Il riso botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato
il riso
storia e arte Origine e diffusione Aldo Ferrero, Antonio Tinarelli
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storia e arte Origine e diffusione Origine del nome In Cina il riso era anticamente denominato tao-gu e la sua pianta gengmi; Daoyang era ed è ancora oggi il nome utilizzato per indicare le giovani piante al momento del trapianto, mentre taue è il termine che individua questa pratica, celebrata in passato solennemente, al ritmo dei tamburi, con la danza taue-odori. Nello stesso Paese la pannocchia del riso è espressa da un ideogramma pronunciato dao. Il riso grezzo appena raccolto è indicato con il termine h’sien; il riso decorticato o integrale è detto kong, il suo rivestimento o lolla è chiamato k’ang. L’ideogramma del riso raffinato non cotto suona nella fonetica cinese mi e il riso cotto, quando è posto in tavola, è detto fan. Il termine che definisce il riso ceroso (waxi) è no, come la negazione nella nostra lingua. I primi riferimenti al riso in Europa possono essere ritrovati negli scritti del tragediografo greco Sofocle (497-406 a.C.) che indicò con il nome orinda un cereale che cresceva lungo le sponde del fiume Indo. Orinda è ancora oggi il nome utilizzato da alcune popolazioni indiane per indicare il cereale. Nel persiano era birinj, nella lingua Tamil dell’India meridionale ancora oggi è aribi. I popoli dell’antica Illiria davano al riso nomi differenti: oriz, tragos, thophe, siligo, bromos, olyra. Presso gli antichi Egizi il termine usato era lyra, mentre per gli Arabi era eruz, uruz, aros e ar-ruzz. Il nome riso ha origine dall’aferesi del termine latino oryza (o oriza), utilizzato da Linneo per la denominazione di questo genere di piante, a sua volta derivato senza modifiche dal greco, seguendo
A.N. Martellio: Oryza sativa, Roma, 1793
Dissodamento del terreno prima del trapianto nelle risaie a terrazzo del Sud-Est asiatico
Foto R. Angelini
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origine e diffusione la tradizione di latinizzare i nomi di tutto ciò che era originario di altre regioni. Il termine greco è un prestito linguistico dall’iranico Brizi, affermato in seguito nell`afgano vrize, a sua volta derivato dal sanscrito wrihi o potrebbe aver preso origine dalle lingue orientali del Sud nell’Asia, probabilmente da orìya, vocabolo della lingua neoariana d’origine sanscrita, parlata nella provincia indiana di Orissa, nel golfo del Bengala. Il termine utilizzato in tutte le lingue occidentali individua sia la pianta sia il frutto (la cariosside). Il vocabolo italiano riso, quello francese riz, il tedesco Reis e l’inglese rice si sono evoluti direttamente dal latino, mentre il termine spagnolo e portoghese arroz proviene dai nomi arabi ar-arruz e aros. Nel greco moderno il nome del riso crudo è rizi, derivato per aferesi dal greco antico, mentre dopo cottura diviene piláfi. Nella lingua inglese rice è il termine comunemente adottato per indicare la pianta e il prodotto dal punto di vista del consumo, mentre paddy (un adattamento dal malese pādī ) è il nome utilizzato per indicare il prodotto grezzo a livello commerciale.
Risaie arcaiche
• Nel 1996, nei pressi del delta dello
Yangtze, fu scoperta un’arcaica risaia fatta risalire a circa 4000 anni a.C.; furono ritrovate trentatrè camere di coltivazione, la più grande delle quali misurava 12 m2 e la più piccola un solo metro. Con gli scavi furono reperiti molti grani di riso e scoperte le vestigia di un sistema irriguo
Origine e diffusione della coltura In Oriente L’Asia è il continente in cui ha avuto origine ed è stata domesticata la specie Oryza sativa. In particolare la culla delle civiltà in cui questa pianta è stata protagonista sul piano agricolo, storico, artistico e letterario è rappresentata dalle regioni poste ai piedi dell’Himalaya, dalla Cina e dai Paesi del Sud-Est asiatico. Lungo il versante cinese si sono originate le forme di riso tipo japonica, mentre nelle aree a sud della catena montuosa si sono sviluppate quelle tipo indica. Gli albori della coltivazione del riso in Cina erano i tempi primordiali di quelle civiltà. Le tribù stanziali situate presso i fiumi Huang He – il nome cinese del fiume giallo – e Yangtze, ora noto con il nome Chang Jiang, si erano organizzate sotto il dominio di clan matriarcali, in contrastata continua vicenda a quelli degli uomini che prevalsero soltanto in seguito. Secondo la storia e la leggenda in quell’area e a quei tempi solo le donne avevano il diritto di coltivare il riso. Sono le epoche preistoriche del periodo Xia (circa 2100-1800 a.C.) e di quello Shang (circa 1600-1100 a.C.), precedenti di molti secoli la prima dinastia imperiale cinese Qin (221-206 a.C.); era il tempo in cui le tribù stanziali sui fiumi Huang He e Yangtze iniziavano a modificarsi e a evolversi coltivando il riso. Nel 1986 Wang Zaude, professore all’università di Pechino, pubblicò i risultati delle sue ricerche archeologiche eseguite nel 1973. Tra una quarantina di siti ove da sempre era esistita la coltivazione del riso, in Hemudu, provincia di Zhejiang, nel bacino inferiore dello Yangtze, fu provato che la risicoltura vi era praticata da 5000 o 6000 anni: era durante il Periodo Culturale Yangshao. Lo studioso recuperò, unitamente ad alcuni vasi fabbricati a mano, numerosi
Aratura, Cina, XVII secolo
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storia e arte reperti necrotizzati di piante del riso che per la loro disposizione parvero derivare da coltivazione; non si trattava di riso vegetato in linea spontanea. Pure a Pengloushan, nella regione Hunan, furono trovati in siti archeologici grani di riso grezzo contenuti in ciotole attribuibili agli anni 8200-7800 a.C. Antiche testimonianze ricordano le cerimonie imperiali sulla semina del riso e di altre cinque specie vegetali diffusamente coltivate: era una pratica propiziatoria che ogni anno era eseguita poco meno di tre secoli prima dell’era cristiana. L’imperatore Chin-Nong spargeva sul terreno, con atto simbolico e con la propria mano, la semente del riso; ai principi reali era affidato il compito di proseguire la cerimonia seminando il frumento, la soia, il miglio e le fave. La corte intera era tenuta a partecipare alla celebrazione propiziatoria. Un altro imperatore, Kang Hi, che visse tra il 1662 e il 1723 a.C., appassionato del riso e della sua coltivazione, passeggiando tra le risaie vide alcune piante le cui pannocchie erano già mature tra le altre ancora verdi, e le fece raccogliere. È così che fu selezionato a settentrione della Grande Muraglia, dove l’autunno è precoce e le basse temperature anticipano, un genotipo di riso più precoce di tre mesi rispetto a quello in coltura; la varietà fu nominata Yu Mi, riso imperiale. In Cina, fin dai primordi della risicoltura, il riso s’impose al frumento per la sua superiore resa produttiva. Una pianta di riso, con i suoi numerosi culmi, può produrre circa 2000 cariossidi, quando il frumento ne può produrre approssimativamente 400. Il riso trapiantato, pratica ancora oggi generalizzata nella Cina meridionale e in tutto il Sud-Est asiatico, occupa il terreno soltanto per 3-4 mesi l’anno, consentendo la coltivazione di altre colture nello stesso anno; ne discende che nessuna specie coltivata può nutrire un superiore numero di persone con alimenti tratti dalla stessa superficie di terreno.
Risicoltura cinese
• La coltura del riso in Cina trova
il suo massimo cantore in un antico funzionario della corte imperiale di nome Fan Sheng-Chi, ritenuto il più antico autore georgico della Cina, contemporaneo di Virgilio, vissuto nella seconda metà del I secolo a.C. In quanto è rimasto di quegli scritti, si fa riferimento ai sistemi d’aridocoltura praticati nelle terre prossime al fiume giallo (Huang He), più di 2000 anni fa. L’enciclopedia agraria Chi Min Yao, redatta nella prima metà del V secolo d.C., trae da quegli scritti nozioni agronomiche ancora oggi valide
Foto R. Angelini
Mietitura del riso lungo il fiume Li, Cina
Trapianto del riso da Il costume antico e moderno, di Giulio Ferrario (Milano, 1816)
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origine e diffusione Gli imperatori della dinastia Song, dominante nella Cina meridionale, nei secoli X e XIII d.C. introdussero nelle aree più popolate dello Yangtze genotipi di riso della subspecie indica precoci, originari dell’Annan, nell’Indocina. Attualmente in quelle stesse aree sono ancora coltivate in prevalenza le varietà indica; quelle della subsp. japonica, geng per il cinese, sono confinate nelle zone più fredde nel Nord del Paese. Nel 1012 l’imperatore Zhen Song importò varietà di riso della regione Fujian, più idonee per una maturazione più precoce. La letteratura cinese fa ampio riferimento alle antiche dinastie anche per la produzione di bevande alcoliche ottenute per fermentazione dal riso, tradizioni che in seguito si diffusero ovunque in Asia, espandendosi verso Nord alla Corea e al Giappone, così pure a Sud, in tutto il continente e alle isole del Pacifico. L’attività di fermentazione ancora oggi è ampiamente praticata con migliaia di prodotti in commercio. In una collezione di 100 poesie, raccolta durante il periodo della dinastia Zhou (circa 1100-256 a.C.), si fa cenno a una numerosa serie di bevande, alcoliche e non, tutte ricavate dal riso. Ai tempi di Marco Polo i cinesi conoscevano 54 varietà di riso il cui grano poteva essere di colore rosa, bianco, giallo, con altre caratteristiche, ognuna con fragranze proprie; varietà a volte selezionate a uso esclusivo per la famiglia. Il riso giunse in Giappone nell’era Yayoi, approssimativamente nel 2000 a.C. Venne inizialmente introdotto nell’isola di Kyushu, la più meridionale dell’arcipelago giapponese, quella che prese poi il nome di “La terra degli steli piantati nell’acqua”. L’introduzione in quest’isola sarebbe avvenuta con la migrazione di popolazioni cinesi dalla penisola di Shandong attraverso la Corea, oppure, direttamente, via mare dal delta del fiume Yangtze. I libri di storia più antichi del Giappone, il Kojiki (712 d.C.), tradotto in Note su antiche cose, e il Nihon Shoki (720 d.C.), tradotto in Cronache del Giappone, sono libri ufficiali che trattano delle vicende dell’era preistorica degli dei fino all’imperatore Jito del 720 d.C. Ricordano le pratiche colturali necessarie per il riso, descrivono le tecniche per la produzione del sake e di bevande prodotte con frutti, così pure della Amano tamu sake, bevanda ricavata dal riso. Alcune varietà di riso sono coltivate esclusivamente per produrre questa bevanda alcolica nazionale, ottenuta mediante un complesso processo di fermentazione, differente da quello praticato in Cina. Durante il periodo Edo (1600-1868), l’epoca dei samurai, il riso fu assunto anche come unità di misura detta Goku, strumento di transazioni commerciali, e divenne un emblema identificativo del mondo orientale. In Giappone si sono diffuse principalmente varietà di riso del tipo japonica; soltanto nelle isole del Sud si possono trovare genotipi indica.
Riso e progresso tecnologico
• Secondo alcuni storici la creazione
di un avanzato sistema agricolo, principalmente legato alla coltivazione del riso, avrebbe impedito in Cina lo sviluppo industriale del Paese, inducendo una sorta di stagnazione tecnologica a partire dal periodo della dinastia Ming (1368-1644 d.C.)
Proverbi asiatici
• In Asia il riso ha permeato ogni aspetto della cultura, entrando a far parte della saggezza popolare con numerosi proverbi:
– “ Per il nostro breve passaggio sulla terra bastano un cappello e un pugno di riso” – “ Mangia il tuo riso, al resto penserà il cielo” – “ Parlare non fa cuocere il riso”
– “ Uno lavora e nove mangiano il riso”
– “ La migliore delle massaie se non ha riso non può preparare il suo pasto”
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storia e arte Il Sud dell’immenso continente asiatico, che corre da Ovest a Est fino a tutte le isole del Pacifico, conserva numerose tracce dell’antica coltivazione. Reperti archeologici risalgono al V millennio precedente l’era cristiana. Nell’India settentrionale e in Thailandia, con gli scavi archeologici furono recuperati grani di risone carbonificati della subspecie indica. Nelle grotte di Hastinapur della provincia indiana Uttar Pradesh furono trovate vestigia dei grani di riso che risalgono al 1000 a.C. Alcuni testi sanscriti, fatti risalire al 3000 a.C., propongono una classifica botanico-agronomica del riso e ne descrivono le fasi del trapianto.
