reimpianto
125
coltivazione essere reimpiantata e sono spesso causati da patogeni fungini; i secondi si riferiscono a una ridotta crescita di numerose piante da frutto, indipendentemente dalla specie coltivata precedentemente sullo stesso terreno. Il riconoscimento delle cause principali che possono compromettere il successo del reimpianto è importante per la scelta dei mezzi di prevenzione e di contenimento degli effetti negativi. Controllo della fruttificazione Il pero è una specie autoincompatibile caratterizzata da una sterilità fattoriale di tipo gametofitico sotto il controllo di un complesso di geni chiamato “locus S”. Questa sterilità dipende dall’interazione tra il polline (aploide) e il pistillo (diploide). Per questa ragione il pero necessita di una impollinazione incrociata; occorre quindi coltivare almeno due cultivar con una differente combinazione allelica al “locus S” per permettere la fecondazione e la formazione del seme. Nel pero è comunque presente anche la partenocarpia, cioè la possibilità di sviluppare frutti in assenza dell’atto fecondativo. I frutti che ne derivano sono caratterizzati dall’assenza dei semi. Per questa ragione l’impiego di fitoregolatori, stimolando il fenomeno della partenocarpia, assume una notevole importanza nella regolazione della fruttificazione e dello sviluppo vegetativo dell’albero, riducendo anche il fenomeno dell’alternanza di produzione.
Effetto degli alleganti Foto R. Angelini
Tecniche per favorire l’allegagione L’allegagione è sicuramente la fase più delicata per il pero, a causa dei ben noti problemi di fertilità. Per favorire e aumentare l’allegagione sono state messe a punto molte tecniche basate sia sull’applicazione di fitoregolatori esogeni, sia sull’apporto di particolari elementi nutritivi come il boro o il calcio, che possono aumentare la germinabilità del polline. I trattamenti si basano principalmente sull’impiego di gibberelline o di miscele tra gibberelline e citochinine e in generale di trattamenti ormonali che stimolano la partenocarpia. Questa pratica risulta essere molto diffusa in caso di danni da gelo, che provocano la necrosi degli embrioni dei semi, in queste condizioni il trattamento deve essere eseguito entro 48 ore dalla gelata.
Frutti malformati
Controllo della cascola preraccolta Il fenomeno della cascola tardiva in prossimità della raccolta può essere molto grave perché può portare alla perdita di elevate percentuali di prodotto. Per limitare questo fenomeno vengono impiegati prodotti a base di acido naftalenacetico (NAA), applicati alla comparsa dei primi sintomi di anormale abscissione dei frutti.
Frutti partenocarpici
126
tecnica colturale Disegno del frutteto Distanze di impianto La distanza di piantagione deve essere scelta in funzione della vigoria della combinazione di innesto e della forma di allevamento che si vuole adottare. Un altro fattore da considerare per permettere una buona esposizione alla luce delle foglie è l’altezza finale degli alberi. La diffusione del cotogno MC ha consentito di ottenere alberi di mole ridotta e questo ha provocato un forte incremento delle densità di piantagione. Le distanze di impianto possono variare da 4 m fino a 2,5 m tra le file e da 2 m a 0,30 m sulla fila. Per il pero è comunque possibile trovare frutteti caratterizzati da meno di 1500 alberi/ha sino a impianti ad altissima densità con 13.000 alberi/ha.
Densità di impianto (alberi per ettaro)
Forme di allevamento Nelle forme di allevamento si è assistito a una notevole evoluzione nel corso degli anni. Si è passati da forme in volume con alberi a vaso e a piramide negli anni ’50, a forme in parete come la palmetta negli anni ’60 e ’70, prima regolare poi irregolare e infine anticipata. Il maggiore contributo all’ulteriore evoluzione della forma di allevamento verso il fusetto (anni ’80-’90) è stato sicuramente l’impiego dei cotogni nanizzanti (in particolare il cotogno MC). Nelle
Distanze di impianto
Densità (alberi/ha)
Palmetta libera
3,6 x 1,5 4,0 x 2,0
1850 1250
Fusetto libero
3,5 x 1,0 4,0 x 1,5
2850 1660
Assi colonnari
3,5 x 0,7
4080
Y trasversale
4,0 x 0,8 4,5 x 1,2
3125 1850
Y longitudinale Bibaum®
3,3 x 1,0
3030
Sistema a V
3,5 x 0,7
4080
3,5 x 0,5
6000
Assi colonnari e cordoni verticali adatti per Abate Fétel
3,0 x 0,30 2,5 x 0,31
11.000 13.000
Media
2001-3000
Alta
3001-5000
Molto alta
5001-6000
Altissima
11.000-13.000
• La distanza tra le file deve essere
pari all’altezza moltiplicata per la tangente della latitudine (nelle condizioni dell’Emilia-Romagna con latitudine 45° tale parametro è pari a 1). Questa regola serve a evitare che ci siano nella parte basale dell’albero zone in ombra in cui non avviene la differenziazione a fiore delle gemme
Principali forme d’allevamento
• Palmetta • Fusetto • Forme a V • Forme a Y trasversale • Forma a Y longitudinale (Bibaum®) • Cordone verticale
Alte e altissime densità Sistema a V intensivo
< 2000
Distanza tra le file
Forme di allevamento e distanze di impianto del pero Forma di allevamento
Bassa
127
coltivazione sue estremizzazioni, il fusetto è stato trasformato in cordone verticale caratterizzato dal solo fusto e da corte branchette fruttifere che periodicamente vengono rinnovate. Attualmente esistono varie tipologie di disegno del frutteto, identificabili con la forma di allevamento utilizzata, che offrono una vasta gamma di alternative: palmetta (bassa densità); fusetto e forme derivate (medioalta densità); forme a V (alta densità); cordoni verticali (altissima densità). Palmetta. La palmetta oggi adottata è quella ascrivibile alla tipologia della palmetta anticipata, cioè che sfrutta la presenza di rami anticipati emessi naturalmente oppure indotti con l’applicazione di fitoregolatori in vivaio. Il principio è quello della “tutta cima” che consiste nell’allevare gli alberi assecondando la loro naturale predisposizione alla ramificazione e limitando al minimo gli interventi cesori in modo da completare il più rapidamente possibile la struttura, evitando pericolosi riscoppi vegetativi conseguenti ai tagli, che rallenterebbero l’entrata in produzione. La palmetta, in alcune zone dell’Emilia-Romagna, mantiene una sua validità qualora per tradizione e per condizioni pedoclimatiche sia difficile utilizzare portinnesti molto nanizzanti; per esempio, in aree dove il calcare rende problematico l’impiego del cotogno oppure in zone caratterizzate da forti gelate primaverili. In alternativa al cotogno è possibile utilizzare portinnesti franchi clonali come il Farold® 40 o le piante autoradicate a basse densità (1000 alberi/ha). Nelle combinazioni caratterizzate da un elevato vigore conviene piegare l’astone all’impianto in modo che nella zona di curvatura si
Palmetta regolare di oltre 30 anni Foto R. Angelini
Palmetta irregolare di William
Palmetta anticipata Piegatura dell’astone applicata all’autoradicato per limitarne la crescita
128
tecnica colturale abbia una produzione di germogli vigorosi, uno dei quali costituirà l’asse centrale e gli altri le branche. In questo modo il forte vigore indotto dal portinnesto franco o dell’autoradicato viene controllato dalla presenza di questa grossa branca che, piegata, entra rapidamente in produzione. Questa forma presenta alcuni limiti quali: larghe distanze di impianto, maggiori costi di potatura e raccolta (operazioni che rappresentano quasi il 60% dei costi di produzione) a causa dell’elevata altezza raggiunta dagli alberi, che talvolta superano i 4 m. Fusetto. Il fusetto è la forma più utilizzata negli impianti a medioalta densità (2000-3000 alberi/ha) perché permette l’intensificazione dell’impianto senza eccessivi costi di strutture e di manodopera. Uno dei punti cruciali per realizzare questa tipologia di impianto è l’impiego di astoni forniti di rami anticipati. Questo permette, in associazione con l’impiego del cotogno MC, di ottenere produzioni significative già al secondo anno di impianto (7-8 t). Le branche, nel fusetto, sono disposte senza uno schema preciso e normalmente vengono ottenute dai rami anticipati prodotti in vivaio, di regola sono in numero di 4-5. Gli interventi cesori sono limitati all’eliminazione dei rami soprannumerari o troppo vigorosi che potrebbero compromettere l’equilibrio vegetativo dell’albero, diventando troppo grossi rispetto all’asse centrale. Le branche devono essere inclinate con un angolo massimo di 40° rispetto alla verticale in modo da limitarne il vigore e favorire la penetrazione della luce alla loro base; se questa operazione non viene eseguita si assiste all’esaurimento delle formazioni fruttifere basali. L’asse centrale viene lasciato libero di crescere e su di esso vengono allevati corti rami di un anno che si trasformeranno nel tempo in branchette produttive tenute corte con opportuni tagli e un periodico rinnovamento.
Fusetto in produzione
Struttura scheletrica del fusetto Fusetto in piena produzione
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coltivazione Forme a V. Le forme a V, ottenute inclinando in modo alternato gli alberi verso gli interfilari con un angolo di 15° rispetto alla verticale, sono particolarmente adatte all’habitus vegeto-produttivo del pero e hanno il grande vantaggio di sfruttare una doppia parete produttiva, massimizzando l’intercettazione luminosa; presentano per contro maggiori costi per il materiale di sostegno e nella potatura sono più laboriose, rispetto alla fila singola. Questo sistema d’allevamento permette di aumentare la densità di impianto fino a superare i 5000 alberi/ha. Questo aumento di densità, ottenuto riducendo le distanze di impianto, permette comunque di allevare alberi con branche permanenti nella parte basale, la cui dimensione si riduce all’aumentare dell’altezza. Il controllo dell’attività vegetativa è determinato dalla forte competizione, per l’acqua e per i nutrienti, che si instaura tra gli apparati radicali. Forma a “V” all’impianto
Forma a Y trasversale. Le forme a Y sono state sperimentate con successo in molti Paesi. Occorre ricordare il sistema a “Tatura trellis”, messo a punto in Australia, che prevede una struttura costosissima con oltre 10 fili (5 per lato). La versione italiana prevede una struttura di sostegno meno ingombrante e meno costosa. Il principio su cui si basa questo sistema è quello di ottenere una doppia parete secondo due piani inclinati con un angolo variabile da 35° a 45°. Il numero di branche tradizionalmente è due, però è possibile allevarne anche 4 nel caso di portinnesti molto vigorosi. Il problema principale di questa tipologia di impianto è dato dagli elevati costi delle strutture di sostegno e dallla difficoltà nell’eseguire la potatura nelle parti interne a causa della complessità della struttura stessa.
Forma a “V” in fioritura
Forma a Y longitudinale – Bibaum®. Si tratta di una innovazione vivaistica che prevede di fornire astoni bi-cauli preformati in vivaio; questo sistema è stato registrato con il termine “Bibaum®”. Il sistema prevede che l’astone sia messo a dimora con il doppio asse disposto nella direzione del filare in modo da formare una forma appiattita e alta; è adatto a portinnesti di medio-elevata vigoria, come per esempio il BA29 o il Sydo. La possibilità di ripartire il vigore su due assi presenta alcuni innegabili vantaggi, come un migliore controllo della vegetazione; questo a sua volta induce una riduzione dei tempi di potatura. Con questo sistema già utilizzato in passato, producendo l’albero a doppio asse in campo attraverso la cimatura dell’astone (con il conseguente ritardo nella formazione dell’albero di un anno), viene riproposto il concetto della palmetta e cioè di una forma con una parete produttiva alta e schiacciata nel senso del filare.
Pero allevato a Y trasversale
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tecnica colturale Cordone verticale. Per le altissime densità (12.000-13.000 alberi/ha) si è recentemente diffuso il cordone verticale che a causa delle ridottissime distanze di impianto (non più di 30-35 cm sulla fila e 2,5-2,75 m tra le file) è formato da un asse verticale e corte branchette con lamburde che periodicamente vengono rinnovate.
Cordone verticale
Questi impianti richiedono un elevatissimo costo iniziale e possono essere eseguiti solo utilizzando il cotogno MC perché gli altri portinnesti sono troppo vigorosi. Per ridurre gli elevatissimi costi d’impianto si ricorre alla tecnica dell’innesto a dimora, producendo gli astoni direttamente in campo. In quest’ultimo caso, quando si sono ottenuti gli astoni, per simulare la crisi di trapianto, viene eseguita una potatura radicale. La diffusione di questa tipologia d’impianto è da collegare all’uso di prodotti brachizzanti in grado di controllare il vigore dell’albero e favorire la differenziazione a fiore delle gemme. Attualmente in questi impianti, per il contenimento della vigoria, in sostituzione dei brachizzanti, si utilizzano interventi di potatura radicale.
Esempio di Bibaum®
Cotogni innestati a dimora
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coltivazione Fruttificazione I modelli di fruttificazione delle più comuni varietà sono 5 e ognuno deve essere assecondato con tagli appropriati. Gruppi di fruttificazione
Gruppo I – William La fruttificazione in questo gruppo avviene prevalentemente su rami di un anno (brindilli), specialmente negli alberi giovani; con il progressivo invecchiamento dell’albero è possibile osservare fruttificazioni anche su lamburde portate su legno vecchio fino a una percentuale del 30%. Altri genotipi con lo stesso habitus di frutticazione sono: Coscia, Santa Maria e Butirra Precoce Morettini. La potatura di produzione quindi dovrà essere eseguita solo con tagli di diradamento dei rami di un anno, e non di raccorciamento, per evitare l’asportazione delle gemme miste terminali fertili.
• Gruppo I – William • Gruppo II – Decana del Comizio e Abate Fétel
• Gruppo III – Conference • Gruppo IV – Kaiser • Gruppo V – Passa Crassana
Gruppo II – a) Decana del Comizio e b) Abate Fétel Queste cultivar fruttificano principalmente su lamburde portate da legno di 2 anni o al limite di 3 anni. Solitamente, con la potatura, vengono lasciati rami di un anno che l’anno successivo si rivestono di lamburde. Per questo gruppo è necessario adottare una potatura corta speronando le branchette di 2 o 3 anni in modo da lasciare al massimo 3-4 lamburde. Questa operazione esercita un positivo effetto sull’allegagione, specialmente per la cultivar Abate Fétel caratterizzata da una fogliazione precoce. Gruppo III – Conference Questa cultivar è molto fertile e produce principalmente su lamburde, portate da branche vecchie, che sono in grado di rigenerarsi di anno in anno. Necessita quindi di interventi di potatura costanti e in grado di asportare almeno ⅟3 delle lamburde in modo da permetterne il rinnovo. Il problema maggiore è la tendenza a produrre frutti piccoli e qualitativamente scarsi sul legno vecchio, di qui la necessità di lasciare una certa percentuale di rami di un anno in modo da garantire il rinnovo delle formazioni fruttifere.
William: gruppo I
Gruppo IV – Kaiser Questa cultivar privilegia la produzione su lamburde portate da legno vecchio e la produzione è localizzata per il 90% su questo tipo di formazioni. Le branche possono restare per molto tempo e mantenere sempre un buon livello di produttività vista la buona capacità di allegare di questo genotipo. Un’altra cultivar con habitus produttivo simile è la Favorita di Clapp. Gruppo V – Passa Crassana L’habitus di questa cultivar presenta una caratteristica formazione di rami a legno che al secondo anno producono un nuovo ramo a legno in posizione apicale e varie lamburde e brindilli laterali. Con
Decana del Comizio: gruppo II
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tecnica colturale
Passa Crassana: gruppo V Conference: gruppo III
questo tipo di fruttificazione l’applicazione della potatura corta, raccorciando la branca su una lamburda, raggiunge la massima efficacia. Occorre comunque non esagerare perché elevato è il rischio di invecchiare troppo l’albero e non avere più un sufficiente rinnovo. Potatura È l’insieme delle operazioni che, controllando la vegetazione e la produzione della pianta, permettono di ottimizzarne il rendimento economico. La potatura serve per limitare lo sviluppo dell’albero all’interno dello spazio disponibile, per consentire l’ottenimento della forma di allevamento scelta e per regolare la quantità e la qualità della produzione. Gli interventi di potatura comportano modificazioni della crescita dell’albero o di suoi organi. A tale proposito è necessario definire la crescita dell’albero che deve essere intesa come qualsiasi variazione di forma o di dimensione dell’individuo che porta a un aumento irreversibile della sostanza secca prodotta. Nell’albero, contemporaneamente, si svolgono attività tra loro strettamente connesse come: – costruzione della chioma e sviluppo delle radici; – sviluppo riproduttivo (differenziazione a fiore, sviluppo delle gemme, antesi, accrescimento del frutto, maturazione); – accumulo delle riserve. Le varie parti dell’albero sono in competizione tra loro per le risorse, anche se interagiscono al fine di garantire la crescita dell’individuo. Un esempio di competizione si verifica tra i vari organi della pianta: per esempio le radici competono tra loro per acqua e nutrienti, le gemme a frutto, i fiori e i frutti sono in concorrenza e limitano la loro formazione reciprocamente. La competizione può verificarsi anche tra frutti, come nel caso del frutto basale del corimbo che solitamente è più sviluppato degli altri.
Kaiser: gruppo IV
Epoche di potatura
• Potatura invernale (o secca), eseguita durante il periodo di riposo
• Potatura estiva (o verde), realizzata durante il periodo di vegetazione
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coltivazione
Principali operazioni della potatura
• Scacchiatura • Cimatura • Decorticazione anulare • Incisioni longitudinali • Torsione • Infrangimento • Raccorciamento e soppressione (taglio)
Taglio della cima dell’albero su legno di un anno
dei rami
Nell’albero, per regolare tutte queste attività nonché i rapporti di competizione tra i vari organi e ottenere una produzione di qualità costante negli anni, occorre eseguire la potatura. In base alla fase evolutiva dell’albero e all’epoca d’intervento è possibile distinguere le seguenti tipologie di potatura: – di allevamento: è tipica degli alberi giovani ed è finalizzata all’ottenimento della forma voluta e all’abbreviazione della fase improduttiva; – di produzione: si sostituisce gradualmente alla potatura di allevamento per il mantenimento dell’equilibrio vegeto-produttivo dell’albero; – di ringiovanimento: utilizzata negli alberi senescenti che sono nella fase terminale del ciclo vitale, serve per stimolare la vegetazione, effetto che si ottiene con tagli energici; – di riforma: serve per modificare la forma della chioma; – di risanamento: serve per risanare alberi con branche deperite o con fusti compromessi da fenomeni degenerativi del legno; – verde: gli interventi principali di potatura verde sono rappresentati da tagli (di diradamento e di raccorciamento dei germogli), piegature e cimature dei rami (e delle stesse branche laterali) attuate con legacci, filo di ferro o con pesetti mobili, ripetutamente spostati nell’arco della stagione; – secca: eseguita durante il riposo vegetativo.
• Inclinazione, piegatura e curvatura • Intaccatura e intaglio • Raccorciamento e soppressione delle branche
Potatura di Abate Fétel negli impianti ad alta densità Nella tecnica di potatura per gli impianti ad alta e altissima densità si sono messe a punto numerose operazioni per migliorare la gestione dell’albero. La cultivar che più si è giovata di questi accorgimenti è Abate Fétel, l’unica adatta, per l’habitus vegeto-produttivo e per l’elevato prezzo pagato per i suoi frutti, a tipologie d’impianto con densità superiori a 5000 alberi/ha. L’habitus vegeto-produttivo di Abate Fétel è ascrivibile al tipo IIb. In generale, occorre quindi garantire il rinnovo mantenendo du-
Piante potate nel periodo invernale
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tecnica colturale rante la potatura invernale alcuni rami di un anno che, nell’anno successivo, verranno lasciati liberi e non piegati e su cui si differenzieranno le gemme miste. L’epoca di potatura tende a essere ritardata; il momento ideale è la fase fenologica di ingrossamento gemme. In forme come il cordone verticale, caratterizzate da un tronco e da corte formazioni fruttifere, uno dei principali problemi è l’esaurimento dei punti vegetativi e il progressivo spostamento della vegetazione verso l’esterno. Per ovviare a tale inconveniente si ricorre a particolari tagli chiamati a “becco di luccio” caratterizzati da un intervento cesorio che salvaguarda le sottogemme. Da questo taglio, se correttamente eseguito, si otterranno due nuovi germogli caratterizzati da un minore vigore rispetto al germoglio iniziale e da un angolo di inserzione sul tronco solitamente più ampio. L’epoca ottimale per effettuare questo intervento è l’inizio dell’inverno. Un altro intervento di potatura tradizionale è il “taglio del caporale”, a forma di V rovesciata eseguito sopra una gemma a legno. Questo permette di favorire la schiusura della gemma stessa e consente il rivestimento di parti del tronco che altrimenti resterebbero prive di vegetazione. Il momento ottimale per questa operazione è al secondo anno, poco prima della ripresa vegetativa. Accanto a questi interventi si stanno affermando anche tagli su rami di un anno, sia nella parte apicale dell’albero sia all’estremità delle branche. Nella parte apicale, questo taglio garantisce una forte risposta vegetativa. Nelle branche garantisce altresì una forte reazione vegetativa e permette di evitare il loro invecchiamento e il conseguente esaurimento. Da evitare assolutamente la curvatura della branca che deve formare un angolo massimo di 40° rispetto alla verticale.
Taglio a “becco di luccio”
Taglio del caporale
Potatura radicale Negli impianti ad alta e altissima densità il ricorso a interventi di potatura radicale è diventato molto frequente, specialmente nei Paesi dove le sostanze brachizzanti sono proibite. Il taglio radicale presenta però alcuni inconvenienti come la riduzione dell’assorbimento dell’acqua e dei nutrienti a causa del taglio di un certo numero di radici e la modificazione della produzione e dei rapporti ormonali. Quando gli apici radicali sono in numero ridotto sono prodotte meno citochinine e questo può ridurre la crescita dei germogli. L’epoca di intervento ottimale è a fine febbraio-marzo, a seconda degli ambienti, prima della fioritura. Quando la potatura è effettuata correttamente, molti germogli e branchette presentano numerose gemme miste. Questo è il risultato di un migliore bilanciamento dell’albero. Utilizzando la potatura radicale, l’alternanza di produzione è ridotta, ma bisogna prestare attenzione poiché, se il
Effetto della potatura radicale sull’accrescimento dei germogli
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coltivazione taglio è troppo energico, si può avere un’eccessiva riduzione della crescita con effetti negativi sulla produzione. Esperimenti condotti sulla potatura radicale hanno dimostrato un anticipo di maturazione dei frutti; occorre quindi anticipare la raccolta nell’anno in cui viene praticato il taglio. L’effetto della potatura radicale persiste nel tempo e anche dopo 3 o 4 anni è possibile che l’albero produca solo pochi germogli. Raccolta La raccolta delle pere è ancora oggi completamente manuale e avviene utilizzando due sistemi principali a seconda della forma di allevamento adottata. Per le forme in parete alte occorre procedere in due tempi, raccogliendo prima la parte bassa e successivamente la parte alta con l’ausilio di un carro raccolta. Il prodotto raccolto viene caricato in cassoni (bins) che poi attraverso sollevatori idraulici vengono trasportati al centro raccolta. Se invece si raccoglie in frutteti più innovativi caratterizzati da alte densità e da una altezza dell’albero limitata, si può impiegare il sistema dei cassoni (bins) che vengono trasportati da carrelli singoli tra loro agganciati a formare una sorta di “trenino”. Normalmente i gruppi di raccolta sono formati da 6-8 persone che immettono il prodotto direttamente nei bins. Le rese orarie in quest’ultimo caso sono molto elevate e oscillano tra 200-250 kg/h.
Taglio radicale Foto M. Fornaciari
Indici di maturazione e di qualità Per le pere esistono gli “indici di maturazione” che evidenziano il contenuto di amido, la durezza della polpa, il contenuto in zuccheri, l’acidità, cioè misurano le modificazioni fisico-chimiche che avvengono durante la maturazione. La misurazione della qualità come tale non è possibile perché è un aspetto molto soggettiCarro raccolta Foto M. Fornaciari
Calibratura in campo della produzione “Trenino” e operai in raccolta
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tecnica colturale vo. A tale proposito sono stati individuati degli “indici di qualità”, elaborati per rendere oggettiva la stima dei parametri qualitativi. Questi indici sono diversi a seconda del parametro che si vuole rilevare e del prodotto ortofrutticolo, e possono essere più o meno complessi.
Fisiologia della maturazione
• Frutti climaterici (kiwi, albicocca, banana, mela, pera, pesca ecc.): la maturazione può completare anche dopo la raccolta
Amido. Il test dell’amido rileva il contenuto di questo polisaccaride nella polpa: poiché durante la maturazione l’amido si trasforma in zuccheri, minore è il contenuto in amido, più maturo è il frutto. È quindi un valido indice per la determinazione del momento ottimale di raccolta. La progressiva scomparsa dell’amido viene visualizzata con un test colorimetrico, secondo una scala a 10 stadi. L’amido, combinandosi con la soluzione Lugol (iodioioduro di potassio), assume una colorazione scura, in contrasto con il colore chiaro della polpa matura (gli zuccheri semplici non si legano alla soluzione). Lo stadio di amido ideale per l’inizio della raccolta cambia a seconda delle varietà, come anche il periodo entro il quale la raccolta deve essere terminata. Questo sistema è molto adatto per il melo ma assume minore rilevanza nel caso di altre specie come il pero.
• Frutti aclimaterici (ananas, arancia,
ciliegia, fragola, limone, uva ecc.): la maturazione si arresta con la raccolta
• Durante lo sviluppo, le pere accumulano
polisaccaridi che devono poi essere idrolizzati, con notevoli apporti energetici: per questi frutti la maturazione è accompagnata da un sensibile aumento della respirazione. Le specie aclimateriche invece accumulano zuccheri semplici, non presentando aumenti del processo respiratorio durante la maturazione
Durezza. La determinazione della durezza della polpa è importante per stabilire il corretto stadio di maturazione di un frutto, poiché la polpa diminuisce progressivamente la propria consistenza col procedere della maturazione. Lo strumento utilizzato è il penetrometro che rileva il grado di resistenza della polpa alla pressione (kg/cm²). Il puntale dello strumento, la cui dimensione varia in funzione della specie (per esempio 8 mm di diametro per il pero), viene applicato in due punti opposti sulla circonferenza equatoriale del frutto, dopo avere asportato la buccia, premendo leggermente. Il valore penetrometrico diminuisce col progredire della maturazione (il frutto diventa meno consistente).
Foto CRIOF
Carte colorimetriche per la valutazione dello stadio di maturazione
Tenore zuccherino e rapporto acidi/zuccheri. Il tenore zuccherino dei frutti è uno tra i parametri più importanti per la qualità gustativa. Durante la maturazione l’amido si converte in zuccheri complessi (saccarosio) e semplici (glucosio e fruttosio). Il loro tenore si misura con un rifrattometro e viene espresso in gradi Brix (°Brix). La misura della concentrazione degli acidi è considerata un parametro di qualità e non un indice di maturazione. È molto importante infatti il rapporto dolce/acido nella determinazione del sapore del frutto. Inoltre, il contenuto in acidi del frutto di una varietà può essere soggetto a forti oscillazioni di anno in anno, per cui non è considerato un indice attendibile per l’epoca di maturazione. L’acido maggiormente presente nelle pere è l’acido malico. Si parla quindi di acidità titolabile, espressa in g/l di acido malico.