Poesie e canzoni
• Il poeta giapponese Konishi Raizan
(1653-1716), vissuto nel periodo Edo, così descrive l’operazione di trapianto del riso: Le ragazze piantano il riso Solo il loro canto Non è sporco di fango
• Una popolare canzone vietnamita
Da Oriente a Occidente In Europa la coltura del riso ebbe inizio in un’epoca non ben definita, collocabile tra il 600 e il 700 d.C., sebbene il cereale fosse stato ripetutamente citato da autori latini e greci già alcuni secoli prima dell’era cristiana. Fu nel VI secolo a.C. che il greco Scìllace di Carianda, a seguito dell’incarico ricevuto dal re Dario di Persia, compì un viaggio d’esplorazione in India: da Kabul era sceso nel Punjab e, costeggiando il fiume Indo, era giunto alle sue foci. Erodoto da Alicarnasso (485-425 a.C.), riferendosi alle memorie scritte da Scìllace, citò il cereale, descrivendo i suoi semi “simili al miglio, di cui gli indiani si cibano”. Anche lo storico, geografo ed etnologo Aristobùlo di Cassandrìa (IV sec. a.C.), ricorda il riso nei suoi scritti per avere partecipato, secoli dopo i Persiani, alle numerose spedizioni in Asia al seguito degli armati di Alessandro Magno. Le notizie circa i metodi di coltivazione giungono più tardi dal geografo Megastene (350-290 a.C.), al servizio di Seleuco I Nicatore successore in Asia minore di Alessandro; fu alla corte del re indiano Chandragupta e con il suo scritto Storie dell’India descrisse la fauna e la flora di quei Paesi accennando al riso che “sulle rive del Gange cresce anche spontaneamente”. “Al solstizio d’estate i
stigmatizza la fatica del lavoro in risaia: Sotto il sole a picco coltivo la risaia e le gocce di sudore cadono come pioggia sulla risaia coltivata. O voi che avete in mano una ciotola di riso, pensate: ogni piccolo grano di riso tenero e profumato nella vostra bocca, quanta amara fatica
• Un altro canto vietnamita celebra,
riferendosi al riso, la forza rigeneratrice del dolore: Stretto entro la macina, soffre il seme del riso; passata la prova guardate com’è bianco! Così è pure per gli uomini nel mondo in cui viviamo: il dolore matura la nostra umanità Foto R. Angelini
Noria per il sollevamento delle acque, India
Sbramatura da Il costume antico e moderno, di Giulio Ferrario (Milano, 1816)
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origine e diffusione fiumi in piena inondano la pianura: il terreno è preparato mediante solchi e argini che racchiudono appezzamenti e quando è ancora semiasciutto si semina il riso”. Megastene scrive: “Presso gli indiani a pranzo è disposta dinanzi a ciascuno una tavola, che è simile ai tavolini di servizio; su di essa è posta una scodella d’oro in cui versano dapprima il riso, bollito come si farebbe bollire il Chondros (il grano) poi molte pietanze preparate con condimenti indiani”; ricorda pure certe bevande ricavate dal riso fermentato. Dioscùride (I sec. d.C.) di Anazarbo in Cilicia, scrive: “Il riso appartiene alla specie dei cereali e cresce in luoghi paludosi e ricchi d’acqua; è moderatamente nutriente e costipante per l’intestino”. Ateneo di Nàucrati d’Egitto (II-III sec. d.C.), con la sua opera Sofisti a banchetto, cita Sofocle che ricorda “una specie di pane etiopico fatto di riso”; cita pure Megastene quando scrive del modo di cibarsi del riso a tavola. Ai fini alimentari accenna al riso decorticato e in seguito bollito. Per lo scortecciamento erano utilizzati strumenti rudimentali, a somiglianza del mortaio con il pestello, scavati nel legno o nella pietra, così come ancora oggi è norma in tante regioni asiatiche e africane. Non si hanno informazioni che i Greci abbiano utilizzato il riso a uso alimentare se non per necessità, come accadde per i soldati di Éumene in Mesopotamia. Ai fini nutritivi il riso fu conosciuto dai Greci soltanto nel III secolo a.C. senza essere coltivato e anche poco impiegato quale alimento; è invece ampiamente documentato e descritto l’uso del riso in medicina e in farmacologia. A questo riguardo le prime notizie, di epoca romana, ci sono pervenute dagli scritti di Dioscùride da Anazarbo, città della Cilicia in Turchia. Questo autore visse nel periodo in cui erano imperatori Claudio e Nerone, nel I secolo d.C. Le sue opere sono numerose, tra esse quelle più particolarmente attinenti l’uso del riso sono: De materia medica, De venenis eorumque praecautione et medicatione, De simpli-
Da Oriente a Occidente
• La migrazione della coltivazione
del riso dall’Asia verso l’Europa è avvenuta attraverso il Sud della Mesopotamia, nelle aree soggette alle esondazioni dei fiumi Tigri ed Eufrate. In questa regione la coltura sarebbe giunta verso il VI secolo a.C. a seguito di un viaggio di esplorazione ordinato dal re persiano Dario
Foto R. Angelini
Aratura con zebù in Kashmir, India
Venditori al minuto di riso da Il costume antico e moderno, di Giulio Ferrario (Milano, 1816)
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storia e arte cibus medicinis. Sono testi e note medicali che furono utilizzati e applicati ampiamente sia dagli Arabi sia dagli Occidentali durante tutto il Medioevo. Riguardano i rimedi per eliminare i vermi intestinali, per curare la dissenteria, le intossicazioni e tante altre malattie. Forniscono anche nozioni di cosmesi che prevedevano l’uso della farina di riso in miscela ai diversi e più inattesi ingredienti. Nel II secolo d.C. la scuola medica greca e quella assai celebre di Alessandria, la cui immensa biblioteca fu distrutta da un incendio, fece testo assoluto durante tutto il periodo romano. L’arte medicale fu esercitata a Roma principalmente dai medici provenienti, oltre che da Alessandria, dall’Asia minore, soprattutto all’epoca di Traiano e di Adriano. Fu il medico Sorano di Efeso, della scuola metodica, che lasciò due libri, De signis fracturarum e Gynaeciorum libri; in essi si raccomanda l’uso di una farinata di riso per la gravidanza, per le turbe digestive e per i dolori muliebri. Il fondaco di Alessandria d’Egitto, la “Porta del pepe”, era il più grande emporio dei tre continenti; in esso, da epoche pre-romane, veniva commercializzato ogni tipo di prodotto esotico e fu attivo fino al 300 d.C. Il riso, al tempo poco conosciuto, vi era venduto come spezia rara. Così dai Greci e dai Romani, in seguito durante tutto il Medioevo e in epoca rinascimentale, si considerava il riso esclusivamente come una spezia proveniente dall’Oriente, essenzialmente per l’impiego medicinale adatto a ogni tipo di patologia o per usi cosmetici. Il particolare sui luoghi di coltura in Asia minore è confermato da Diodoro I Nicatore (355 a.C.): egli narra di battaglie tra Éumene di Cardìa e Antigono Monoftalmo, antico generale macedone,
Utensile africano per tagliare le pannocchie di riso, Parigi, Museo dell’uomo
Aratura con cammello in Rajasthan, India
Foto R. Angelini
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origine e diffusione ricordando che il primo tra i due contendenti, guerreggiando in Mesopotamia, per la mancanza d’altro cereale, dovette nutrire le sue truppe soltanto con riso, sesamo e datteri. Nel secolo precedente il drammaturgo greco Sofocle (497-406 a.C.), nel Trittolemo, facendo cenno al riso, scriveva di “un pane di riso fatto per vero dall’Oryza o da un seme che nasce in Etiopia, che è simile al sesamo”. Diodoro Siculo da Egira, presso Enna in Sicilia (60-30 a.C.), nella Bibliotheca historica, e Strabone di Amasia, città del mar Nero (64 a.C.-21 d.C.), riprendendo quelle notizie furono i primi autori, in Occidente, a fare riferimento al riso. Strabone in Geographica scrive: “Aristobùlo dice che il riso sta in acqua chiusa in certe aiuole, la pianta è di un’altezza di quattro cubiti (1,77 m), abbondante di spighe e ricco di grani. Si raccoglie poi verso il tramonto delle Pleiadi (ai primi di novembre) e si lavora come lo Spelta. Si produce nella Battriana (Afghanistan del sud) nella Babilonia e nella Susania (settentrione dell’Iran), si produce anche nella bassa Siria”. Risale a quel periodo l’informazione sulle coltivazioni eseguite oltre che nell’India e in Afghanistan, nell’isola di Ceylon, nella Persia meridionale e, a testimonianza di Strabone, nella bassa Siria e nella Cisgiordania. Quindi, già in epoca romana la coltivazione del riso si era affacciata nei pressi del Mediterraneo. In un periodo non ben precisato, la coltivazione del riso ha cominciato a essere praticata in Palestina, in Cisgiordania e Siria e si sviluppò assai più tardi in Egitto. In una raccolta di decisioni dei giureconsulti giudei si rileva che la coltura del riso era giudicata assai utile all’economia e fu favorita dai legiferanti con concessioni. Nei Mégillò’t, in cui sono raccolti i cinque libri dell’Antico Testamento, è ricordato
Canalizzazione manuale delle acque da Il costume antico e moderno, di Giulio Ferrario (Milano, 1816)
Trebbiatura del riso nel Guangxi, Cina
Foto R. Angelini
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storia e arte che il riso si semina prima delle piogge ed è irrigato da acque chiuse. Anche nel Talmù’d, nella versione babilonese dell’Antico Testamento, tra il III e il V secolo precedenti l’era cristiana, alcune note riguardano il riso. Il momento in cui fu introdotta la coltivazione del riso nell’Africa settentrionale resta ancora ignoto, anche se Strabone nella sua Geographica scrive di un suo viaggio in Egitto nei primi anni dell’era cristiana, riferendo di aver visto una coltivazione di riso in un’oasi del deserto del Sahara abitata dalla popolazione berbera dei Garamanti. Filone di Alessandria (30-45 d.C.) nel trattato De ebrietate dà notizia della presenza in un territorio occupato da una comunità indiana che si nutriva prevalentemente di riso. È possibile comunque anche che la diffusione e l’affermazione della coltura in Egitto sia legata alla conquista di questo Paese e di altri territori nordafricani e mediorientali da parte delle popolazioni arabe, a partire dal VII secolo d.C. Nel secolo successivo, dopo la caduta del regno visigoto, la Spagna venne incorporata nel califfato di Damasco. Da questo periodo è probabile che la coltura del riso abbia iniziato a estendersi anche nei territori occupati. Vi sono documenti che ne attestano la coltivazione, nel XII secolo, nelle città valenziane di Alzira e Xativa. Circa un secolo più tardi, sotto il regno di Dionigi, noto come “l’Agricoltore” e “il Giusto”, il riso avrebbe iniziato a essere coltivato anche in Portogallo, nelle aree paludose lungo il fiume Mondego e in quelle prossime all’estuario del fiume Tejo. In Francia la coltivazione del riso prese avvio tra il XV e il XVI secolo in Camargue, l’area del delta del fiume Rodano, la stessa dove si coltiva ancora oggi il cereale. La diffusione è stata favorita dagli intensi lavori di bonifica dei territori soggetti a continue inon-
Documentazione sul riso
• Nell’Asia più occidentale, dall’Armenia
al bacino del Mediterraneo, sulla costa del mar Rosso, tra lo Yemen e l’Etiopia fiorirono gli scritti che trattavano della coltivazione del riso. Dal VI al XVI secolo d.C. furono studiosi arabi, siriani, etiopi, armeni, georgiani e altri ancora che dedicarono al riso manoscritti in gran numero; più di cinquecento sono conservati in monasteri e biblioteche
• Il quarto sultano dello Yemen, Al Abbas El Rasul, uomo colto e illuminato, scrisse, tra il 1326 e il 1376, un trattato di agricoltura. Al riso dedicò alcuni capitoli assai dettagliati sui modi di coltivazione, insegnandone ai sudditi i principi
Mietitura del riso in Cambogia
Foto R. Angelini
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origine e diffusione dazioni. La maggior parte dei lavori venne realizzata per iniziativa di grandi monasteri presenti nell’area, che fecero scavare canali di drenaggio, disboscare le sponde dei corsi d’acqua e realizzare arginature per proteggere le terre coltivate. Un importante documento sulla coltivazione del riso in Francia è l’editto con cui, nel 1593, re Enrico IV ordinava la coltivazione del riso in Camargue. Iniziò così la diffusione della coltura, parallelamente alla creazione di una rete di canali necessari alla coltivazione del cereale e di altre colture. Durante il periodo del blocco navale imposto dagli Inglesi alla Francia, Napoleone ordinò che si coltivassero riso, cotone e barbabietola da zucchero in Camargue e ovunque fosse possibile. Anche per la Grecia non si hanno notizie certe sull’introduzione della coltura, ma il fatto che alcuni villaggi e città abbiano nomi derivanti da quello del riso è da alcuni considerato una prova della sua coltivazione. È comunque certo che questa coltura fosse presente nel 1834, anno dell’istituzione dell’onorificenza “Per la coltura del riso”. La superficie coltivata si è ampliata nel 1912 con l’annessione dell’Epiro, una regione a importante tradizione risicola. Un aspetto ancora non chiarito della coltivazione del riso nei Paesi del bacino del Mediterraneo è quello relativo alla diffusione di genotipi japonica diversi da quelli indica comunemente coltivati nell’areale mediorientale. Questi ultimi infatti presentano esigenze fisiologiche non idonee alle condizioni foto-termo-periodiche dell’ambiente mediterraneo. Pur mancando la documentazione al riguardo è alquanto verosimile che le varietà di tipo japonica, originarie delle aree interne asiatiche cinesi, siano state introdotte prima in Egitto e successivamente in Europa a seguito di possibili contatti commerciali che gli Arabi avevano con altri Paesi dell’Asia centrale.
Misuratore per il riso in bambù con disegni pirografici, Madagascar. Museo dell’uomo, Parigi
Introduzione del riso in Italia
• Sull’introduzione del riso in Italia
sono state formulate diverse ipotesi. Secondo alcuni studiosi la coltivazione avrebbe avuto origine a seguito dell’occupazione di Sicilia e Calabria da parte degli Arabi; secondo altri si sarebbe sviluppata nel Napoletano durante l’occupazione degli Aragonesi. Nell’Italia settentrionale la coltura potrebbe essere stata introdotta dai soldati di Carlo Magno, dopo le battaglie contro gli Arabi oppure a opera dei mercanti delle Repubbliche marinare. Tutte queste ipotesi sono verosimili, tenuto conto che la coltura potrebbe avere avuto nel nostro Paese più centri di diffusione
In Italia Anche per l’Italia non si hanno informazioni precise sull’introduzione della coltivazione del riso. Nell’Impero Romano il riso era conosciuto più per le sue proprietà medicinali che per quelle alimentari. Il medico Archigene di Apamea, città della Siria romana, operò in Roma, sotto Traiano. Galeno di Pèrgamo, medico dei gladiatori, fu alla corte di Marco Aurelio; altri ancora, numerosi nei secoli successivi, utilizzarono preparati di riso per la cura di una vasta serie d’affezioni, compresa la diatesi celiaca, già individuata tra il I e il II secolo dal medico greco Areteo di Cappadocia. Si trattava essenzialmente di decotti, farinate, estratti liquidi, pozioni e farmaci che furono adottati in tutta Europa fino a tutto il Rinascimento, nel Seicento e nel Settecento. Celebre è l’ode di Orazio che in una satira fa il verso al lamento di un avaro, un ricco patrizio a cui il medico aveva ordinato una tisana di riso molto costosa: “… agedum sume hoc ptisanarium oryzae. Quanti aemptae? Parvo. Quanti ergo? Octussibus. Eh! (Suvvia prendi questa pozione di riso! Quanto costa? Poco. Quanto dunque? Otto Assi. Ahi!)”. 43
storia e arte Un documento del 1253, ora nell’archivio arcivescovile di Vercelli, attesta che agli infermi dell’ospedale S. Andrea della stessa città veniva somministrato “risum et amigdolas” (riso e mandorle). Nello stesso periodo, nel registro delle spese dei Savoia il riso era elencato tra i prodotti acquistati e utilizzati per preparare dolci. A Milano nel 1336 il tribunale di provvisione era intervenuto per calmierare il prezzo del riso ingiungendo con una ordinanza di non superare dodici imperiali alla libbra, un prezzo che era comunque di una volta e mezzo quello del miele. La penisola, dopo la caduta dell’Impero Romano, fu territorio di invasioni e conquiste di potenze arabe ed europee; è possibile, quindi, che la coltura sia stata introdotta nelle diverse regioni dove ora è presente in epoche diverse e a partire da differenti aree di origine. Con buona probabilità, le prime coltivazioni ebbero inizio in Sicilia, nello stesso periodo in cui gli Arabi diffusero la coltura in Spagna, nell’VIII secolo, se non in epoche precedenti. Dagli Atti del Congresso risicolo internazionale di Vercelli del 5-8 novembre 1912, Caruso afferma che il riso fu introdotto in Sicilia dagli Arabi nel 728 e che nell’anno 253 dell’Egira (875 d.C.) il riso vi era tassato come le altre derrate alimentari. Fu appunto nel II secolo d.C. che gli Arabi si sostituirono ai Bizantini in Sicilia. Tra Siracusa e Catania vi è la vasta zona paludosa della piana di Lentini, resa famosa nella storia dalle guerre tra gli eserciti di Atene e Sparta; si ritiene che quest’area abbia ospitato la coltura per un lungo periodo di tempo, mantenendola fino ai secoli a noi più vicini. Un’accertata documentazione circa i primi passi della risicoltura italiana nella Pianura Padana non è stata ritrovata. Secondo alcuni autori il riso potrebbe essere stato introdotto in Piemonte e Lombardia dalla Spagna attraverso la Francia a opera dei soldati di Carlo Magno al ritorno dalle battaglie contro gli Arabi. Secondo altri studiosi alla diffusione nelle province dell’Italia centro-settentrionale avrebbero contribuito anche i mercanti veneziani e quelli delle altre Repubbliche marinare. Gli stretti rapporti commerciali intrattenuti con gli Arabi e con le più remote popolazioni asiatiche potrebbero aver permesso a questi mercanti di venire a conoscenza del cereale e di apprendere le tecniche della sua coltivazione. Nel territorio veronese, tuttavia, il riso potrebbe essere giunto anche per merito dei milanesi. In una sua memoria Vasco S. Gondola di Ragusa, poeta e storico, ricorda che nel 1500 la coltura del riso dalla Lombardia fu introdotta a Isola della Scala, nei pressi di Verona, da alcuni contadini profughi che erano scampati alle vessazioni delle milizie spagnole e francesi in armi per disputarsi il dominio dei territori lombardi. Altri documenti ricordano che nel 1510 il patrizio Gran Maresciallo Gian Giacomo Teodoro Trivulzio, comandante dell’armata veneziana, tentò la coltivazione del riso nella Silva plana, nell’alto bacino del Lario, utilizzando le acque del rio Boggia; la coltivazione
“Pulitura” del riso raffinato
Diffusione del riso in Italia
• Ovunque in Italia, in ogni area
in cui la risicoltura fu introdotta, i terreni a palude furono i primi a essere seminati a riso. Avveniva nei luoghi in cui, a seguito delle ampie esondazioni dei fiumi e dei torrenti che ripetutamente modificavano l’alveo in occasione di eccessive precipitazioni, si verificavano con facilità ampi impaludamenti. In seguito, per l’alto reddito derivante, la risicoltura si espanse anche in aree sane sul piano idrologico, con risultati ancora superiori
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origine e diffusione fu ripresa dallo stesso patrizio con migliore risultato a Zevio di Verona, nel 1522. Nei territori soggetti al dominio della Repubblica di Venezia la coltivazione a risaia aveva preso tale ampio sviluppo e rapido incremento che il senato della Repubblica veneta il 17 settembre 1594 stabiliva delle regolazioni: “... sulla prohibizione di mettere a semina di risi niuna sorta di terreni buoni per seminarvi formenti”. Dagli inizi, coltivare il riso era consentito nei terreni a palude e non in quelli sani. La limitazione alla risaia nei terreni più fertili fu motivata in primo luogo dalla mancanza di frumento e degli altri cereali ma anche per la penuria d’ogni altro alimento, dei foraggi per i cavalli e per gli animali d’allevamento. Per coltivare riso era invalso l’uso di tagliare alberi, viti e altro. Con riferimento all’introduzione del riso in Italia settentrionale, si sa comunque che il Rev. Bernardino Avogadro di Casanova, Commendatario dei beni dell’Ospedale Maggiore di Vercelli, fu citato in giudizio dai fratelli De Restis, affittuari di una cascina sita in Larizzate, borgata prossima a Vercelli, su terre acquistate dall’ospedale nel 1227. La controversia riguardava il mancato rimborso delle spese per miglioramenti apportati al fondo. Il padre dei due fratelli aveva costruito una pileria per rendere bianco il riso. Questo atto giudiziario, considerato che vi è fatto riferimento a un’attività di “pilatura”, cioè la raffinazione del riso, è chiara prova di una pratica risicola in corso e di una già conosciuta metodologia di lavorazione del prodotto. Nella stessa epoca, sempre in area vercellese, la Commenda dell’Abbazia cistercense di Santa Maria di Lucedio in territorio del comune di Trino – attiva dal 1123 – su 2700 ettari dichiarava che le
Risone e crivelli per la cernita
Abbazia cistercense di Santa Maria di Lucedio, Trino Vercellese
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storia e arte proprie coltivazioni erano così differenziate: le risaie si estendono su 1732 ettari, i prati su 465, le superficie arate (aratori) su 503. È elevata la probabilità che i monaci abbiano coltivato per primi il riso nelle terre da loro bonificate e assai prima della data qui ricordata. Il primo documento in grado di attestare la coltivazione del riso in Italia risale al 1468 ed è stato citato nel 1789 dal medico botanico Giovanni Targioni Tozzetti nel suo Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. In questo suo lavoro il Targioni Tozzetti attesta che sotto la signoria dei Medici un proprietario di terre a nome Leonardo Colto dei Colti fece domanda ai “Signori Priori della libertà e Gonfalonieri della giustizia del popolo fiorentino” che gli si desse garanzia dell’uso dell’acqua per la coltivazione del riso nella piana del Serchio presso Pisa, “veduto li seminandovi del riso ve lo farebbe in grande quantità”. La domanda, per come è formulata, lascia intendere che da tempo il riso fosse noto, coltivato e, di certo, utilizzato quale alimento. In epoca di poco successiva, sempre in Toscana, è pure la notizia che il riso fosse coltivato nelle paludi presso Massarosa, in prossimità della costa tirrenica. Nel 1475 il duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, mediante due missive indirizzate a Nicolò de’ Roberti, “Oratore” del duca di Ferrara Ercole I marchese d’Este, comunicava il dono di 12 sacchi di riso da semina perché potesse essere coltivato nel Ferrarese. La coltura dalle paludi ferraresi e del Rodigino si diffuse tanto rapidamente che Ludovico Muratori, lo storico, abate e direttore in Modena della biblioteca del duca Rinaldo I d’Este, nel 1495 sul Diario ferrarese, scrisse che il riso si vendeva a Ferrara ormai a prezzo troppo basso: a soli quattro quattrini alla libbra.
Scortecciatrice del risone nel primo ’900 Veduta aerea di Vigevano in Lomellina, scelta da Ludovico il Moro e dalla sua corte come terra d’ozi, con la seicentesca facciata concava del duomo (a sinistra) e il castello costruito da Luchino Visconti e rifatto poi dagli Sforza. Qui Ludovico il Moro si avvalse dell’opera del Bramante
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origine e diffusione L’attività risicola, partendo dalla Sforzesca di Vigevano, si era diffusa nel Novarese e in tutta la Lomellina; nel 1493 si estese al Vercellese. In Lombardia e Piemonte il riso trovò condizioni favorevoli per la sua diffusione, principalmente legate alla presenza di terreni pianeggianti, sortumosi e anche alla disponibilità di numerosi canali d’irrigazione. La produzione locale divenne presto oggetto di esportazione, tanto che tra il 1494 e il 1499 vi erano commercianti specializzati nell’esportazione del riso in Svizzera, attraverso il Gottardo. Il commercio assunse un’importanza tale che Ludovico il Moro, per evitare la mancanza di disponibilità del prodotto e il conseguente aumento dei prezzi, provvide a vietare l’esportazione da tutto il Ducato. Il riso avrebbe avuto un centro di diffusione anche nel Napoletano. Secondo questa ipotesi, dopo la conquista del regno di Napoli da parte di Alfonso d’Aragona nel XV secolo, i soldati spagnoli avrebbero esercitato un’attività risicola presso Paestum, nelle paludi formate dalle esondazioni del fiume Sele. Il filosofo grecista Simone Porta (1495-1525) attribuisce il primo insediamento colturale in Campania, presso Salerno. Nei secoli successivi fu esercitata la coltura a Crotone nei pressi del Neto, a S. Eufemia sul fiume Amato, a Torre Annunziata, a Castellammare di Stabia presso il fiume Sarno, sul Crati in prossimità di Cosenza; fu coltivato anche nelle aree paludose vicino a Viterbo. Alla continua espansione della risaia, motivata dal notevole risultato produttivo ed economico, seguirono le epidemie malariche, attribuite per troppi anni ai miasmi mefitici di cui fu accusata la
Crivello per la selezione delle impurità del riso pilato
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storia e arte risaia, allora non soggetta a rotazione. Seguirono le prime grida, norme di legge emanate dalle autorità spagnole a limitarne l’espansione, con successive leggi e proclami di tutti i regnanti che, in ogni regione, seguirono a governare. Le prime limitazioni furono promulgate dal viceré spagnolo marchese de Ayamonte che, con uno specifico editto, diffidava “qualunque persona di qualsivoglia grado, che non ardisca seminare, né far seminare riso intorno alla città di Milano per sei miglia e intorno alle altre città dello Stato per cinque, sotto la pena a chi contravverrà alli presenti capitoli, o ad alcuno di essi, per la prima volta della perdita delli frutti e di scudi uno per pertica, la seconda volta della perdita delli frutti e tre scudi per pertica, e la terza sotto la pena, se sarà fittavolo, massaro o brazzante delle galere per tre anni, se sarà padrone, della perdita del terreno, di scudi sei per pertica, e del bando per tre anni da questo Stato…”. Le sanzioni, come si può osservare, erano alquanto severe e differenziate a seconda dello stato sociale, tuttavia risultavano sovente inascoltate soprattutto da parte degli ecclesiastici, titolari spesso di ampie proprietà. Per queste ragioni il cardinale Borromeo ebbe a richiamare all’ordine, con una bolla del 1576, i latifondisti clericali. Nel 1595 il prolegato del Papa in Emilia Romagna, monsignor Bendini, causa “i miasmi mefitici”, pubblicò un bando di assoluta proibizione di coltura del riso, che tuttavia non raggiunse mai lo scopo. Il Senato della Repubblica di Lucca, in data 11 maggio 1612, promulgò una legge volta a proibire l’esercizio della risicoltura nelle valli marine tra Viareggio e la via postale che corre da Lucca a Pietrasanta, così pure per quelle in esercizio presso il lago di Massaciuccoli. A Ravenna l’uso e l’abuso di rendere artatamente paludosi i terreni fertili, seppure utili ad altre colture, fu condannato. Papa Benedet-
Pietro Andrea Mattioli, Oryza, Venezia, 1560 e 1565
Vecchia riseria artigianale
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origine e diffusione to XIV, in un suo chirografo del 1° febbraio 1744, dettava le norme per la limitazione della coltura del riso. Nel XVIII secolo il conte Marco Fantuzzi, nobile di Ravenna, fu incaricato dal Sacro Collegio di Santa Romana Chiesa di redigere una memoria sui benefici e sui pericoli della coltura del riso, iniziata nel 1743 e ampiamente diffusa nel Ravennate; la memoria aveva per titolo: Informazioni al Conclave del 1769 sopra le risaie. È il conclave in cui assurse al soglio pontificio il cardinale Lorenzo Garganelli che prese il nome di Clemente XIV. In Sicilia, come già osservato in precedenza, il riso sarebbe stato introdotto direttamente dagli Arabi e coltivato nei secoli successivi fino ai tempi a noi più vicini. Nel 1912, in questa regione, si registravano 252 ettari a riso in provincia di Siracusa (ad Augusta, Sigonella e Carlentini) e 275 ettari in provincia di Catania (Ramacca, Belpasso, Paternò, lungo il fiume Simeto). Si ha traccia dello sviluppo, a partire dal 1579, di un centro di coltivazione alla foce del fiume Jato, in provincia di Palermo. Secondo alcuni storici, la coltura del riso venne introdotta durante il XV secolo in Abruzzo, regione all’epoca appartenente al Regno di Napoli, diffondendosi poi in Campania nei comuni di Vairano, Presenzano, Nocelletta, Galluccio, Peralta, Calabritta e altre zone. In De antiquitate et situ Calabriae, libri quinque, Gabriello Barri riportava nel 1571 coltivazioni di riso a Squillace, Tortora e Catanzaro. La coltura potrebbe essere già stata introdotta precedentemente dagli Arabi, all’epoca della loro presenza in Sicilia. In Calabria il riso è ancora presente, oggi, nella piana di Sibari, dove è coltivato su una superficie di alcune centinaia di ettari. Altrettanto potrebbe essersi verificato nel Metapontino, nei pressi del fiume Bradano e a Manfredonia, nella piana a palude prossima al fiume Candelaro dove il riso è stato coltivato, fino agli anni ’70.
Pietro Andrea Mattioli, Oryza, Venezia, 1560 e 1565 Pala per “ventilare” il risone e crivello per separare polveri e semi delle specie infestanti
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il riso
storia e arte Risicoltura vercellese Maria Pia Ferro, Aldo Ferrero
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storia e arte Risicoltura vercellese Introduzione Il paesaggio risicolo padano, così suggestivo in ogni stagione dell’anno, è frutto di complesse interazioni fra elementi naturali, lavoro di generazioni e scelte politiche. Le prime testimonianze documentali della presenza del riso nel territorio lombardo e nel ducato di Savoia risalgono al XV secolo, quando la coltura iniziò a diffondersi nei territori con suoli pesanti, soggetti a ristagno idrico, ben tollerati da essa ma poco adatti alla coltivazione di altre piante. Si trattava di un ambiente in parte ancora selvaggio, che aveva subito i primi interventi di bonifica e dissodamento già in epoca romana. A partire dal I e II secolo d.C., alcune aree incolte vennero infatti distribuite, a titolo gratuito, ai militari con l’impegno di bonificarle e renderle produttive. Gli interventi di bonifica e miglioramento si limitarono per alcuni secoli alle zone prossime alle maggiori vie di comunicazione o in vicinanza dei più importanti agglomerati urbani. La maggior parte dell’attuale territorio risicolo era occupato da paludi e boscaglie, in gran parte non interessate da alcuna attività agricola. Alle soglie del secondo millennio si avviò un intenso processo di bonifica in alcune aree del Vercellese, come risulta dagli atti di una donazione del 961 fatta alle canoniche di Sant’Eusebio e Santa Maria di Vercelli. In questo stesso territorio l’impegno a dissodare e bonificare i terreni fu successivamente sviluppato in modo intensivo e razionale a partire dal XII secolo da parte dei monaci cistercensi, nell’ambito dell’abbazia di Santa Maria di Lucedio. L’opera dei monaci portò al recupero di aree paludose, grazie alla costruzione di una rete di canali per lo sgrondo delle acque,
Diffusione della risicoltura
• A partire dal XV secolo, la risicoltura
trovò nella Pianura Padana le condizioni più favorevoli al suo insediamento. Le ragioni principali della diffusione sono principalmente legate all’abbondante presenza di acqua, all’elevato prezzo del prodotto e alla buona produttività della coltura
Complesso abbaziale di Santa Maria di Lucedio (1123)
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risicoltura vercellese creando le condizioni favorevoli all’introduzione della risicoltura. La coltivazione del riso ebbe, fin dagli inizi, carattere estensivo e trovò inserimento nelle grandi proprietà che si erano andate sviluppando in epoca post-carolingia. Si basava sull’applicazione di tecniche molto approssimative, senza impiego di fertilizzanti, facendo al massimo ricorso alla pratica del maggese. Fornendo una resa pari a 10-12 volte la quantità di seme impiegato, contro le 4-5 del frumento, questa forma iniziale di risicoltura si dimostrò subito un’attività molto redditizia, in quanto richiedeva limitati investimenti di capitali e lavoro. La manodopera era per lo più rappresentata da personale avventizio reclutato principalmente in due periodi dell’anno per le operazioni di semina e di raccolta.