Foto CRIOF
Penetrometro per la misurazione della durezza della polpa di una pera
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il pero
coltivazione Parassiti animali Edison Pasqualini Franco Laffi
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Parassiti animali Foto R. Angelini
Introduzione Le principali specie di insetti che attaccano il pero e che possono danneggiare direttamente i frutti o la pianta nelle sue varie parti appartengono agli ordini dei Lepidotteri e degli Emitteri. Quelle che attaccano i frutti sono dette “carpofaghe” e fra queste la più dannosa è Cydia pomonella (= carpocapsa). Questa specie è considerata “chiave”, vale a dire che per contenerla a livelli economicamente accettabili sono sempre necessarie contromisure di varia natura (biologica, biotecnologica, chimica ecc.). A questo proposito va sottolineato che i tipi di intervento e il loro numero possono avere influenza su altre comunità di specie presenti e che questi effetti si possono riassumere nella regola delle “3 R”, cioè Resistance (resistenza della specie obiettivo), Resurgence (densità maggiori di specie già presenti) e Replacement (rimpiazzo di specie che scompaiono con altre nuove) e che altro non sono che le risposte dell’ambiente alla introduzione di sostanze chimiche per contenere le specie dannose. Nella difesa integrata (IPM = Integrated Pest Management) si dà grande importanza a tali possibili eventi poiché dalla ragionevole difesa da C. pomonella dipende la sorte di molte altre specie dannose e utili. Fra i Lepidotteri che aggrediscono i frutti si ricordano anche i Tortricidi ricamatori, che provocano solo erosioni superficiali ai frutti (ricami) e spesso si limitano a cibarsi di sole foglie fresche. Altre specie di Lepidotteri aggrediscono i rami e i tronchi: anche in questo caso i danni sono di notevole entità e si ripercuotono nel tempo. Le due specie più importanti sono Zeuzera pyrina e Cossus cossus che scavano gallerie di differente tipologia nel legno di
Larva di Pavonia maggiore, Lepidottero che si sviluppa preferibilmente sulle pomacee (pero, melo, cotogno) Foto R. Angelini
Adulto di Hyphantria cunea: le larve di questo Lepidottero possono colpire anche il pero Limacina del pero (Caliroa limacina)
Foto R. Angelini
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parassiti animali rami e tronchi interrompendo, di fatto, il flusso linfatico e conducendo a morte parti di pianta e spesso l’intero albero. Fra i Rincoti o Emitteri, le famiglie degli Psillidi e dei Coccidi possono considerarsi le principali e ne fanno parte alcune specie molto temute. Fra le psille Cacopsylla pyri (= psilla comune del pero) è la specie più rappresentata, mentre fra le cocciniglie Quadraspidiotus perniciosus è la più diffusa. C. pyri è caratterizzata da una abbondate produzione di sostanze zuccherine (melata), che imbratta la vegetazione e i frutti, e per questo è causa di notevoli deprezzamenti economici, ma può anche trasmettere malattie (fitoplasmosi) come recentemente accertato. Q. perniciosus è causa sia di deprezzamenti commerciali dei frutti sia del deperimento dell’intera pianta nei casi più gravi. Le specie di acari fitofagi che colpiscono le piante coltivate, e quindi anche il pero, appartengono alle famiglie dei Tetranchidi e degli Eriofidi. La prima di queste famiglie comprende specie che per la capacità di produrre fili sericei, che a volte finiscono per dare origine a fitte ragnatele, prendono comunemente, anche se in modo improprio, il nome di ragnetti. Alla seconda appartengono specie molto più piccole, con il corpo fortemente allungato e dotate soltanto di due paia di zampe, poste nella parte anteriore del corpo. Le specie che possono creare difficoltà alle coltivazioni di pero sono Panonychus ulmi, chiamato comunemente ragnetto rosso dei fruttiferi, Epitrimerus pyri, conosciuto come eriofide rugginoso ed Eriophyes pyri, noto come eriofide vescicoloso. La prima di queste specie, segnalata quasi come una curiosità nei trattati dei primi del Novecento, è andata sempre più assumendo importanza a partire dal dopoguerra, fino a costituire una temibile avversità che è stata poi ridimensionata, specialmente su melo, pero e vite, a partire dagli anni ’80 con l’introduzione della lotta guidata prima e integrata poi. Su pero, anche se gli attacchi sono in genere meno intensi che su altre piante ospiti, le situazioni sono risultate più complesse per il ruolo che Panonychus ulmi può svolgere anche nell’insorgenza di una temibile fisiopatia, nota come brusone, che in un primo tempo era stata attribuita esclusivamente a fattori climatici. Epitrimerus pyri è stato segnalato nel nostro Paese soltanto agli inizi degli anni ’60, si è poi diffuso successivamente fino a diventare una avversità di una certa importanza, soprattutto sulle cultivar a buccia chiara, a partire dagli anni ’70. Eriophyes pyri rappresenta invece un fitofago “storico”, classificato già dalla metà dell’800, e presente ovunque sui peri non sottoposti a regolare difesa fitosanitaria. Sparito praticamente con l’introduzione della frutticoltura specializzata, è ricomparso sporadicamente di recente, soprattutto sui giovani impianti.
Adulto di psilla
Danni da Eriophyes pyri su foglie e fiori
Danni da Epitrimerus pyri su William
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coltivazione Baco o verme delle mele e delle pere (Cydia pomonella) Questo Lepidottero, conosciuto fin dal tempo di Teofrasto di Ereso, vissuto fra il IV e III sec. a.C. è ricordato anche dagli antichi romani quali Catone il Censore, Plinio il Vecchio e Columella. In tempi più recenti, Aldrovandi nel 1535, Redi nel 1668 e Linneo nel 1758 la descrivono come Tinea pomonella, che è il nome originario della specie. C. pomonella è diffusa in tutti i Paesi del mondo ed è una delle specie economicamente più importanti per i danni che provoca e per i costi delle contromisure per limitarli. Normalmente conosciuta come carpocapsa, sverna come larva matura nelle screpolature della corteccia o nel terreno. Gli adulti presentano le ali anteriori di colore grigio cenere attraversate da striature trasversali da marrone a nere e con una macchia più scura rotondeggiante all’estremità di quelle anteriori che li rendono praticamente inconfondibili. L’apertura alare varia da 15 a 22 mm. L’uovo, che ha una forma a piatto rovesciato con il corion (guscio) reticolato, misura in media 1,25 x 0,95 mm. Appena deposto è di colore bianco opalescente (stadio lattiginoso), in seguito vira verso il giallo-arancio e dopo 2-4 giorni di incubazione compare un anello incompleto di colore rosso (stadio anello rosso). Prima della schiusura si rende visibile la capsula cefalica (stadio testa nera). Lo sviluppo larvale si compie attraverso cinque stadi (età). La larva matura ha una forma cilindrica, misura 1,5-2 cm di lunghezza ed è solitamente di un colore rosa intenso (variabile spesso in funzione del tipo di alimentazione: per esempio il colore è più carico nelle larve che si sono sviluppate sulle noci rispetto a quelle provenienti dalle pere). La crisalide, lunga circa 1 cm, è di colore rossastro. Le larve sono guidate alla ricerca di un ricovero dove passare l’inverno dal “tigmotattismo” (istinto a ricercare le anfrattuosità) e dal “fototropismo negativo” (istinto a evitare la luce). Nel frutto attaccato si trova comunemente una sola larva, raramente due e solo se durante il percorso non si sono incontrate, poiché hanno costumi cannibali.
Baco o verme delle pere
• È originario della regione mediterranea e non riesce ad adattarsi dove la temperatura dei mesi più freddi non scende sotto i 10 °C
• È una specie mono o polivoltina:
compie una generazione nelle zone settentrionali dell’Europa, tre in quelle meridionali (una quarta generazione è riportata per la California e una quinta per Israele)
• In Italia si segnalano una-due
generazioni per il Trentino-Alto Adige e per il Veneto, tre per l’Emilia-Romagna e per l’Italia meridionale
Adulto di verme delle pere Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Attacco su frutto Larva di Cydia pomonella (carpocapsa)
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parassiti animali Le larve possono penetrare nel frutto da un punto qualsiasi, ma anche dal picciolo o dalla cavità calicina (molto comune nelle pere). Le larve neonate vagano per un po’ di tempo (vagabondaggio) prima di penetrare nei frutti sui quali provocano una scalfittura a spirale sulla buccia, quindi penetrano nella polpa raggiungendo i semi di cui si nutrono. Le larve che si nutrono sulle pere hanno uno sviluppo più rapido rispetto a quelle che si alimentano sulle mele e queste ultime sono, a loro volta, più precoci rispetto a quelle che hanno infestato le noci. Gli adulti si accoppiano subito dopo lo sfarfallamento e le femmine iniziano immediatamente a deporre le uova. In genere una femmina può deporre in totale 60-80 uova, ma anche oltre, su altrettanti frutti. Gli accoppiamenti e le deposizioni avvengono solo al crepuscolo e sono regolati da limiti termici precisi (non avvengono con meno di circa 15-16 °C). C. pomonella compie tre generazioni in un anno in Emilia-Romagna. C. pomonella è vittima di molti parassitoidi che si nutrono sia delle uova (oofagi), sia delle larve (larvali), che di entrambi gli stadi (ovolarvali). Numerose specie inoltre sono parassite delle larve nei bozzoli. Si calcola che la mortalità da uovo ad adulto si aggiri intorno al 90%, e al 99% da uovo a uovo.
Foto R. Angelini
Danno da verme delle pere
Tignola orientale del pesco
• Probabilmente originaria della Cina
settentrionale, è presente in diverse aree geografiche ed è in grado di creare gravi danni ai frutti di pero, in particolare quando sono prossimi alla maturazione
Tignola orientale del pesco (Cydia molesta) È un Lepidottero appartenente, come la carpocapsa, alla famiglia dei Tortricidi. È una specie più legata al pesco, ma è divenuta molto comune in tempi recenti anche sulle pomacee e in particolare su pero. Gli adulti sono di ridotte dimensioni: le ali hanno un’apertura di 12-15 mm e quelle anteriori sono di colore bruno-grigio scuro, con 4-5 linee bianche sfumate al margine.
• C. molesta sverna come larva matura dentro un bozzolo nascosto nella corteccia, nel terreno o anche negli imballaggi della frutta nei magazzini
Foto A. Pollini
• Compie 4-5 generazioni all’anno,
la prima nei mesi di aprile e maggio, le successive da fine maggio-inizio giugno a inizio ottobre Foto R. Angelini
Larva di Cydia molesta Danno su frutti di pero da larva di tignola orientale del pesco
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coltivazione Le uova sono lenticolari e simili a quelle di C. pomonella, ma di dimensioni leggermente inferiori non superando il millimetro di diametro. Le larve neonate sono chiare, mentre quelle mature sono di colore rosa tendente al rossiccio e misurano 10-14 mm. Il capo è marrone chiaro. All’estremità dell’addome è presente una formazione a pettine ben evidente che rende possibile distinguere le larve di C. molesta da quelle di C. pomonella che ne sono prive. La possibilità di riconoscerle è di fondamentale importanza per la difesa (scelta dei prodotti e momenti di applicazione), dato che possono essere presenti contemporaneamente nei frutti. A differenza di quelle di C. pomonella, le larve di C. molesta non raggiungono quasi mai la sede dei semi. Le crisalidi misurano meno di 1 cm. Gli adulti hanno abitudini crepuscolari, le femmine sono più longeve dei maschi e possono vivere due-tre settimane. Gli accoppiamenti avvengono normalmente al crepuscolo e una femmina depone in media da 50 fino a 200 uova, prima bianche poi rossicce, in genere collocate isolatamente sui frutti. Lo sviluppo embrionale (all’interno dell’uovo) si compie in circa 5-7 giorni, mentre quello postembrionale si completa attraverso 5 stadi larvali e dura anche un mese. Gli adulti possono spostarsi per distanze notevoli fino a un paio di chilometri. In particolare le femmine fecondate possono raggiungere distanze maggiori rispetto a quelle vergini, e anche rispetto ai maschi, poiché naturalmente indotte alla ricerca di luoghi adatti dove deporre le uova. C. molesta è un Lepidottero polifago che vive a spese di sole specie della famiglia delle Rosacee a eccezione di una Mirtacea (Eugenia myrianthus) segnalata in Argentina. In Italia, oltre al pesco, melo, pero e cotogno sono segnalati come ospiti l’albicocco, il mandorlo, il susino, il nespolo, il lauroceraso ecc., causando danni sia ai frutti sia ai germogli. Mentre su melo il ciclo può essere completo, su pero non ci sono conferme di tale comportamento. In generale su melo si possono notare attacchi ai germogli e ai frutti già in primavera, mentre su pero la comparsa dei danni si manifesta con maggiore frequenza tardivamente a carico dei soli frutti dal mese di luglio-agosto. Gli attacchi sembrano causati da popolazioni che migrano nei pereti attratte da sostanze odorose emesse dai frutti in maturazione (cairomoni). I frutteti sono, infatti, colonizzati in funzione della specie (prima il pero poi il melo) e dal momento di maturazione dei frutti (prima le varietà precoci poi le altre, in successione). I danni sono in particolare a carico dei frutti sui quali possono essere deposte anche decine di uova. In un caso in un solo frutto sono state raccolte fino a 35 larve. Questa specie, pertanto, non ha atteggiamenti cannibalistici come la carpocapsa, dalla quale si distingue anche per costruire gallerie nella polpa dei frutti che in genere non penetrano molto in profondità.
Foto R. Angelini
Uovo di Cydia molesta
Foto R. Angelini
Adulto di tignola orientale del pesco Foto R. Angelini
Danno su frutto da larva di tignola orientale del pesco
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parassiti animali Rodilegno rosso (Cossus cossus) Appartiene a una piccola famiglia di Lepidotteri (Cossidi) di dimensioni medio grandi. L’apertura alare è, infatti, mediamente di circa 80 mm, potendo oscillare da 65 a 100 mm. Le ali anteriori sono zigrinate da una moltitudine di piccole linee sinuose trasversali e distinte sul colore scuro dell’ala. L’uovo è di forma ellittica, di colore bruno-rossastro striato longitudinalmente di nero e misura 1,2 x 1,7 mm. Le larve, che emanano un caratteristico e sgradevole odore di cuoio vecchio molto forte, possono raggiungere una lunghezza di 10 cm. Il colore è rosso scuro nella parte dorsale e giallastro in quello ventrale. La crisalide è caratterizzata da una doppia serie trasversale di spine affilate, inserite su ciascuno dei segmenti addominali dal II al VII, che ne favoriscono il movimento verso l’uscita della galleria poco prima dello sfarfallamento. Il colore è rosso mattone e misura 4-5 cm. Le larve, che appena nate sono gregarie, penetrano nella corteccia prima dell’inverno, si insediano nei tronchi e, nella primavera successiva, riprendono l’attività individualmente. Scavano pertanto singole gallerie che di norma sono a sezione ellittica dirette sia verso l’alto sia verso il basso della pianta, oltre che intorno al tronco, più frequentemente nella zona del colletto. Dai fori esce continuamente un liquido rossastro (dal caratteristico odore di cuoio alterato) mescolato a rosume stopposo rossastro. Per tutto il secondo anno le larve continuano a scavare gallerie penetrando anche profondamente all’interno del legno. Passano quindi il secondo inverno allo stato di larva il cui sviluppo si completa nella primavera successiva. Prima dell’incrisalidamento le larve si dirigono verso l’uscita della galleria allargandone l’ultimo tratto e otturandolo con residui legnosi. L’incrisalidamento ha luogo in un bozzolo ottenuto da secreti e detriti legnosi. Dopo 15-30 giorni le crisalidi, per mezzo delle spinette di cui dispongono, si dirigono verso l’esterno emergendo parzialmente dal tronco. Quindi sfarfallano gli adulti il cui volo inizia in maggio, è massimo in giugno e termina in settembre.
Foto R. Angelini
Adulto di rodilegno rosso Foto R. Angelini
Larva di Cossus cossus
Rodilegno rosso
• Il rodilegno rosso è diffuso, oltre che
in tutti i Paesi europei, anche in Nord Africa, Iran, Medio-Oriente, Siberia e Cina settentrionale. È stato osservato anche nel Circolo polare artico
Foto R. Angelini
• L’apparato boccale degli adulti
(spiritromba) è atrofizzato, pertanto gli adulti non si nutrono
• Le uova vengono deposte sui tronchi in gruppi da 15 a 50 elementi e ciascuna femmina può deporne fino a 1500
• Le piante con grosso tronco possono ospitare anche più di 200 larve
• Il rodilegno rosso compie una generazione ogni due anni, ma anche in tre o quattro anni nei Paesi più settentrionali
Larve gregarie di rodilegno rosso
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coltivazione Gli adulti hanno abitudini esclusivamente notturne. Il rodilegno rosso vive a spese di un gran numero di alberi da frutto e forestali a foglia, ma si trova frequentemente anche in alberi deperiti, abbattuti o morti. In particolare attacca melo, ciliegio, pero, susino, cotogno, albicocco, pesco, olivo, castagno e vite. È stato segnalato anche sugli agrumi. Fra le piante forestali si ricordano quercia, salice, tiglio, platano, betulla, acero, pioppo, e molte altre. È stato descritto inoltre su barbabietola e carciofo. I danni provocati da C. cossus consistono in un generale e progressivo indebolimento delle parti attaccate e successiva morte dell’intera pianta a causa della interruzione del flusso della linfa. È originariamente uno xilofago secondario, vivendo a suo agio in grossi tronchi di alberi vecchi con corteccia screpolata su cui gli adulti si mimetizzano bene, mentre è un temibile fitofago primario sui fruttiferi, con tendenza a localizzarsi al colletto e nella zona radicale. Il legno di piante quali il pioppo e il noce subiscono danni irreparabili a causa delle gallerie causate dalle larve che ne compromettono il pregio. Le gallerie possono essere profonde e in genere hanno un andamento circolare, parallelo al terreno. È vittima di molti parassitoidi e predatori. Tra questi ultimi si ricordano gli uccelli insettivori quali il picchio che si nutre delle larve, ma anche di altri uccelli o pipistrelli che cacciano gli adulti. Le larve di C. cossus sono frequentemente attaccate da funghi entomopatogeni. Sono causa di mortalità naturale anche infezioni virali e infestazioni causate da nematodi.
Foto R. Angelini
Crisalide di rodilegno rosso
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Zeuzera, perdilegno o rodilegno giallo (Zeuzera pyrina) Appartiene, come il rodilegno rosso, alla famiglia dei Cossidi. Per il suo aspetto è universalmente conosciuta come Leopard moth (farfalla leopardo); le ali sono bianche con macchie puntiformi nere e con riflessi blu, uniformemente distribuite su tutto il corpo dell’adulto. Le ali sono strette e la loro apertura nelle femmine è compresa fra 60 e 70 mm, mentre nei maschi non oltrepassa mai i 40-50 mm. Le uova sono di forma ovoidale, di circa 1 x 1,3 mm, di colore giallo chiaro appena deposte e rosa salmone in seguito. Generalmente sono deposte in gruppi di qualche centinaio di esemplari (in laboratorio una femmina può deporre 1000-2000 uova) sotto la corteccia o in tutte le fessure nelle quali la femmina possa introdurre il suo robusto ovopositore. Le larve, a completo sviluppo, sono lunghe anche oltre 6 cm e sono anch’esse caratterizzate da una numerosa serie di punti neri ben visibili (tranne le neonate nelle quali non sono presenti). Le crisalidi sono lunghe circa 4 cm, hanno una colorazione bruno-giallastra e sono provviste di spinette o uncini con i quali si spostano per raggiungere l’uscita delle gallerie. Questa specie può compiere una generazione in uno o due anni, in funzione dell’area e delle relative condizioni climatiche, ma vi
Adulto di rodilegno giallo
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parassiti animali sono zone in cui sono presenti, con differenti valori percentuali, entrambe le situazioni. Di norma, infatti, dalle uova deposte precocemente prenderà origine una discendenza che si completa entro l’anno successivo, mentre per quelle deposte tardivamente il ciclo si completerà due anni dopo. Nel primo caso le larve passano in tale stato un solo inverno, mentre nel secondo caso sverneranno per due volte. Gli adulti di Z. pyrina sfarfallano da giugno a settembre, con maggiore intensità fra la fine di giugno e l’inizio di luglio, periodo nel quale è frequente notare le crisalidi vuote fuoriuscenti per un tratto dalle gallerie. Le larve di una stessa ovatura si costruiscono, appena nate, un nido con fili sericei dentro il quale rimangono per uno o due giorni. Successivamente si dirigono velocemente verso le estremità dei rametti dove ha luogo l’attacco primario, consistente in penetrazioni (gallerie assiali) all’interno della vegetazione fresca. In tempi successivi le larve escono (migrano) per ripenetrare in parti più basse della pianta. Le larve non più piccole possono penetrare, con diverse modalità, nei rami grossi o nel tronco direttamente attraverso la corteccia nel melo e più frequentemente attraverso dardi o borse nel pero. In entrambi i casi le larve danno origine a gallerie sinuose, dirette verso l’alto, della lunghezza anche di 30-40 cm. Gli attacchi primari terminano in genere verso la fine di agosto, mentre le migrazioni possono continuare fino a ottobre e oltre, anche nella primavera successiva. Le penetrazioni nei grossi rami e nei tronchi appaiono in genere a fine luglio e continuano fino a settembre-ottobre. Le gallerie scavate dalle larve interrompono il flusso linfatico dei rami e dei tronchi che pertanto possono disseccare. I danni possono essere molto gravi su impianti giovani nei quali una sola larva può causare la morte di una intera pianta. La pre-
Foto R. Angelini
Danno ai germogli conseguente a un attacco di rodilegno giallo
Rodilegno giallo
• Il rodilegno giallo è diffuso nei Paesi
europei temperati e meridionali, nel Nord Africa e nei Paesi del Medio Oriente. Non oltrepassa gli Urali, ma è presente in modo discontinuo nelle province marittime russe (costa pacifica), nel Nord e Nord-Est della Cina, in Corea e in Giappone. È presente inoltre nel Nord America
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• I danni, particolarmente gravi in
impianti su terreni asciutti o poco irrigui, vanno dal disseccamento di foglie e apici vegetativi fino all’essiccamento di interi rami
• Z. pyrina è una specie molto polifaga, attaccando sia specie da frutto sia numerosissime piante forestali
Larva di Zeuzera pyrina
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coltivazione dazione di uova e di larvette da parte delle formiche è molto importante. Infatti le popolazioni di Z. pyrina possono venire ridotte fino a valori del 98-99%. Anche gli uccelli insettivori, nutrendosi sia di larve che di adulti (meno mimetici di quelli di C. cossus), contribuiscono notevolmente al contenimento delle popolazioni di questa specie. Mortalità di un certo rilievo sono state segnalate a opera di nematodi, funghi, batteri e virus. In genere il parassitismo è debole.
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Ricamatrice dei frutti (Pandemis cerasana) È un Lepidottero Tortricide di piccole dimensioni la cui apertura alare è compresa fra 16 e 22 mm. Il colore delle ali anteriori varia fra il giallo ocra e il giallo cuoio con un reticolo molto vaporoso. Le ali posteriori sono di colore grigio scuro. Le uova sono deposte sulle foglie in ovature di colore giallastro, di varia forma (lunghe 1-2 cm o circolari) e composte anche di molti elementi (fino a oltre 300). Ogni uovo ha forma lenticolare con diametro di poco superiore al millimetro. Le larve sono di colore verdastro e sono lunghe circa 2 cm a maturità. La crisalide è lunga da 8 a 13 mm e appare di colore variabile dal bruno chiaro al bruno scuro. I primi adulti compaiono intorno alla metà di maggio, mentre il secondo sfarfallamento intorno alla metà di luglio. Le uova vengono esclusivamente deposte sulle foglie (soprattutto sulla pagina inferiore) di cui le larve si nutrono erodendone sia il parenchima che i lembi. Normalmente, ma non sempre, esse raggiungono i frutti, potendo causare anche danni consistenti. I danni, provocati esclusivamente dalle larve, consistono in erosioni e arrotolamenti di solito longitudinali delle foglie (soprattutto quelle apicali), nonché di accorpamenti di più di esse a formare “cartocci” facilmente individuabili. Le larve svernanti possono aggredire i fiori. I danni più temuti sono quelli ai frutti, in genere provocati principal-
Crisalide di rodilegno giallo
Ricamatrice dei frutti
• La ricamatrice dei frutti è presente in
tutta Europa, dalle regioni mediterranee al nord della Scandinavia, mentre a Est si estende fino all’Estremo Oriente russo, in Cina, Corea e Giappone
• In Italia è cosmopolita, essendo
segnalata anche nelle Alpi a un’altitudine di 1200 m, sebbene sia particolarmente localizzata in Emilia-Romagna
• È una specie polifaga e vive a spese
delle foglie e dei frutti di numerose piante arboree coltivate e spontanee
• Compie due generazione all’anno
e passa l’inverno allo stadio di larva all’interno di un bozzolo sul tronco
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Danni da ricamatrice su frutticini di pero Larva e crisalide di Pandemis cerasana
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parassiti animali Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
“Ricamato” su foglia
“Ricamato” su frutto
mente da larve vicine alla maturità, consistenti in “morsi” ravvicinati, in parte contigui, sulla buccia e assimilabili, con un po’ di fantasia, a una sorta di ricamo. Normalmente tali esiti si possono notare con maggiore frequenza in corrispondenza di punti di contatto fra un frutto e una foglia o fra due frutti, mentre praticamente mai su frutti che non hanno punti di contatto con altri organi o parti di pianta.
Adulto di Pandemis cerasana
Psilla del pero
• C. pyri è diffusa in tutta Europa
ed in particolare nelle aree frutticole più meridionali del continente. In Italia è la specie maggiormente presente
Psilla comune del pero (Cacopsylla pyri) Questa specie appartiene all’ordine dei Rincoti al quale appartengono in genere insetti di piccole dimensioni e con apparato boccale pungente succhiatore. Vi fanno parte un numero di specie fortemente dannose per moltissime piante coltivate. I danni sono prodotti per sottrazione di linfa dai tessuti vegetali, trasmissioni di virosi ecc. In particolare, alcune specie sono note per la grande emissione di “melata”, composta da sostanze zuccherine, che imbratta la vegetazione e i frutti rendendoli non più commerciabili. Su pero vivono alcune specie di tali insetti detti comunemente “psille”; fra questi la più diffusa in Italia è Cacopsylla pyri. Le ali sono praticamente trasparenti nella forma estiva e molto più scure in quella invernale. Queste ultime sono, in genere, più grandi e Foto R. Angelini
• Le neanidi e le ninfe, che vivono sulle
foglie fresche dei germogli in attiva crescita, emettono una gran quantità di melata che imbratta i frutti. Dapprima la melata è di aspetto trasparente poi con il tempo assume una colorazione nerastra dovuta all’insediarsi di colonie di funghi microscopici, dando luogo a “fumaggini”
• Sverna come adulto sulle piante di pero o nelle vicinanze del frutteto e compie 5-7 generazioni per anno
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Neanidi e ninfe di psilla Uova invernali di psilla
Adulti di C. pyri su germogli
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coltivazione possono raggiungere 3 mm di lunghezza. Le uova sono provviste di una appendice appuntita, per l’ancoraggio dell’uovo al substrato vegetale, oltre che di un filamento caudale di circa 0,6-0,8 mm (circa ¼ del diametro). Le neanidi (3 età) e le ninfe (2 età), che gli anglosassoni chiamano solo ninfe, sono di colore giallo con parti solide scure sul capo (placche), sul torace (tacche, punti e bande lineari) e sull’addome. Gli abbozzi alari, presenti solo nelle ninfe, sono di colore scuro. Cacopsylla pyri è una delle più temute specie dannose alla coltura del pero. Gli adulti sono caratterizzati da un polimorfismo stagionale (forme svernanti ed estive) e sessuale regolato da fotoperiodo e temperatura, oltre che dall’attività vegetativa delle piante. Gli adulti (maschi e femmine) svernano nel frutteto, ma anche al di fuori su altre piante, e riprendono a deporre le uova con le prime giornate invernali soleggiate (2-3 giorni consecutivi con temperature massime oltre 10 °C). Essi pungono le gemme (punture di alimentazione). Le uova (300-400 per femmina in questa fase) vengono deposte, di norma in gruppi di 4-10 elementi, dapprima nelle screpolature dei rametti, quindi su altri organi vegetativi compresi piccioli e foglioline. Le neanidi, immerse nella gocciolina di melata e attive nel prelievo di linfa, si possono più facilmente osservare, oltre che sulle foglioline appena distese, intorno alla zona calicina dei frutticini appena formati, costrette a tale localizzazione per le condizioni climatiche in genere non favorevoli alla loro dispersione. Gli adulti “estivi” della nuova generazione sono più fecondi (600 uova per femmina in media) e daranno origine alla popolazione maggiormente temuta (metà-fine maggio in Emilia-Romagna). Le uova sono in genere deposte lungo la nervatura principale della pagina inferiore delle foglie dei germogli freschi. Le neanidi che ne prendono origine restano sulla pagina inferiore, mentre le ninfe si dirigono in genere alla base del picciolo delle foglie (ascelle) sulle quali possono ritornare dopo l’ultima muta. La produzione di melata in questa fase è massima, così come il potenziale danno arrecato sia alle piante (danni diretti per sottrazione di sostanze nutritive) sia ai frutti (danni indiretti di natura commerciale). Le generazioni successive sono in genere meno temute per una sorta di estivazione che ne limita le popolazioni e ne riduce la pericolosità, sebbene si possano attendere anche pullulazioni tardive di fine estate. In presenza di forti infestazioni la melata può imbrattare tutte le parti verdi della pianta, inibendo la fotosintesi, la respirazione, favorendo ustioni ecc., nonché i frutti, che subiscono un notevole deprezzamento commerciale. C. pyri è inoltre temuta anche perché vettore del fitoplasma del deperimento (moria) del pero (pear decline phytoplasma), in particolare su impianti giovani. Sia le forme giovanili sia gli adulti trasmettono l’agente della moria, mentre la trasmissione da un anno all’altro può essere sostenuta anche dagli individui svernanti infetti.