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Organizzazione delle aziende Le grandi proprietà fondiarie, sia laiche sia ecclesiastiche, che si erano formate durante il periodo carolingio (IX sec.) avevano assunto dimensioni notevoli nel corso dell’epoca post-carolingia, tanto da divenire veri e propri centri di potere economico. La grande proprietà, la curtis, era composta da due parti distinte, il dominico, nucleo centrale curtense, e le masserizie, dipendenze disseminate sul territorio che costituivano il sistema di produzione e di consumo di un’economia definita dagli storici “curtense”. Tale sistema si affermò anche nelle grandi proprietà monastiche; a un nucleo centrale (abbazia) si affiancavano molteplici nuclei dipendenti (grange); un caso emblematico, per il Piemonte, alla fine del XII secolo, è rappresentato dalle grange dipendenti dalla certosa di Montebenedetto in Valle di Susa, dei monaci benedettini, e dalle proprietà appartenenti all’abbazia cistercense di Lucedio. Il monastero era gestito da un abate, autorità indiscussa, responsa-
Santuario della Madonna delle Vigne (1696)
Trebbiatura del riso lungo il Canale Cavour, nel Vercellese
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storia e arte bile delle terre, degli uomini e degli animali, in cima alla scala gerarchica che si creava all’interno del sistema costituito dall’abbazia, e dalle grange. Dall’abate dipendevano il cellarius, il monaco che sovraintendeva all’amministrazione economica dell’abbazia, e il grangiarius, al quale era affidata l’organizzazione all’interno di ogni grangia. In posizione subordinata figuravano poi i conversi, che affiancavano l’abate nella conduzione delle aziende agricole. Queste figure di laici, che non avevano preso i voti, si dedicavano alle attività agricole a tempo pieno, partecipando in misura ridotta alle funzioni liturgiche. Infine venivano i familiares, domestici che vivevano all’interno delle grange agli ordini dei conversi. Le grange, il cui termine deriva dal latino volgare granica, granaio, arrivavano a possedere fino a mille giornate di terreno (circa 380 ettari). Esse erano costituite da più nuclei rispondenti sia alle esigenze della vita comunitaria (refettori, dormitori) sia alle attività agricole vere e proprie (magazzini, fienili, stalle, e locali recintati). Dal secolo XII, con il processo di incastellamento delle curtes, divenute sempre più insicure, anche le grange iniziarono a essere fortificate con palizzate, torri e fossati, assumendo l’aspetto di veri e propri edifici fortificati. Gli insediamenti rurali, sia quelli appartenenti a ordini religiosi, sia quelli di proprietà dell’aristocrazia, seguivano un impianto precostituito. Attorno a un cortile centrale, erano disposte le abitazioni del grangere o del massaro (responsabili, rispettivamente, di aziende appartenenti a ordini monastici e non) le case dei conversi e dei familiares, le stalle e i magazzini; due passaggi per l’accesso, uno principale e uno secondario aperto sui campi. Ogni massaro possedeva, oltre all’abitazione, una porzione di terreno coltivabile, un orto e, a volte, un pascolo. Già nel XIII secolo le abitazioni dei grangeri
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Viste aeree della Tenuta Murone, Vercelli
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risicoltura vercellese erano costruite in muratura e su due piani: un unico ambiente (stanza-focolare) al piano terreno, accanto al quale era situata la stalla, e al piano di sopra i locali adibiti a fienile e a magazzino. Si può ipotizzare che 2 o 3 famiglie vivessero nella stessa abitazione in precarie condizioni igieniche. Accanto all’abitazione del massaro sorgevano i locali destinati ai salariati; sugli altri lati della corte si sviluppavano i fabbricati rurali. Sempre all’interno delle aziende agrarie erano talvolta presenti mulini e piste da riso, per la lavorazione del risone, i casoni dove avveniva la lavorazione del formaggio e del burro, nonché le ghiacciaie, costruzioni interrate e dotate di coibentazione, dove era conservato il ghiaccio dopo l’inverno; infine si trovavano dei fabbricati a schiera, di piccolissime dimensioni, costituite da un piccolo porcile, al piano terreno, e da un pollaio al piano di sopra. Tale disposizione degli edifici su quattro lati della corte, riferibile all’epoca medievale, si ritroverà poi nella tipologia della “cascina a corte chiusa”, originatasi, secondo documenti d’archivio, nelle pianure vercellese e novarese già nel XVI secolo e diffusasi nelle campagne di tutta la Pianura Padana dall’inizio del XVII secolo. Costruita intorno a complessi edilizi preesistenti (castelli, monasteri, grange) la cascina a corte chiusa materializza nell’epoca dell’assolutismo la grande proprietà nobiliare settecentesca. All’interno della corte venivano costruite le “case da nobile”, vere e proprie ville che si contrapponevano ai fabbricati rurali circostanti. La tipologia ricorrente era costituita da complessi con una sola corte, ma non mancano esempi con più corti, risalenti all’Ottocento. Le corti avevano forma quadrangolare ed erano circondate da edifici. Tra questi figurava in primo luogo la “casa da nobile”, che si distingueva soprattutto per il carattere non rurale e talvolta era utilizzata come residenza di villeggiatura dai proprietari. Su un altro lato si disponevano le abitazioni del fattore e dei lavoranti fissi; sui restanti lati erano presenti stalle e magazzini. Tecniche e materiali costruttivi corrispondevano allo status sociale dei residenti. La casa da nobile infatti veniva abbellita con inserimenti di torrioni agli angoli, torri-porta come ingresso, cornicioni, architravi, che rendevano l’edificio simile a una villa o a un piccolo castello. Si può citare per esempio, nel basso Vercellese, la cascina Crocetta (XVII sec.) o la Colombara a Livorno Ferraris, risalente al XVI secolo. I complessi destinati ai contadini erano privi di ogni comodità e realizzati in modo assai semplice. In quasi tutti i borghi o nelle grange sorgeva una chiesa parrocchiale. La disposizione a struttura chiusa, attorno a vaste aree per le aie, era utilizzata per un doppio scopo: difesa in caso di attacco o di pericolo di contagio, soprattutto di epizoozie. Tale modello si mantenne per un lungo periodo nelle campagne risicole, almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando intervennero trasformazioni connesse alle innovazioni in campo agricolo. Le rappresentazioni iconografiche e le testimonianze esistenti an-
Ruolo dei bovini nell’azienda risicola del passato
• L’allevamento dei bovini aveva un ruolo di vitale importanza nell’economia aziendale e nell’alimentazione. Ogni casa di massaro aveva la sua stalla. I bovini si suddividevano in due categorie: da allevamento e da lavoro. I primi erano selezionati all’interno dell’azienda, mentre quelli da lavoro erano acquistati all’esterno, tenendo conto che il clima insalubre non consentiva di avere animali robusti e dalla costituzione necessaria al lavoro dei campi
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Bruciatura delle stoppie di riso nella zona delle grange
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storia e arte cor oggi sul territorio dimostrano la persistenza della struttura-tipo delle case per i massari (salariati fissi). Questa, fin dal Cinquecento, comprendeva 2 ambienti al piano inferiore, un magazzino sovrastante, e disponeva inoltre di ambienti chiusi per la stalla o aperti per il ricovero degli attrezzi. Solo a partire dal XIX secolo questi fabbricati subirono ampliamenti con la realizzazione di dormitori per i lavoratori stagionali, costruiti all’esterno della corte originaria. Anche l’aia, che era in origine in terra battuta, venne cementata. Solitamente le aie si trovavano all’esterno della corte ed erano situate in spazi aperti. Rimaneva inalterata la presenza di due accessi risalente già all’impianto medievale delle grange. Tali insediamenti costituirono, fino alla prima metà del XX secolo, dei villaggi autonomi, all’interno dei quali vivevano decine di famiglie, a cui in certi periodi dell’anno si aggiungevano numerosi dipendenti stagionali. Si potevano trovare la bottega, il mulino, la scuola, la farmacia nonché una piccola chiesa accanto alla casa padronale. Esempi di edifici religiosi si riscontrano in quasi tutte le grange lucediesi. Questa situazione si protrasse fino verso la seconda metà del Novecento quando, con l’avvento della meccanizzazione e l’abbandono delle campagne da parte della popolazione, la cascina si ridusse esclusivamente a centro di produzione agricola.
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Abbazia di Santa Maria di Lucedio L’antica abbazia di S. Maria di Lucedio sorse al centro di una grande foresta planiziale, estesa da Crescentino al fiume Sesia e consacrata ad Apollo in epoca romana (Lucus Dei), sul territorio dell’antica corte Auriola, un feudo che, come risulta da un diploma del 933, l’Imperatore Lotario aveva donato alla Signoria degli Aleramici. Secondo lo storico dell’ordine cistercense Leopoldo Janauschek, Vedute dell’abbazia di Lucedio, Trino (VC)
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risicoltura vercellese l’abbazia fu fondata nel 1123, a seguito di un lascito di Ranieri, marchese del Monferrato, della dinastia degli Aleramici e affidata a una comunità di monaci cistercensi, appartenenti all’abbazia borgognona di La Ferté, della diocesi di Chalon-sur-Saône, con lo scopo di rendere produttivi i terreni loro donati. Si trattava di un impegno che prevedeva la realizzazione di importanti interventi di disboscamento e la realizzazione di opere idrauliche volte a bonificare i terreni acquitrinosi e a portare l’acqua nei terreni asciutti. L’ordine cistercense era derivato da quello benedettino, a seguito della fondazione nel 1098 di un’abbazia presso Citeaux (Cistercium in latino), con l’obiettivo di tornare a uno stile di vita basato sulla pratica dell’obbedienza e dell’umiltà, con tempi scanditi dal lavoro e dalla preghiera, incarnando in modo autentico la Regola di San Benedetto. Grazie a generose donazioni e soprattutto all’abilità di monaci che seppero coniugare spiritualità e fervore operativo, il patrimonio fondiario crebbe estendendosi ben oltre l’area prossima al monastero, mediante la fondazione delle grange, centri agricoli sottoposti al suo controllo, cui spettava il compito di gestire il territorio loro assegnato. Numerose furono le grange dipendenti da Lucedio. Molte erano situate in un raggio massimo di 5 km dalla casa madre: Lucedio, Castelmerlino, Montarucco, Leri, Darola, Ramezzana; altre, più distanti, erano Cornale, Montonero, Moncalvo e Gazzo (in territorio casalese), Pobietto (a sud di Trino). In tal modo, nelle grange in cui non erano presenti le chiese, i conversi potevano, con al massimo un’ora di cammino, recarsi nei giorni festivi alle funzioni religiose e ascoltare il sermone dell’abate. Secondo varie fonti documentali, la maggior parte di esse furono fondate nel XII secolo: Montarucco, Montarolo e Castelmerlino
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Differenti vedute dell’abbazia di Lucedio, Trino (VC)
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storia e arte nel 1126, Leri nel 1152, Ramezzana nel 1183, Darola nel 1186, Cornale nel 1188, Gazzo nel 1198. Si ha testimonianza della fondazione, agli inizi del secolo successivo, di grange ancora più distanti dall’abbazia: di quelle pavesi di Breme e Settimo Rottaro nel 1210, di quella di Sartirana nel 1220 e di quella di Valtesa, presso Chivasso, nel 1290. Le nuove grange furono per lo più frutto di donazioni, anche se alcune di esse derivarono da acquisti con beni monastici. Esemplificativo è il caso di Gazzo e Leri, grange che furono acquisite da altre abbazie, che le avevano precedentemente costituite: Gazzo dal cenobio cistercense di Rivalta Scrivia, Leri dal monastero di S. Genuario di Lucedio. Queste acquisizioni si inserirono in un piano di organizzazione delle proprietà volto a un ampliamento razionale delle aree da coltivare. Talvolta gli acquisti non venivano realizzati direttamente dall’abate del monastero, ma dai grangeri più dotati di capacità amministrative e gestionali del territorio. La maggior parte delle grange era localizzata in prossimità di tracciati stradali o fluviali di rilievo: Moncalvo lungo la strada VercelliAsti; Pobietto, Cornale, Gazzo, Breme e Sartirana lungo i tracciati viari Pavia-Torino e Casale-Torino, traendo altresì beneficio dalla possibilità di collegamenti con il corso navigabile del Po. Anche per le aziende di Leri, Montarolo e Ramezzana rivestiva un ruolo rilevante la rete viaria, che consentiva collegamenti con i principali centri urbani piemontesi e lombardi. Nella maggior parte dei casi le grange vennero costituite nell’ambito di villaggi o di aziende preesistenti. Emblematico è il caso di Gazzo, sorto su una preesistente mansio, e quello di Leri, sviluppato su una villa già presente. Anche Cornale e Montarolo sarebbero sorte all’interno di curtes, sovrapponendosi a precedenti strutture costruite in materiali lignei, secondo gli schemi costruttivi tradizionali.
Abbazia di Lucedio
• L’abbazia cistercense di Lucedio è
un luogo ammantato di leggende. Si racconta che la chiesa e la sua torre siano spesso avvolte dalle nebbie e che per la sua disposizione a sud il complesso sia stato costruito contro gli schemi architettonici dell’epoca. La costruzione di una chiesa con l’ingresso a sud poteva apparire in pianta come una croce capovolta
• Alcune leggende narrano di abusi e
violenze consumate tra le mura della abbazia e della presenza all’interno della cripta della chiesa di abati mummificati a guardia di qualche forza maligna
• Per rendere l’idea di quanto fosse
inquietante la zona, uno storico inglese, che visitò le terre di Lucedio all’inizio del XVI secolo, ebbe a scrivere: “La vista di un impiccato, appeso al ramo di un albero che si intravede tra le nebbie della palude, non guasterebbe di certo il paesaggio”
Risaie e pioppi
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risicoltura vercellese Tra la fine del XII e quella del XIII secolo, Lucedio divenne un’abbazia molto ricca e potente, con possedimenti e grange sparsi su tutto il territorio piemontese, spingendosi anche a sviluppare insediamenti monastici al di fuori di esso. In questo periodo prese avvio per esempio la fondazione di nuove comunità monastiche a Rivalta Scrivia, Castagnole di Senigallia, ad Antiochia e a Salonicco. Agli inizi del XIV secolo comparvero però i primi segni di una crisi economica, che investì molte abbazie dell’epoca. Gli abati furono costretti a indebitarsi, impegnando anche i beni dell’abbazia e talvolta concedendo in affitto alcune proprietà per far fronte ai debiti. Il modello cistercense entrò in crisi anche a seguito dell’istituzione di nuovi ordini religiosi, che portò a una riduzione di monaci e conversi, figure fondamentali per la gestione delle grange. La decadenza dell’abbazia iniziò nel 1457 con la sua trasformazione in commenda per volere del pontefice Callisto III e il controllo dei suoi redditi da parte dell’abate commendatario Teodoro Paleologo, pronotario apostolico, figlio del Marchese del Monferrato. La commenda comportava un diritto di patronato da parte dei Marchesi del Monferrato, diritto che venne confermato con due bolle papali, nel 1477 e nel 1488, e che si mantenne anche dopo la cessione del territorio di Trino ai Savoia, nel 1681, con il trattato di Cherasco. In questo periodo, la gestione dell’abbazia era affidata all’abate commendatario che curava l’intero patrimonio terriero, godendone i frutti, e all’abate claustrale, con la funzione di guida spirituale e il diritto alla gestione della sola grangia di Lucedio, per il mantenimento dei monaci. Questo sistema portò a un graduale allentamento della disciplina e dei costumi monastici e al sostanziale passaggio della proprietà abbaziale al patrimonio personale dell’abate commendatario, esponente spesso di potenti famiglie nobili.
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
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storia e arte Nel 1784 l’abbazia lucediese venne secolarizzata da Papa Pio VI ed entrò a far parte, con tutte le sue grange, dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. I monaci cistercensi, ridotti a una decina, vennero trasferiti nel convento di Castelnuovo Scrivia. La commenda venne poi trasferita dall’Ordine Mauriziano, nel 1792, al duca Vittorio Emanuele I di Savoia. Con l’occupazione francese del Piemonte, la proprietà fu oggetto dei decreti di soppressione da parte di Napoleone e concessa al cognato principe Camillo Borghese, allora Governatore Generale del Piemonte. Nel 1818 molte proprietà dell’abbazia vennero acquisite in società da Luigi Festa, dal marchese Francesco Benso di Cavour, padre di Camillo, e dal marchese Giovanni Gozani di San Giorgio, antenato dell’attuale proprietaria. Lucedio, e alcune delle sue grange, nel 1861 vennero poi trasferite al marchese Raffaele de Ferrari. Con la nomina di quest’ultimo a principe, per meriti militari, Lucedio divenne un “principato”. Nel 1937, la proprietà venne quindi ceduta dall’erede del principe de Ferrari ai conti Cavalli d’Olivola, i cui eredi sono ancora oggi i proprietari. Durante la sua massima espansione territoriale, nel periodo di appartenenza all’ordine Mauriziano, Lucedio arrivò a possedere e coltivare ben 13.197 giornate (5028 ha), utilizzando tutte le forme di conduzione, dalla diretta alla mezzadria e all’affitto, come risulta dalla contabilità conservata scrupolosamente negli ultimi quindici anni del Settecento. Le grange situate in posizione contigua erano prevalentemente condotte in gestione diretta, mentre quelle più isolate erano per lo più concesse in affitto. Dopo i primi interventi di bonifica i monaci avviarono la coltivazione di piante erbacee, quali frumento, orzo, segale, panico, sorgo, canapa, lino e successivamente quella del riso. Quest’ultima trovò inserimento in modo estensivo sui terreni
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Tenuta Noria, acquisita nel 1818 dal marchese Francesco Benso di Cavour, padre di Camillo
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risicoltura vercellese abbaziali meno favorevoli alle altre colture, come quelli a reazione acida. La presenza del riso nelle grange è documentata fin dal 1453, proveniente dalle tenute di Galeazzo Maria Sforza a Villanova, nel Pavese, come attestano due lettere datate 1475. Verso la fine dello stesso secolo la commenda lucediese riportava la presenza di 1732 ettari a riso sui 2700 ettari totali sotto la sua gestione. L’organizzazione economica del sistema delle grange nell’ambito dell’Ordine Mauriziano assumeva caratteristiche analoghe a quelle di altre grandi proprietà controllate dallo stesso Ordine, quali l’Abbazia di Staffarda, nel Saluzzese, oppure quella di Sant’Antonio di Ranverso, in Val Susa. Dipendevano tutte dalla sede torinese in cui risiedeva il direttore, mentre a Darola, una delle grange, risiedeva un responsabile, che aveva il compito di garantire il funzionamento il più possibile omogeneo tra le varie tenute. All’interno di ogni unità produttiva, vi era un’organizzazione che si avvicinava molto ai modelli praticati da altre aziende agrarie vercellesi dell’epoca. In conclusione le grange di Lucedio assumono particolare rilevanza per comprendere, dapprima, l’organizzazione territoriale cistercense e poi quella delle cascine a corte chiusa del XVIII secolo, presentandosi oggi, dal punto di vista architettonico, come nuclei notevolmente stratificati per l’inserimento sulle strutture originarie di elementi di epoca diversa. Dell’antico complesso abbaziale di Lucedio si sono conservati l’aula capitolare e il campanile a pianta ottagonale (metà XIII sec.). Darola rappresenta uno dei più antichi esempi di cascina “a corte chiusa” conservati nel Vercellese: presenta una doppia corte, una destinata alla casa padronale, l’altra all’azienda agricola; delle due torri d’accesso ne rimane una a pianta quadrata. Delle antiche grange, Montarolo conserva la chiesa settecentesca dei
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Grangia della Darola: veduta dell’antica corte
Grangia della Darola, uno dei più antichi esempi di cascina “a corte chiusa”
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storia e arte SS. Pietro e Paolo (opera di C. Antonio Castelli). La grangia di Ramezzana conserva la chiesetta di S. Giorgio. Anche la chiesa di Montarucco, settecentesca, è opera di C. Antonio Castelli. Castelmerlino conserva una cappella datata 1724-25, dedicata a S. Pietro. Infine Leri, già residenza della famiglia Cavour, presenta, accanto alla residenza padronale, oggi abbandonata, la chiesa della natività, eretta nel 1718-20 da F. Gallo.
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Problemi socio-sanitari e del lavoro Sin dai primi tempi della sua introduzione, la coltivazione del riso evidenziò una serie di problemi, principalmente legati agli aspetti igienico-sanitari e al precariato lavorativo. La diffusione della malaria (aria cattiva), prodotta secondo la concezione del tempo dal ristagno delle acque sui campi, indusse le autorità delle diverse zone risicole a porre limiti allo sviluppo del cereale. Nel Saluzzese ne venne vietata la coltivazione nel 1523, poco dopo la sua introduzione. Nella maggior parte del territorio vercellese si intervenne stabilendo aree di rispetto intorno ai centri abitati, emanando regolamenti che risultavano spesso inosservati e privi di effetto. Nonostante l’opposizione di esperti e agronomi, come per esempio Pietro de’ Crescenzi (1512), per limitare la risicoltura alle zone naturalmente acquitrinose e malsane, il cereale si diffuse anche in zone sottoposte ad altre colture. Nella seconda metà del Cinquecento la nuova coltura fece affluire una grande quantità di manodopera proveniente dalle montagne e da aree contigue. L’afflusso di questi lavoratori fu favorito dall’abolizione della schiavitù della gleba da parte del duca Emanuele Filiberto. L’applicazione di tecniche produttive più avanzate, come per esempio il ricorso alla monda, sia pur onerosa, si rivelò subito molto favorevole all’innalzamento dei livelli produttivi.
Grangia di Castel Apertole, Vercelli
Grangia di Montarucco
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risicoltura vercellese In questo secolo solo una minima parte dei lavoratori veniva assunta con contratti annuali, perché si tendeva a utilizzare per brevi periodi manodopera avventizia, reclutata a più basso costo. In questa situazione venne ad assumere particolare rilevanza il problema del precariato lavorativo. Dalla fine dello stesso secolo si diffuse gradualmente la mezzadria, con pattuizioni sulla partecipazione alla produzione, che permettevano ai mezzadri condizioni economiche molto più elevate di quelle di altre figure di lavoratori. I mezzadri fornivano il lavoro proprio e della famiglia, gli animali e le attrezzature necessarie per le varie operazioni colturali, mentre i proprietari mettevano a disposizione il terreno e i fabbricati necessari alla famiglia del mezzadro e allo svolgimento dell’attività agricola, la legna per riscaldamento e cucina e talvolta anche la semente. Con questa forma di conduzione, la produzione veniva divisa in parti uguali tra il proprietario e il mezzadro. Verso la seconda metà del XVIII secolo, il 4% dei proprietari, rappresentati da nobili, ecclesiastici, ospedali, abbazie e borghesi, possedeva circa il 60% dei terreni, con aziende di oltre 100 giornate di superficie. Il sistema organizzativo all’interno di ogni azienda era sostanzialmente simile, indipendentemente dalla proprietà. In questo stesso periodo, man mano che si andava diffondendo la coltivazione del riso, si riduceva sempre più l’esigenza di disporre di manodopera impegnata per tutto il corso dell’anno e da coinvolgere nella divisione della produzione, essendo i lavori essenzialmente concentrati durante la semina e la raccolta. A partire dal territorio vercellese, iniziarono gradualmente a diffondersi forme di contratto come l’affitto e la schiavenza, che portarono al superamento della mezzadria.
Condizioni del lavoro e sanitarie nell’azienda risicola del XIX secolo
• Verso la metà dell’Ottocento le
condizioni del lavoro e quelle sanitarie nelle cascine risicole erano molto difficili. Oltre a essere sottoposti a orari di lavoro estremamente gravosi, i salariati ricevevano spesso alimenti di pessima qualità, come ebbero a denunciare medici e anche uomini di Chiesa dell’epoca. In una sua memoria al Congresso Agrario di Vercelli nel 1858, il parroco di Vettigné, don Francesco Scaramazza, accusava i fittavoli di “dare la peggior roba de’ loro granai, o sia meliga orribilmente fetente o rotture di riso, piucché a metà semenze di male erbe, insomma roba che offerendola ai porci, non ne vorrebbero mangiare”
Riso nella fase di spigatura
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storia e arte Nelle grange dell’abbazia di Lucedio i contratti di affitto prevedevano una durata novennale; gli affittuari non potevano variare la destinazione colturale dei fondi e le stesse rotazioni dovevano coincidere, soprattutto per le risaie, con quelle delle tenute a conduzione diretta. Una regola comune a cui sottostavano gli affittuari nell’ambito del sistema lucediese era l’esenzione dalla rendita solo “nei casi di peste, guerra guerreggiata e mortalità del bestiame”, ove l’allevamento del bestiame costituiva una peculiarità delle grandi aziende agrarie del Vercellese, dotate di bovini sia per la produzione di carne e latticini, sia per il lavoro dei campi. Nelle grandi aziende, la gestione diretta si basava su una ben definita struttura gerarchica nei ruoli del lavoro, con la presenza di un massaro, con compiti organizzativi e di coordinamento, e due principali categorie di lavoratori: i fissi e gli avventizi. I primi, detti anche schiavandari, comprendevano diverse figure professionali. I bovari si occupavano di una o raramente di due coppie di buoi e di tutte le attività connesse all’aratura, al trasporto e alla concimazione. I bergamini avevano la responsabilità dell’allevamento dei bovini, mentre i manzolari provvedevano alla cura dei manzi. Queste diverse figure evidenziano l’importanza del ruolo degli animali nell’azienda agricola di quell’epoca per l’esecuzione dei più gravosi interventi colturali, come il livellamento del terreno, l’aratura, i trasporti e la trebbiatura. Quest’ultima operazione era comunemente realizzata con l’intervento degli animali che dovevano calpestare i covoni disposti in circolo per favorire il distacco del risone. Un’altra importante figura era quella del pratarolo che doveva occuparsi della risaia dopo la semina e aveva la responsabilità della gestione delle
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Vedute aeree della Basilica di S. Andrea, a Vercelli
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risicoltura vercellese acque, della raccolta e della battitura del cereale. Al pistarolo era affidata la lavorazione del risone, che prevedeva la sbramatura in apposite “piste”, la sbiancatura e la crivellatura. In alcune aziende era presente anche il casaro che operava nel casone, una struttura adibita alla produzione di latticini. Il termine schiavandaro, derivato da schiavo, dà una chiara idea delle tristi condizioni di vita a cui era sottoposta questa figura di lavoratore. Nell’ambito delle sue specifiche competenze, egli era obbligato a eseguire fedelmente gli ordini del responsabile dell’azienda, o del “padrone”, con la possibilità di essere cacciato dall’azienda, con tutta la propria famiglia, a seguito della più modesta inadempienza. In tale situazione era altresì esposto al rischio di perdere, a titolo di penale, quanto doveva ancora percepire dalla proprietà. Anche per questa ragione, un terzo del salario annuo era normalmente corrisposto a S. Martino (11 novembre), periodo in cui si regolavano comunemente i conteggi e avvenivano i trasferimenti. A questo tipo di manodopera si affiancavano altre figure di lavoratori, come i manovali, che erano occupati con contratti di durata annuale, e gli avventizi, lavoratori stagionali assunti in periodi di particolare intensità dei lavori agricoli. A essi erano affidati la pulizia e la manutenzione di argini, canali e chiuse, il taglio del fieno e il trasporto. Tra gli avventizi figuravano anche gli addetti alla monda del riso e gli airatori o aratori che, operando in squadra, provvedevano alla battitura del cereale. I lavoratori avventizi risiedevano all’esterno dell’azienda ed erano reclutati da intermediari nei comuni delle aree limitrofe. Anche le donne avevano un ruolo importante nell’economia aziendale: esse si occupavano della monda del riso, della confezione dei sacchi, della rastrellatura del fieno e della paglia ed erano comunemente retribuite a giornata. Verso la fine del Settecento i salari venivano per lo più percepiti sia in denaro, sia in natura. La parte in denaro era stabilita ad anno per i salariati fissi, a giornata o a cottimo per i manovali fissi e per gli avventizi. La parte in natura dipendeva dal fatto che i lavoratori risiedessero o meno in azienda e comportava l’assegnazione di quote di prodotti agricoli. Ai salariati fissi erano assegnati un’abitazione, un orto, un pollaio e un piccolo porcile. Era permesso l’allevamento di animali di bassa corte, utilizzando i prodotti dell’azienda, e il cui numero variava a seconda del ruolo ricoperto dal lavoratore. I salariati fissi del complesso dell’abbazia di Lucedio, nel periodo di appartenenza all’Ordine Mauriziano, godevano di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle in uso presso altre aziende. A essi erano infatti assegnate quote di segale, granoturco, riso bianco, fagioli e un certo numero di fascine di legna ed era loro permesso l’acquisto di prodotti dell’azienda a prezzi di costo o all’ingrosso. Inoltre, tutti i residenti nelle cascine dell’abbazia disponevano
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Castello di Desana Foto R. Angelini
Tenuta Veneria dove fu ambientato il film Riso amaro Foto R. Angelini
Distese di riso intorno alle grange
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storia e arte dell’assistenza medica gratuita, compresi i medicinali. Per i manovali fissi e gli avventizi la parte in natura del compenso era stabilita in quote di prodotto ottenuto nelle diverse operazioni. Per esempio per la battitura delle cosiddette prime paglie del risone veniva assegnato un quarto del raccolto. Nel caso degli avventizi il taglio del riso comportava un compenso pari a un dodicesimo del risone di prima battitura. Anche i per pistaroli era previsto un compenso definito a cottimo, in relazione alle diverse operazioni di sbiancamento, crivellatura e insaccamento. Relativamente ai salari, si deve anche tener presente che verso la fine del Settecento, i lavoratori dovettero subire le conseguenze di una grave crisi economica, che portò, in seguito a manifestazioni e proteste, a una revisione del trattamento economico. Puntuale testimonianza di questa situazione ci viene fornita dal capo agente della grangia di Darola, che in un rapporto del 29 marzo 1795 al suo diretto superiore esponeva le difficoltà di reclutare manodopera avventizia nelle zone circostanti alla proprietà a causa del trattamento salariale troppo basso. La legislazione francese con l’alienazione delle proprietà ecclesiastiche e l’abolizione del maggiorascato aveva, d’altro canto, favorito la formazione di aziende agricole medie e grandi, in cui si attivò un’agricoltura di tipo capitalistico, contraddistinta da forti investimenti, che diedero impulso alla coltivazione del riso. Con la perdita dei privilegi feudali, molti nobili proprietari terrieri si erano trasferiti dalle campagne nelle città, concedendo le loro terre in affitto. La diffusione dell’affitto e della schiavenza portò, però, a un progressivo impoverimento dei contadini, ridotti al rango di salariati, con pochi diritti. Tra la metà del Settecento e gli inizi dell’Ottocento la superficie risicola passò da poco più di 7 mila a circa