Foto R. Angelini
Neanidi di Cacopsylla pyri Foto R. Angelini
Neanide di psilla del pero, caratterizzata per la capacità di produrre grandi quantità di melata Foto R. Angelini
Adulto di psilla
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parassiti animali Cocciniglia di S. José (Quadraspidiotus perniciosus) È praticamente presente in tutto il mondo ed è una delle specie più dannose alla frutticoltura. Appartiene alla famiglia dei Coccidi (ordine Rincoti) che è caratterizzata in particolare da un notevole dimorfismo sessuale. Le femmine sono costantemente senza ali (attere), quasi sempre apode (senza zampe) e con il corpo non suddiviso. I maschi sono di norma alati (il paio anteriore normali, quelle posteriori non funzionali).
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Frutto gravemente danneggiato da Cocciniglia di S. José
Foto R. Angelini
Follicoli e arrossamenti su ramo
Nei Diaspini, famiglia a cui appartiene Q. perniciosus, le sostanze cerose emesse, insieme ai resti larvali delle età precedenti, formano dei caratteristici scudetti circolari o subcircolari. La riproduzione può essere anfigonica (sono presenti i due sessi) o partenogenetica (le femmine originano individui senza accoppiarsi). Q. perniciosus è ovovivipara (non sono visibili le uova, ma solo le neanidi) e il numero di uova per femmina varia da alcune centinaia ad alcune migliaia. La Cocciniglia di S. José sverna sulle piante come neanide di I o II età, ma anche eccezionalmente come
Maschio adulto di Quadraspidiotus perniciosus
Cocciniglia di S. José
• È ritenuta una specie originaria del
Nord della Cina, poi arrivata nella valle californiana di S. José (da cui il nome) alla fine dell’Ottocento. In Italia è presente dall’inizio del secolo scorso
• I danni consistono in prelievi di linfa da un unico punto per individuo. Le piante possono disseccare completamente, mentre i frutti subiscono un irrimediabile danno commerciale ben visibile
• Attacca moltissime piante spontanee, forestali e da frutto (oltre 200) con particolare preferenza per le rosacee
Attacco di Cocciniglia di S. José su giovani frutti
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coltivazione femmina. Normalmente le femmine compaiono in marzo-aprile, vengono fecondate e danno quindi origine mediamente a 100-150 nuovi individui. Essi conquistano in tempi brevi la nuova vegetazione (rametti) e i frutti, sui quali si fissano e si nutrono. Nel corso di un anno si susseguono tre generazioni. Le cocciniglie, in generale, sono importanti insetti che attaccano un considerevole numero di piante coltivate. Alcune specie sono monofaghe, altre polifaghe e possono infestare sia le parti epigee sia quelle ipogee. La Cocciniglia di S. José colonizza i tronchi, i rami e i frutti iniettando saliva che provoca nei tessuti arrossamenti circolari rossastri ben visibili sia sui rami (sollevando la corteccia) sia sulla buccia dei frutti. I danni consistono in prelievi di linfa da un unico punto per individuo. Le piante possono anche disseccare completamente, mentre i frutti subiscono un irrimediabile danno commerciale.
Foto F. Falchieri
Femmina fecondata di cocciniglia
Oplocampa o tentredine delle perine (Hoplocampa brevis) È un Imenottero della famiglia dei Tentredinidi le cui larve presentano 6-8 pseudozampe addominali oltre a quelle vere toraciche. Gli adulti, rappresentati quasi esclusivamente da femmine che si riproducono senza l’intervento del maschio, depongono le uova nel talamo dei calici dei fiori, spesso non ancora completamente aperti. Le larve possono svilupparsi a spese di un solo frutticino, ma più spesso su 2-3 scavando gallerie verso i semi. In sostanza esse, dopo alcuni giorni dalla nascita (3-4) e una prima muta, scavano una galleria nella parte centrale del frutticino in formazione. Poi la larva fuoriesce per aggredirne un altro o due. Una volta mature, le larve si lasciano cadere nel terreno dove si impupano per poi sfarfallare nella primavera successiva. I danni possono essere anche gravi (sebbene in caso di abbondante produzione non sia facilmente quantificabile e, paradossalmente, potrebbe anche tornare utile per una maggiore pezzatura dei frutti sani), ma si verificano solo in determinate condizioni. Per verificarsi de-
Tentredine delle perine
• Gli adulti compaiono quando sono
presenti i fiori, all’interno dei quali vengono deposte le uova. Una femmina depone mediamente 100 uova inserendole, una alla volta, dentro altrettanti fiori
• Le larve possono svilupparsi a spese
di un solo frutticino, ma più spesso su 2-3, scavando gallerie verso i semi. I frutticini infestati finiscono poi per cadere al suolo
• H. brevis sverna come larva nel terreno all’interno di un pupario e compie una sola generazione all’anno
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Larva di tentredine all’interno di un frutticino Frutti danneggiati da tentredine
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parassiti animali ve necessariamente esservi contemporaneità fra la fioritura e la deposizione delle uova. Gli adulti, infatti, sono attirati dal colore bianco dei fiori del pero e non da quello di altre piante. Sono molto utili trappole cromatiche di colore bianco, ottenuto con vernice all’ossido di zinco, ai fini di un razionale programma di lotta contro questo fitofago, consentendo la cattura degli adulti.
Foto R. Angelini
Eriofide rugginoso (Epitrimerus pyri) L’azione di questo eriofide risulta particolarmente dannosa sui frutti di alcune cultivar di pero a buccia chiara, come per esempio William e Decana del Comizio. I primi sintomi dell’attacco cominciano a rendersi evidenti sui frutticini a partire dalla metà di maggio, con microlesioni sull’epidermide che risultano più marcate sul peduncolo e attorno alla cavità calicina. Alla raccolta i frutti più colpiti possono apparire totalmente rugginosi e di pezzatura inferiore alla media. Su quelli invece meno attaccati la rugginosità interessa solo parzialmente la superficie esterna del frutto e risulta soprattutto concentrata attorno alla zona calicina, da cui si estende ad alone verso il resto del frutto. Sulle foglie l’attacco si manifesta sulla pagina inferiore con aree rugginose brunastre che tendono a confluire e a interessare l’intera lamina; in seguito le foglie colpite si deformano ripiegandosi a doccia verso l’alto e, in caso di forte infestazione, vanno incontro a parziale caduta che interessa l’apice dei rametti. Lo svernamento è sostenuto dalle femmine invernali o deutogine riunite in piccoli gruppi riparati tra le screpolature della corteccia, alla base delle gemme e sotto le perule esterne di queste ultime. Alla schiusura delle gemme si portano sulle foglioline e sui mazzetti fiorali dove iniziano a nutrirsi e a deporre le uova. Le generazioni successive di femmine estive o protogine (lunghe 0,14-0,16 mm) e di maschi, che dalle uova traggono origine, si localizzano soprattutto nelle parti più tomentose degli organi verdi,
Danno da eriofide su germoglio
Eriofide rugginoso
• Questo eriofide è stato segnalato per la prima volta in Italia agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso
• Aggredisce sia le foglie sia i frutti,
ma è soprattutto su questi ultimi che i danni possono risultare significativi
• Passa l’inverno come femmina
fecondata riparata all’interno delle gemme o tra le anfrattuosità della corteccia
Foto R. Angelini
Colonie estive di eriofide rugginoso Danni da eriofide su frutto di Decana del Comizio
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coltivazione come piccioli, calici dei fiori, frutticini e pagina inferiore delle foglie in prossimità della nervatura principale. Verso la metà dell’estate gradualmente ricompaiono le femmine deutogine destinate a raggiungere i luoghi di svernamento.
Foto R. Angelini
Eriofide vescicoloso (Eriophyes pyri) Questa specie provoca la formazione, soprattutto sulle foglie, di caratteristiche vescicole del diametro di alcuni millimetri e di consistenza spugnosa. I primi sintomi dell’attacco compaiono sulla pagina inferiore delle giovani foglie sotto forma di piccoli rigonfiamenti, di colore verdastro, privi di apertura verso l’esterno. In seguito nella zona centrale di queste neoformazioni, che si rendono evidenti anche sulla pagina superiore, compare un piccolo foro mentre il loro colore vira dapprima al rossastro e successivamente, per necrosi dei tessuti, al bruno-nerastro. Col passare del tempo le vescicole tendono a confluire formando sulle foglie, che nel frattempo si sono fortemente deformate, ampie aree nerastre nelle quali i tessuti possono facilmente andare incontro a lacerazioni. In caso di forti infestazioni le vescicole possono comparire anche sui peduncoli, sui calici dei fiori e sui frutticini che daranno origine alla raccolta a frutti leggermente deformati e con caratteristiche tacche rugginose. L’eriofide passa l’inverno nascosto sotto le perule delle gemme dove, alla ripresa vegetativa, inizia a nutrirsi e deporre le uova. Mano a mano che le perule si divaricano gli eriofidi penetrano nelle gemme, fino a insediarsi negli abbozzi delle foglioline e dei fiori che si stanno sviluppando. La formazione delle vescicole, che compariranno sulle giovani foglie e sui peduncoli fiorali, inizia già all’interno delle gemme. Il tempo necessario per la loro comparsa dal momento delle punture degli eriofidi varia da 3 a 7 giorni mentre sono richiesti da 6 a
Danni da eriofide rugginoso su William
Foto R. Angelini
Danno da eriofide vescicoloso su frutto Esiti di una infestazione di eriofide vescicoloso
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parassiti animali 15 giorni prima che compaiano, sulla pagina inferiore delle foglie, i piccoli fori attraverso i quali le femmine, in genere una sola per vescicola, entrano nel tessuto spugnoso di nuova formazione per iniziare a riprodursi. Quando le vescicole, durante il periodo estivo, risulteranno completamente esaurite verranno abbandonate dagli eriofidi. Vescicole di nuova formazione su foglie giovani si possono comunque riscontrare sulle piante fino a estate inoltrata.
Eriofide vescicoloso
• Si può considerare un eriofide “storico” essendo già riportato nei primi manuali dedicati alle avversità delle piante
• Presente da sempre sui peri non
Ragnetto rosso dei fruttiferi (Panonychus ulmi) Gli attacchi di questo acaro tetranichide determinano alterazioni cromatiche delle foglie il cui colore vira gradualmente dal verde al bronzeo e al giallastro. Sul pero questo fitofago svolge inoltre un ruolo importante sulla comparsa e sulla intensità dell’alterazione nota comunemente come brusone, che si manifesta con un improvviso imbrunimento e disseccamento del lembo fogliare e successiva caduta delle foglie. Quando si verificano condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo della fisiopatia (soprattutto alte temperature) è sufficiente infatti anche una modesta presenza dell’acaro per provocare, sulle cultivar più sensibili (in particolare William e Conference) manifestazioni del fenomeno molto più gravi di quelle che si manifesterebbero in assenza totale del fitofago. Le uova durevoli svernanti, di colore rosso intenso e a forma di cipolla, con un lungo peduncolo inserito apicalmente, vengono deposte a partire da settembre, attorno ai punti di inserzione dei giovani rami e alla base delle gemme. Dalle uova fuoriescono, dall’inizio di aprile, le prime larve che si portano sulle giovani foglie dove cominciano a nutrirsi. Da esse si otterranno poi protoninfe, deutoninfe e adulti. Dalla primavera all’autunno si susseguono numerose generazioni che finiscono per sovrapporsi determinando spesso la contemporanea presenza sulle foglie di tutti gli stadi di sviluppo del
sottoposti a regolari interventi fitosanitari, è praticamente scomparso con l’introduzione della frutticoltura specializzata. Attualmente si riscontra saltuariamente, soprattutto su giovani impianti
• Colpisce soprattutto le foglie, ma in caso di forti infestazioni può danneggiare anche i frutti
• Sono state osservate quattro generazioni all’anno
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Uova di ragnetto rosso Brusone
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coltivazione
Ragnetto rosso
• Questa specie diffusa in tutto il mondo può aggredire, oltre al pero, la vite e le piante da frutto in genere come melo, pesco, susino ecc.
• È considerata una specie acquisita
essendosi trasformata, dopo l’introduzione della frutticoltura specializzata, da semplice curiosità a pericoloso nemico delle piante
• Danneggia esclusivamente le foglie
Femmina di ragnetto rosso a forte ingrandimento
fitofago. Le femmine adulte presentano il corpo di forma ovale, lungo circa 0,36-0,40 mm e largo 0,22-0,26 mm, di colore rosso piuttosto chiaro subito dopo la muta e tendente a imbrunirsi col passare del tempo. Le setole dorsali sono inserite su caratteristici tubercoli di colore biancastro che costituiscono, nella pratica di campagna, un carattere distintivo molto importante in quanto si possono osservare con una semplice lente contafili. Difesa STRATEGIA DI DIFESA INTEGRATA CONTRO I FITOFAGI
La difesa dagli insetti fitofagi, come da altri artropodi dannosi, ha assunto un’importanza fondamentale con l’avvio della frutticoltura intensiva, soprattutto nel secondo dopoguerra. Il frutteto specializzato costituisce infatti un ambiente ideale e fonte di cibo praticamente inesauribile per le specie fitofaghe dalle quali è ovviamente necessario difendersi per ottenere produzioni di qualità.
Valutazione del grado di infestazione e determinazione delle soglie di intervento
Soglia superata
Foto R. Angelini
Soglia non superata
Interventi: Agronomici Biologici Biotecnologici Chimici Criteri che guidano la strategia di difesa integrata Stadi di sviluppo di un coccinellide, predatore di afidi, acari e cocciniglie
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parassiti animali Ciò ha costretto i frutticoltori a tutelarsi ricorrendo a strategie di difesa nel tempo sempre più raffinate e precise, ma soprattutto sempre più rispettose dell’ambiente. La difesa dagli insetti dannosi va affrontata avendo una visione d’insieme dei problemi fitosanitari al fine di evitare che la scelta di linee d’intervento contro alcuni fitofagi finiscano poi per lasciare ampio spazio allo sviluppo di altri o per provocare inaccettabili danni all’entomofauna utile e all’equilibrio biologico del frutteto. È per tale motivo che una corretta gestione della difesa insetticida deve rispondere sempre a questi tre interrogativi: se, come e quando intervenire. Se intervenire: introduce il concetto di soglia economica di intervento (definisce il limite oltre il quale il danno economico che il fitofago può provocare non è accettabile); tale soglia viene valutata attraverso specifici campionamenti. Come intervenire: la strategia è condizionata ovviamente dal tipo di soluzione scelta, ponendo particolare attenzione, oltre agli aspetti fitoiatrici ed economici, anche a quelli relativi agli effetti sull’uomo e sugli ecosistemi. Nel caso si ricorra a un insetticida/acaricida, dovranno essere attentamente valutati gli aspetti collaterali dei vari preparati. Si deve tenere conto, in altre parole, della selettività verso le comunità delle specie utili presenti nell’area coltivata. Si devono conoscere quali sono le specie sensibili, quale il loro stadio di vita più esposto, quali gli effetti immediati e cronici ecc. In questo modo, cioè rispettando quello che di utile c’è anche in un ambiente paradossalmente molto semplificato come il frutteto, si possono ottenere sostanziali aiuti dall’attività di tali comunità, che si traducono in un minore numero di interventi. Si mira in pratica a valorizzare quanto più possibile le specie utili presenti. Quando intervenire: corrisponde all’individuazione dei momenti ottimali di intervento. Un elemento di grande utilità è fornito dai modelli previsionali di sviluppo disponibili per i più importanti fitofagi: la decisione sull’opportunità di eseguire un trattamento è condizionata dalla presenza degli stadi dannosi dell’insetto bersaglio e soprattutto dalla densità delle popolazioni. I principali mezzi di lotta contro i fitofagi sono ancora oggi rappresentati dagli insetticidi di sintesi. La ricerca in questo settore è costantemente orientata verso nuovi preparati con attività sempre più specifica e nel contempo rispettosi dell’artropodofauna utile e dell’ambiente. I regolatori della crescita (IGR - MAC), rappresentano il caso più evidente. Altri mezzi di difesa sono rappresentati da insetticidi di origine naturale; per esempio per combattere le larve di Lepidotteri si ricorre spesso a preparati a base di baculovirus (granulosi virus -CpGVper Cydia pomonella), nonché a differenti formulati del batterio Bacillus thuringiensis var. kurstaki. Per le più importanti specie di Lepidotteri, sono anche ampiamente applicate alcune tecniche biotecnologiche basate sull’impiego di feromoni.
Foto R. Balestrazzi
Trappola sessuale a feromoni: è costituita da una componente attrattiva (feromone sessuale di sintesi emesso da un erogatore) e da una componente di cattura (trappola di varia forma con parti adesive) Foto R. Angelini
Adulto di acaro trombidide predatore di insetti fitofagi Foto R. Angelini
Neanide di antocoride in attività predatoria su uova di psilla
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coltivazione I feromoni, dal greco pherein (= trasportare) e hormon (= stimolare) sono sostanze prodotte da organi diversi del corpo degli insetti e sono usate dagli animali per comunicare fra loro. I feromoni appartengono al vasto gruppo dei semiochemicals (semiochimici = messaggeri chimici) fondamentalmente diviso in due gruppi: intraspecifici e interspecifici. Al primo appartengono i feromoni (sessuali, di traccia, di allarme ecc.), al secondo i sinomoni che si possono sostanzialmente distinguere in cairomoni (che avvantaggiano chi li riceve) e allomoni (a vantaggio di chi li emette). Nella pratica i più utilizzati sono i feromoni sessuali attraverso tecniche di orientamento – competitive mechanism – (monitoraggio, cattura di massa ecc.) e disorientamento – non competitive mechanism – (confusione classica). In pratica si sfruttano sostanze di sintesi che riproducono gli effetti di sostanze emesse dalle femmine (feromone sessuale) che, percepite dal maschio, consentono l’incontro dei due sessi. Nel caso del monitoraggio o cattura di massa si catturano maschi dentro apposite trappole, mentre nel caso della confusione sessuale si introduce nel frutteto una quantità di feromone molto più elevata di quella emessa naturalmente dalle femmine mediante un numero molto alto di diffusori di feromone, con lo scopo di “confondere” i maschi e pertanto impedire loro di ritrovare le femmine, creando le condizioni per impedirne l’accoppiamento. Altre tecniche di lotta o di prevenzione contro gli insetti dannosi al pero utilizzano prodotti che vanno sotto il nome di biorationals. Per esempio per la difesa dalla psilla si può ricorrere a una particolare formulazione di caolino che ha dimostrato una certa attività (agisce soprattutto impedendo alla psilla di riconoscere le piante di pero), oppure ad alcuni detergenti che dilavano la melata sotto la quale si trovano le forme giovanili della psilla, esponendole pertanto a condizioni di vita critiche e quasi sempre mortali. Nel panorama della difesa non va assolutamente trascurata la grande importanza e opportunità della lotta biologica naturale. Su pero, in particolare, si tende a valorizzare al massimo, anche introducendolo artificialmente, l’attività di Anthocoris nemoralis la
Foto R. Angelini
Adulto di crisopa predatore di afidi
Meccanismo del monitoraggio
• L’erogatore nella trappola emette
il feromone femminile sintetico che il vento disperde nell’ambiente (frutteto). Il maschio lo percepisce e si dirige verso la fonte di emissione (erogatore) dove viene catturato dalla trappola con fondo o parti adesive. In questo modo possono essere sorvegliate le principali specie presenti, l’inizio e la fine dei loro sfarfallamenti ecc.
Trappole a feromoni (orientamento)
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parassiti animali
Semiochimici
Foto S. Musacci
Segnali INTRAspecifici
INTERspecifici
Allelochimici
Feromoni
Cairomoni
Allomoni
Sinomoni
Apneumoni
Adulto di antocoride
cui attività predatrice, se non viene ostacolata, può spesso essere determinante per il contenimento della psilla. Per quanto riguarda la lotta agli acari fitofagi, questa problematica ha costituito oggetto di studi approfonditi a partire dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso soprattutto a seguito delle fortissime infestazioni di tetranichidi e in particolare di Panonychus ulmi sulle principali colture arboree. Ciò ha portato all’individuazione delle cause di tali pullulazioni nell’uso sistematico di grandi quantità di antiparassitari di sintesi, iniziato dopo il secondo conflitto mondiale, e la conseguente distruzione della maggior parte della fauna utile che contribuiva validamente a contenere lo sviluppo delle popolazioni di questi nemici delle piante. L’adozione successiva di criteri di lotta integrata basati sulla riduzione del numero degli interventi, effettuati solo in caso di effettiva necessità, e sull’impiego di prodotti fitosanitari il più possibile selettivi nei confronti dei predatori, ha notevolmente ridimensionato il problema. Tutto questo è valido, per il Panonychus ulmi, sulla maggior parte delle piante da frutto e sulla vite con la sola eccezione del pero,
Meccanismo della confusione
• La quantità di feromone distribuita
nel frutteto è così elevata che i maschi non sono più in grado di riconoscere e ritrovare la fonte di emissione naturale, cioè quello emesso dalle femmine. In pratica vengono interrotti gli accoppiamenti e azzerato lo sviluppo della popolazione
Disorientamento sessuale
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coltivazione che in alcuni casi richiede un approccio diverso. Ciò è dovuto ai complessi rapporti che intercorrono tra la presenza del fitofago e l’insorgenza del brusone, alterazione di natura fisiologica che porta al disseccamento e alla caduta delle foglie. Questo fa sì che su alcune varietà particolarmente sensibili all’alterazione, come William e Conference, quando si creano condizione climatiche favorevoli all’insorgenza della fisiopatia, quali alte temperature e intensa ventilazione, la soglia di intervento per il tetranichide, considerata per il pero pari in genere al 60% di foglie infestate, deve essere abbassata fino alla semplice presenza del fitofago. Un discorso a parte meritano poi gli eriofidi che, inducendo i danni nelle primissime fasi vegetative delle piante, richiedono interventi precoci, anche molto prima della comparsa dei sintomi. Così per Eriophyes pyri l’epoca più opportuna per intervenire corrisponde alle primissime fasi vegetative della pianta (tra l’inizio e la fine dell’apertura delle gemme), mentre per Epitrimerus pyri il trattamento deve essere effettuato o immediatamente prima della fioritura (bottoni bianchi) o a caduta petali. Per questi fitofagi inoltre, non essendo disponibili soglie di intervento, per decidere se intervenire o meno ci si dovrà basare esclusivamente sulla presenza di attacchi negli anni precedenti.
Brusone
Corretto impiego dei mezzi di distribuzione Per conseguire risultati soddisfacenti nel settore della difesa non è sufficiente scegliere oculatamente i vari principi attivi e applicarli nei momenti più opportuni, ma è anche necessario fare ricorso ad adeguati mezzi di distribuzione. Non è, infatti, raro accertare che prestazioni parziali o addirittura negative nei confronti di determinati fitofagi o malattie dipendono dall’utilizzo di macchine irroratrici non idonee o non correttamente tarate, oppure da un’errata Uova di ragnetto rosso Foto R. Angelini
Adulto di Stethorus punctillum predatore di ragnetto rosso
Foto R. Angelini
Imenotteri parassiti di tortricidi ricamatori
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Foto R. Angelini
Imenottero parassitoide
parassiti animali modalità di somministrazione, sia per volumi o dosi di miscela antiparassitaria applicata sia per una distribuzione irregolare. Per quanto riguarda la scelta del sistema di irrorazione i pareri sono spesso discordanti e di difficile valutazione, data la complessa serie di fattori che interagiscono nel momento in cui si eseguono gli interventi. Ai fini dell’efficacia biologica del trattamento assumono un’importanza notevole il grado di copertura del bersaglio e la concentrazione della miscela antiparassitaria (alti, medi e bassi volumi). Questi aspetti costituiscono il principale punto di riferimento per la taratura delle macchine irroratrici, in particolare per la definizione del numero d’impatti per unità di superficie da trattare, in considerazione anche della sua forma e dimensione. Molta attenzione va posta all’efficienza e all’idoneità dei mezzi di distribuzione, nonché alle periodiche operazioni di revisione e taratura di tali macchine. Questi aspetti, ancora oggi spesso trascurati o sottovalutati, dovranno essere affrontati in modo serio e corretto e senza improvvisazioni, in quanto buona parte dell’attuale parco macchine non rispetta le condizioni minime di efficienza. A proposito dei controlli periodici di manutenzione, che riguardano in particolare la pompa, gli ugelli, l’agitatore e il filtro di aspirazione, e delle operazioni di taratura va segnalato che in diverse regioni, soprattutto sulla spinta dei progetti di lotta integrata, sono sorti dei centri specializzati per il controllo delle irroratrici. Quanto è stato fino a oggi realizzato in questo settore è in ogni modo ancora insufficiente e si dovrà arrivare quanto prima a definire delle precise normative, da fare rispettare in primo luogo alle ditte costruttrici, nonché dei rigorosi controlli periodici al fine di conseguire la massima efficacia biologica e, nel frattempo, ridurre, per quanto possibile, la dispersione nell’ambiente dei preparati chimici.
Foto M. Ardizzoni
Apparecchio per la taratura degli atomizzatori Foto M. Ardizzoni
Controllo della funzionalità del sistema di irrorazione Foto A. Tonello
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il pero
coltivazione Malattie Ivan Ponti
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Malattie Introduzione Il quadro delle malattie che interessano il pero si è progressivamente modificato, soprattutto a partire dalla metà del secolo scorso, a seguito dei profondi cambiamenti che hanno riguardato la frutticoltura del nostro Paese. In particolare, si è assistito a una notevole concentrazione di nuovi impianti specializzati in aree limitate e alla contemporanea introduzione di nuove tecniche colturali, volte a incrementare fortemente la produzione per ettaro. Di conseguenza si è verificata sia una recrudescenza di malattie tradizionalmente presenti, per effetto soprattutto dell’aumento del potenziale di inoculo presente nell’ambiente, sia la comparsa di nuove affezioni causate da funghi, batteri, virus e fitoplasmi. La diffusione di nuovi agenti di malattie infettive in aree precedentemente indenni è strettamente correlata agli scambi di materiale di moltiplicazione da un Paese all’altro. I cambiamenti ambientali, in particolare quelli climatici, hanno poi decisamente influito sulla virulenza dei diversi patogeni, nonché sui loro cicli biologici e sui rapporti con la pianta ospite. Un ultimo aspetto da non sottovalutare è quello commerciale: la pressante richiesta da parte dei consumatori di frutti ben sviluppati, privi di lesioni e imperfezioni ha fatto assumere a ogni avversità biotica o abiotica, che un tempo aveva un’importanza secondaria, un peso significativo e di conseguenza ha obbligato i produttori agricoli ad adottare nuove e più impegnative misure di profilassi e terapia. Di seguito sono illustrate le principali avversità del pero, con una breve descrizione dei sintomi che si manifestano sui vari organi della pianta, nonché dei diversi aspetti biologici ed epidemiologici
Conidio di Stemphylium vesicarium
Pseudotecio di Venturia
Ecidiospore di Roestelia cancellata Asco con ascospore di Pleospora
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malattie quali: modalità di svernamento, cicli di infezione e fattori ambientali e colturali predisponenti la malattia. Vengono in particolare descritte inizialmente le più comuni malattie fungine che si manifestano durante le varie fasi di coltivazione, per poi passare alla descrizione di tre malattie causate da batteri fitopatogeni (colpo di fuoco, necrosi delle gemme e dei fiori, tumore batterico), una malattia virale (litiasi infettiva) e una fitoplasmosi (moria del pero).