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Complesso della grangia di Montonero
Complesso della grangia di Sali Vercellese
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risicoltura vercellese 30 mila ettari. Nel Pensiero sopra le risiere della Lombardia, pubblicato nel 1784, lo scrittore e pensatore Giovanni Antonio Ranza osservava che l’eccessivo sviluppo della risicoltura in Lombardia e Piemonte stava portando allo spopolamento delle campagne; accusando i grandi proprietari terrieri di una visione egoistica e irresponsabile, egli sosteneva la necessità di limitare il latifondo nelle risaie e di coltivare il cereale in rotazione con altre colture. La risicoltura, tuttavia, continuò a diffondersi soprattutto nelle aziende concesse in affitto, grazie alle rese produttive superiori a quelle delle altre colture e alle minori esigenze di manodopera. Secondo testimonianze dell’epoca, l’affittanza ebbe effetti deleteri sia sulla fertilità dei terreni sia sulle condizioni sociali ed economiche della manodopera occupata nelle stesse aziende. Tra le varie voci critiche nei confronti dei fittavoli, può essere citata quella dell’avvocato Gianstefano Debernardi, il quale in una feroce requisitoria del 1786 li accusava di depauperare i terreni e di ridurre in miseria i propri salariati, preoccupandosi unicamente di trarre il massimo profitto dai fondi durante il periodo della locazione. In un suo passaggio particolarmente efficace, il Debernardi scriveva: “quelle infelici maremme popolate da mille insetti palustri, nel fervore di ciascuna state trasfigurano i più bei piani di terra in una immensa cloaca tutta sparsa di corpi infraciditi, le figure incadaverite di que’ meschinissimi abitatori, con orrore della umanità, a metà del corso ordinario della vita già vittime della morte”. La situazione sociale e sanitaria delle aziende risicole non cambiò neppure dopo l’occupazione francese, tenuto conto che, con il blocco navale imposto a Napoleone, il riso divenne particolarmente prezioso per la Francia. In questo periodo i vincoli imposti alla diffusione della coltura trovarono una forte opposizione da
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Risaie di una moderna azienda risicola
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storia e arte parte dei grandi proprietari terrieri, che talvolta rivestivano anche importanti ruoli pubblici e non avevano troppe difficoltà a corrompere i commissari prefettizi. Limiti alla coltivazione vennero fatti applicare con fermezza dai prefetti napoleonici Carlo Stefano Giulio e Félix Saint Martin de la Motte, mediante controlli sui territori vercellesi sottoposti alla loro giurisdizione. L’esame delle condizioni di vita della popolazione rurale delle zone risicole mise in evidenza una forte incidenza di malattie come le febbri intermittenti che provocavano patologie al fegato e all’apparato linfatico, ulcere e scorbuto e causavano, inoltre, nel sesso femminile la scomparsa del ciclo e la sterilità già verso i trent’anni. Venne rilevata una forte eccedenza dei morti sui nati e si ipotizzò che in due secoli il dipartimento si sarebbe di fatto quasi spopolato. Malgrado il ripetersi delle proibizioni, il riso si diffuse e cominciò a soppiantare le altre colture, per il suo prezzo crescente, che arrivò a superare quello del grano, a partire dai primi dell’Ottocento. Dopo la caduta di Napoleone, l’area risicola continuava a essere caratterizzata dalla presenza di grandi aziende in proprietà o in affitto, le cassine (cascine), che svilupparono un’intensa attività agricola con elevati investimenti di capitali e lavoro. In queste aziende la risicoltura era diventata un’importante fonte di reddito. Come scriveva nel 1818 Carlo Emanuele Mella, intendente della provincia, in un rapporto al sovrano sabaudo: “L’utilità dei proprietari consiste nella minore spesa di coltura, minor rischio della stessa, maggior possibilità di vendita, a prezzo maggiore degli altri generi di coltura, quindi minor spesa di coltivazione… occorre una sola zappatura l’anno, non occorre letame, cioè non abbisognano di bestiame e di solo pochi con-
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Santa Maria delle Vigne e Bosco della Partecipanza di Trino Vercellese
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risicoltura vercellese tadini e, quindi, nessuna fabbrica. I lavoratori della raccolta del riso si pagano con la raccolta”. Nello spazio di pochi decenni, si giunse, così, a una forte esigenza di forza lavoro, con una conseguente crescita demografica. Nelle cascine trovavano occupazione sia lavoratori fissi sia lavoratori stagionali, che si spostavano tra la tarda primavera e l’autunno. Erano occupate anche la manodopera femminile e infantile, soprattutto per il minor costo ma anche per la maggiore cura nella realizzazione di operazioni agricole che richiedevano attenzione e precisione. Una di queste era per esempio la monda, che iniziava a fine maggio e impegnava i lavoratori per trenta, quaranta giorni. Le condizioni di vita non erano sostanzialmente cambiate rispetto ai decenni precedenti. Il lavoro era molto pesante e durava sette giorni su sette; iniziava alle 4 e 30 del mattino e si concludeva un’ora prima del calar del sole, con due sole pause di mezz’ora ciascuna per riposarsi e consumare i pasti. Questi erano composti da pane di mais o di cruschello e da una minestra di riso e fagioli condita con lardo, spesso di cattiva qualità. A seguito della pressione di amministratori locali, medici, uomini di Chiesa e talvolta anche proprietari illuminati, queste faticosissime condizioni di lavoro cominciarono a migliorare leggermente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con interventi sulla sanità ambientale e con l’applicazione della profilassi sanitaria, favorita soprattutto dall’introduzione del chinino. Alcuni interventi furono di carattere strutturale e riguardarono il livellamento dei terreni per favorire lo scorrimento dell’acqua nelle risaie, la costruzione di abitazioni con pavimenti sopraelevati per impedire le infiltrazioni di acqua, la costruzione di nuovi pozzi per l’acqua potabile. Gradualmente aumentarono anche i salari e ai lavoratori
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storia e arte vennero forniti un regime alimentare e un abbigliamento più idonei alle difficili condizioni ambientali della risaia. Con la legge Cantelli del 12 giugno 1866, si arrivò a prescrivere che la giornata lavorativa fosse compresa tra un’ora dopo il sorgere del sole e un’ora prima del tramonto. Tale legge fu in molti casi ignorata e nella maggior parte delle aziende risicole la vita rimaneva ancora molto dura. Una memoria del 1879, presentata alla Commissione parlamentare per la famosa inchiesta agraria di Jacini, poneva in evidenza nel territorio vercellese diffuse condizioni di miseria dei lavoratori agricoli, ai limiti della sopravvivenza. Il documento informava per esempio che tra metà aprile e metà luglio dello stesso anno erano state ricoverate nell’ospedale di Vercelli 244 persone affette da pellagra di cui 170 manovali e 68 salariati. Nel 1882 scoppiò il primo sciopero nella risaia vercellese alla frazione Vettigné di Santhià, che portò due anni più tardi alla creazione da parte della Società Generale degli operai di Vercelli a una Cassa Pensione per gli operai. Gli anni successivi fecero registrare un fervore di iniziative e movimenti che culminarono in scioperi del bracciantato in varie zone della Pianura Padana, comprese quelle risicole. Numerose furono le agitazioni delle mondariso, che portarono alla costituzione della Camera del Lavoro di Vercelli e ad accordi su salari e condizioni di lavoro migliori. Agli albori del Novecento, dopo alcuni scioperi di mondine e di altri lavoratori del riso, con conseguenti arresti e condanne di scioperanti, si cominciò a parlare della riduzione dell’orario di lavoro a otto ore. Accordi in tal senso si stabilirono nei comuni di Carisio e Tricerro, mentre nella maggior parte delle località erano ancora adottati turni di lavoro di dieci e anche dodici ore.
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Vedute aeree di risaie nel Vercellese
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risicoltura vercellese In una manifestazione del 1906, cui parteciparono circa 12.000 persone, si chiese la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore in tutte le aziende risicole. Il governo rispose in un primo tempo con un’opposizione e cariche di gendarmeria, arrivando poi a stabilire la riduzione a nove ore massime giornaliere per i lavori di monda, con un salario di 25 centesimi all’ora. Nel 1910 divenne poi operativo un accordo, primo nel mondo del lavoro del nostro Paese, sulla riduzione dell’orario lavorativo a otto ore per tutti i lavoratori del settore del riso. Durante la Prima guerra mondiale, a seguito dell’aumento della domanda di riso, l’area coperta dal cereale crebbe significativamente, arrivando a interessare oltre il 40% della totale superficie agraria vercellese. Al termine della guerra la risicoltura andò incontro a un periodo di forte crisi a causa dell’importazione di riso a prezzi più bassi dai Paesi asiatici. Il governo fascista si impegnò a sostenere la produzione nazionale, con una serie di iniziative volte allo sviluppo della coltura. Tra i diversi interventi va in particolare ricordata l’istituzione nel 1931 dell’Ente Nazionale Risi, con l’obiettivo di promuovere la coltura a livello produttivo, industriale e commerciale. In questo quadro vennero avviati programmi di ricerca per la messa a punto di nuove varietà, poste in atto azioni di formazione e misure di sostegno economico ai risicoltori, costruiti magazzini ed essiccatoi a uso collettivo; venne altresì fissato il prezzo del riso a livello nazionale e furono concessi aiuti agli esportatori. Nonostante queste importanti iniziative, va però osservato che l’attenzione dei politici del tempo si rivolse sempre più allo sviluppo della coltura del grano, per la quale era stata messa in atto una massiccia opera di interventi nell’ambito della nota “battaglia del grano”.
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Stagione di trebbiatura nel Vercellese
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il riso
storia e arte Risaie e malaria Barbara Manachini
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 1 (Lorelyn Medina) e 596 (Gennady Kravestky) sono dell’agenzia Dreamstime.com. Le foto alle pagine 104 e 105 sono di Renato Guttuso © Renato Guttuso by SIAE 2008.
storia e arte Risaie e malaria La malaria è un problema antico “È bene sfatare la leggenda tanto radicata nella pubblica opinione che la risaia è malsana.” Così affermava il professore senatore Camillo Golgi, Premio Nobel per la Medicina nel 1906, al III Congresso risicolo Internazionale che si tenne nell’ottobre dello stesso anno. Egli appoggiava la sua affermazione con cifre statistiche relative alle condizioni sanitarie delle province risicole. Considerando come indice la mortalità per malaria, si notava che nei comuni risicoli era addirittura inferiore alla media italiana. Era però ancora vivo, nel Nord Italia, il ricordo dell’epidemia di malaria del 1890, proprio in coincidenza con la grande diffusione della coltura del riso, soprattutto nel Novarese e nel Vercellese. Da due secoli la coltura era stata praticamente sospesa a causa delle pestilenze del XVI secolo, a seguito delle quali, a Saluzzo e a Vercelli, erano addirittura state emanate leggi contro la coltivazione del riso. L’opposizione a questa coltivazione dipendeva soprattutto dai miasmi provocati dalla stagnazione dell’acqua nelle risaie, anche se era stato stabilito che esse dovevano essere collocate almeno a 10 miglia dall’abitato. La legge del 16 giugno 1907 estese quindi molto opportunamente alle zone coltivate a riso le disposizioni contro la malaria. Questa legge doveva sostituire quella del ministro Cantelli del 1866 che, come il successivo regolamento del 29 gennaio 1903, tra i lavori insalubri non prendeva in considerazione quelli nelle risaie. Il problema delle paludi era già stato affrontato con la legge n. 869
Riso e malaria
• Le risaie sono ambienti acquatici
artificiali in cui viene coltivato il riso, l’alimento più consumato dalla popolazione mondiale: quasi il 50% degli abitanti del nostro pianeta si nutre di riso
• La malaria è un grave problema per
oltre il 40% della popolazione mondiale, è presente in 100 Paesi e provoca oltre un milione di morti l’anno
Proporzioni annue dei morti per febbre da malaria e cachessia palustre per ogni 100.000 abitanti, nel quinquennio 1905-1909 Media generale del Regno
14,0
Provincia di Novara
2,4
Provincia di Pavia
2,4
Seguono altre 29 province con cifre superiori, tra cui Trapani Foggia Potenza Siracusa Cagliari
66,0 72,0 73,0 101,0 103,0
Fonte: Annuario Statistico Italiano
Picasso: Scienza e carità, 1898 (Museo Picasso, Barcellona, Spagna)
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risaie e malaria del 25 giugno 1882, meglio nota come “legge Baccarini”. Presentando la sua proposta nel 1878, in qualità di Ministro dei Lavori Pubblici, Alfredo Baccarini affermava che la bonifica era indispensabile per circa 200.000 ettari di territorio, e lo “scopo di questa bonificazione [era] principalmente il miglioramento della pubblica igiene, e in via secondaria l’incremento dell’agricoltura”. La legge Baccarini parlava ancora genericamente e ambiguamente di “bonifica igienica”, intendendo con tale concetto l’eliminazione delle acque e la messa a coltura dei terreni per impedire le “fermentazione del germe malarico”. Col regio decreto del 30 dicembre 1923 n. 3256 si approvava infine il testo unico sulle bonifiche delle paludi e dei terreni paludosi e si introduceva il principio della manutenzione dei canali e dell’importanza della “piccola bonifica”, che includeva interventi antianofelici nelle acque scoperte. La legge rispondeva pienamente alle esigenze del Sud e delle Isole, in cui la malaria infieriva maggiormente a causa del grande dissesto dei bacini idrografici. Ma non si scorgeva alcun rapporto diretto riso-malaria. La coltivazione del riso in Italia è del resto molto recente, infatti, benché i Romani conoscessero questo cereale, non lo coltivavano. La malaria era invece diffusa nel bacino del Mediterraneo da molto tempo: qualcuno sostiene addirittura che la malaria sarebbe stata trasmessa alla specie umana da scimpanzé infetti ben 50.000 anni fa. Già Ippocrate (460-377 a.C.) dette la descrizione di una malattia caratterizzata da febbri intermittenti, che potrebbe essere la malaria. Una descrizione di malattie dovute a miasmi si trova nel De Rerum Natura (La natura delle cose) di Tito Lucrezio Caro (I sec. a.C.). Egli aveva scritto l’opera per “divulgare in terra latina le ardue scoperte dei greci” e in particolare di Epicuro (344-270 a.C.), secondo il quale molte malattie erano dovute a “miasmi”, gruppi di atomi maleodoranti, che si staccavano dalle sostanze in decomposizione e risultavano nocivi e talvolta mortali per gli umani e gli animali. Il nome mala-aria = aria cattiva viene quindi dal latino ed è associato ai miasmi delle paludi. Già negli autori romani Varrone (116-27 a.C.), Vitruvio (80/70-23 a.C.) e Columella (4-70 d.C.), si trovano addirittura accenni alle zanzare come propagatrici della malaria. Il buon governo dell’agricoltura e dell’ambiente attuato dai Romani ostacolò alquanto la diffusione della malaria, anche se la presenza di Plasmodium falciparum, il protozoo più patogeno, oggi non più presente in Italia, sembra sia stata dimostrata in reperti ossei di epoca romana nella Valle del Tevere. Tutte queste notizie ci fanno comprendere che la malaria preesisteva da lungo tempo alla coltivazione del riso, introdotta in Sicilia dagli arabi nell’VIII secolo d.C. La coltivazione passò poi a Napoli e nel XV secolo raggiunse Milano, proprio allo scopo di bonificare e rendere produttive ampie zone paludose, tanto che il riso veniva chiamato l’“oro delle paludi”.