Foto R. Angelini
Ticchiolatura (Venturia pirina) La ticchiolatura del pero si manifesta, in forma più o meno grave, ogni anno colpendo foglie, germogli, rami e frutti. Sulle foglie, sia sulla pagina inferiore che superiore, compaiono delle macchie tendenzialmente rotondeggianti, bruno-olivacee e di aspetto vellutato per la presenza delle fruttificazioni agamiche del micete. Il lembo fogliare colpito non subisce quasi mai sensibili deformazioni e, raramente, i danni sono tanto gravi da causare il disseccamento e la caduta anticipata delle foglie. I rami vengono interessati da questa malattia solitamente quando sono ancora erbacei, ma i sintomi rimangono evidenti per lungo tempo, anche dopo la completa lignificazione. Su questi organi l’infezione si manifesta inizialmente sotto forma di piccole tacche nerastre, localizzate di preferenza verso l’estremità del germoglio. Sui frutti i sintomi possono comparire in qualsiasi stadio di sviluppo e si presentano inizialmente con macchie isodiametriche, a contorno netto, di colore bruno-olivaceo e di aspetto vellutato, in quanto ricoperte da una leggera muffa. Nel caso di attacchi precoci, su frutticini da poco allegati, si può verificare una forte cascola di questi ultimi, mentre sui frutti in fase di accrescimento
Attacco di ticchiolatura su foglie e frutti
Foto R. Angelini
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coltivazione insorgono vistose deformazioni e profonde fenditure a causa dell’atrofia che subiscono i tessuti colpiti. A volte i frutti possono venire colpiti tardivamente in prossimità della raccolta o, addirittura, mostrare la malattia solo in magazzino. In questi casi compaiono delle macchie scure, inizialmente puntiformi, che poi si estendono fino a raggiungere un diametro di 0,5-0,8 mm, a contorno sfumato e spesso numerose su di uno stesso frutto. L’agente della ticchiolatura del pero è il Fusicladium pyrorum (o pirinum), stadio imperfetto dell’ascomicete Venturia pirina. Quest’ultima forma sessuata, costituita da pseudoteci rotondeggianti o allungati, si origina in autunno sulle foglie cadute al suolo e raggiunge la maturità verso la fine dell’inverno. All’interno di ciascuno pseudotecio sono contenuti gli aschi, di forma clavata, da cui fuoriescono le ascospore che, trasportate dal vento su un organo vegetale recettivo, germinano in presenza di un velo d’acqua e danno avvio all’infezione primaria. Al termine del periodo di incubazione appaiono le tipiche macchie brunastre, in corrispondenza delle quali si differenziano le fruttificazioni conidiche di F. pirinum. Da queste ultime prendono avvio le infezioni secondarie, che si possono ripetere più volte fino all’autunno. Gli attacchi di ticchiolatura sul pero sono fortemente favoriti da un andamento stagionale piovoso, umido, con frequenti sbalzi di temperatura. Fra le varietà maggiormente colpite da questa malattia si possono segnalare: Kaiser, William, Guyot, Coscia, Decana d’inverno, Passa Crassana. Per contro, sono poco suscettibili: Conference e Abate Fétel.
Caratteristica efflorescenza miceliale bruno nerastra di Fusicladium pirinum
Foto R. Angelini
Danno da ticchiolatura su frutticino in accrescimento
Lesione di ticchiolatura su ramo Danno da ticchiolatura
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malattie Maculatura bruna (Stemphylium vesicarium) La maculatura bruna si è imposta, a partire da metà degli anni ’70, all’attenzione dei frutticoltori, in particolare dell’Italia settentrionale, destando un crescente e giustificato allarme per la gravità dei danni. Le principali cultivar di pero che possono essere colpite da questa malattia sono, in ordine decrescente di suscettibilità: Abate Fétel, Conference, Passa Crassana, Decana del Comizio e Kaiser. Questa grave fitopatia colpisce tutti gli organi verdi della pianta, ma è particolarmente dannosa per i frutti, sui quali determina lo sviluppo di marciumi, più o meno estesi. Le aree infette hanno inzialmente dimensioni di pochi millimetri e colore bruno scuro; successivamente si estendono interessando un’ampia superficie e conservando la forma tendenzialmente circolare, spesso contornata da alone rossastro. Tali tacche sono solitamente localizzate nella zona calicina e nella parte del frutto rivolta verso l’esterno della pianta. L’infezione, oltre a interessare la parte epidermica del frutto, penetra in profondità a mo’ di cuneo, fino a invadere gran parte della polpa, che va soggetta a un vero e proprio processo di marcescenza. I primi sintomi sui frutti compaiono solitamente nel mese di maggio e continuano a manifestarsi fino alla raccolta. In quest’epoca il numero dei frutti colpiti dalla malattia può a volte raggiungere anche valori dell’80-90% dell’intera produzione. I sintomi sulle foglie, che non sempre precedono l’attacco ai frutti, si possono evidenziare fin dal mese di aprile e consistono in macchie necrotiche di forma inizialmente circolare che progressivamente si allargano fino a interessare tutta la superficie fogliare, che assume una colorazione bruno-nerastra. Nei casi gravi, in prossimità della raccolta dei frutti, si può osservare un disseccamento pressoché totale delle foglie e una forte filloptosi. Manifestazioni necrotiche rotondeggianti, molto simili a quelle che compaiono sulle foglie, si possono
Foto R. Angelini
Infezioni tardive di maculatura su frutti maturi Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Danno da maculatura bruna
Foto R. Angelini
Sintomi di maculatura bruna su foglia Confronto tra testimone non trattato e parcelle difese da maculatura bruna
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coltivazione evidenziare anche sui piccioli fogliari e sui rametti, quando sono ancora allo stato erbaceo. Questa grave affezione è causata dal microrganismo fungino S. vesicarium che durante la sua attività vegetativa elabora delle sostanze tossiche in grado di provocare lesioni sull’epidermide di alcune varietà di pero. In particolare si tratta di tossine di tipo “ospite-specifico” che provocano la necrosi degli stomi e delle lenticelle solo di alcune cultivar di pero. Nelle aree necrotizzate da queste sostanze fitotossiche prende poi avvio il vero e proprio processo di marcescenza operato, oltre che dallo stesso S. vesicarium, anche da altri miceti opportunisti, fra i quali predomina Alternaria alternata. Questa malattia si ritrova con elevata frequenza nei frutteti localizzati in zone umide, in terreni limosi o argillosi, tendenzialmente asfittici e su piante deboli, clorotiche, prevalentemente innestate su cotogno, disposte in sesti troppo fitti e, pertanto, poco arieggiate. Altri fattori colturali che tendono a favorire l’insorgenza della malattia sono rappresentati dall’irrigazione e dalla mancanza di lavorazioni del terreno. Tutti gli elementi sopra indicati tendono, infatti, da un lato a favorire la sopravvivenza e lo sviluppo dei miceti responsabili di questa malattia e, dall’altro, a rendere le piante meno resistenti e quindi più facilmente aggredibili da parte di questi funghi fitopatogeni. La conservazione di questo micete da un anno all’altro può avvenire, oltre che nella forma agamica, anche in quella sessuata di Pleospora allii, sia sulle foglie sia sui frutti infetti caduti a terra. In primavera questi germi riprendono la loro attività vegetativa e patogenetica, che risulta influenzata in modo sostanziale dall’umidità e dalla temperatura ambientale; i valori ottimali di sviluppo sono compresi tra 22 e 26 °C. L’incidenza della malattia varia infine fortemente in funzione del diverso grado di suscettibilità delle cultivar di pero e dello stadio di maturazione dei frutti.
Foto R. Angelini
Caratteristico alone rossastro causato dall’infezione di S. vesicarium Foto R. Angelini
Esito di un attacco di maculatura bruna nella zona calicina
Foto R. Angelini
Sezione di frutto colpito da maculatura bruna Attacco di S. vesicarium su Passa Crassana
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malattie Moniliosi (Monilia fructigena) I frutti colpiti da questa malattia vanno soggetti ad un rapido imbrunimento, fino a ricoprirsi di cuscinetti miceliali giallastri disposti tipicamente a “circoli”. Nel caso che il patogeno penetri nel frutto attraverso il canale stilare, la zona marcescente rimane localizzata alla parte più interna, dando origine a una forma di “marciume del cuore”. Non è poi infrequente ritrovare sui frutti in conservazione o su quelli caduti a terra il “marciume nero”, così chiamato per il colore nerastro che assume la parte infetta. Gli attacchi a carico dei fiori, relativamente frequenti durante i periodi molto umidi e piovosi, producono l’imbrunimento dei petali e la necrosi dell’ovario. Sui rametti colpiti si ritrovano delle tacche depresse, nerastre, allungate, con i tessuti corticali a volte fessurati fino a rendere evidente il legno sottostante. Se l’infezione rameale è molto ampia si può verificare anche il disseccamento di tutta la parte sovrastante la zona infetta. Attacchi di moniliosi direttamente sulle foglie o sui germogli sono poco frequenti ed eccezionalmente producono disseccamenti degli organi colpiti. La conservazione invernale del patogeno avviene normalmente allo stadio di micelio sui frutti mummificati e lungo i tessuti corticali dei cancri rameali. È del tutto eccezionale la differenziazione della forma ascofora di Monilinia (= Sclerotinia) fructigena con i suoi caratteristici apoteci. In primavera e in estate, in concomitanza di periodi molto umidi, si sviluppano le fruttificazioni conidiche alle quali è affidato il compito di diffondere l’inoculo e di provocare le infezioni a carico dei vari organi vegetali recettivi. La suscettibilità all’infezione risulta fortemente aumentata dalla presenza di lesioni sulla superficie dei frutti e da uno stato di debilitazione generale della pianta.
Pera affetta da moniliosi
Frutticini colpiti da moniliosi durante l’allegagione
Ruggine (Gymnosporangium sabinae) I primi sintomi di questa malattia, che compare soprattutto nelle zone collinari e montane, si possono ritrovare sul pero verso la fine della primavera interessando tutti gli organi della pianta e, in particolare, le foglie, ove appaiono delle macchie di forma ovale. In corrispondenza di esse i tessuti si presentano alterati, ispessiti e assumono nella pagina superiore un colore giallo scuro con alone periferico chiaro. Nella pagina inferiore della foglia appare, più tardi, la forma ecidica del fungo, nota come Roestelia cancellata, con caratteristiche escrescenze mammellonari, dalle quali affiorano coni biancastri, lunghi alcuni millimetri. Gli attacchi sui frutti e sui rametti compaiono eccezionalmente. Le piante affette gravemente da ruggine non fruttificano regolarmente o producono frutti di piccole dimensioni.
Caratteristica manifestazione di ruggine
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coltivazione Oltre che su pero questo microrganismo è presente in primavera (aprile-maggio) sui rami del ginepro sotto forma di piccole protuberanze di colore giallo brunastro, di consistenza gelatinosa se la stagione è umida, oppure coriacea se la stagione decorre asciutta. Tali protuberanze emergono dalle screpolature della corteccia interessata dal fungo. L’agente responsabile di questa malattia è un microrganismo eteroico, che compie cioè il suo ciclo biologico su due piante diverse: il pero e il ginepro. Su quest’ultima specie si differenzia la forma teleutosorica di Gymnosporangium sabinae che conserva l’inoculo durante l’inverno, per poi, nella primavera successiva, liberare le basiodiospore. Queste ultime si diffondono per mezzo del vento fino a raggiungere le foglie di pero, dove germinano e perforano la cuticola. A fine primavera-inizio estate, sulle foglie di pero infette si differenziano, nella pagina superiore, la forma picnidica e, in quella inferiore, la forma ecidica. Le spore prodotte dagli ecidi (ecidiospore) in autunno ritornano poi nuovamente sul ginepro per completare il ciclo biologico, differenziando su quest’ultimo ospite dapprima gli uredosori e infine i teleutosori ibernanti.
Esito di un attacco di ruggine
Septoriosi (Septoria pyricola) I sintomi di questa fitopatia, che colpisce occasionalmente il pero, appaiono sulle foglie e anche, raramente, sui frutti sotto forma di tacche brunastre, del diametro di 3-4 mm con la zona centrale più chiara. Al centro di tali aree compaiono successivamente dei piccoli punti neri, visibili a occhio nudo, che sono le fruttificazioni picnidiche del patogeno. Le foglie ammalate tendono a cadere anticipatamente rallentando in tal modo il processo di accrescimento dei rami e dei frutti. Gli esiti di questa malattia compaiono generalmente in giugno e possono ripresentarsi durante i successivi mesi estivi e autunnali. La diffusione del patogeno avviene a opera dei conidi trasportati dal vento o dalla pioggia, i quali in presenza di acqua iniziano a germinare e a penetrare per via stomatica. L’intensità della malattia varia fortemente da una varietà all’altra in funzione della differente suscettibilità (molto recettiva la varietà Coscia). Gli attacchi più gravi si registrano solitamente nelle annate caratterizzate da elevate precipitazioni durante i mesi primaverili-estivi. La conservazione del patogeno da un anno all’altro può avvenire o per mezzo delle fruttificazioni picnidiche della forma agamica Septoria pyricola oppure, più frequentemente, nella forma ascofora di Mycosphaerella pyri (= M. sentina) che si differenzia, durante i mesi invernali, nelle foglie ammalate cadute a terra. Nella primavera successiva, in concomitanza di periodi molto piovosi e con valori di temperatura superiori a 10 °C, dagli pseudoteci ibernanti si liberano le ascospore che vanno così a reinfettare le foglie di pero.
Foglie colpite da Septoria pyricola
Septoriosi su foglie e frutti
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malattie Cancri rameali (Nectria galligena, Botryosphaeria obtusa, Diaporthe perniciosa,Valsa ceratosperma) Agenti di cancri e seccumi rameali su pero sono vari funghi fitopatogeni presenti in natura, a volte nella forma sessuata a volte in quella agamica. Queste ultime sono di seguito indicate fra parentesi: Nectria galligena (f. con. Cylindrocarpon mali), Botryosphaeria obtusa (f. con. Sphaeropsis malorum), Diaporthe perniciosa (f. con. Phomopsis mali), Valsa ceratosperma (f. con. Cytospora vitis). L’intensità degli attacchi di questi miceti varia sensibilmente da un anno all’altro in relazione soprattutto all’andamento climatico, mentre nei diversi frutteti la gravità della malattia è strettamente correlata al potenziale di inoculo presente e alle varie pratiche colturali. Generalmente gli impianti più colpiti sono quelli vecchi, situati in zone umide, su terreni tendenzialmente acidi, argillosi e ricchi di azoto. Tutti i miceti sopra indicati sono da considerare patogeni da ferita, poiché il loro ingresso nei tessuti della pianta ospite avviene, di norma, attraverso lesioni della corteccia causate da colpi di grandine, da potature o dal distacco delle foglie. Gli esiti delle infezioni di questi microrganismi sui rami e sulle branche si manifestano sotto forma di lesioni cancerose, più o meno ampie, leggermente depresse e screpolate, contornate da una barriera cicatriziale prodotta dalla pianta per tentare di arginare il processo infettivo. A volte la parte ammalata va incontro a un profondo processo di necrotizzazione che può raggiungere il tessuto legnoso centrale, compromettendo anche la stabilità della pianta, mentre i rami tendono a spezzarsi. In corrispondenza delle aree cancerose, localizzate prevalentemente in prossimità delle gemme o all’inserzione dei giovani rami, si possono ritrovare le strutture vegetative e riproduttive dei vari agenti causali che appaiono sotto forma di corpiccioli rotondeggianti di colore nero o rossastro oppure di masserelle biancastre o di cirri mucillaginosi. La presenza di queste fruttificazioni può aiutare nella determina-
Differenti manifestazioni di “cancri” provocati da Nectria galligena
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coltivazione zione eziologica, anche se molto spesso per una corretta diagnosi è necessario ricorrere ad analisi di laboratorio. Da segnalare che questi miceti, oltre a produrre cancri rameali, possono causare marciumi a carico dei frutti di melo e pero sia in campo che in post-raccolta. Marciume del colletto (Phytophthora spp.) Le piante colpite presentano un deperimento generale, foglie clorotiche, avvizzite, getti ridotti e anticipata defogliazione, fino ad arrivare, nei casi più gravi, alla morte delle piante stesse. Le alterazioni più caratteristiche sono riscontrabili a livello della zona del colletto, che presenta un marcato imbrunimento della corteccia e ampie aree necrotiche; anche il cambio è imbrunito. Tali alterazioni possono interessare, oltre al colletto, anche il tronco per un’altezza di 10-20 cm, e le grosse radici, mentre quelle più sottili e profonde non sono solitamente attaccate. Questa malattia colpisce anche i frutti che vanno soggetti ad un rapido processo di marcescenza. Il processo infettivo si realizza attraverso la penetrazione delle strutture riproduttive del patogeno (zoospore) dalle lenticelle o da ferite di qualsiasi tipo. Le fonti di inoculo sono costituite prevalentemente dai frutti caduti a terra, sui quali questo microrganismo si insedia con facilità, o dai residui vegetali contaminati che rimangono nel terreno. Cause predisponenti la malattia sono rappresentate da ristagni d’acqua, terreni asfittici e da un generale indebolimento della pianta. La lotta si basa soprattutto sulla scelta di portinnesti poco suscettibili e sulla rimozione delle cause predisponenti l’affezione; si raccomanda pertanto l’eliminazione dei ristagni d’acqua tramite la costruzione di un’efficiente rete di scolo e l’areazione delle piante, principalmente a livello della zona del colletto. In caso di piante
Frutto colpito da Sphaeropsis malorum
Colletto e radici infette da Phytophthora spp.
Frutto marcescente affetto da Phytophthora spp. Pianta colpita da marciume radicale da Armillaria mellea
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malattie colpite da questa malattia può risultare utile disinfettare la zona del colletto con sali di rame o con fungicidi endoterapici. Marciume radicale (Armillaria mellea, Rosellinia necatrix) I più comuni agenti di marciume radicale sono il basidiomicete Armillaria mellea e l’ascomicete Rosellinia necatrix, la cui forma conidica è Dematophora necatrix. Si tratta di microrganismi polifagi in grado di conservarsi a lungo nel terreno, per poi diffondersi per micelio o per rizomorfe. L’insediamento nell’ospite si realizza tramite ferite o per aggressione diretta delle giovani radichette. Questo tipo di malattia è più frequente nei terreni umidi e ricchi di sostanza organica. Il marciume radicale si manifesta con un indebolimento generale della pianta, vegetazione stentata, clorosi e appassimento progressivo delle foglie. Questo quadro sintomatologico aspecifico non è però sufficiente a definire la malattia, i cui sintomi più caratteristici sono osservabili solo a livello dell’apparato radicale. In tale sede sono rilevabili, nel caso del marciume radicale fibroso provocato da Armillaria mellea, dei feltri miceliali biancastri o color crema che, nella parte periferica, assumono una caratteristica conformazione a ventaglio. Le radici colpite emanano un tipico odore di fungo fresco e appaiono ricoperte da rizomorfe, cioè da addensamenti di micelio, dapprima biancastri e poi bruno-nerastri, simili a minute radici. Alla base delle piante colpite sono a volte osservabili durante i mesi autunnali anche i corpi fruttiferi del patogeno (chiodini o famigliole), ben noti e ricercati per preparare gustosi condimenti e pietanze. Nel caso del marciume radicale lanoso, causato da Rosellinia necatrix, le radici appaiono avvolte da una rete miceliale dapprima biancastra e poi bruna, che si espande in masse feltrose sfioccate alla periferia.
Micelio di Rosellinia necatrix
Chiodini di Armillaria mellea (famigliole)
Tumore radicale (Agrobacterium tumefaciens) Di norma i tumori si differenziano lungo qualche radice e non provocano gravi disturbi allo sviluppo della pianta, ma, nel caso in cui la massa tumorale sia diffusa su gran parte dell’apparato radicale o sia localizzata nella zona del colletto o nei tagli di cimatura delle radici, si possono osservare fenomeni di deperimento generale e, in particolare su piante giovani, sviluppo stentato, fino al limite della sopravvivenza. L’agente di questa malattia, A. tumefaciens, è un patogeno ubiquitario ampiamente diffuso in quasi tutti i terreni e in grado di penetrare nella pianta ospite solo attraverso lesioni. Una volta all’interno dei tessuti corticali induce un’alterazione genetica nella cellula vegetale con cui viene a contatto, la quale diventa un centro tumorale, moltiplicandosi in modo abnorme e originando il tumore. La massa tumorale si accresce progressivamente assumendo dapprima una consistenza morbida e una colorazione
Massa tumorale nella zona del colletto
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coltivazione biancastra, successivamente indurisce e può andare incontro a fenomeni di disgregazione a causa dei vari microrganismi terricoli, con conseguente liberazione di agrobatteri tumorigeni che vanno così ad aumentare il grado di contaminazione dei terreni stessi. Nella costituzione di nuovi impianti è buona norma escludere le piante che mostrano tumori radicali. Colpo di fuoco batterico (Erwinia amylovora) II colpo di fuoco batterico è la più pericolosa malattia del pero, i cui esiti possono manifestarsi improvvisamente su tutte le parti aeree della pianta. Alla ripresa vegetativa si possono osservare avvizzi mento e annerimento dei mazzetti fiorali e, dopo l’allegagione, imbrunimento e disseccamento dei frutticini. Le infezioni dei germogli in attiva crescita si manifestano con avvizzimento e caratteristico ripiegamento a pastorale dell’apice. Le foglie sono invase dai batteri attraverso il picciolo; in breve tempo la foglia colpita si ripiega a doccia e dissecca. In genere gli organi infetti da E. amylovora assumono una colorazione bruno-nerastra. Fiori, giovani frutti e foglie avvizziti rimangono tenacemente attaccati al ramo. La progressione dell’infezione su rami, branche e tronco causa la formazione di cancri corticali di solito ben individuabili alla fine dell’estate. Questi cancri hanno forma irregolare, sono di colore scuro, e inizialmente il loro margine è indefinito o leggermente vescicoloso. Alla fine della stagione vegetativa la corteccia diventa bruna e si presenta depressa al centro, mentre al bordo compaiono fessurazioni. Quando il cancro corticale interessa l’intera circonferenza di un ramo si ha il disseccamento del ramo stesso, fino a portare alla morte della pianta, soprattutto se l’infezione interessa il tronco o il colletto. Asportando un sottile strato di corteccia in corrispondenza del bordo del cancro si può osservare l’arrossamento dei tessuti sottocorticali. Anche i frutti possono essere colpiti dalla batteriosi, che si manifesta con aree imbrunite
Tumore batterico su radici di pero Foto R. Angelini
Tipico sintomo di colpo di fuoco batterico Foto R. Angelini
Pianta colpita da Erwinia amylovora Essudato batterico su frutto
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malattie e molli soggette a marciume. I batteri possono evadere dai tessuti infetti come essudato, formato da milioni di cellule vive di E. amylovora. In condizioni di elevata umidità ambientale l’essudato è presente come gocce di un liquido lattiginoso di colore biancastro o aranciato, che può anche colare lungo i rami. II ciclo biologico di E. amylovora si svolge completamente in associazione con la pianta ospite. Alla ripresa vegetativa i cancri riprendono la loro attività ed i batteri che di lì evadono sotto forma di essudato, veicolati dal vento, dall’acqua (nebbie, piogge), dagli insetti, dagli uccelli e dall’uomo (potatura) vanno a infettare i fiori, le foglie e i germogli. La penetrazione nei tessuti avviene princi palmente attraverso le aperture naturali degli organi delle piante quali le strutture fiorali e attraverso le ferite, siano esse microscopiche o visibili. Raramente la penetrazione avviene per stomi, idatodi o lenticelle. Sedi di penetrazione estremamente pericolose ed efficaci sono le ferite da grandine. Il periodo della fioritura è ritenuto il più critico per quanto riguarda sia la recettività della pianta all’infezione, sia la diffusione dell’inoculo. Le infezioni poi progrediscono fino a interessare le foglie, i frutti, i rami e le branche, con formazione su questi ultimi di cancri corticali di norma ben individuabili in autunno. E. amylovora può sopravvivere a lungo, senza causare la malattia, sia sulle superfici degli organi della pianta ospite sia entro le sue strutture vascolari. Le gemme e le cicatrici di caduta delle foglie contaminatesi durante un ciclo vegetativo possono costituire le sedi di infezione primaria alla ripresa vegetativa. Allo stesso modo il patogeno dopo alcuni anni di sopravvivenza entro le strutture vascolari della pianta può originare i sintomi tipici sulle parti legnose. Le condizioni climatiche predisponenti la moltiplicazione dei batteri e la comparsa dei sintomi della malattia sono umidità relativa > 60% e temperature di 15-32 °C, associate a nebbie, rugiade, piogge e grandinate. I temporali estivi contribuiscono alla diffusione dell’inoculo batterico e aumentano la gravità del danno. Inoltre, possono favorire la batteriosi le pratiche colturali che portano a un elevato vigore vegetativo, quali irrigazioni a pioggia, elevate conci mazioni azotate o potature pesanti.
Foto R. Angelini
Esito dell’attacco di E. amylovora su germoglio Foto R. Angelini
Necrosi delle gemme e dei fiori (Pseudomonas syringae pv. syringae) Alla ripresa vegetativa le gemme, talvolta dopo un parziale ingrossamento, imbruniscono, disseccano e si staccano dal ramo. Sui fiori si possono osservare le tipiche infezioni calicine, con annerimento della parte distale del ricettacolo e talora necrosi dell’intero ricettacolo e del peduncolo fiorale. L’infezione dapprima localizzata nell’area perigemmaria e a livello delle infiorescenze può estendersi e causare la morte dei giovani rami. Nel punto di inserzione di un ramo o di una branca interessati dal processo necrotico, possono insorgere cancri, di solito ben
Grave attacco di colpo di fuoco batterico
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coltivazione delimitati da screpolature periferiche. Le foglie colpite presentano tacche rotondeggianti, nere che sono spesso causa di deformazioni del lembo. Sui frutticini l’infezione si manifesta sotto forma di maculature nerastre, a contorno irregolare, superficiali, che successivamente assumono un colore più chiaro, si seccano e poi si staccano lasciando una depressione suberosa ancora visibile sul frutto a sviluppo ultimato. Molti dei sintomi descritti possono essere causati non solo da P. syringae pv. syringae, ma anche dall’altro temibile batterio fitopatogeno prima illustrato, cioè Erwinia amylovora, oppure da cause non parassitarie conseguenti a disturbi fisiologici (squilibri nutrizionali) e/o abbassamenti termici. A quest’ultimo proposito si ricorda che alcuni ceppi di P. syringae, come pure di altri batteri comunemente presenti sulla pianta, hanno la capacità di provocare la formazione del ghiaccio già a temperature di –2 °C. Tali ceppi criogeni svolgono un ruolo importante nel determinismo dei danni da gelo nelle piante, arboree ed erbacee. In caso di abbassamenti termici in fioritura il danno può essere pertanto accentuato. La moltiplicazione dei batteri e la manifestazione dei sintomi avvengono a temperature intorno ai 12-15 °C, non superiori ai 20 °C. Le lesioni presenti sulla pianta sono le principali vie di penetrazione del patogeno nei tessuti vegetali. Il periodo autunnale è il più critico perché i batteri invadono le superfici di
Foto R. Angelini
Tipico sintomo di necrosi dei fiori Foto R. Angelini
Necrosi fiorale causata da Pseudomonas syringae
Foglia colpita da P. syringae Piante con arrossamenti causati da moria del pero
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malattie distacco dei frutti e di caduta delle foglie, per poi diffondersi nei tessuti sottostanti e colonizzare la nuova vegetazione alla primavera successiva. Moria del pero Questa malattia infettiva causata da fitoplasmi si può manifestare con due distinti quadri sintomatologici: il “deperimento lento” e il “deperimento rapido”. Nel primo caso le piante innestate su portinnesti tolleranti l’infezione presentano in estate le foglie di colore rosso carminio, di consistenza superiore al normale, frattura vitrea, con margini incurvati a doccia verso l’alto. In autunno si registra una caduta anticipata delle foglie mentre in primavera la vegetazione appare stentata, con la lamina fogliare di colore verde chiaro e più piccola del normale. Le piante affette da quest’alterazione possono sopravvivere per alcuni anni. Nel “deperimento rapido”, praticamente assente in Italia in quanto non vengono utilizzati portinnesti molto suscettibili, le foglie imbruniscono e disseccano rapidamente mentre le piante muoiono nel giro di poche settimane. Vi è anche una terza manifestazione, detta “accartocciamento fogliare”, che si manifesta esclusivamente sulle foglie a fine estate o in autunno con arrossamenti, ricurvamento dei margini della lamina verso l’alto e ripiegamento dell’apice fogliare verso il basso. In questa terza sindrome le piante possono andare incontro a una progressiva perdita di vigore, oppure riprendersi e mostrare per alcuni anni una vegetazione pressoché normale. In tutti i casi, nelle piante affette da «moria» causata da fitoplasmi si ha una ridotta funzionalità del sistema conduttore discendente in quanto i tubi cribrosi del floema, immediatamente al di sotto dell’unione dei due bionti, risultano necrotizzati. La diffusione di questa malattia infettiva avviene tramite la psilla con le sue secrezioni salivari.
Caratteristica alterazione del floema nel punto di innesto in una pianta di pero affetta da “moria”
Litiasi infettiva Le pere affette da litiasi infettiva o contagiosa si presentano già pochi giorni dopo l’allegagione deformate, con profonde gibbosità, alternate ad aree depresse. La buccia in corrispondenza delle depressioni mantiene un colore verde scuro mentre la polpa sottostante presenta noduli sclerificati, imbruniti, dall’aspetto sugheroso e sapore amarognolo. Manifestazioni molto simili sono indotte anche da punture di emitteri miridi o da borocarenza (litiasi fisiologica). Le piante colpite da litiasi infettiva possono mostrare anche fessurazioni dei rami, con necrosi del tessuto floematico e cambiale. Tutti i frutti di una pianta infetta possono risultare alterati, oppure solo alcuni distribuiti irregolarmente o concentrati in una parte della chioma. Le cultivar più suscettibili sono: Kaiser, Butirra d’Anjou, Butirra Hardy,
Pera affetta da litiasi infettiva. Il termine “litiasi” ha origine dal vocabolo greco lithos che significa “pietra” (per la caratteristica presenza nella polpa delle pere infette da questa virosi di cellule indurite e pietrose)
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coltivazione Decana del Comizio, Decana d’inverno, Abate Fétel, Conference, Packham’s Triumph. La litiasi infettiva è provocata da ceppi virulenti del virus del giallume delle nervature. La trasmissione del virus da una pianta all’altra sembra possa avvenire esclusivamente per parti di pianta infette (per esempio marze ecc.). È pertanto fondamentale come misura di prevenzione impiegare esclusivamente materiale vivaistico virus-esente. Sulle piante colpite si può contenere il danno reinnestandole su cultivar tolleranti, come la William.
Foto Mazzoni
Difesa dalle malattie Presupposto fondamentale per la buona riuscita di un impianto è l’impiego di materiale di moltiplicazione sano e soprattutto non infetto da virus e fitoplasmi. Per avere ampie garanzie sia sulla rispondenza genetica sia sullo stato sanitario del materiale impiegato per la costituzione dei nuovi impianti, è opportuno richiedere piante “virus esenti” o “virus controllate”. È poi buona norma esaminare accuratamente il materiale di moltiplicazione per accertare la presenza di malattie che possono creare seri problemi alla coltura. In particolare è opportuno verificare che sugli astoni non siano presenti esiti di infezioni fungine o batteriche, mentre sull’apparato radicale e al colletto non devono essere evidenti tumori di Agrobacterium tumefaciens o marciumi causati da Armillaria mellea, Rosellinia necatrix, Pythium spp., Phytophthora spp.. La sanità di un frutteto dipende poi dagli interventi e dalle operazioni colturali attuati nella fase d’impianto, quali la concimazione, la densità di piantagione e la sistemazione idraulica del suolo. A questo proposito è stato accertato che le piante sofferenti a causa di ristagni d’acqua sono facilmente soggette a marciumi del
Astone certificato “virus esente”
Trattamento in vivaio
Foto S. Musacchi
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malattie colletto. Per quanto riguarda il terreno, occorre poi considerare la tessitura, il contenuto in calcare attivo e la disponibilità idrica al fine di scegliere i portinnesti e le varietà più adatte, nonché il sesto di impianto e la forma di allevamento. Nella fase di allevamento dovrà essere attentamente curata la difesa fungicida, in particolare contro gli agenti di cancri e seccumi rameali che possono insediarsi lungo il fusto, i rami e le gemme, provocando danni consistenti e obbligando in certi casi a drastiche potature. Per prevenire tali infezioni è opportuno eseguire nel periodo autunnale e in quello primaverile, in concomitanza della caduta delle foglie e della ripresa vegetativa, trattamenti con preparati rameici o fungicidi organici. Nella fase di produzione la difesa deve essere attuata prestando una particolare attenzione alla scelta dei fungicidi, privilegiando quelli dotati di bassa tossicità e residualità, di limitato impatto ambientale, di una sufficiente selettività e non fitotossici sulle differenti cultivar. La strategia fitoiatrica da attuare va definita prioritariamente in funzione del potenziale rischio di infezione, che varia da zona a zona, da cultivar a cultivar e, non ultimo, da frutteto a frutteto, in base allo stato fitosanitario e vegetativo in cui esso si trova. Per valutare il rischio d’infezione e il momento ottimale per il trattamento fungicida, si possono utilizzare modelli previsionali basati sull’elaborazione di dati meteorologici, biologici e agronomici. Nella maggior parte dei pereti la difesa fungicida è rivolta prioritariamente contro la ticchiolatura, malattia presente in tutte le aree di coltivazione del pero e in grado di causare ogni anno danni più o meno consistenti in relazione all’andamento climatico e alla suscettibilità varietale. Il primo intervento antiticchiolatura va realizzato nella fase fenologica di rottura gemme e ha come obiettivo quello di devitalizzare le spore responsabili delle infezioni primarie, nonché
Foto R.Balestrazzi
Centralina elettronica per la rilevazione dei dati meteorologici
Valutazione del rischio di infezione DATI INPUT – meteorologici – biologici – agronomici
DATI OUTPUT – previsioni di rischio epidemico – valutazione del momento ottimale per il trattamento
Termoumettografo per la misurazione delle ore di bagnatura delle foglie
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coltivazione di altri miceti alberganti fra le perule delle gemme o le anfrattuosità della corteccia. Per quest’intervento si ricorre di norma a fungicidi rameici (ossicloruri, idrossidi, poltiglia bordolese), che consentono anche di limitare la carica di inoculo dei batteri fitopatogeni. La difesa dalla ticchiolatura va poi proseguita dalla fase dei mazzetti affioranti fino a quella dei frutticini sviluppati con applicazioni di fungicidi di copertura o endoterapici a turni fissi o variabili in funzione dell’andamento stagionale, della suscettibilità varietale e della frequenza con la quale questa malattia si manifesta nella zona in cui si opera. La scelta del preparato fungicida va fatta anche in relazione alla fase fenologica, al tipo di intervento (preventivo o curativo) e all’eventuale fitotossicità di alcuni preparati su certe cultivar. La difesa contro questa malattia viene di norma sospesa al raggiungimento della fase di ingrossamento dei frutti, qualora il frutteto risulti indenne da infezioni; in caso contrario i trattamenti dovranno proseguire ed essere effettuati in concomitanza di piogge infettanti. Per valutare correttamente il rischio di infezione si utilizzano sia captaspore, per accertare la presenza di spore nell’ambiente, sia modelli previsionali basati sulla correlazione fra valori di temperatura, pioggia, umidità relativa e ore di bagnatura delle foglie. Per l’acquisizione e l’elaborazione dei dati meteorologici vengono utilizzate apposite centraline elettroniche, ormai ampiamente diffuse nelle maggiori aree frutticole del nostro Paese. Nei pereti a rischio di attacchi di maculatura bruna, la strategia di difesa fungicida va modificata rispetto a quella sopra indica-
Captaspore per la determinazione del numero di spore fitopatogene presenti nell’ambiente nei diversi momenti
Momenti di intervento nelle diverse fasi fenologiche contro le principali malattie
Gemme ferme
Mazzetti chiusi
Fioritura
Allegagione
Ingrossamento frutti
Ticchiolatura Maculatura bruna Cancri rameali
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Raccolta
malattie ta per contenere adeguatamente anche questa grave malattia crittogamica. Innanzitutto il programma di difesa contro quest’affezione deve prevedere interventi agronomici e colturali atti a migliorare lo stato vegetativo delle piante e ad abbassare il potenziale infettivo. A tal fine è opportuno mantenere il suolo lavorato, evitare i ristagni d’acqua, effettuare concimazioni equilibrate, prevenire fenomeni di clorosi e limitare le irrigazioni, soprattutto soprachioma. Oltre a queste misure di carattere profilattico è poi necessario mettere in atto uno specifico programma fitoiatrico che preveda una protezione chimica delle piante dalla fase di caduta petali fino alla preraccolta. La cadenza dei trattamenti dovrà variare in funzione della persistenza del fungicida impiegato, dell’andamento climatico e del livello di gravità con la quale questa malattia si è manifestata nel frutteto negli anni precedenti. Negli impianti colpiti in forma grave, con danni sui frutti superiori all’8-10%, è necessario effettuare applicazioni fungicide a cadenza pressoché settimanale, mentre in quelli interessati dalla malattia su livelli inferiori è sufficiente intervenire in concomitanza di piogge, irrigazioni, nebbie persistenti o prolungata bagnatura degli organi della pianta. Di norma è opportuno effettuare un ultimo trattamento fungicida nella fase di preraccolta per prevenire infezioni tardive di ticchiolatura e maculatura bruna. Gli interventi in questa fase sono utili anche per limitare lo sviluppo di marciumi sui frutti in magazzino.
Termoigrografo per la rilevazione dei valori di temperatura e umidità relativa
Foto Tifone Srl
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il pero
coltivazione Post-raccolta Stefano Brigati
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Post-raccolta Foto R. Angelini
Introduzione L’epoca di raccolta costituisce uno dei momenti fondamentali della filiera produttiva dove viene caratterizzata sia la qualità in senso lato che la serbevolezza del prodotto. Per individuare il momento ottimale di raccolta, il produttore si avvale di indici diversi quali, colore di fondo misurato con carte colorimetriche, pezzatura, giorni intercorsi dalla fioritura ecc. Ma quelli che si sono diffusi maggiormente perché di facile applicazione e di sufficiente rispondenza fisiologica sono gli indici oggettivi di raccolta. Per le pere sono utilizzati prevalentemente la durezza della polpa (misurata con un penetrometro ed espressa in kg/cm2) e in subordine il contenuto di zuccheri totali (residuo secco rifrattometrico RSR), contenuto di amido e acidità totale. Recentemente sono stati introdotti sistemi di misura che non prevedono la distruzione del frutto ma utilizzano il sistema cosiddetto NIR, ovverosia la determinazione del grado di maturazione fatta sfruttando radiazioni di lunghezza d’onda nel vicino infrarosso. Solo una piccola percentuale di pere viene consumata subito dopo la raccolta; la disponibilità del prodotto pera nazionale sui mercati si può avere per molti mesi (6-8) dopo la raccolta. Per questo motivo, la scelta del momento ottimale per raccogliere i frutti, deve essere guidata dalla necessità di garantire la serbevolezza delle diverse cultivar durante la conservazione refrigerata. Infatti, frutti raccolti troppo precocemente, manifestano una maggior suscettibilità all’avvizzimento, alle alterazioni di origine fisiologica e risultano meno dolci e aromatici, mentre
Indici di maturazione e parametri di qualità delle pere alla raccolta Cultivar
Durezza (kg/cm2)
RSR (%)
Abate Fétel
5
13-14
Canal Red*
5,5
10
Cascade
5,5-6
12,7
Concorde
5,5-6
16
Conference
5,5
13-14
Decana del C.
4,5
12,5-14,5
Ercole d’Este
6
14
Etrusca*
3,3
11,2
Fertilia Delbard
5,5
11
Guyot
7
10-11
Harvest Queen*
5,5
13,3
Highland*
5,5
13,5
Kaiser
5,5-6
14-15,5
Max Red Bartlett
6,5-7
Packam’s T.
5,5-6
11-12,5
Passa Crassana
6-6,5
13-15,5
Red Sensation
7,5
13
Rosada
5
12,6
Rosired Bartlett
6,5-7
13,5
Santa Maria
5
11-13
Williams’
6,5
10-12
Foto S. Musacci
* Dati provvisori Fonte: CRIOF
Carro raccolta
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post-raccolta quelli raccolti troppo maturi sono particolarmente sensibili allo sviluppo di marciumi, ai danni meccanici (ferite, abrasioni, ammaccature ecc.), alla sovramaturazione e sono caratterizzati da una bassa acidità, con ricadute negative sul sapore. A causa dei problemi sopraesposti, le pere vengono troppo spesso raccolte, conservate e immesse sul mercato a uno stato di maturazione arretrato, con colore di fondo verde, polpa molto consistente e scarso aroma. Pertanto non ci si attiene ai valori consigliati per la immissione al consumo delle pere. Tali valori scaturiscono da ricerche tendenti a elevare il più possibile gli standard qualitativi dei frutti. Per una migliore valorizzazione qualitativa, particolare attenzione deve essere rivolta alle tecniche che permettono un idoneo innesco del processo di maturazione in post-raccolta. In particolare alcune varietà a raccolta tardiva (Decana del Comizio, Kaiser, Packham’s Triumph ecc.) necessitano di un periodo di permanenza al freddo (15-60 giorni) a cui deve seguire la maturazione vera e propria a 18-20 °C, per tempi variabili in funzione della cultivar e dello stadio di maturazione del frutto alla raccolta. Si deve quindi favorire l’intenerimento della polpa fino allo stadio fisiologico a cui corrisponde il raggiungimento delle migliori caratteristiche organolettiche. Tenuto conto della scalarità di maturazione nell’ambito di una stessa pianta, sarebbe opportuno procedere a più di una raccolta. Nelle fasi di distacco dei frutti e deposito nei contenitori di raccolta e trasferimento nei palletbox o nelle casse, si devono adottare le precauzioni necessarie, onde evitare contusioni e ferite che potrebbero comprometterne la serbevolezza. Il tempo intercorso tra la raccolta e il conferimento alla centrale di lavorazione dovrebbe essere il più breve possibile.
Standard di qualità per il consumo delle pere Cultivar
Durezza (kg/cm2)
RSR (%)
Abate Fétel
1.2-2
≥ 13
Canal Red*
0.8
≥ 12
Cascade
0.8-1.2
≥ 14
Concorde
2-2.5
≥ 17
Conference
0.8-1.5
≥ 13
Decana del C.
0.8-1.2
≥ 13
Ercole d’Este
2.5
≥ 14
Etrusca
2
Fertilia Delbard
1.5
≥ 13
Harvest Queen*
0.8-1.2
≥ 15
Kaiser
1.5
≥ 13
Red Sensation
0.8-1.5
≥ 14
Rosada
2.5-3
≥ 14
Rosired Bartlett
0.8-1.2
≥ 15
Santa Maria
0.8-1.2
≥ 12
Williams’
0.8-1.2
≥ 11
* Dati provvisori Fonte: CRIOF
Foto U. Parmeggiani
179
≥ 11,5
coltivazione Prerefrigerazione Le pere, in generale, dovrebbero essere refrigerate entro 24 ore dalla raccolta in modo da impedire una rapida evoluzione della maturazione dopo il distacco dei frutti. Ogni progresso del processo fisiologico di maturazione, soprattutto nelle varietà estive tipo William, abbrevia di molto la durata della conservazione refrigerata, aumenta la suscettibilità ai marciumi e alle fisiopatie. I sistemi di prerefrigerazione sono diversi, ma fanno riferimento sostanzialmente a 2 tipologie, in rapporto al sistema di asportazione del calore metabolico dai frutti. La prerefrigerazione ad aria, nelle sue diverse modalità di esecuzione, è il sistema più diffuso e utilizzato. Sono richiesti tempi di raffreddamento abbastanza lunghi per portare la temperatura dei frutti dai valori elevati di campo (30-35 °C) a quelli ottimali (2-4 °C) per l’inizio della conservazione refrigerata. La prerefrigerazione ad acqua o idrorefrigerazione, nelle sue varianti a pioggia o per immersione utilizza acqua fredda (1-2 °C) per asportare il calore metabolico dei frutti. La velocità di raffreddamento risulta notevolmente superiore rispetto al sistema ad aria, ma contemporaneamente aumenta il rischio che si sviluppino idropatie (formazione di micro e/o macrolesioni conseguenti a un eccessivo assorbimento di acqua) e di infezioni provocate da numerosi microrganismi patogeni presenti nell’acqua di raffreddamento.
Sistemi di prerefrigerazione Aria
Acqua
Cella Tunnel Forzata in pressione Forzata in depressione
Pioggia Immersione
Sistemi di prerefrigerazione utilizzati per la conservazione delle pere Foto Conserve Italia
Conferimento e prelavorazione Al fine di conseguire un più elevato grado di qualità, ove possibile, sarebbe opportuna la prelavorazione, al fine di separare i frutti in classi di calibro e in categorie di maturazione. Questo per realizzare un piano di conservazione e commercializzazione nel tempo, rapportato alle caratteristiche del prodotto. Foto Conserve Italia
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post-raccolta Alterazioni post-raccolta Le più importanti e frequenti cause di perdita di prodotto dopo la raccolta sono rappresentate dalle micopatie e dalle fisiopatie. Di seguito sono riportate le principali in ordine di importanza sulle pere. Micopatie Marciume verde-azzurro (Penicillium spp.) Può interessare in casi particolari anche il 40% dei frutti. Il patogeno penetra attraverso le ferite procurate durante la raccolta o la lavorazione, le lenticelle (frutti maturi) e il peduncolo, avente l’estremità distale non cicatrizzata (barriera suberosa sulla ferita provocata dal distacco del frutto dalla pianta). Il marciume si presenta, nella parte colpita del frutto, con una zona molle, edematosa, di colore marrone. Dalle lesioni epidermiche della tacca di marciume fuoriescono gli ammassi fungini (micelio) di colore bianco, che in seguito diverranno verde-azzurro quando i germi di riproduzione (spore o conidi) saranno maturi. I conidi, abbondantissimi, sono di tipo xerofilo e trasportabili da lievi correnti d’aria con diffusione in tutti gli ambienti dove sono presenti ortofrutticoli freschi. La maggiore fonte di inoculo è rappresentata dai residui dei frutti marcescenti negli imballaggi, nelle linee di lavorazione, nelle celle frigorifere e da altre sostanze organiche vegetali morte dove il micete si sviluppa.
Pera affetta da marciume verde-azzurro
Infezione in corrispondenza del peduncolo Foto I. Ponti
In condizioni di umidità relativa prossima alla saturazione e con temperature superiori a 4-5 °C è facile riscontrare incidenze molto alte di marciume verde-azzurro
Conidiofori e conidi di Penicilium
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coltivazione Marciume grigio (Botrytis cinerea) La sua morbilità risulta inferiore rispetto alla muffa verde-azzurra interessando, di norma, non oltre il 2-4% dei frutti a fine conservazione. Le vie preferenziali di penetrazione del patogeno sono rappresentate dalle ferite (alla raccolta o nelle fasi successive) e per contatto. Quest’ultima modalità di penetrazione è tipica delle pere.
Marciume grigio: i frutti sani si possono infettare semplicemente attraverso il contatto con frutti malati. Si possono così formare caratteristici nidi miceliali
È su questi frutti che principalmente si ha la fuoriuscita del micete con la formazione della classica “muffa grigia”, responsabile poi della penetrazione attiva sui frutti contigui, dando origine ai caratteristici “nidi” (più frutti avvolti dall’ammasso miceliare). La maggiore fonte di inoculo è rappresentata, in campo, da una moltitudine di matrici organiche vive (fragole, uva, actinidia, drupacee ecc.) e, in post-raccolta, dai residui dei frutti e di altri vegetali marcescenti negli imballaggi, nelle celle frigorifere ecc. I conidi sono facilmente trasportabili dalle correnti d’aria e quindi comunemente reperibili in tutti gli ambienti di conservazione.
Sintomi di marciume grigio: in condizioni di elevata umidità si possono formare gli organi di conservazione (sclerozi) di Botrytis cinerea Foto I. Ponti
Conidioforo e conidi di Botrytis cinerea
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post-raccolta Marciume deliquescente (Mucor piriformis) Più frequentemente colpite sono le pere Kaiser, Conference e Decana del Comizio con una incidenza che nei casi più gravi non supera il 10-15%. Il micete provoca un disfacimento acquoso il cui liquido zuccherino di percolazione, fuoriuscito dai frutti infettati, imbratta quelli sottostanti sani originando un substrato nutritivo per microfunghi saprofiti, “fumaggini”, contribuendo così ad aumentare le perdite di prodotto.
Le vie preferenziali di penetrazione sono rappresentate da micro e macroferite formatesi sui frutti al momento della raccolta o nelle prime fasi di lavorazione che precedono la conservazione. La maggiore fonte di inoculo è rappresentata dai propaguli del patogeno contenuti nei residui terrosi attaccati agli imballaggi. Anche i residui dei frutti marcescenti attaccati agli imballaggi rappresentano un’abbondante fonte di inoculo. Frutti colpiti da marciume deliquescente Foto I. Ponti
Sporangio di Mucor pyriformis
Marciume deliquescente: il fungo possiede una spiccata azione pectolitica che porta alla completa disgregazione dei tessuti
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coltivazione Marciume bruno (Monilinia fructigena e Monilinia laxa) La malattia diventa particolarmente temibile qualora, in prossimità della raccolta, si determinino condizioni meteo-climatiche particolarmente sfavorevoli (piogge prolungate). La via preferenziale di penetrazione del patogeno è rappresentata dalle ferite e dalle lenticelle beanti per effetto dell’eccesso idrico. La penetrazione, inoltre, può avvenire sia in campo, soprattutto sui frutti lesionati da grandine, insetti o altre cause, sia nella fase della raccolta e della lavorazione preconservazione. In post-raccolta le pere inva-
se dal micete manifestano una colorazione bruno-nerastra, mentre sui frutti presenti sulla pianta la muffa si manifesta con una colorazione bruna-grigiastra e la caratteristica disposizione circolare (muffa a circoli) con successiva formazione delle “mummie” (frutti rinsecchiti per effetto della disidratazione dei tessuti attaccati dal micete), che costituiscono la maggiore fonte di contaminazione.
Foto I. Ponti
Conidi di Monilia laxa, forma imperfetta di Monilinia laxa
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post-raccolta Marciume nero (Alternaria alternata) Di norma l’incidenza di questo marciume, che interessa soprattutto le pere e più occasionalmente le mele, è molto limitata (1-2% dopo lunghi periodi di conservazione) e solo in casi particolari può raggiungere valori del 5-10%. La penetrazione del patogeno avviene, di norma, attraverso micro e macroferite o sulle lenticelle nella fase di maturazione. Frequente è anche la penetrazione dalla zona calicina. Con una corretta conservazione la malattia si evidenzia dopo 3-5 mesi in quanto i miceti, pur riuscendo a Foto I. Ponti
svilupparsi anche alla temperatura di 0-1 °C, si accrescono molto lentamente. Più rapido risulta l’accrescimento nei frutti in fase di maturazione e con temperature sui 20 °C. La maggiore fonte di inoculo è rappresentata da matrici organiche vegetali vive o morte sia in campo sia in post-raccolta. Sono comunque i residui dei frutti marcescenti che imbrattano linee di lavorazione, imballaggi e celle frigorifere a rappresentare la fonte di inoculo principale.
Foto I. Ponti
Conidi di Alternaria alternata
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coltivazione Fisiopatie Riscaldo superficiale “Anjou”. Il riscaldo di tipo “Anjou” prende il nome dalla Butirra D’Anjou, prima cultivar a manifestare questa alterazione. La fisiopatia si manifesta a fine conservazione in frigorifero, o nel successivo periodo di shelf-life con imbrunimenti epidermici e colorazioni brune opache tendenti all’ocra , contorni irregolari ed interessanti esclusivamente l’epidermide delle pere. È più frequente nei frutti acerbi (cultivar William, Conference, Packham’s Triumph ecc.) ed è favorita da una prolungata conservazione refrigerata. Al momento attuale, lo stato di conoscenza sull’eziologia del riscaldo superficiale delle pere è piuttosto limitato. Sembra, tuttavia, che la patia sia associata all’anomalo metabolismo di un terpene naturale, l’α-farnesene, presente nelle cellule epidermiche dei frutti. La prevenzione si attua trattando i frutti in post-raccolta con sostanze antiossidanti. Riscaldo superficiale
Riscaldo molle. Si manifesta generalmente nell’ultimo periodo delle conservazioni refrigerate prolungate e nelle successive fasi di distribuzione. Le cultivar più colpite sono Abate Fétel, William e Kaiser. Si presenta con macchie bruno cuoio dai contorni definiti che interessano prevalentemente la zona peduncolare dove si approfondiscono per alcuni millimetri nel mesocarpo. Sezionando un frutto in queste condizioni, si nota che la polpa sottostante alla zona epidermica colpita, è interessata da un disfacimento. L’alterazione diventa più evidente dopo la permanenza delle pere a temperatura ambiente per alcuni giorni. La causa principale della patia non è conosciuta: tuttavia, sembra debba ricercarsi in un’anomalia del processo metabolico a livello enzimatico, associata a uno stress da freddo, che porterebbe a un accumulo di metaboliti tossici. Si può ridurre la morbilità della malattia trattando i frutti con sali di calcio in post-raccolta.
Riscaldo molle
Disfacimento del cuore. Conosciuta anche come “mal del pulcino”, si evidenzia a partire dai fasci fibro-vascolari che circondano il cuore del frutto, manifestandosi in campo o, più comunemente, su frutti raccolti al termine della conservazione o nel corso della distribuzione del prodotto per il consumo. I tessuti del cuore e i fasci si presentano imbruniti, molli, sugosi. Negli stadi più avanzati l’imbrunimento si estende al mesocarpo e a volte, con la comparsa di cavità lisigene. Le pere William, Kaiser e Decana del Comizio, soprattutto se raccolte a uno stadio di maturazione avanzato, sono le cultivar che, con più frequenza, possono manifestare la patia. La causa principale di tale alterazione è da imputare alla sovramaturazione dei frutti, per cui, per ovviarne la comparsa, o quantomeno per procrastinarla nel tempo, si devono evitare raccolte tardive ed è auspicabile la prerefrigerazione dei frutti subito dopo la raccolta.
Disfacimento del cuore
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post-raccolta Conservazione La tecnica più comune è la refrigerazione normale (RN). Dopo la prerefrigerazione, i frutti destinati alla conservazione vengono stivati nelle celle frigorifere, realizzando un accatastamento razionale, idoneo a garantire una omogenea circolazione dell’aria per ottenere una uniformità di temperatura su tutto il prodotto. Oltre al mantenimento della temperatura costante è necessario che l’umidità relativa (U.R.) all’interno delle celle risulti elevata (90-95%) per evitare l’avvizzimento dei frutti.