Epicuro
La dea febbre
• Nel mondo latino si trovava conforto
alle malattie pregando una dea, probabilmente di derivazione etrusca, di nome Febbre (Febris) associata alla guarigione dalla malaria. Sembra che a lei fossero dedicati a Roma ben tre santuari, come riportato da Cicerone e Valerio Massimo
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storia e arte Questo “oro” aveva il suo prezzo: quanti lavoravano o vivevano vicino alle risaie si ammalavano di “malaria” o “chacchesia” e ciò era ben conosciuto con un termine molto indicativo, “paludismo”, come riportato ancora al Museo del riso di Valencia. Con questo termine si intendeva un complesso di febbri infettive, indicato già nei testi medici del XVIII secolo con i nomi di terzana, quartana, febbre stagionale o febbre intermittente. La vera causa del paludismo era sconosciuta e spesso si associavano malattie diverse come malaria, tifo, epatite, tubercolosi. Nelle risaie si avevano cioè le stesse malattie che erano proprie delle paludi, che si manifestavano soprattutto in primavera-estate, prima o durante la monda praticata dalle mondine. Nel 1877, nel romanzo In risaia, così la Marchesa Colombi (pseudonimo dell’italiana Maria Antonietta Torriani) descriveva le mondine nel Nord Italia: “dopo una sola settimana di lavoro si avviano tra le nebbie del mattino sfiaccolate, pallide, con gli occhi infossati, le braccia penzoloni, come una processione di fantasmi”. Cure mediche praticamente non se ne facevano. Si avevano piuttosto pratiche magiche: amuleti e bevande di vario tipo. Ma fu proprio in quel periodo che le malattie cominciarono a essere considerate come un grave problema, da affrontare dal punto di vista scientifico e sociale.
Scoperta del vettore: la zanzara
• Al museo del riso di Valencia (Spagna)
si riporta che il primo a intuire il rapporto tra malaria e zanzara fu l’italiano Giovanni Maria Lancisi (16541720). Egli era socio dell’Accademia dei Fisiocritici di Siena, che ha come motto un verso di Lucrezio: “che il vero possa vincere il falso”. Poteva quindi ben conoscere la teoria delle malattie dovuta a miasmi, esposta nel De Rerum Natura, come sembra dimostrare la sua opera “sugli effluvi vaganti nell’aria”
Malaria e scienza Verso la fine del 1800 lo studio della malaria divenne veramente scientifico. Si scoprì che un ottimo rimedio per la malaria era il chinino, derivato dall’albero di China (Cinchona officinalis, originario del Sud America), da cui si otteneva l’unica medicina a quel tempo in grado di curare efficacemente la malaria, anche se questa, talvolta, recidivava a distanza di anni.
Albero di China. Da questa pianta si estrae il chinino usato per curare la malaria Giovan Battista Grassi a Fiumicino circondato da bambini affetti da malaria
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risaie e malaria
Tavole a colori del plasmodio della malaria (Studi di uno zoologo sulla malaria)
Nel 1892 Angelo Celli, che più tardi divenne Direttore dell’Istituto di Igiene Sperimentale dell’Università La Sapienza di Roma, fu eletto alla Camera dei Deputati e fondò l’agenzia del chinino di Stato per estendere la cura anche ai poveri. Nel 1898 il gruppo di ricerca di Giovan Battista Grassi arrivò alla grande scoperta: la malaria umana dipende da un parassita, un protozoo che venne ascritto al genere Plasmodium e che viene
Frontespizio degli Appunti Istituto Superiore di Malariologia di Ettore Marchiafava
Strumenti di lavoro degli zoologi al tempo di Grassi
Zanzare montate su vetrino Cartoncino per montaggio
Catturatore per zanzare
Frontespizio degli Studi di uno zoologo sulla malaria di G.B. Grassi
Zanzara montata su cartoncino
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storia e arte inoculato da una zanzara del genere Anopheles. Lo stesso giorno dell’annuncio della scoperta fu costituita la Società Italiana per lo Studio della Malaria (SISM), di cui era membro molto attivo anche il Celli. A seguito si costituirono diverse altre società analoghe, tra le quali la Società Italiana per lo studio della malaria, la Lega Nazionale per la lotta contro la malaria e l’Istituto Superiore di Malariologia Ettore Marchiafava (ISM). Nel 1899 Grassi, con il collega Bastianelli, dimostrò che il ciclo vitale del plasmodio richiede necessariamente la zanzara come vettore, dopo aver dimostrato la presenza del plasmodio nelle sue ghiandole salivari. Il Grassi espose la sua tesi nel libro Studi di uno zoologo sulla malaria del 1900, dove rappresentava con bellissime tavole a
Tavole a colori del plasmodio della malaria tratte da Studi di uno zoologo sulla malaria
Frontespizio degli Atti II Congresso Risicolo Internazionale del 1903 Cartina della distribuzione in Italia delle risaie agli inizi del XX secolo
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risaie e malaria colori il ciclo del plasmodio e le diverse specie di zanzare vettrici. Questo dimostra come, anche con semplici strumenti di lavoro, si può arrivare a grandi scoperte, che il Grassi espose al II Congresso Risicolo Internazionale del 1903 a Mortara (Pavia). Anche il I Congresso Internazionale del 1901 fu in Italia e precisamente a Novara. Nel 2001, proprio in occasione del centenario la Fondazione Agraria Novarese (presidenza A. Cerina) diede vita al progetto “Per una Cultura del Riso” che ha portato alla realizzazione dell’Esposizione Itinerante e relativi cataloghi I mille riflessi del riso e alla pubblicazione dei due volumi Terre d’acqua in Italia e Terre d’acqua nel Mondo. Tali volumi sono stati successivamente tradotti in inglese, in occasione della 4th International Temperate Rice Conference, che si è tenuta a Novara nel 2007. Il Grassi, attraverso i suoi studi, dimostrò che “la risaia è fomite soltanto indiretto della malaria” e dette indicazioni sulla cura e la prevenzione, che fortunatamente furono seguite dagli organi competenti. All’inizio del XX secolo la malaria era un problema molto serio in Italia, che si cercava di affrontare in tutti i modi. Le risaie erano ormai coltivate in moltissime province, per un totale di oltre 200.000 ettari di terreno, con una quantità media di prodotto annuale di oltre 7 milioni di ettolitri di riso. La popolazione dei comuni risicoli, 2,5 milioni di abitanti, rappresentava quasi il 9% della popolazione italiana ed era concentrata soprattutto in Lombardia e Piemonte, in particolare a Vercelli, Novara, Mortara. A dimostrazione delle pessime condizioni dei lavoratori nelle risaie, Ercolani ricorda che essi erano quelli che maggiormente si astenevano dal lavoro durante gli “scioperi agrari”. Già nel 1902, su proposta della SISM, era stata approvata la libera distribuzione del chinino. I casi di malaria nel mondo erano circa
Cause della malaria
• “La lotta che da secoli si combatte tra
igienisti e risicoltori tocca in questo momento il suo apice: propugnano i primi la proibizione, o almeno la diminuzione della coltura risiva, incolpata di favorire lo sviluppo della malaria, respingono i secondi ogni delimitazione che venga a ledere i loro interessi, negando le malefiche influenze della risaia. Lo Stato, spinto e pressato dalle recenti scoperte scientifiche e dai lavoratori della risaia, che intendono avere una protezione maggiore della loro salute e della loro vita (...) emana, in attesa di una nuova e completa legge, una circolare (23 aprile 1903) ricca di buoni e igienici provvedimenti...” Ercolani (1905)
Giulio Aristide Sartoro: Malaria, Italia 1896
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storia e arte 2 milioni all’anno, con oltre mezzo milione di morti. In quegli anni si scoprì, soprattutto per merito di studiosi italiani, l’intero ciclo della malaria. Ciclo della malaria La malaria è dovuta a quattro specie di protozoi trasmessi dalle punture di zanzare del genere Anopheles. Essi infettano i globuli rossi del sangue dell’uomo o di altri vertebrati, tra cui bovini e suini. Dopo un’incubazione da 1 a 6 settimane, in relazione alla specie di plasmodio, si manifestano i primi sintomi, che sono aspecifici: cefalea, astenia, mialgia, malessere generalizzato. Seguono i caratteristici accessi febbrili, preceduti da brividi scuotenti. La temperatura corporea raggiunge i 40-41 °C. Il ciclo biologico del Plasmodium comprende una fase sessuata, che si svolge solo nelle zanzare femmine, e una fase asessuata, che si svolge nell’animale o nell’uomo: all’interno dei globuli rossi i plasmodi, detti in questa fase merozoiti, si riproducono molte volte, finché il loro numero non determina la rottura dei globuli stessi. Così, liberi
Differente portamento dell’adulto dei generi Culex (a sinistra) e Anopheles (a destra)
Ciclo della malaria Uomo Gli sporozoiti presenti nella saliva dell’insetto migrano nelle cellule epatiche
Zanzara Anopheles
Gli sporozoiti migrano nelle ghiandole salivari dell’insetto
La zanzara mediante la sua puntura inocula una piccola quantità di saliva nell’uomo
Nello stomaco della zanzara dai gamonti si formano micro e macrogameti che si fondono; dalla fecondazione derivano sporozoiti
La zanzara femmina succhia il sangue umano e ingurgita globuli rossi contenenti i gamonti
Cellule epatiche
Trasformazione in gamonti
I merozoiti possono rompere la parete del globulo rosso e diffondersi nell’organismo, provocando gli attacchi febbrili
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Dopo due settimane, si formano merozoiti che migrano nei globuli rossi
risaie e malaria nel sangue, essi possono invadere nuovi globuli rossi, evento che corrisponde agli accessi febbrili tipici della malaria. Dopo un certo numero di questi cicli, all’interno dei globuli rossi possono comparire forme protozoarie sessualmente differenziate, dette gametociti (gamonti). Se ingeriti col sangue umano o animale da una zanzara, nell’intestino dell’insetto, i gametociti maschili (microgametociti) e femminili (macrogametociti) si fondono, dando origine agli zigoti, da cui derivano gli sporozoiti, che si portano nelle ghiandole salivari. Quando, dopo 2 o 3 giorni, la zanzara femmina ha bisogno di un altro “pasto di sangue” per produrre le uova, iniettando la sua saliva nell’individuo punto per evitare che il sangue coaguli, inietta anche gli sporozoiti e così la malattia si diffonde. Il ciclo si interromperebbe se la zanzara non potesse deporre le numerosissime uova prodotte in acque stagnanti, che rappresentano l’habitat ideale per il loro sviluppo. Questo habitat si può trovare non solo nelle paludi, ma anche nelle risaie non ben condotte.
Zanzare nelle canzoni
• Nei tempi passati, nonostante le
scoperte fatte, le zanzare venivano quasi da tutti considerate solo una molestia, non la causa della malaria, come si evince dalla versione risaiola, forse precedente alla versione partigiana, della famosissima canzone Bella ciao: . .. e tra gli insetti e le zanzare in risaia ci tocca andar... ... ma verrà un giorno che assai provate la risaia rinneghiam...
Plasmodium di interesse umano e zanzare vettrici I vettori della malattia in Italia erano principalmente Anopheles labranchiae e Anopheles sacharovi, entrambe appartenenti al complesso maculipennis, e Anopheles superpictus. Anopheles labranchiae fu il principale vettore nelle zone del Centro-Sud e nelle isole maggiori. In Sicilia e in Sardegna questa specie fu rinvenuta anche a 1000 m sopra il livello del mare. Anopheles sacharovi era presente principalmente nelle aree costiere, in Sardegna e nel Nord-Est della Penisola dove Anopheles labranchiae era assente. Anopheles superpictus era diffuso principalmente in Sicilia e in Calabria. Invece Anopheles superpictus era vettore secondario soprattutto nel Nord Italia. La zanzara più comune e più fastidiosa, allora come oggi, appartiene prevalentemente al genere Culex, che già il Grassi aveva notato non essere vettrice e aveva indicato un pratico metodo per distinguerla dalle specie vettrici. Oggi sappiamo che la specie più temibile come vettrice di protozoi è Plasmodium falciparum, diffusa soprattutto in Africa. È questa specie che causa la malattia chiamata “terzana maligna”, caratterizzata da febbri intermittenti, e che è responsabile della maggior parte delle morti. In Italia erano invece molto diffuse le due specie Plasmodium vivax e P. ovale. La prima specie fu descritta proprio dal Grassi assieme a Feletti nel 1890, mentre solo nel 1922 fu distinta la specie P. ovale da Stephens. Esse davano origine a una malattia detta “terzana benigna”, caratterizzata da decorso benigno, con febbre ogni 48 ore. Erano trasmesse da Anopheles maculipennis, un complex che in laboratorio risultò essere un complesso di almeno 8 specie, morfologicamente quasi indistiguibili, non tutte in grado di trasmettere la malaria. La terzana spesso recidivava, a distanza di mesi o anni. Eppure c’era un detto, riportato nel romanzo In
Malaria e riflessi in Italia
• È difficile ricostruire un quadro
geografico della malaria in Italia in epoche molto remote
• È certo che la malattia risale a tempi
antichissimi. Alcuni presumono che abbia contribuito alla decadenza e addirittura alla scomparsa di civiltà intere (nuragica ed etrusca), di floride città della Sicilia (Selinunte), della Magna Grecia (Sibari, Locri), della Garrama (Poseidonia), della Valle del Po (Adria, Spina), la cui fine non sembra imputabile a cause belliche, sismiche o di altra natura distruttiva
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storia e arte risaia, che sembra mettere in relazione questo tipo di malaria con qualche guarigione: la terzana i giovani li risana. Partì forse da questa considerazione W. Jaurreg che, nel 1917, mise a punto un metodo per curare i malati affetti da neurosifilide, una malattia sessualmente trasmissibile che determina paralisi progressiva, oggi curata con antibiotici. Egli iniettava nei malati sangue proveniente da soggetti malarici, contenente il Plasmodium vivax. Questa terapia, nota come “malarioterapia”, provocava accessi febbrili benigni, che risultavano utili ai malati. La quartana invece è la malaria dovuta alla specie P. malariae, è caratterizzata da febbri ogni 72 ore e ha decorso benigno.