Conservazione in refrigerazione normale (RN)
• Temperatura: –1/0 °C • Punto di congelamento più elevato: –1,5 °C
• Umidità relativa 90-95% Formule di conservazione in atmosfera controllata (AC) Cultivar
Temp. (°C)
O2 %
CO2 %
Conservazione (mesi)
Abate Fétel
-
-
-
Sconsigliata
Conference(1)
–1/0
2
0,8
7-8
Conference
–1/0
4
2
7-8
Decana del Comizio(1)
–1/0
1,2-1,5
0,8
5-6
Decana del Comizio
–1/0
2-3
4
5-6
Decana d’Inverno
–1/0
2-3
5
8-9
General Leclerc
–1/0
2-3
5
6-8
Kaiser(1)
–1/0
1,7
0,8
6-7
Kaiser
–1/0
2-3
3-4
6-7
Packham’s Triumph
–1/0
2-3
5
7-8
Passa Crassana
–1/0
2-3
5
8-9
William
–1/0
2-3
5
4-5
Conservazione in atmosfera controllata (AC)
• Temperatura: –1/0 °C • Umidità relativa 90-95% Un considerevole miglioramento della qualità e un prolungamento della durata della conservazione può essere ottenuta mediante l’adozione della atmosfera controllata tradizionale e a basso ossigeno. La conservazione a basso ossigeno è particolarmente consigliabile per le pere destinate a mercati che richiedono frutti verdi
I frutti di certe annate, di determinate provenienze e/o raccolti tardivamente, possono manifestare sintomi di “cuore bruno”. Fonte: CRIOF
(1)
Attualmente la tecnologia di conservazione si basa, oltre che sulla RN, sull’applicazione dell’atmosfera controllata (AC). Con questo termine si intende fare riferimento a tutte le modificazioni della normale composizione gassosa atmosferica, realizzata all’interno di celle frigorifere a tenuta ermetica, mediante appositi strumenti e mantenute durante tutta la durata della conservazione. Attraverso l’applicazione differenziata in funzione delle cultivar, delle concentrazioni di ossigeno (O2) e dell’anidride carbonica (CO2) è possibile ottimizzare il condizionamento gassoso delle pere, influenzandone la fisiologia, la morbilità alle fitopatie, le caratteristiche qualitative e prolungandone in modo significativo la vita
Sintomi di “cuore bruno” (danno da CO2) su pera Kaiser sezionata
187
coltivazione Foto U. Parmeggiani
Celle sperimentali per la realizzazione di formule diverse di AC
Durata della conservazione delle diverse cultivar di pere in refrigerazione normale (RN) Cultivar
Mesi
Abate Fétel
4-5
Butirra Anjou
5-6
Conference
6-7
Decana del Comizio
4-5
Decana d’Inverno
6-7
General Leclerc
3-4
Guyot
15-20 gg
Kaiser
4-5
Max Red Bartlett
2-3
Packham’s Triumph
6-7
Passa Crassana
6-7
Red Sensation
2
Rosired Bartlett
2
Santa Maria
1-2
William
3-4
post-raccolta. Molteplici sono gli effetti benefici derivati dall’applicazione dell’AC quali: – ritardo della maturazione-senescenza dei frutti e delle conseguenti modificazioni fisiologiche e biochimiche a cui sono associate una riduzione della respirazione, della produzione di etilene, dell’intenerimento dei frutti e di alcuni composti (amido, acidi organici, composti fenolici, pigmenti ecc.); – riduzione di alcune alterazioni fisiologiche dei frutti come riscaldo superficiale, disfacimento interno e delle infezioni causate da funghi patogeni quali per esempio Botrytis sp. e Monilinia sp. Tra gli effetti negativi della AC (soprattutto con tenori inferiori o superiori a quelli ottimali) ricordiamo: – l’aggravamento di alcune alterazioni abiotiche come vitrescenza, riscaldo molle, disfacimento interno; – induzione di fisiopatie da stress gassoso come “cuore bruno delle pere”; – sviluppo di odori anomali quando viene indotta la respirazione anaerobica; – maturazione irregolare sopratutto dopo conservazioni troppo prolungate; – perdita di caratteristiche organolettiche, con particolare riferimento all’aroma, dopo conservazione con basso ossigeno; – aumento della suscettibilità ai marciumi dopo danni fisiologici indotti da stress gassoso. Applicazioni commerciali dell’atmosfera controllata (AC) La più importante evoluzione nella tecnologia di conservazione in atmosfera controllata (AC) è rappresentata dall’impiego del basso ossigeno (LO = Low Oxygen). Questa innovazione è stata possibile grazie alla disponibilità di generatori di azoto a fibra cava e ad assorbitori di ossigeno in gra-
Fonte: CRIOF
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post-raccolta do di abbassare rapidamente la concentrazione dell’ossigeno all’inizio della conservazione e ogni qualvolta si rende necessario. Al successo di tale tecnologia ha contribuito anche un affinamento nella tecnologia di decarbonicazione (rimozione dell’eccesso di CO2 nel corso della conservazione), che ha portato alla rigenerazione dei carboni attivi, utilizzati per tale scopo, con un loro limitato inquinamento ad opera dell’ossigeno. Miglioramenti impiantistici nella impermeabilizzazione delle celle ai gas e nella stabilizzazione della pressione interna mediante sacconi di compensazione, hanno infine consentito di mantenere costanti nel tempo le composizioni gassose prestabilite. Nelle pere, l’impiego del basso ossigeno, pur evidenziando effetti positivi, non ha avuto una diffusione così ampia come nelle mele. Se questa tecnologia viene valutata unicamente sulla base delle differenze di durezza dei frutti dopo lunga conservazione rispetto alla AC tradizionale, i vantaggi ottenuti appaiono limitati. Nelle pere i principali effetti positivi del basso ossigeno consistono nel preservare nel tempo la capacità dei frutti di maturare anche quando si approssima il termine della vita post-raccolta e nel mantenimento del colore verde dell’epidermide. Quest’ultima caratteristica risulta fondamentale per la commercializzazione nei mercati del Nord Europa che richiedono frutti verdi. Occorre aggiungere che le basse concentrazioni di ossigeno limitano il riscaldo superficiale.
Generatore di azoto a fibra cava per la realizzazione del LO (Low Oxigen = basso ossigeno) Foto U. Parmeggiani
Trasporto Il trasporto refrigerato (0-5 °C) si rende necessario nei periodi caldi, nei lunghi percorsi e con le cultivar precoci, meno sorbevoli. Nel periodo invernale può essere necessaria la protezione da temperature inferiori al punto di congelamento (circa 1,5 °C).
Durante il trasporto le pere devono essere mantenute a bassa temperatura
Foto U. Parmeggiani
189
il pero
coltivazione Erbe selvatiche Pasquale Viggiani
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Erbe selvatiche Foto C. Antoniani
Introduzione La presenza negli interfilari del pereto di un mantello vegetale erbaceo, periodicamente sfalciato, è pratica comune nelle colture del settentrione, dove si effettua il diserbo chimico sottochioma. In assenza di vegetazione e nei periodi particolarmente piovosi il terreno, infatti, diviene molto fangoso e ostacola fortemente l’accesso alle macchine agricole e alle persone addette alle operazioni colturali (potatura, trattamenti fitosanitari, raccolta ecc.) e nei terreni declivi si possono verificare fenomeni di ruscellamento e frane. Ma anche nei periodi estivi il cotico erboso presente fra i filari riesce talvolta utile nel contrastare alcune fisiopatie, come la butteratura amara, assorbendo l’azoto in eccesso derivante dai processi di mineralizzazione e migliorando, in tal modo, le caratteristiche dei frutti. Nei climi più aridi del meridione (Campania, Puglia e Sicilia ecc.) questa metodologia è poco adottata e si preferisce lavorare l’interfilare e diserbare chimicamente sotto i filari; anche in queste zone però, dove è possibile praticare l’irrigazione del frutteto, si sta consolidando la tendenza all’inerbimento controllato dell’interfila. La costituzione di una efficace vegetazione adatta a questo scopo può avvenire con la semina di specie adeguate, per lo più graminacee (festuche, loietto ecc.) oppure lasciando inerbire naturalmente la superficie del terreno. In tali contesti l’appellativo di “piante infestanti”, per indicare quelle che vanno a costituire la vegetazione tra i filari, perde il suo significato abituale, proprio considerando la loro utilità.
Eliminazione con la zappa delle erbe selvatiche
Pereto a S. Donà di Piave nel quale è stato effettuato lo studio delle erbe selvatiche
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erbe selvatiche La copertura vegetale che si instaura naturalmente è formata da molte specie che coesistono e perciò entrano in competizione fra loro e con le piante di pero. Questa competizione, che riguarda innanzitutto le disponibilità idriche e nutrizionali, caratterizza l’assortimento floristico che si verrà a creare e dipende innanzitutto da fattori di ordine fisiologico propri di ogni specie, tra i quali assumono particolare importanza: a) raggruppamento botanico; b) modalità di riproduzione e durata della vita; c) stagionalità, scalarità di nascita e di propagazione. In assenza di ulteriori cause di disturbo la combinazione di questi fattori con gli eventi climatici stagionali determina l’evoluzione naturale della flora nell’arco dell’anno, con la nascita di alcune specie che prendono il posto di altre nate in precedenza e che hanno già finito il loro ciclo di sviluppo. Tali sequenze evolutive però possono essere “guidate”, nel senso di favorire l’insediamento delle specie adatte a costituire un efficace cotico erboso a scapito di altre che non sono adatte per questo scopo. Con un’accorta gestione della flora spontanea, infatti, tramite una oculata ed efficace combinazione tra metodi di diserbo meccanico e metodi di diserbo chimico, si riesce a conciliare le legittime aspettative economiche del produttore con quelle, altrettanto giuste, di carattere ambientale, del consumatore. Nel nostro caso si tratta di gestire una popolazione erbacea costituita da circa un centinaio di specie diffuse in tutta la penisola, solo venti delle quali (le più frequenti) sono di seguito considerate, in contesti agronomici prevalenti dell’Italia settentrionale, dove la coltura del pero è più praticata (Emilia-Romagna e Veneto). Qui di seguito vengono prese in considerazione alcune caratteristiche botaniche e biologiche delle venti specie trattate, in relazione alla loro capacità di sopravvivenza in condizioni naturali e in ambiente disturbato con la sarchiatura, tralasciando gli aspetti di carattere applicativo di questa pratica e quelli inerenti al diserbo chimico che sono descritti in un’altra sezione di questo libro.
Pianta infestante
• L’erba viene eliminata con il diserbo
quando diviene nociva, cioè se infesta le colture e perciò nasce spontaneamente nei campi coltivati dall’uomo. Sotto questo aspetto qualunque pianta potrebbe essere considerata infestante (o peggio, malerba) se nasce dove l’uomo non vuole, perciò anche una pianta di girasole che nasce spontaneamente in un campo di frumento o una pianta di frumento che nasce spontaneamente in un campo di girasole sono da considerare infestanti. Ma tutti sanno che il frumento e il girasole sono piante utili, proprio come quelle selvatiche, molte delle quali si sono diffuse in tutto il pianeta perché l’uomo primitivo, quando non era ancora agricoltore, portava con sé i loro semi o altri organi (bulbi, tuberi, rizomi ecc.) a scopo alimentare, durante le sue peregrinazioni dietro le mandrie di mammiferi a cui dava la caccia
Anche il girasole può essere una pianta infestante
191
cotile
cotile
coltivazione cotile
cotile
Raggruppamento botanico La persistenza delle erbe selvatiche nel pereto dipende innanzitutto dalle loro modalità di riproduzione. A questo riguardo vi sono specie che si riproducono solo tramite semi (moltiplicazione) e altre che hanno una ulteriore possibilità di riprodursi (propagazione), oltre che tramite semi, anche grazie a gemme che svernano su radici particolarmente ingrossate o che si trovano su organi speciali, come rizomi e stoloni. Il seme è il propagulo per eccellenza di moltissime piante che, per questa loro caratteristica, sono state riunite in unico gruppo botanico: le Spermatofite. I semi si formano e maturano in uno speciale organo detto ovario che è il costituente femminile principale dei fiori di un grande raggruppamento di piante (Angiosperme o Magnoliophyta) e che maturando si trasforma in frutto. Grossomodo ogni seme è formato da una membrana esterna (tegumenti seminali) che racchiude una microscopica piantina (embrione) munita di foglioline primordiali dette cotiledoni, in numero di una (nelle monocotiledoni) o di due (nelle dicotiledoni) come nei semi di pero. Oltre ai cotiledoni nel seme vi sono sostanze di riserva (endosperma) che vengono mobilitate al momento della nascita, finché la piantina non è in grado di nutrirsi da sola, con le sostanze assorbite dalle radici nel terreno e con quelle elaborate con la fotosintesi clorofilliana. Le specie considerate qui di seguito appartengono a varie famiglie botaniche comprese fra le dicotiledoni e a una sola famiglia di tutte quelle comprese fra le monocotiledoni: le Graminacee. Nell’ambito di ogni famiglia si distinguono ulteriori gruppetti, detti generi, nei quali sono compresi piante molto simili tra loro. Alcune differenze sostanziali, apprezzabili anche a occhio nudo, tra dicotiledoni e graminacee riguardano la forma della foglia e la costituzione del fiore.
cotiledone cotiledone
embrione embrione graminacee graminacee
Semi di dicotiledone e di graminacea
Differenze tra Dicotiledoni e Graminacee Dicotiledoni
Graminacee Radice
Spesso fittonante e in Generalmente costituen grossata te un fascio Fusto Genaralmente pieno e Generalmente vuoto al senza nodi evidenti (tran l’interno, con evidenti ne nelle piante della fami nodi all’esterno (culmo) glia Poligonacee) Foglia Lamina espansa con nervature reticolate. Pic ciolo per lo più sottile, presente o assente
Lamina nastriforme lan ceolata, con nervature parallele. Picciolo sosti tuito da una guaina che avvolge il fusto
corolla ovario
Fiore Formato da foglioline dette: sepali (calice), petali (corolla), stami (androceo) e carpelli (gineceo)
Mancano il calice e la corolla, sostituiti da due piccole bratteole conformate a barchet ta: lemma e palea
Frutto Di vario tipo (capsula, le Quasi esclusivamente di gume, siliqua ecc.), con un solo tipo: cariosside, tenenti uno o più semi che racchiude stretta mente un solo seme
stami stami calice Fiore di dicotiledone
192
erbe selvatiche
palea
lemma gineceo
stame gluma Fiore di graminacea Foglie di dicotiledoni
La foglia tipica di una pianta dicotiledone è formata da una lamina espansa, con nervature reticolate, che confluisce, bruscamente o gradatamente, in un picciolo tramite il quale si inserisce sul fusto; il picciolo può anche mancare (in questo caso la foglia si dice sessile) mentre la lamina può essere intera o con margine più o meno inciso. Le foglie delle graminacee invece del picciolo hanno una guaina tubolare che abbraccia il fusto e, all’estremità di questa, una lamina lanceolata nastriforme stretta con nervature parallele; alla confluenza fra guaina e lamina quasi sempre è presente un’appendice chiamata ligula che è di forma diversa a seconda della specie. Il fiore delle dicotiledoni è formato generalmente da quattro verticilli di foglioline trasformate; quello più esterno (o inferiore), che avvolge tutti gli altri quando il fiore è chiuso, si chiama calice, segue la corolla, formata da un numero variabile di petali generalmente molto colorati. Più all’interno c’è l’androceo, cioè la parte maschile, formata dagli stami e il gineceo, cioè la parte femminile, che ha un ingrossamento basale (ovario) e una parte apicale (stimma) alla quale si congiunge tramite uno stilo. Nel fiore delle graminacee mancano il calice e la corolla, ma l’androceo e il gineceo sono racchiusi all’interno di una specie di scatolina erbacea formata da due scagliette (lemma e palea); solitamente i fiori delle graminacee sono riuniti in gruppetti (spighetta), racchiusi da due glume, disposti, a loro volta, su infiorescenze più complesse (spighe o pannocchie).
lamina
ligula
guaina Foglie e fusti di graminacee
193
coltivazione In un paragrafo successivo le specie sono descritte singolarmente e sono riportati anche i loro nomi scientifici (e i loro significati) con i quali sono conosciuti in tutto il mondo.
Specie considerate
Fisiologia e cicli vegetativi Molte piante erbacee si moltiplicano solo mediante semi e la loro vita corrisponde al ciclo compreso tra la nascita e la maturazione dei nuovi semi. Queste piante si dicono “annuali” nel senso che il loro ciclo vegetativo completo non supera l’arco temporale di un anno, anzi, quasi sempre, si svolge in pochi mesi. Tra le specie più importanti dei pereti citati in questa sede sono piante annuali: Amaranto, Billeri, Centonchio, Chenopodio, Miagro, Correggiola, Porcellana, Sanguinella, Senecione, Pabbio, Centocchio e Veronica. In alcune piante il ciclo vegetativo è molto breve, tanto che, in condizioni ambientali favorevoli, riescono a completare, nel corso dell’anno, anche due o più generazioni; è il caso di: Senecione, Centocchio e Veronica, per le quali a volte è possibile osservare contemporaneamente piante in diversi stadi di sviluppo (piantine appena nate, piante fiorite e piante che stanno disseminando). Le specie annuali, a causa della brevità del ciclo non sono adatte, generalmente, per costituire tappeti erbosi permanenti, tranne nei casi di alcune (Centonchio, Porcellana, Centocchio e Veronica) con taglia bassa e portamento prostrato che assicurano una copertura discretamente efficace, ma di breve durata. La gemma è una struttura complessa nella quale si differenzia un particolare tessuto (meristema) in grado di originare nuovi tessuti che andranno a costituire i vari organi delle piante che da esso avranno origine. Le gemme si trovano normalmente sulle piante arboree ma, in molti casi, sono prodotte anche dalle piante erbacee che, così, si possono riprodurre, oltre che per seme, anche tramite gemma. In questi casi il ciclo di sviluppo va oltre quello compreso tra la nascita e la maturazione dei semi, in quanto le stesse piante che disseminano sono in grado di originare contemporaneamente anche altre piante (o getti) dalle gemme: il loro ciclo vegetativo abbraccia perciò un arco di tempo superiore all’anno, per
I nomi comuni italiani e quelli delle famiglie (tra parentesi) a cui appartengono le specie considerate sono indicate di seguito in ordine alfabetico:
• Amaranto (Amarantacee) • Billeri (Crucifere = Brassicacee) • Cardo (Composite = Asteracee) • Centocchio (Cariofillacee) • Centonchio (Primulacee) • Chenopodio (Chenopodiacee) • Correggiola (Poligonacee) • Fienarola (Graminacee = Poacee) • Gramigna (Graminacee = Poacee) • Malva (Malvacee) • Miagro (Crucifere = Brassicacee) • Ortica (Urticacee) • Pabbio (Graminacee = Poacee) • Porcellana (Portulacacee) • Romice (Poligonacee) • Sanguinella (Graminacee = Poacee) • Senecione (Composite = Asteracee) • Soffione (Composite = Asteracee) • Veronica (Scrofulariacee) • Vilucchio (Convolvulacee)
Anagallis arvensis (Mordigallina)
Chenopodium album (Chenopodio bianco)
Amaranthus retroflexus (Amaranto comune)
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Stellaria media (Stellaria)
Portulaca oleracea (Porcellana comune)
erbe selvatiche Taraxacum officinale (Soffione)
Senecio vulgaris (Senecione comune)
Calepina irregularis (Miagro rostellato)
cui esse si dicono vivaci: pluriennali (se hanno gemme su radici ingrossate) oppure perenni (se le gemme sono su rizomi o su stoloni). Il rizoma è un fusto trasformato sotterraneo mentre lo stolone è un ramo della pianta che striscia solitamente sul terreno. Tra le piante con gemme sulle radici tipiche sono: Cardo, Fienarola, Malva, Romice e Soffione. Piante con rizomi: Gramigna, Ortica e Vilucchio; la prima specie è munita anche di stoloni. Di tutte queste specie vivaci la più adatta a costituire una buona copertura del terreno è la Fienarola che persiste anche in inverno e forma una coltre resistente. Anche Romice e Soffione potrebbero assicurare una copertura efficiente visto che hanno foglie inserite a rosetta al livello del terreno e radici che si approfondiscono nel terreno rendendolo più arieggiato. La gramigna ha la capacità di costituire un cotico erbaceo molto resistente, ma essa sviluppa una ragnatela di rizomi che si diffonde velocemente anche sotto i filari del frutteto e va a competere fortemente con le piante del pero; una volta espiantato il frutteto, inoltre, occorre una vera e propria bonifica per rimettere a coltura
Rumex obtusifolius (Romice comune)
Polygonum aviculare (Correggiola)
Digitaria sanguinalis (Sanguinella comune)
Setaria glauca (Pabbio rossastro)
Urtica dioica (Ortica comune)
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Veronica persica (Veronica comune)
Malva sylvestris (Malva selvatica)
Cynodon dactylon (Gramigna)
Poa pratensis (Fienarola dei prati)
Convolvulus arvensis (Vilucchio comune)
coltivazione
Rizomi di fienarola
il terreno. Il portamento eretto assurgente e l’eccessiva ramosità del fusto rende del tutto inadatte le altre specie; Malva e Ortiche possono anche ospitare parassiti dannosi. Stagionalità, scalarità di nascita e di propagazione Ogni specie, per caratteristiche fisiologiche proprie che sarebbe qui molto complesso spiegare, svolge il suo ciclo vegetativo in un certo periodo stagionale. Uno dei meccanismi di sopravvivenza di queste specie consiste nella possibilità di nascite scaglionate nel tempo. Non tutti i semi di una certa specie presenti nel terreno e potenzialmente in grado di germinare lo fanno contemporaneamente, dato che le piante da essi originate si troverebbero in condizione di affollamento e quindi costrette a competere fortemente tra loro, oltre che con le altre di specie diverse. Per questo motivo solo una frazione minoritaria di semi presenti nel terreno dà origine a piantine mentre la maggior parte di essi rimane dormiente (per esempio, oltre il 90% dei semi di Amaranto, Centonchio, Chenopodio e Sanguinella) e germina solo se avversità eliminano le piante già nate. In questo caso lo spazio liberato dalle piante morte viene occupato da nuove piante nate da quei semi rimasti quiescenti fino a quel momento: è così che la specie riesce a superare, con un danno limitato per la sua sopravvivenza, l’evento negativo. Le specie che sono in grado di nascere durante un lungo arco di tempo, durante l’anno, e perciò dotate di accentuata scalarità di nascita, adattandosi più delle altre alle diverse condizioni climatiche stagionali sono quelle più avvantaggiate e sono quelle che prendono il sopravvento sulle altre. Anche le piante vivaci adottano una strategia simile facendo germogliare solo alcune delle gemme presenti sulle radici o sui rizomi o sugli stoloni (di solito quelle più lontane dal punto di crescita della pianta madre) e man-
Radice di malva
Radice di romice
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erbe selvatiche
Gemme di stoppione Ricacci di romice
tenendo dormienti la maggior parte di esse che germoglieranno solo al verificarsi di eventi che danneggiano o eliminano le piante nate in precedenza dalla stessa pianta madre. Evoluzione stagionale della flora Nella successione delle diverse specie sullo stesso terreno non lavorato gioca un ruolo fondamentale la presenza delle piante già nate che ostacola in vari modi la nascita di nuove piante, soprattutto in virtù dell’effettiva competizione da esse esercitata sulle ultime nate. Molte specie sono, inoltre, capaci di emettere stimoli chimici che impediscono ai semi presenti nel terreno di germinare o che inibiscono lo sviluppo dei germinelli o delle plantule già presenti (questo fenomeno viene descritto come “allelopatia negativa”). Tra le specie allelopatiche più importanti alcune si trovano normalmente nei pereti, come: Gramigna e Sanguinella fra le graminacee oltre a Porcellana e Vilucchio fra le dicotiledoni.
Gemma di romice
Radici di soffione Rizomi e stoloni di gramigna
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coltivazione A prescindere da fenomeni competitivi e allelopatici, le piante annuali che nascono in autunno terminano il loro ciclo tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, dopo aver disseminato (caduta dei semi maturi nel terreno); esse lasciano libera una parte della superficie del terreno che viene occupata da altre piante a nascita più tardiva (primavera-estate) e che svolgono il loro ciclo vitale entro l’autunno successivo. Le piante vivaci, come abbiamo visto in precedenza, sono potenzialmente in grado di nascere durante tutto l’anno, tranne forse nei periodi caratterizzati da eccessi termici (temperature eccessivamente basse o alte) o da deficienze idriche (in zone o annate particolarmente siccitose). Nella composizione della flora del pereto normalmente le specie dicotiledoni rappresentano la frazione maggioritaria e hanno il sopravvento sulle graminacee, tranne in casi particolari, solitamente legati alla stagionalità o alle pratiche agricole, come sarà detto dopo. Durante la stagione autunnale e quella invernale (specialmente nei climi miti del meridione) nascono: Billeri, Miagro, Centocchio e Veronica. Verso la fine dell’inverno cominciano a vedersi piantine di Correggiola e di Senecione, e qualche tempo dopo, in prossimità della stagione primaverile, nasce il Centonchio. Tutte queste specie hanno il picco massimo di fioritura all’inizio della stagione primaverile, tra aprile e maggio, ma le prime quattro citate possono fiorire già in inverno. Con il procedere della stagione la massa vegetativa di queste piante diminuisce man mano, fino a raggiungere il livello minimo dopo la maturazione e la disseminazione. Nonostante ciò la superficie del terreno non rimane mai sgombra di vegetazione erbacea, anzi la copertura vegetale aumenta, grazie alla nascita, in pieno periodo primaverile (aprile-maggio) e alla crescita di alcune altre specie dicotiledoni annuali (Amaranto, Chenopodio e Por-
Particolare delle gemme di gramigna
Rizoma di gramigna
Gemme su radice di ortica
198
erbe selvatiche
Miagro e veronica
cellana), ma soprattutto con la crescita di quelle vivaci (Cardo, Malva, Ortica, Romice, Soffione e Vilucchio) che nel corso delle stagioni estiva e autunnale normalmente prendono il sopravvento sulle annuali. Il contributo delle Graminacee alla formazione di questa flora è minoritario rispetto a quello delle dicotiledoni ed è apportato solitamente da poche specie, fra le quali due vivaci: Fienarola e Gramigna che si possono trovare durante tutto l’anno, ma raggiungono la massima copertura nel corso dell’autunno. Tra le Graminacee annuali Pabbio e Sanguinella contribuiscono in modo evidente alla formazione del manto erboso tra la fine della primavera e tutto l’autunno, in particolare nei casi in cui trovano terreno sgombro da altre piante.
Inerbimento naturale
Centocchio, veronica e soffione in un impianto di peri del ferrarese Vegetazione spontanea in un pereto
199
coltivazione Effetti delle sarchiature Fra le cause che possono danneggiare o eliminare le piante già nate vi sono le diverse metodologie di diserbo, sia esse di natura chimica (applicazione dei diserbanti) sia di natura meccanica (sarchiature o altre lavorazioni). Le sarchiature operate nel corso della primavera, però, con l’eliminazione delle piante già nate, hanno solitamente un effetto deprimente sulla diffusione futura delle piante annuali, tranne nei casi di quelle specie, come Senecione, Centocchio e Veronica, che hanno ciclo breve e che perciò sono in grado di nascere e riprodursi in un breve lasso di tempo. Con l’eliminazione della vegetazione in atto possono essere favorite anche alcune specie annuali a taglia bassa o con portamento prostrato sul terreno, in genere poco competitive per queste loro caratteristiche, ma spesso dotate di una spiccata scalarità di emergenza e di una crescita pronta che consente loro di occupare velocemente il terreno libero. Sono anche avvantaggiate le specie annuali che nascono in piena stagione primaverile e che solitamente sono molto diffuse nelle colture estensive (mais, barbabietola da zucchero, ecc.) ma che, in particolare nelle annate piovose, si insediano anche nei pereti e soppiantano le specie eliminate con la lavorazione; si tratta di: Amaranto, Chenopodio e Porcellana fra le dicotiledoni, oltre alle Graminacee Pabbio e Sanguinella.
Sarchiature
• Le sarchiature giocano un ruolo
fondamentale nella gestione della flora erbacea del pereto in quanto, a seconda dell’epoca in cui sono effettuate, possono deprimere o esaltare le capacità di diffusione delle diverse specie. L’effetto delle sarchiature dipende, oltre che dall’epoca in cui si effettua, anche dall’entità delle precipitazioni che seguono subito dopo. Abbondanti piogge dopo la sarchiatura, specialmente nei periodi più caldi della primavera, possono ridurre l’effetto diserbante di questa pratica e stimolare la nascita di alcune specie che prendono il sopravvento sulle altre
Foto C. Antoniani
200
erbe selvatiche Influenza dell’epoca di sarchiatura sul ritrovamento delle specie in autunno Epoca sarchiatura*
Ciclo vegetativo**
Fine inverno
Metà primavera
Fine primavera
Amaranto
SS
S
S
a
Billeri
-
NS
-
a
Cardo
S
SS
SS
p
Centocchio
NS
SS
SS
a
Centonchio
NS-NS
NS-NS
NS (poco)
a
Chenopodio
SS
S
S (poco)
a
Correggiola
NS-NS
NS
-
a
Fienarola
NS-NS
NS-NS
NS-NS
p
Gramigna
S
-
-
p
Malva
SS
SS
NS-NS
p
Miagro
-
-
SS
a
Ortica
-
NS
NS-NS
p
Pabbio
NS
SS
-
a
Porcellana
-
-
SS
a
Romice
NS-NS
NS-NS
NS-NS
p
Sanguinella
S
SS
SS
a
Senecione
-
NS-NS
NS-NS
a
Soffione
-
NS
S
p
Veronica
SS
NS
SS
a
Vilucchio
NS-NS
NS-NS
NS
p
Tarassaco o soffione
Cardo campestre
* S = influenzato positivamente, SS = molto influenzato positivamente, NS = influenzato negati vamente, NS-NS = molto influenzato negativamente. ** a = annuale, p = perenne o vivace.
Sulle specie vivaci la sarchiatura ha effetti contrastanti, che dipendono anche dagli eventi climatici stagionali. Nell’ambiente italiano le specie che disseminano alla fine della primavera o all’inizio dell’estate (Fienarola, Malva, Ortica, Romice e Vilucchio) di solito sono svantaggiate dalle lavorazioni primaverili, mentre quelle in grado di disseminare durante tutto l’anno (per esempio Soffione) e quelle che affidano la loro propagazione quasi esclusivamente a gemme (Cardo e Gramigna) sono favorite per avere la capacità di occupare il terreno con abbondante vegetazione e molto velocemente.
Veronica comune
201
coltivazione Descrizione delle specie Amaranto comune o Blito (Amaranthus retroflexus). Il nome di questa dicotiledone deriva dalla persistenza dei frutti sulla pianta anche dopo che questa è avvizzita (dal greco: a = non e maraino = avvizzisco), ma potrebbe anche alludere al colore di alcune di esse; retroflexus si riferisce, invece, alla pannocchia recline all’indietro. Gli amaranti sono di origine tropicale e spesso utilizzati, nelle zone di origine, a scopi alimentari: le piante sono, infatti, ricche di proteine, acidi grassi, microelementi e di vitamina C; dai semi si ottiene un’ottima farina panificabile. Il fusto è eretto e le foglie sono intere, romboidali. I fiori sono piccolissimi, riuniti in pannocchie e maturano piccole capsule contenenti un seme lucido, lenticolare, di colore nerastro o marrone scuro, di circa 1 mm di diametro (ogni pianta ne produce più di 100.000). L’Amaranto comune è specie annuale, con ciclo primaverile-autunnale.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Foto R. Angelini
Quanto (%) se ne trova in autunno? 60 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
202
Foto R. Angelini
erbe selvatiche Billeri primaticcio (Cardamine hirsuta). Questa piccola dicotiledone (alta circa 25 cm), il cui nome scientifico sottolinea la somiglianza con il crescione orientale (in greco kàrdamon), ha fusti quasi eretti, poco ramosi. Le foglie hanno lamina divisa in segmenti arrotondati. I fiorellini hanno ognuno quattro petali bianchi disposti a croce. I frutticini (silique) a maturità e con un caratteristico crepitio, si aprono violentemente scagliando i semi tutt’intorno alla pianta madre. I semi sono gialli, ovoidali, con due scanalature e lunghi circa 1 mm. Il Billeri primaticcio, che in passato veniva consumato in insalata, riesce a colonizzare bene anche i terreni poco lavorati, fiorisce molto presto, già dall’inizio dell’anno, ma raggiunge la massima diffusione tra marzo e maggio. Si riproduce esclusivamente per seme e, nell’arco dell’anno, può avere anche più generazioni.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 50 40 30 20 10 0
203
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Cardo campestre o Stoppione (Cirsium arvense). Il nome latino deriva da una parola greca (kirsós) che indica le varici e sottolinea l’uso terapeutico che ne facevano gli antichi per curare queste alterazioni; il primo nome italiano sottolinea la spinosità delle foglie, che lo rendono simile a un cardo, mentre il secondo nome va visto in relazione alle stoppie di grano dove nasce copiosamente dopo la raccolta del cereale. I fiori sono rosati, riuniti in capolini piccoli che, maturando, producono frutticini (acheni) muniti di pappi candidi e piumosi. In Italia questa dicotiledone si riproduce quasi esclusivamente per gemme radicali in quanto raramente è in grado di produrre semi vitali, ma il suo apparato radicale può emettere nuove piantine durante tutti i periodi dell’anno per cui si possono trovare contemporaneamente piantine piccole con altre fiorite o in maturazione.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Foto R. Angelini
Quanto (%) se ne trova in autunno? 60 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
204
Foto R. Angelini
erbe selvatiche Centocchio comune o Stellaria (Stellaria media). Il nome italiano si riferisce ai numerosissimi fiorellini bianchi a forma di stella, come si evince anche dal nome scientifico. Il fusto è sottile, liscio e con una linea di peli lungo la quale scorrono le goccioline di pioggia che vengono convogliate alla base delle foglie. Queste ultime sono inserite a due a due, opposte lungo il fusto; hanno lamina intera, peduncolata o sessile, glabra o quasi, di forma ovale e acute alla sommità. I fiorellini hanno ognuno 5 petali profondamente incisi in due lobi. Il frutto è una capsula che si apre, a maturità, tramite una coroncina apicale, liberando numerosi semi (circa 3000 per pianta) che assicurano la moltiplicazione. Questa dicotiledone ha ciclo vegetativo molto corto, in vari periodi e in ogni stagione dell’anno, ma nasce preferibilmente in autunno e si trova molto abbondante tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Foto R. Angelini
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 60 50 40 30 20 10 0 Foto R. Angelini
205
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Centonchio dei campi o Mordigallina (Anagallis arvensis). Pianta dicotiledone glabra, con fusti spigolosi e rami in parte adagiati sul terreno. Le supposte proprietà esilaranti degli estratti di queste piante sono alla base del loro nome scientifico (dal greco anaghelao = rido), mentre il nome italiano ricorda l’apprezzamento per queste piante da parte di galline e di altri volatili. Le foglie sono piccole, intere, ovali. I fiori si aprono solo poche ore al giorno; hanno 5 petali, di colore rosso (il fiorellino è stato usato come emblema araldico dalla Primula rossa, protagonista di un romanzo ambientato durante la Rivoluzione francese). Il frutto è una capsula sferica che si apre a maturità con una calotta apicale. I semi (circa 700 per pianta) sono sfaccettati, rugosetti, di colore marrone scuro. È specie annuale che fiorisce in primavera.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno?
60 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
Foto R. Angelini
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erbe selvatiche Chenopodio bianco o Farinello comune (Chenopodium album). Il nome latino sottolinea la somiglianza della forma delle foglie con le zampe delle oche (dal greco: khen = oca e podion = piede); “farinello” si riferisce, invece, al fatto che la pianta è ricoperta da microscopiche sferette bianche che disidratandosi assumono aspetto di grumi di farina. Le piante di chenopodio, che in passato erano usate come succedanee dello spinacio, sono caratterizzate da grande variabilità, specialmente nella taglia e nella colorazione di fusto e foglie (verde o più o meno arrossate). I fiori, raccolti su ampie pannocchie, sono piccolissimi, costituiti ognuno da 5 brattee erbacee che, a maturità, racchiudono un piccolo seme scuro (ogni pianta ne produce più di 70.000). Queste dicotiledoni si riproducono solo mediante semi; il loro ciclo vegetativo si svolge dalla primavera all’autunno.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10
Foto R. Angelini
0
Foto R. Angelini
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 60 50 40 30 20 10 0
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Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Correggiola o Poligono degli uccellini (Polygonum aviculare). Questa dicotiledone deriva il nome dai fusti nodosi e a volte piegati come ginocchia (dal greco: pòlys = molti e gony = ginocchi-nodi). Il riferimento agli uccellini riguarda i semi che da questi sono particolarmente appetiti. I nodi del fusto sono avvolti da guaine, dette ocree; da essi originano foglie e fiori. Le foglie sono lanceolate (5-18 mm). I fiorellini sono isolati, biancastri o arrossati. Il frutto è simile a un seme spigoloso, con 2 o 3 facce (una pianta ne produce più di 6000). Il Poligono degli uccellini si riproduce solo per seme; si trova per gran parte dell’anno, se si escludono i periodi eccessivamente caldi o freddi, ma nasce preferibilmente all’inizio della primavera e riesce a sopportare la competizione con le altre specie, anche durante l’estate.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Foto R. Angelini
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
208
erbe selvatiche Fienarola dei prati (Poa pratensis). Il fusto di questa monocotiledone è compresso, vuoto (culmo), quasi completamente adagiato sul terreno nelle piante giovani ed eretto in quelle adulte. È la tipica “erba”, o perlomeno era questa l’impressione degli antichi greci (poa in greco vuol dire, infatti, erba) che la usavano come foraggio; anche attualmente rappresenta una delle più importanti piante foraggere coltivate, come si evince dal suo nome italiano. Le foglie sono lanceolate, lucide, con punta conformata a cappuccio. La ligula è molto evidente, specialmente quella delle piante adulte, arrotondata alla sommità. I fiorellini sono riuniti su pannocchie con rami verticillati lungo un asse (rachide). Si riproduce tramite semi e per ricacci vegetativi stoloniferi. Essa nasce preferibilmente all’inizio della primavera e raggiunge una grande diffusione nel mese di maggio.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 80 70 60 50 40 30 20
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 80 70 60 50 40 30 20
Foto R. Angelini
10 0
209
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Gramigna comune o Dente di cane (Cynodon dactylon). La specie è munita di rizomi sotterranei e di stoloni striscianti sul terreno, con gemme che sembrano denti di cane (è questo il significato del nome latino cynodon). Il nome comune italiano viene ripreso anche in quello della famiglia: Graminacee (monocotiledone). Le foglie giovani sono ovali-lanceolate; quelle successive sono decisamente lanceolate. La ligula è poco evidente, pelosa e seghettata alla sommità. I fiorellini si trovano su piccole spighe disposte in modo da sembrare le dita di una mano aperta (a questa caratteristica si deve l’aggettivo dàctylon). Il frutto si chiama cariosside e contiene un solo seme, che in Italia stenta a maturare, per cui la riproduzione della specie è affidata a coriacei rizomi sotterranei e a stoloni superficiali dai quali si originano nuove piante, praticamente durante tutto l’anno, specialmente nei terreni poco lavorati.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Quanto (%) se ne trova in autunno? 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
Foto R. Angelini
210
erbe selvatiche Malva selvatica (Malva sylvestris). Già dall’VIII secolo a.C. le foglie giovani di questa dicotiledone erano usate come verdura; anche in epoca romana le sue proprietà emollienti erano conosciute e apprezzate (Cicerone e Plinio il Vecchio), così come lo erano durante il Medioevo (l’infuso era usato anche per “calmare i bollenti spiriti mascolini”). Le sue proprietà sono ricordate nel suo nome (dal greco: malakòs=molle). La pianta ha fusti legnosi alla base; le foglie hanno lamina palmata, con 5 lobi poco evidenti e una vistosa insenatura all’inserzione con il picciolo. I fiori hanno 5 petali spatolati rosa striati di violetto. Il frutto è formato da una serie di elementi lenticolari, affiancati a formare una formazione a “ciambella”; ogni elemento contiene un seme. La malva nasce alla fine dell’inverno e fiorisce in primavera e in estate, riproducendosi per seme o anche per gemme radicali.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 50 40 30 20 10 0
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 50 40 30 20 10 0
Foto R. Angelini
211
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Miagro rostellato (Calepina irregularis). Questa dicotiledone è glabra; ha fusto quasi eretto, con molti rami che fanno assumere agli individui adulti la forma di un inestricabile groviglio. Possiede foglie di diversa forma: quelle basali sono quasi intere e a forma di spatola; le successive diventano sempre più dentate sul bordo, fino a essere incise in evidenti lobi. I fiori hanno ognuno quattro petali bianchi disposti a croce e sono riuniti in lunghi racemi. I frutti sono delle piccole (2-3 mm) siliquette ovoidali reticolate esternamente e con un becco appuntito, che non si aprono a maturità, imprigionando ognuna un seme globoso. È una specie annuale, che si riproduce solo per seme. Nasce verso la metà dell’inverno, fiorisce prestissimo, a fine febbraio e scompare, di solito, alla fine della primavera.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 100 90 80 70 60 50 40
Foto R. Angelini
30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno?
100 90 80 70
Foto R. Angelini
60 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
212
erbe selvatiche Ortica comune (Urtica dioica). Alle ortiche! È un diffuso modo di dire e si riferisce al nome di queste dicotiledoni dai peli urticanti (se toccati si rompono e rilasciano un liquido contenente acido formico che provoca intenso bruciore alla pelle: per questo motivo non è consigliabile, secondo il detto, cercare di recuperare un oggetto – o un argomento – finito fra le ortiche). I nostri nonni dicevano, invece, che camminando a gambe scoperte fra le ortiche si poteva attivare la circolazione del sangue e alleviare i dolori reumatici! Durante il Medioevo i monaci per “mortificare la carne” si autoflagellavano con fasci d’ortica che si usavano anche per fustigare i condannati. Fino al secolo scorso da queste piante si ottenevano anche tessuti. I fusti sono eretti, le foglie sono cuoriformi, intere e con margine dentato. I fiorellini sono disposti in pannocchie e maturano semi scuri e appuntiti. Le piante si riproducono, in primavera, anche per mezzo di gemme radicali.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno?
60 50 40 30 20 10 0
213
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Pabbio o Setaria (Setaria spp.). Il Pabbio ha pannocchie quasi cilindriche e ricoperte di setole cosparse di microscopici uncinuli: è a quest’ultima caratteristica che si riferisce il nome latino. Il fusto è un po’ compresso, le foglie sono lanceolate. Un metodo empirico per riconoscere le diverse specie di setaria consiste nel far aderire la pannocchia ai vestiti: – se rimane attaccata (gli uncinuli delle setole hanno la punta rivolta verso il basso) si tratta del Pabbio verticillato (Setaria verticillata); – se scivola e cade (in questo caso gli uncinuli delle setole hanno la punta rivolta verso l’alto) si tratta o di Pabbio rossastro (Setaria glauca), con setole rossastre oppure di Pabbio comune (Setaria viridis), con setole giallastre. Queste monocotiledoni si riproducono solo tramite semi (circa 20.000 per pianta); esse vegetano bene durante le stagioni più calde.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Foto R. Angelini
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 60 50 40 30 20 10 0
Pannocchie di Pabbio verticillato, Pabbio comune e Pabbio rossastro
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
Foto R. Angelini
214
erbe selvatiche Porcellana comune (Portulaca oleracea). Dicotiledone il cui nome latino si riferisce al frutticino (capsula), che si apre tramite una “portula” apicale; quello comune pare derivi dal fatto che di queste piante vanno particolarmente ghiotti i maiali... ma esse sono utilizzate in insalate (è a questo che si riferisce il termine “oleracea”) anche nella cucina mediterranea. Il fusto è cilindrico, liscio, fragile, adagiato sul terreno. Le foglie sono grassette, intere, a forma di spatola. I fiorellini hanno corolla giallognola. La capsula contiene miriadi di semi neri, piccolissimi e reniformi (una pianta ne produce circa 52.000). Si trova durante la stagione primaverile-estiva, specialmente nelle zone sabbiose e assolate; è caratterizzata da una accentuata scolarità di emergenza; nasce in piena primavera e continua a nascere anche in estate se le precipitazioni sono abbondanti.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 100 90 80 70 60 50 40
Foto R. Angelini
30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno?
100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
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Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Romice comune (Rumex obtusifolius). Le grosse radici di questa dicotiledone hanno gusto amarognolo e costituiscono (cotte) un buon condimento per la carne; le foglie, se sfregate sulla pelle, eliminano il bruciore causato dalle ortiche; in passato si usavano anche contro le bruciature e le abrasioni della pelle. Il nome scientifico richiama il termine latino che indica la punta della lancia o il dardo di una freccia: queste similitudini si riferiscono sia alla forma delle foglie, sia a quella dei piccoli frutti. Il fusto è eretto e robusto. Le foglie sono lanceolate, con sommità ottusa. I fiori sono riuniti in ampie pannocchie. Ogni pianta produce circa 30.000 semi, ma si moltiplica anche per gemme presenti sulle grosse radici e che possono originare piante durante tutto l’anno. Nasce presto in primavera, ma raggiunge la massima diffusione durante l’estate e l’autunno.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 70 60 50 40 30 20 10 0
Foto R. Angelini
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno?
70 60 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
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erbe selvatiche Sanguinella comune (Digitaria sanguinalis). Il nome italiano e il secondo nome latino di questa monocotiledone si riferiscono alla colorazione generalmente arrossata (come il sangue) dei fusti e/o delle foglie e/o delle infiorescenze. Il fusto è adagiato sul terreno e spesso emette radici secondarie dai nodi. Le foglie sono molto pelose; quelle giovani sono ovali-lanceolate. La ligula è molto evidente, intera, pelosa, arrossata. Produce piccole infiorescenze (racemi) riunite in modo da sembrare le dita di una mano aperta (è a questa disposizione che si riferisce il nome latino digitaria). I fiori sono piccolissimi e maturano ognuno un frutto (cariosside) contenente un solo seme: in una pianta ve ne sono circa 150.000. La specie si riproduce solo tramite semi e vegeta durante le stagioni più calde, ma raggiunge il massimo sviluppo verso la fine della primavera. Foto R. Angelini
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 80 70 60 50 40 30 20
Foto R. Angelini
10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno?
80 70 60 50 40 30 20 10 0
217
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Senecione comune (Senecio vulgaris). Il nome di questa piccola dicotiledone si riferisce ai capolini ricoperti di peli bianchi (come quelli dei vecchi = senex-senecio). Le foglie sono quasi intere nelle piante giovani, lobate negli individui adulti: in passato erano impiegate per curare molte malattie (ulcere della pelle ecc.) e per regolare il ciclo mestruale. I capolini sono molto piccoli, formati da fiorellini gialli. I frutti sono simili a semi costoluti, a forma di cuneo; essi, in numero di circa 1000 per pianta, sono muniti di pappo piumoso. La specie svolge anche più di una generazione nell’arco dell’anno; i semi che maturano durante l’anno sono, infatti, capaci di originare nuove piante e queste fioriscono e disseminano nello stesso anno, per cui è possibile trovare contemporaneamente piante in vari stadi di sviluppo, anche durante l’inverno se il terreno non viene lavorato.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Foto R. Angelini
Quanto (%) se ne trova in autunno? 60 50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
218
Foto R. Angelini
erbe selvatiche Soffione o Dente di leone (Taraxacum officinale). Chi non ha mai soffiato sui capolini maturi di questa specie per far volar via i suoi frutticini simili a piccoli e vorticosi paracaduti? Questo è il significato del primo nome italiano mentre il secondo si riferisce ai lobi delle foglie, appuntiti come canini di leone. Il nome scientifico deriva, invece dalle sue proprietà medicinali (officinale) e in particolare all’uso, in passato, come rimedio (akos) all’intorbidimento della vista (táraxis). Le foglie si usano ancora come verdura cotta e dalle radici tostate e macinate si ottiene uno scialbo caffè (come quello che il grande Totò chiamava ciofèca). È una dicotiledone dai fiori gialli e dal fusto lattiginoso. Nasce durante tutto l’anno, grazie alla continua produzione di semi e alle gemme radicali, ma il periodo più propizio comprende l’estate e l’autunno.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno? 60 50 40 30 20 10 0
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Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
coltivazione Veronica comune (Veronica persica). Il nome è dedicato a Santa Veronica che deterse il volto di Cristo diretto al Golgota. Sono dicotiledoni generalmente adagiate sul terreno, con fusti spesso contorti. Le foglie sono ovali, con margine regolarmente dentato. I fiori sono riuniti in racemi fogliosi. Il frutto è una capsula compressa con due lobi evidenti, che a maturità si apre e rilascia uno o pochi semi piccoli e incavati a conchiglia (in ragione di circa 200 per pianta). A volte si trova anche la Veronica a foglie d’edera (V. hederifolia L.), con capsule quasi sferiche. Le veroniche si riproducono solo per seme. Hanno ciclo vegetativo molto corto e riescono a nascere, a fiorire e a fruttificare anche due o più volte all’anno, prevalentemente tra la fine dell’inverno e la primavera, ma non è rara la loro presenza anche durante l’estate e l’autunno.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Foto R. Angelini
Quanto (%) se ne trova in autunno?
50 40 30 20 10 0
Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
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erbe selvatiche Vilucchio comune (Convolvulus arvensis). Questa dicotiledone ha il fusto flessuoso e avvolgente, che si arrampica e si attorciglia intorno alle altre piante; a questa caratteristica si riferisce il suo nome e quello della famiglia corrispondente: Convolvulaceae (dal latino convolvere = avvolgere). Le foglie sono intere, generalmente glabre e con alla base due denti pronunciati. I fiori sono isolati, con corolla bianca o rosea saldata a imbuto. I frutti sono capsule contenenti uno o più semi scuri e rugosi di circa 3 mm. Il vilucchio comune si riproduce per seme e per gemme presenti sulle tenaci radici o su rizomi. La parte aerea della pianta appare in tutti i periodi dell’anno, se si escludono quelli particolarmente freddi durante l’inverno, raggiungendo il picco massimo di vegetazione durante l’estate e l’autunno.
Evoluzione stagionale della specie nei pereti dell’Italia settentrionale
Quanto (%) se ne trova nel non-lavorato? 60 50 40 30 20 10 0
Marzo Maggio Giugno Ottobre
Quanto (%) se ne trova in autunno?
60 50 40 30 20 10 0
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Non Marzo Maggio Giugno sarchiato Sarchiato
il pero
coltivazione Gestione erbe e polloni Gabriele Rapparini Giovanni Campagna
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
coltivazione Gestione erbe e polloni Dannosità delle malerbe Le malerbe che si ritrovano negli impianti di pero presentano una elevata variabilità in funzione dell’età degli impianti e del regime di coltivazione. Sono alquanto competitive durante i primi anni, dopodiché possono offrire aspetti vantaggiosi negli impianti in produzione se vengono ben gestite. Dove si effettuano frequenti lavorazioni meccaniche, come negli impianti giovani e anche sotto le file degli impianti adulti, prevale un’infestazione a ciclo annuale più tipica delle colture sarchiate. Dapprima si succedono le specie a sviluppo autunno-invernale, e poi quelle primaverili-estive, più competitive sia per lo sviluppo in altezza, causando un notevole intralcio a livello dei rami più bassi, sia per i maggiori consumi di acqua durante il periodo estivo. In un secondo tempo tendono a prevalere gradualmente le specie a ciclo biennale e pluriennale tipiche degli ambienti di transizione verso gli incolti, i prati e le zone di calpestamento, a causa dell’impossibilità di poter procedere a energiche lavorazioni. Tra queste Taraxacum, Daucus, Plantago, Erigeron, Rumex, Artemisia, Cirsium ecc., che diventano più competitive sia per il maggior sviluppo sia per la maggiore sottrazione di acqua ed elementi minerali. Dove si pratica la trinciatura della flora presente, come più di frequente si assiste nei moderni impianti adulti, prevalgono infestanti tipiche dei prati sfalciati, tra cui Poa, Dactylis e Festuca tra le graminacee e Plantago, Taraxacum e altre composite tra le dicotiledoni. Nel caso in cui si pratichi il diserbo sotto le file o su tutta la superficie, possono prevalere specie perennanti come Convolvulus arvensis, Calystegia sepium, Cirsium arvense, Malva sylvestris, Mentha arvensis, Brionia dioica, Phytolacca decandra, Potentilla reptans ecc., e tra le graminacee Cynodon dactylon e Agropyron repens. Vicino alle aree boschive o anche negli impianti meno curati, possono comparire anche specie arbustive come Robinia, Clematis, Hedera, Rubus ecc., assai indesiderate soprattutto per l’intralcio che sono in grado di causare, oltre all’indebolimento degli impianti e alla riduzione delle produzioni. Durante l’inverno, le erbe infestanti crescono a un ritmo molto ridotto e pertanto, per la competizione più limitata, non si rende in genere necessario il contenimento. In concomitanza del periodo primaverile si assiste, al contrario, a un vero e proprio risveglio vegetativo, in cui si rende necessario intervenire per ridurre la competizione con la coltura. Nel corso dell’estate, invece, prevalgono le specie più resistenti alla siccità e alle alte temperature, assai competitive in particolare nel caso in cui la coltura non sia irrigua. Al sopraggiungere delle piogge di fine estate iniziano a germinare le specie autunno-invernali, che, in genere, non sono in grado di
Diserbo
• Il diserbo è l’atto del diserbare che,
nel senso letterario, vuol dire “togliere l’erba nociva”, senza alcun riferimento alle metodologie con le quali questa pratica viene attuata. Pertanto è sbagliato associare, come spesso si fa, la parola diserbo con “diserbante chimico”. Il diserbo, infatti, può essere attuato con mezzi chimici ma anche fisici, come calore (pirodiserbo), freddo (criodiserbo), attrezzi meccanici (sarchiatura) oppure manualmente (scerbatura)
Foto P. Viggiani
Foto P. Viggiani
Malva (sopra) e billeri primaticcio (sotto) sono infestanti dei pereti
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gestione erbe e polloni arrecare gravi danni agli impianti ormai giunti alla fine del loro ciclo vegetativo annuale. Evoluzione della tecnica colturale e implicazioni relative alla lotta La tecnica colturale del pero si è notevolmente evoluta in questi ultimi decenni, sia per quanto riguarda la riduzione del sesto di impianto e del vigore vegetativo delle piante, sia per l’aumento delle superfici trattate con mezzi chimici. I programmi di intervento erbicidi, assai semplificati e adattabili nella maggior parte dei casi anche dove si opera nel rispetto dei Disciplinari di Produzione Integrata, vengono eseguiti quasi esclusivamente in localizzazione sotto la chioma delle piante. Gli spazi interfilari vengono sottoposti invece a lavorazione o trinciatura in un’ottica di tecnica di lotta integrata, a differenza del passato quando si lavorava l’intera superficie coltivata. Attualmente si praticano le lavorazioni interfilari nelle aree seccagne e nei giovani impianti, mentre la gestione dell’inerbimento con periodiche trinciature è preferita nelle aree più fresche e umide delle pianure, dove risulta maggiormente diffusa la pericoltura specializzata. La rapidità di esecuzione, con costi di gestione relativamente ridotti, l’eliminazione delle lesioni radicali e corticali che si procurano con le lavorazioni meccaniche, la mancata formazione della suola di lavorazione e la conseguente riduzione dei ristagni idrici, accanto all’eliminazione dell’erosione superficiale, alla migliore transitabilità per i mezzi meccanici, ma anche all’au-
Tradizionale impianto di peri diserbato sulla fila con erbicidi fogliari e con interfila naturalmente inerbita
Aspetti positivi e negativi dell’inerbimento negli spazi interfilari dei pereti specializzati Vantaggi
Suolo
Svantaggi
• Maggiore ritenzione degli elementi lisciviabili • Minore erosione • Minore ruscellamento • Maggiore aerazione • Migliore struttura e attività biologica • Maggiore biodiversità e presenza di antagonisti di insetti
• Eventuale incremento di parassiti e patogeni
e patogeni, oltre che di impollinatori
Impianto
• Minore asfissia radicale • Minore clorosi ferrica • Depressione del vigore vegetativo (utile solo per impianti
• Maggiore competizione idrica e nutrizionale • Depressione del vigore vegetativo
• Maggiore colore e qualità dei frutti
• Minore pezzatura del frutto
eccessivamente lussureggianti)
Prodotti raccolti o trasformati
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coltivazione mento della proliferazione di insetti utili per la lotta integrata e biologica nel frutteto, hanno decretato il successo di questa tecnica. La sensibilizzazione operata dalle direttive comunitarie, riguardo la riduzione dell’impatto ambientale e la diffusione degli impianti ad alta densità dotati di apparati radicali superficiali, hanno contribuito a consolidare tale pratica. La presenza di un cotico erboso inoltre assicura anche la funzione di cover crop (copertura vegetale) e di catch crop (cattura degli elementi nutritivi che potrebbero percolare lungo il profilo del terreno o ruscellare superficialmente nel periodo più piovoso autunno-invernale). Inoltre si riscontra un arricchimento di sostanza organica che si accompagna all’emissione di essudati radicali in grado di migliorare le funzioni biologiche del terreno, compresa la rimobilizzazione di elementi minerali; si forma anche una sorta di pacciamatura naturale a seguito del disseccamento delle malerbe nel periodo primaverile con tutti i benefici che ne derivano per il controllo dell’erosione e la limitazione dell’ulteriore emergenza di infestanti. Per questo, la presenza della flora spontanea non deve essere vista in meri termini negativi, ma presenta anche aspetti positivi quando si attui un’oculata gestione sia in termini spaziali (fila e interfila) sia temporali (utilità o minore danno arrecato in determinate stagioni anziché in altre). Il manto erboso tuttavia dovrà essere ben curato come nella gestione dei tappeti erbosi. Se ben nutrito con fertilizzanti e periodicamente sfalciato o trinciato senza asportazione dei residui, anche le piante arboree ne beneficeranno per effetto dell’emissione degli essudati radicali da parte della flora presente, dotati di funzione regolatrice nei confronti dell’ambiente terricolo che sta alla base della salute e della nutrizione delle piante coltivate. A questo punto non si può tralasciare una breve disamina riassuntiva riguardante gli aspetti favorevoli e sfavorevoli della flora spontanea nei confronti del suolo, dello stato produttivo e di sanità dell’impianto, nonché della qualità dei frutti prodotti.
Moderno impianto di pero diserbato sulla fila con erbicidi residuali e con inerbimento artificiale dell’interfila con essenze graminacee
Corretta gestione delle malerbe
• Nei moderni impianti, in particolare
quando si opera su ampie superfici con elevata densità di impianto, si tende a privilegiare la tecnica del diserbo chimico sulla fila, per evitare di danneggiare l’apparato radicale e la base dei fusti a seguito dell’utilizzo dei mezzi meccanici e, soprattutto, per il migliore contenimento delle malerbe vicine al fusto. Questa tecnica tuttavia deve essere praticata con cautela allo scopo di non arrecare danni da fitotossicità alle piante e di non creare fenomeni di selezione di malerbe tolleranti o resistenti agli erbicidi
Tecniche di lotta alle malerbe Il diserbo del pero, come del resto per tutte le colture arboree, risulta meno generalizzabile di quello delle colture erbacee di pieno campo e la gestione delle malerbe risulta diversificata in funzione del sistema di allevamento, dell’età degli impianti, degli ambienti pedoclimatici, dell’area di coltivazione secca o irrigua ecc. La combinazione di questi fattori rende la gestione alquanto complessa, e per questo la si deve intraprendere considerando la disponibilità di mezzi meccanici per la lavorazione del terreno o per la trinciatura o la sfalciatura del manto erboso e degli erbicidi di possibile impiego, la forma di allevamento delle piante da frutto, le infestanti presenti e le condizioni pedoclimatiche di coltivazione. Nei frutteti specializzati, ma anche in quelli familiari coltivati su superfici esigue, si tende a praticare una gestione integrata com224
gestione erbe e polloni binando differenti pratiche di contenimento sulle file e nelle interfile: per esempio, il diserbo chimico con le lavorazioni meccaniche, oppure la gestione del manto erboso interfilare con ripetuti sfalci negli impianti in produzione, avvalendosi della pacciamatura sotto la chioma per quelli di nuova costituzione. In questi, infatti, la competizione esercitata dalle malerbe determina rallentamenti di crescita tanto più accentuati quanto più sono giovani le piante e più superficiali sono gli apparati radicali, con minore lignificazione e maggiore suscettibilità ai rigori del gelo invernale. Inoltre la presenza delle malerbe può aggravare l’insediamento e lo sviluppo di malattie fungine e di insetti dannosi, nonché squilibri termici nel delicato periodo primaverile di risveglio vegetativo, con un maggiore rischio di gelate. Qualora vengano alternate differenti tecniche di contenimento delle malerbe, si possono riscontrare situazioni di presenza mista ed eterogenea delle infestanti, utile sotto il punto di vista gestionale e dell’aumento della biodiversità. Per tutti questi molteplici aspetti risulta più corretto parlare di gestione integrata delle malerbe anziché di controllo vero e proprio, in quanto si ricorre spesso alla combinazione di tecniche miste per la gestione della flora infestante presente sulla fila e sull’interfila.
Nuovo impianto di pero con lavorazione meccanica sulla fila, subito dopo la messa a dimora delle piante, e con interfile già seminate
Gestione agronomica. L’alternanza di differenti pratiche di contenimento delle malerbe risulta determinante ai fini di una loro ottimale gestione in funzione delle condizioni pedoclimatiche che caratterizzano l’area di coltivazione, anche se risulta sconsigliato effettuare lavorazioni meccaniche dopo periodi prolungati di nonlavorazione, in particolare se eseguite in profondità, allo scopo di evitare gravi danni agli apparati radicali. Per i nuovi impianti e Tradizionali lavorazioni meccaniche sulla fila e nell’interfila
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coltivazione negli ambienti più siccitosi e caldi, come in genere accade nelle zone collinari non irrigue, si tendono a privilegiare le tecniche dell’aridocoltura, in cui le lavorazioni rivestono un ruolo di primaria importanza. Qualora gli impianti siano dotati di irrigazione o negli ambienti più umidi e piovosi di pianura e di valle, si tende a privilegiare invece la tecnica dell’inerbimento controllato, che offre una serie indiscutibile di vantaggi. Occorre considerare però che il mantenimento del manto erboso determina un aumento dei consumi idrici nel periodo estivo, pertanto all’occorrenza può risultare necessario intervenire con apporti idrici, privilegiando quelli a goccia per limitare la nascita e lo sviluppo delle malerbe. Le maggiori difficoltà di gestione, tuttavia, riguardano la superficie posta sotto la chioma delle piante, dove risulta più difficile operare per via meccanica sia con le lavorazioni sia con lo sfalcio o la trinciatura onde evitare danni corticali e radicali. Anche l’impiego di mezzi manuali risulta più oneroso per la presenza dei rami talvolta assai prostrati e le difficoltà che ne derivano per potersi avvicinare. Da qui nasce spesso l’esigenza dell’adozione di tecniche di gestione miste, dove il diserbo chimico assume un ruolo di primaria importanza per il contenimento delle infestanti sia negli impianti più giovani, sia in quelli in produzione e nei differenti ambienti pedoclimatici. Altri accorgimenti si possono rivelare particolarmente utili nella gestione delle malerbe, come per esempio l’utilizzo di shelter o la collocazione di semplici tubi di plastica attorno alle piante dopo il trapianto delle stesse, allo scopo di limitare sia la competizione delle malerbe nei confronti delle piante coltivate sia eventuali danni da selvaggina. Inoltre è possibile in questo modo evitare di danneggiare le giovani piante con l’impiego di erbicidi come il glifosate, che potrebbero essere assorbiti dai giovani fusti semilegnosi, o con l’utilizzo di mezzi meccanici o durante la fase di trinciatura meccanica o manuale (decespugliatore) dell’erba attorno ai fusti delle piante. Per quanto riguarda gli interventi manuali, che sono da evitare anche se si tratta di limitate superfici, negli impianti di nuova costituzione occorre talvolta intervenire allo scopo di evitare che le giovani piantine possano essere danneggiate. Si possono pertanto rendere necessarie scerbature, zappature o anche vangature attorno agli astoni per liberarli dalle malerbe, in particolare dove non sono stati posti gli shelter di protezione o non sia stata effettuata la pacciamatura. Se invece sono state prese tutte le misure necessarie in fase di impianto, può essere sufficiente intervenire con falcetti o decespugliatore per fare qualche ritocco e contenere qualche malerba eventualmente sfuggita.
Foto R. Angelini
Semina dell’interfila con graminacee Foto A. Tonello
Shelter alla base del tronco per proteggere la pianta e limitare la competizione delle infestanti
Gestione meccanica
• Per il controllo delle infestanti nei nuovi impianti sono ancora utili le lavorazioni meccaniche quando non è possibile intervenire razionalmente con erbicidi residuali e fogliari che comportano rischi di fitotossicità
Gestione meccanica. Le lavorazioni meccaniche effettuate sotto le file per liberare le piante dalla vegetazione infestante, anche se vengono effettuate con particolare attenzione e con macchine specifiche dotate di congegni di “rientro”, sono spesso causa di danni sia agli apparati radicali sia ai fusti. Per questo motivo è con226
gestione erbe e polloni sigliabile effettuare le lavorazioni meccaniche solo negli ambienti più siccitosi, evitando di avvicinarsi troppo ai fusti delle piante. Le macchine che si possono utilizzare sono di tipo a elementi fissi, mobili o azionati da presa di potenza. Gli erpici a elementi fissi possono effettuare lavorazioni, tra l’altro poco energiche, solo negli spazi interfilari. Quelli a elementi mobili, in genere, sono gli erpici a dischi, eventualmente dotati di organi di rientro per effettuare lavorazioni sotto le file e in prossimità del fusto. Questi sono più diffusi sia per il tipo di lavoro piuttosto energico e superficiale che sono in grado di svolgere, sia per la limitata potenza che richiedono per il traino. Gli erpici con elementi azionati da presa di potenza e che girano su un asse orizzontale (fresatrice) o verticale (erpice rotante) possono essere dotati di organi di rientro ed effettuano un lavoro energico, ma assorbono maggiore potenza. Un inconveniente che possono causare in particolare le fresatrici è la suola di lavorazione, che tende a rendere asfittico il terreno e a causare ristagni idrici. Un altro tipo di operazione meccanica è la trinciatura del manto erboso sia sull’interfila sia sotto la fila, se le macchine sono munite di apposito congegno di rientro. Queste macchine possono essere di vari modelli, anche se le tipologie di funzionamento, come per gli erpici a elementi azionati dalla presa di potenza del trattore, sono principalmente due: a elementi che girano su un asse orizzontale o verticale. I primi effettuano una trinciatura più grossolana, ma sono più indicati per trinciare malerbe più sviluppate e residui di potatura, infatti le macchine operatrici che li utilizzano sono denominate trinciastocchi. I secondi sono utilizzati anche per lo sfalcio dei prati per la migliore qualità del lavoro svolto, ma richiedono interventi più frequenti.
Impianto di pero con inerbimento nell’interfila, diserbo chimico lungo la fila di destra e lavorazione meccanica a sinistra
Nuovo impianto di peri con lavorazione integrale su file e interfile
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coltivazione Un altro tipo di operazione che può essere effettuato con macchine specifiche munite di fruste che girano su un asse orizzontale è la spollonatura. Contemporaneamente all’eliminazione dei polloni, questa consente di limitare lo sviluppo delle malerbe che crescono in corrispondenza dei fusti, senza tuttavia danneggiarli, a differenza delle trinciatrici, che pur munite di protezioni non possono essere utilizzate in eccessiva vicinanza dei fusti per non arrecare danno. Gestione biologica. Nei giovani impianti, dove la competizione esercitata dalle malerbe risulta assai dannosa e il ricorso alle scerbature e alle zappature si rende alquanto dispendioso, può risultare particolarmente utile la pacciamatura con film plastici neri, anche se nel tempo si possono riscontrare maggiori attacchi da parte di roditori, oltre che la riduzione della riserva idrica del terreno, che rende necessarie irrigazioni di soccorso o la preventiva stesura di manichette. Allo scopo di usufruire degli innegabili vantaggi della pacciamatura durante le prime fasi di allevamento delle piante e di limitare gli svantaggi successivi, è possibile ricorrere all’impiego dei teli biodegradabili, che consentono di contenere le malerbe per un periodo seppur più limitato di tempo (1-3 anni), senza dover ricorrere alla successiva raccolta dei frammenti di telo. Particolarmente utile si rivela l’uso della pacciamatura per gli impianti molto fitti e a sviluppo limitato in altezza. Un’altra tecnica assai utile nelle conduzioni biologiche risulta il pirodiserbo, di possibile utilizzo sia nei giovani impianti sia in quelli più sviluppati. Ovviamente è consigliabile intervenire in presenza di malerbe poco sviluppate per ottenere una migliore qualità del lavoro. Nel caso invece di malerbe annuali più sviluppate e di malerbe perenni, occorre regolare velocità di avanzamento e intensità della fiamma per migliorare il grado di efficacia. In ogni caso è una pratica che si presta per interventi ripetuti sotto la fila, da integrare con altre pratiche di contenimento delle malerbe nelle interfile, come per esempio la trinciatura. Negli impianti sviluppati e a medio-alto fusto, come quelli allestiti in passato, possono essere utilizzati metodi molto semplici e naturali di particolare utilità, come la presenza di animali al pascolo (per esempio pecore), evitando le capre in quanto queste tendono a rovinare la corteccia e le fronde degli alberi. Assai utile risulta anche la predisposizione degli shelter, che permettono di ottenere nel contempo un primo e immediato tutoraggio e una lieve forzatura termica, in virtù dell’innalzamento delle temperature nel periodo di fine inverno-inizio primavera, nonché una protezione termica durante i rigori invernali.
Pacciamatura dell’area sottostante i filari, mediante film nero in materiale plastico o biodegradabile, steso in pre-impianto
Particolare dell’attrezzatura per il pirodiserbo, funzionante a gas propano
Gestione chimica. Il ricorso alla pratica del diserbo chimico assume un ruolo di primaria importanza per il contenimento delle infestanti, sia negli impianti più giovani sia in quelli in produzione, sotto la chioma delle piante, dove si presentano le maggiori
Effetto del trattamento di pirodiserbo sulle infestanti
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gestione erbe e polloni difficoltà di gestione delle malerbe. La riduzione della superficie trattata permette di assicurare nel contempo una gestione più ecocompatibile dell’ambiente, riducendo gli eventuali rischi di danni da fitotossicità alle piante. I criteri di scelta dei diserbanti, delle relative dosi di impiego e dell’epoca di applicazione (strategie) non possono prescindere dall’età dell’impianto e dal tipo di portinnesto. Inoltre occorre considerare le eventuali restrizioni di impiego sotto il punto di vista legislativo, oltre a quelle legate al tipo di terreno e alla possibilità di irrigazione. È sconsigliabile intervenire con erbicidi ad azione residuale su terreni molto sciolti e irrigui, allo scopo di evitare la comparsa di fenomeni di fitotossicità. Inoltre, anche la valutazione del decorso climatico e della flora infestante presente è importante ai fini della scelta dell’erbicida fogliare. L’utilizzo di erbicidi poco tossici è importante per la salvaguardia della salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente. Allo scopo di limitare l’emergenza di malerbe attorno alle piante, nei giovani impianti è possibile utilizzare erbicidi ad azione residuale che agiscono attraverso l’assorbimento radicale o tramite i germogli dei semi durante l’emergenza. Per la salvaguardia del frutteto debbono essere selettivi almeno per via stratigrafica: rimanendo in superficie non vengono assorbiti, o solo in dosi trascurabili, da parte delle radici della coltura che si trovano a una maggiore profondità. Negli impianti in produzione, nonostante che l’applicazione degli erbicidi fogliari possa essere attuata in ogni momento del ciclo vegetativo, con l’avvertenza di non interessare al trattamento le foglie delle piante, si tende a intervenire non prima della primavera inoltrata, allo scopo di ridurre il numero degli interventi (due, massimo tre applicazioni).
Foto R. Angelini
Diserbo chimico sulla fila in un giovane impianto
Evoluzione della gestione del diserbo chimico
• In questi ultimi anni si è assistito a
un pressoché totale abbandono dei disseccanti dipiridilici a favore di glifosate e del più selettivo glufosinate ammonio. Inoltre la revisione europea degli agrofarmaci e la contingentazione dell’uso di certi principi attivi hanno portato al quasi generalizzato abbandono dei prodotti residuali, prevedendo l’applicazione dei soli fogliari durante i periodi di maggiore dannosità delle malerbe. Sulla base di questi nuovi orientamenti si è giunti al ricorso a dosi ridotte di preparati chimici, da distribuire mediante applicazioni con erbicidi ad azione fogliare durante il periodo di maggiore accrescimento delle malerbe. Il grado di perfezionamento raggiunto attualmente dalla pratica del diserbo chimico è tale da permettere un soddisfacente controllo delle più dannose infestanti annuali e perenni
Esecuzione di un trattamento diserbante fogliare con barra munita di ugelli a ventaglio schermati
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coltivazione Diffusione della tecnica di diserbo chimico Da un esame complessivo della generalità delle superfici coltivate a pero, si rileva che la pratica del diserbo sulla fila viene effettuata su oltre il 90% degli impianti, anche se la gestione delle malerbe è indirizzata verso una tecnica integrata dove si effettuano gli interventi erbicidi localizzati sotto le file e l’inerbimento controllato dell’interfila mediante periodiche trinciature che hanno quasi completamente sostituito, almeno nelle zone più fresche di pianura, le lavorazioni meccaniche. Proporzionalmente più ridotte rimangono le superfici diserbate negli impianti del Centro e del Sud, dove peraltro risulta scarsa la presenza di pereti e dove si preferisce eseguire lavorazioni meccaniche anche in quelli in cui sono predisposti gli impianti irrigui. Nei pereti specializzati è più diffuso il diserbo autunnale, che interessa circa il 30% delle aziende, a cui seguono generalmente 1-2 interventi diserbanti nel corso della primavera successiva. In alternativa ai trattamenti autunnali e di fine inverno vengono eseguite 1-2 lavorazioni completate da 2-3 interventi chimici. Nelle interfile mediamente il 90% delle aziende pratica l’inerbimento controllato attraverso la trinciatura, mentre solo un 10% effettua lavorazioni meccaniche.
Fattori che influenzano l’esito dei trattamenti diserbanti
• I principali fattori che possono
influenzare l’esito del trattamento chimico sono: andamento meteorologico e condizioni di temperatura e umidità dell’aria e del terreno
• Essi rivestono maggiore importanza
nei giovani impianti, dove nei periodi di siccità le malerbe stressate possono evidenziare una lieve riduzione del grado di efficacia degli erbicidi fogliari
• La tipologia dei terreni, il loro grado di umidità e l’eventuale presenza di residui colturali o di foglie possono influenzare il grado d’azione dei prodotti residuali
Strategie di diserbo chimico Le strategie di lotta, in genere, vengono messe a punto in funzione della composizione malerbologica e delle condizioni pedoclimatiche, nonché dell’età e dal tipo degli impianti. Pereto con infestazione di Convolvulus arvensis (vilucchio)
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gestione erbe e polloni Vivai. Per il diserbo dei vivai delle principali specie frutticole e della vite, normalmente si interviene con barre schermate tra le file, con ripetuti trattamenti fogliari a base dei più selettivi disseccanti dipiridilici, oltre a glufosinate ammonio, ai quali a volte possono essere addizionati i più selettivi erbicidi residuali come trifluralin, propizamide o isoxaben. L’impiego a tutto campo dei suddetti prodotti residuali si rivela particolarmente utile alla fine dell’inverno del secondo anno di vegetazione, dopo l’esecuzione degli innesti su gemme dormienti. Quando si opera su vivai innestati nell’estate precedente, oltre ai suddetti erbicidi residuali possono essere impiegati anche oxadiazon e oxifluorfen, con l’avvertenza di non bagnare le gemme delle giovani piante arboree. Nuovi impianti. A partire dal primo anno dalla messa a dimora delle piante arboree, si è dimostrato conveniente distribuire sulle file, subito dopo l’impianto con terreno lavorato e privo di infestanti nate, diserbanti ad azione residuale nelle diverse combinazioni di trattamento più indicate per i diversi tipi di impianto e alle più comuni specie di piante infestanti da combattere. I prodotti più idonei per questo tipo di impiego sono gli stessi indicati per il diserbo dei vivai, con preferenziale utilizzo di quelli a più lunga persistenza e ridotta percolazione come trifluralin, oxadiazon, oxifluorfen e propizamide, con possibilità di utilizzare anche isoxaben. In alternativa all’esecuzione dei preventivi trattamenti con prodotti residuali, il diserbo dei giovani impianti può essere effettuato con l’impiego dei soli erbicidi fogliari ad azione di contatto, preferendo nel primo anno di vegetazione i più selettivi dipiridilici paraquat e diquat, per poi utilizzare su piante ben lignificate anche glufosinate ammonio, che si può impiegare con piena sicurezza a partire dal secondo anno di impianto. Per il controllo delle infestanti perenni graminacee e dicotiledoni, invece, si deve intervenire sulle chiazze infestate con il sistemico glifosate necessariamente distribuito con barre schermate o con attrezzature umettanti. Tali prodotti, unitamente al più sicuro glufosinate ammonio, possono poi trovare un valido impiego nei trattamenti su tutto il filare quando già dopo la messa a dimora i fusti delle piante vengano protetti con apposite schermature, evitando di operare con i prodotti a base di glifosate nei terreni molto sciolti, per il potenziale rischio che possa andare a contatto con gli apparati radicali delle giovani piante erbacee e causare danni da fitotossicità. Come per il diserbo dei vivai e degli impianti in produzione, per una più razionale lotta contro le infestanti dei giovani impianti si rivela più conveniente ricorrere all’impiego simultaneo di prodotti fogliari di contatto con quelli residuali nelle due epoche fondamentali di fine inverno e inizio estate, con utilità di ricorrere anche a interventi autunnali dopo il primo anno di impianto.
Esecuzione di un trattamento diserbante con l’impiego di una barra schermata e appendice rientrante
Particolare di una barra schermata a spazzole
Diserbo chimico eseguito in autunno poco prima della caduta delle foglie
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coltivazione Impianti in produzione. Gli impianti in produzione, giunti al quarto anno di vegetazione dopo la messa a dimora delle piante, presentano fusti lignificati e dotati di corteccia che limita gli scambi con l’esterno, tenendo presente che le soluzioni erbicide possono essere assorbite tramite le lenticelle. Il diserbo chimico può essere un proseguimento di quanto già si effettuava negli anni precedenti sui giovani impianti o un inizio di tale moderna pratica colturale dopo una coltivazione con sole lavorazioni meccaniche o pacciamatura. Nel primo caso si opera con una maggiore presenza di specie perenni rappresentate da convolvulacee, equisetacee, crucifere, malvacee e altre erbe di sostituzione e di difficile eliminazione con dosi ridotte di soli prodotti fogliari. Nel secondo caso il potenziale di inerbimento sarà rappresentato prevalentemente da specie annuali, comprese quelle più comuni in tutti i coltivi come Veronica, Senecio, Sonchus, Solanum, poligonacee, amarantacee, chenopodiacee ecc., e con abbondanti presenze di chiazze di specie perenni meglio contenute dai film plastici rispetto alle periodiche lavorazioni del terreno. I nuovi orientamenti basati sul più mirato impiego di erbicidi fogliari, hanno permesso di variare le tradizionali epoche di impiego e i relativi programmi di intervento, valorizzando le acquisite conoscenze sui tempi di emergenza delle malerbe, sulle caratteristiche dei singoli principi attivi e ottimizzando i calendari di intervento in funzione del tipo di impianto, delle specie coltivate e della disponibilità di impianti irrigui. I trattamenti autunnali si rivelano particolarmente convenienti nei giovani impianti, nei casi in cui il potenziale di germinazione delle infestanti annuali sia molto alto e qualora si attuino programmi di diserbo unicamente con prodotti fogliari, come nell’ambito dell’applicazione delle direttive comunitarie. Altri vantaggi derivanti dalle applicazioni autunnali con miscele di erbicidi fogliari e residuali si evidenziano dall’assenza di malerbe sotto le file dei pereti durante il periodo invernale e primaverile, che consente di migliorare il grado di lignificazione dei rami con conseguente aumento della resistenza al freddo e riduzione dei danni alla base delle piante causati da topi, insetti o malattie fungine. Vengono anche facilitate tutte le operazioni colturali, comprese quelle di potatura e di asportazione delle ramaglie, oltre a quelle di spollonatura. Inoltre, in corrispondenza delle epoche autunnali, per le favorevoli condizioni di assorbimento degli erbicidi è possibile ottenere un migliore contenimento delle malerbe con dosi relativamente ridotte, aumentando il grado di devitalizzazione delle specie perenni sensibili agli erbicidi fogliari sistemici come glifosate. I trattamenti autunnali, pertanto, offrono migliori opportunità di contenimento nelle zone particolarmente inerbite da Cynodon dactylon e Convolvulus arvensis, che seppure non vengano completamente devitalizzate, ritardano l’emissione dei ricacci
Fitotossicità da diserbanti
• Effetti negativi sulle piante causati da diserbanti si registrano solitamente su impianti giovani, soprattutto quando non si adottano adeguate precauzioni nell’applicazione o non sono sufficientemente conosciuti i meccanismi di selettività dei diversi principi attivi
Foto A. Tonello
Fitotossicità da diserbante fogliare
Danni su foglie di pero causati da un trattamento al terreno con erbicida residuale non correttamente dosato
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gestione erbe e polloni primaverili, consentendo di semplificare i successivi programmi di diserbo. In alternativa alle strategie di intervento che prevedono l’avvio delle applicazioni in autunno, mantengono un’ottima validità i trattamenti autunno-invernali o di fine inverno prima della ripresa vegetativa. In questo caso si opera con malerbe non ancora molto sviluppate, evitando i danni da competizione. L’inizio degli interventi può essere inoltre ritardato dopo la ripresa vegetativa qualora si operi con attrezzature perfettamente schermate e quando sussista la necessità di eliminare contemporaneamente specie annuali e perenni, tra cui Cirsium, Equisetum, Rumex ecc. Spesso coincide con la comparsa dei polloni che allo stadio erbaceo più sensibile di 15-20 cm di altezza, vengono devitalizzati con facilità con il prodotto più selettivo glufosinate ammonio. L’impiego dei prodotti residuali richiede un terreno ben sminuzzato e libero da malerbe e da foglie, consentendo di sortire un migliore effetto per le condizioni ambientali più favorevoli all’esaltazione del grado di efficacia erbicida. In presenza di malerbe o meglio in prosecuzione dei calendari di intervento, occorre intervenire con erbicidi ad azione fogliare, come il più sicuro glufosinate ammonio o con maggiori precauzioni con glifosate, evitando di bagnare i fusti delle piante non ben lignificate. Inoltre, anche la valutazione del decorso climatico e della flora infestante presente è importante ai fini della scelta dell’erbicida fogliare. Per esempio, glufosinate ammonio è più adatto per malerbe annuali a foglia larga e con temperature non troppo basse, mentre glifosate si presta anche per temperature più basse e in presenza di malerbe perenni. Negli impianti in produzione, nonostante l’applicazione degli erbicidi fogliari possa essere attuata in ogni momento del ciclo vege-
Sintomi di fitotossicità con arrossamenti e accartocciamenti fogliari causati da una dose eccessiva di erbicida a prevalente azione fogliare
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coltivazione tativo con l’avvertenza di non interessare al trattamento le foglie delle piante coltivate, si tende a intervenire non prima della primavera inoltrata, allo scopo di ridurre il numero degli interventi (due, massimo tre applicazioni). Si ricorre a ciò, anche se esteticamente l’esito non risulta ottimale, in quanto il manto erboso sviluppatosi in precedenza e disseccato dal trattamento consente di sortire un effetto pacciamante, in grado di ridurre l’emergenza di nuove malerbe. Se il primo intervento in genere si fa cadere verso la fine della primavera, si ricorre a un secondo intervento indirizzato al contenimento delle malerbe a sviluppo pluriennale ed eretto, che disturbano la produzione delle giovani piante o di quelle allevate a forme piuttosto basse. Un terzo intervento eventualmente si potrebbe rendere necessario negli impianti con forme di allevamento basse, nel caso di decorsi climatici favorevoli allo sviluppo delle malerbe estive e nei terreni più fertili. Inerbimenti successivi che si sviluppano nel corso dell’autunno in genere non disturbano più lo sviluppo delle piante, e consentono di ricostituire un manto erboso nel periodo invernale e primaverile che una volta disseccato nel corso della primavera successiva consente di sortire un effetto pacciamante allo scopo di ridurre l’emergenza di nuove infestanti. Il periodo di applicazione primaverile-estivo viene talvolta richiesto, in particolare con i prodotti fogliari qualora siano sfuggite malerbe a sviluppo perenne, o nei terreni più fertili e irrigui, ripetendo il trattamento nel periodo autunnale prima della caduta delle foglie o durante l’inverno, in funzione della presenza delle differenti specie di malerbe annuali o perenni.
Epoche di esecuzione dei trattamenti diserbanti
• Autunnale, prima della caduta delle foglie, con infestanti alte 10-15 cm
• Autunno-invernale, dopo la caduta delle foglie, con infestanti alte 10-15 cm
• Fine inverno, prima della ripresa vegetativa delle piante arboree
• Primaverile, dopo la ripresa vegetativa, prima o dopo la fioritura
• Primaverile-estiva, qualora alcune piante infestanti siano sfuggite ai precedenti trattamenti
Foto S. Musacci
La spollonatura Lo sviluppo di germogli assai vigorosi (succhioni) a partire dalle gemme latenti presenti sul fusto o sulle branche, ma soprattutto dei germogli originati dalle gemme avventizie situate alla base delle piante innestate (polloni) è un inconveniente tanto più grave quanto minore risulta l’affinità tra nesto e portinnesto, a causa del rallentamento del flusso linfatico. Queste emissioni risultano talvolta frequenti e risultano indesiderate, in quanto oltre a costituire un inutile spreco di risorse energetiche ai danni della produzione, creano disagi nella gestione delle pratiche colturali, nonché rifugio di insetti dannosi o vettori di malattie. La mancata eliminazione dei polloni nel periodo vegetativo, inoltre, rende più onerose e costose le operazioni di potatura invernale, tanto da motivare l’obbligatorio ricorso alle operazioni di spollonatura al verde durante il periodo primaverile-estivo. Nella maggior parte dei pereti questa operazione viene ancora oggi effettuata manualmente, richiedendo però un consistente impiego di manodopera. Per ridurre i costi si ricorre talvolta alle operazioni meccanizzate mediante decespugliatori o macchine operatrici munite di flagelli rotanti. Il loro impiego tuttavia risulta
Polloni
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gestione erbe e polloni Foto S. Musacci
Spollonatura
• Consiste nella eliminazione dei polloni
(germogli che si originano dalle gemme avventizie alla base del fusto)
• La presenza di polloni provoca effetti negativi quali: spreco di risorse energetiche nella pianta, danni alla produzione, problemi fitosanitari e disagi nella gestione delle pratiche colturali
• La loro asportazione può essere
effettuata: manualmente, a macchina o con il ricorso a mezzi chimici
spesso dannoso in quanto può arrecare gravi abrasioni e ferite, con traumi a livello dell’intera pianta e la compromissione dello stato fitosanitario a seguito della diffusione di patologie come per esempio la valsa o il colpo di fuoco batterico. Un’altra alternativa è la spollonatura chimica con l’impiego di glufosinate ammonio per la sua azione congiunta, a parità di tecnica distributiva e di concentrazione di principio attivo, nel contenimento dei polloni e delle malerbe sotto le file dei peri. In tal caso occorre intervenire su polloni di consistenza erbacea prima della loro lignificazione, con un’unica applicazione o meglio mediante due interventi ben cadenzati che consentono di ottimizzare anche il contenimento delle malerbe. Innegabili risultano i vantaggi di ordine tecnico ed economico, con risparmio di tempo, assenza di ferite e lieve ritardo nel ricaccio di nuovi polloni rispetto agli interventi manuali o meccanici.
Particolare di polloni disseccati chimicamente
Foto S. Musacci
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