Foto V. Polizzano
Lotta alla malaria e vittoria Con la bonifica delle paludi, con cure sanitarie, con apposita profilassi, già prima della Seconda guerra mondiale l’incidenza della malaria era molto diminuita. Si era agito in modi diversi e integrati in tutti i punti del ciclo del parassita e sulle diverse cause legate a questa malattia. – s ul vettore Anopheles: si combattevano gli adulti con sostanze repellenti e/o con insetticidi; si cercava di eliminare le larve immettendo nelle paludi sostanze che, come il petrolio, galleggiando sull’acqua impediscono alle larve di respirare, oppure immettendo pesci larvivori, come il famoso Gambusia, importato nel 1920 dagli Stati Uniti; – sul plasmodio: con il chinino e derivati, distribuito gratuitamente negli ambulatori antimalarici; – sull’uomo: con protezione meccanica delle abitazioni (zanzariere, tende ecc.); con appositi vestiti che venivano forniti a quanti, come i ferrovieri, dovevano frequentare ambienti malarici; si proibiva il lavoro nelle risaie all’alba o dopo il tramonto, “quando la mosca cede alla zanzara” come scrive Dante Alighieri; – sull’ambiente: si bonificarono le paludi e si cercò di attuare una buona conduzione delle risaie, affinché non riproducessero, sia pure in piccolo, le condizioni delle paludi; l’acqua doveva essere sempre mantenuta in leggero scorrimento, in modo che non potesse mai ristagnare. L’inizio della Seconda guerra mondiale portò a una recrudescenza della malattia, con una stabile ipoendemicità nella Pianura Padana, a causa delle aree rurali che vennero abbandonate, del sistema di regolazione delle acque non più ben funzionante, della diminuzione del numero di bovini e suini come fonti di sangue per le zanzare, e persino a causa dei crateri prodotti dalle bombe, che si riempivano di acque stagnanti. Negli anni successivi, grazie al miglioramento delle condizioni economiche, alla ripresa del lavoro agricolo e al ripristino dell’ambiente idrogeologico, l’incidenza delle malaria diminuì di nuovo. Ma fu soprattutto con l’uso massiccio del DDT (dicloro-difeniltricloroetano), un insetticida ad azione residua (che aveva cioè
Edifici a Castelbuono (Palermo) in cui è riportata la data del trattamento con il DDT per la bonifica degli ambienti domestici
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risaie e malaria la durata dell’intera stagione endemica maggio-ottobre), che si ottennero importantissimi risultati. Il primo esperimento sulla validità del DDT fu condotto nel 1945 nelle Paludi Pontine. A seguito del buon risultato, nel 1946 furono trattate con grandi dosi di DDT diverse altre zone: la Maremma, varie località della Sicilia e le coste del Veneto e dell’Emilia. Nel 1947 l’uso del DDT fu esteso su tutto il territorio nazionale. Certamente vi furono anche effetti indesiderati: a causa dell’indiscriminata azione sugli insetti e della diminuzione degli uccelli che di essi si cibavano, si stava arrivando in molti Paesi a quella che l’ecologista statunitense Carson chiamava “Primavera silenziosa”, titolo di un suo famosissimo saggio che portò alla riduzione o all’abolizione dell’uso del DDT. Ma la malaria, con quest’ultimo ritrovato, fu praticamente debellata. L’ultimo caso di malaria fu segnalato nel 1962 a Cefalù (Palermo) e ciò comportò nuovamente l’impiego di DDT anche per la bonifica degli ambienti domestici, come si evince dalle scritte sugli edifici. Tutto ciò dimostra molto chiaramente quanto Golgi e Grassi avessero ragione: non erano le risaie all’origine della malaria, ma gli ambienti insalubri, le paludi, in cui la coltivazione del riso veniva all’inizio collocata, sia per rendere produttive le paludi, sia per ottenere un grande raccolto, con rese superiori a quelle del grano. Oggi i casi di malaria che si verificano nel nostro Paese, dovuti a viaggi o a immigrazione, vengono accuratamente tenuti sotto controllo, in modo che il problema non si ripresenti mai più.
Estinzione della malaria
• In data 21 settembre 1970 l’Italia fu
iscritta, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nei registri ufficiali dei Paesi liberi da malaria
• In circa ottant’anni, con provvedimenti scientifici, politici, sociali, il grande flagello della malaria in Italia era stato debellato!
“È bene sfatare la leggenda tanto radicata nella pubblica opinione che la risaia è malsana” disse Camillo Golgi, Premio Nobel per la medicina nel 1906
Foto R. Angelini
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il riso
storia e arte Forme e pratiche rituali Piercarlo Grimaldi, Battista Saiu
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 1 (Lorelyn Medina) e 596 (Gennady Kravestky) sono dell’agenzia Dreamstime.com. Le foto alle pagine 104 e 105 sono di Renato Guttuso © Renato Guttuso by SIAE 2008.
storia e arte Forme e pratiche rituali Ciclo produttivo del riso Le scienze etnoantropologiche hanno ampiamente documentato e analizzato il ciclo produttivo del riso. In particolare l’attenzione scientifica è stata rivolta alla cultura materiale della risaia che caratterizza un’ampia parte del territorio della Pianura Padana ed è stata documentata attraverso ricerche che in periodi differenti hanno riportato alla luce i saperi della tradizione. Un contributo in tale direzione è offerto dalla ricerca condotta da Paul Scheuermeier, linguista che condusse una capillare indagine in Italia nel corso di più lustri, a partire dal 1919 per giungere al 1935. La sua opera è stata tradotta e pubblicata in Italia solo nel 1980, con il titolo Il lavoro dei contadini. Con questo impegnativo lavoro il ricercatore svizzero consegna un’indagine interdisciplinare che apporta un ampio, articolato e originale contributo alla conoscenza linguistica ed etnografia della cultura materiale della giovane nazione italiana. Ricostruisce i principali cicli produttivi agricoli e le attività domestiche che definiscono l’universo materiale della cascina. Il patrimonio fotografico prodotto da Scheuermeier rappresenta il mondo rurale indagato. Tale documentazione iconografica risulta ancor più preziosa perché lo studioso l’accompagna con essenziali ma puntuali descrizioni linguistiche ed etnografiche. In questo ampio contesto si colloca anche l’indagine sul lavoro in risaia. Le fotografie e le analitiche didascalie riguardanti la comunità di Desana, nel Vercellese, illustrano la pulitura del riso e descrivono analiticamente questa fase di lavoro indicando i termini dialettali. Il materiale è in corso di stampa nel quadro di una ricerca che ordina e pubblica tutti i documenti inediti prodotti da Scheuermeier relativi al Piemonte.
Ciclo produttivo del riso
• Nelle risaie del presente persiste la
memoria di una complessa ritualità contadina tendente a favorire la buona annata agraria e la fertilità della terra. Si tratta di saperi popolari trasmigrati dal più antico universo cerealicolo e adattati alla nuova coltivazione risicola che si è impossessata di queste terre favorevoli all’acqua
Lavorazione del terreno con aratro comune
Foto Ente Nazionale Risi
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forme e pratiche rituali Il ciclo colturale del riso è, quasi certamente, uno degli aspetti tra i più documentati dall’Istituto Luce. Un’indagine condotta presso l’archivio romano ci ha permesso di comprendere e documentare il vasto materiale filmico che ricostruisce il lavoro della risaia. Al di là della retorica che accompagna le immagini e che ha caratterizzato il lavoro dell’istituto, la documentazione è interessante. Essa permette di comprendere le singole fasi del ciclo produttivo e di analizzare le innovazioni intervenute negli attrezzi e nelle tecniche produttive. Il film Riso amaro di Giuseppe De Santis, realizzato nel 1949, sembra, in alcune scene, la citazione neorealista di documentari dell’Istituto Luce. Gli stessi musei contadini che sono sorti sul territorio nazionale negli ultimi decenni espongono e documentano con puntualità ed esaustività gli attrezzi che hanno scandito i tempi del lavoro tradizionale del ciclo del riso. Minore attenzione è stata riservata alla cultura immateriale che caratterizza il lavoro connesso alla risaia. È probabile che il maggior interesse riservato alla cultura materiale trovi una ragione nell’epico lavoro delle mondine che oggi è ancora parte dell’immateriale popolare della nazione. Le donne provenienti da diverse regioni italiane per quaranta giorni andavano a mondare il riso “con la testa nell’acqua e il culo per aria”: così icasticamente e realisticamente le rappresenta Sebastiano Vassalli. Un lavoro che cominciava all’alba e terminava al tramonto, un tempo e uno spazio definiti caratterizzati dallo sfruttamento femminile, dalle rivolte sindacali delle donne, dall’alterità del loro comportamento a questa condizione drammatica. Queste le ragioni per cui probabilmente gli antropologi hanno lavorato soprattutto in questa direzione. La questione sociale ed economica connessa a questa specifica fase produttiva del riso si è imposta, da un lato, sugli altri altrettanto importanti temi che il fenomeno suscitava, indirizzando il lavoro
Foto Ente Nazionale Risi
Zappinatura del terreno
Lavorazione del terreno con aratro trivomere a trazione
Foto Ente Nazionale Risi
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storia e arte di ricerca e di documentazione antropologica verso la ricostruzione analitica del ciclo produttivo. Il canto popolare delle mondine che si levava libero nei quaranta giorni della risaia e che scandiva il tempo del lavoro, della protesta e della nostalgia per la casa lontana ha, dall’altro, egemonizzato gli studi riguardanti l’immateriale antropologico della risaia. Una ricerca condotta nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta da Sergio Liberovici ed Emilio Jona, volta a raccogliere questi canti, è stata recentemente pubblicata. In questo importante lavoro si fornisce il repertorio più esaustivo dei canti di risaia e una puntuale analisi del quadro storico, sociale ed economico in cui si svolge l’epica vicenda, sino alla comparsa dei prodotti chimici che hanno reso silenziose le terre d’acqua. Il lavoro che segue vuole offrire un contributo alla ricostruzione del calendario contadino delle risaie analizzando un frammento di rito che ancora si può ritrovare decontestualizzato nelle campagne del presente, a partire da una recente indagine, Riso: produzione, lavorazione, tradizioni e sviluppo locale, che ha dedicato vasto spazio alla ricostruzione del ciclo produttivo del riso e al sistema cerimoniale a esso connesso. L’esito dell’indagine sul terreno ha evidenziato il persistere della memoria di una complessa ritualità contadina tendente a favorire la buona annata agraria e la fertilità della terra. Si tratta di saperi popolari trasmigrati dal più antico universo cerealicolo e adattati alla nuova coltivazione risicola che si è impossessata di queste terre favorevoli all’acqua. L’indagine sul terreno è stata condotta in una specifica area e precisamente nelle comunità rurali di Fontanetto Po, di Carisio e di Crescentino in provincia di Vercelli, e di Villanova Biellese in provincia di Biella. Le interviste hanno evidenziato la presenza di frammenti di un magismo contadino che si concretizza in oggetti e pratiche rituali. Per ritrovare questi dispersi saperi immateriali, l’indagine ha documentato, attraverso interviste e la realizzazione di filmati, il calendario produttivo e cerimoniale contadino nelle singole fasi del lavoro. Nell’analizzare il ciclo produttivo si sono rilevati, ovviamente, profondi cambiamenti nella conduzione delle campagne dovuti all’introduzione di nuove tecniche di coltura, alla diffusa meccanizzazione, all’impiego di diserbanti chimici e a coltivazioni di nuove varietà di riso. Connesso al forte processo di modernizzazione della risaia, il calendario rituale subisce anch’esso una radicale trasformazione. È stato però possibile recuperare sul territorio, soprattutto nella memoria degli anziani agricoltori, alcuni frammenti, gli epigoni di un complesso sistema rituale che ci permette di ricostruire, di riportare alla luce, un sapere mitico rilevante. In questo quadro calendariale tradizionale intendiamo, di seguito, analizzare le forme e le pratiche rituali connesse al tempo del raccolto. Nel corso dell’indagine abbiamo trovato oggetti cerimoniali realizzati con le spighe di riso raccolte dalla ghirlanda esterna della piana, prima che le macchine trebbiatrici inizino il raccolto e alcune
Foto Ente Nazionale Risi
Pareggiamento del suolo con l’asse spianone Foto Ente Nazionale Risi
Calpestamento dei terreni bibuli con rulli Tromellini Foto Ente Nazionale Risi
Intasamento dei terreni bibuli con il bestiame
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forme e pratiche rituali espressioni formulari che invitano al rispetto del calendario della mietitura: il lavoro di raccolta non deve iniziare mai di lunedì. Negli oggetti rituali prodotti con il cereale si materializza l’auspicio di fertile continuità della vita oltre la morte. Questo magismo contadino connesso ai raccolti è stato ampiamente attestato da Ernesto de Martino analizzando le società cerealicole tradizionali del Sud. In Piemonte, a partire da decontestualizzati frammenti rituali, solo recentemente si è ricostruito il mito dello spirito del grano, del pianto funebre che il contadino ritualizza nel momento in cui, con la falce in pugno, comincia a mietere le messi e si percepisce come datore di morte. Attraverso dispositivi rituali, come quello di allontanare la quaglia che rappresenta il sacrificio dello spirito vegetale presente nel campo di grano, egli supera cerimonialmente la datità del gesto messorio. Vediamo ora di approfondire alcuni dei tratti rituali connessi al ciclo produttivo del riso, documentati nelle campagne oggetto della nostra indagine.
Foto Ente Nazionale Risi
Pratiche rituali Nelle case rurali delle terre d’acqua è possibile trovare ancora, appese alle pareti domestiche, particolari composizioni realizzate con pannocchie di riso raccolte prima della mietitura. I culmi del riso sono raccolti a mano, preferibilmente da piante di varietà a stelo lungo come il “Sant’Andrea” e vengono staccati all’intersezione dell’ultimo nodo della pianta, quello più prossimo alle cariossidi. Al fine di conferire maggiore flessibilità, gli steli sono lasciati alla rugiada per un paio di notti, prima di iniziarne l’intreccio.
Semina a spaglio
Semina a righe con la seminatrice Cabrini e Mocchi trivomere a trazione
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storia e arte Il “cestino” è un manufatto antropomorfo a forma di ‘bambola’. provvisto di busto e di braccia. Queste ultime originano dalle spighe impiegate per comporre la prima corona dell’intreccio. Nella parte inferiore le pannocchie di riso che ricadono si allargano a formare una lunga gonna. Per realizzare l’oggetto occorrono una settantina di steli che si intrecciano partendo da due-quattro peduncoli di cereale annodati a punto festone, in cui vengono inseriti, via via che si procede nell’orditura, nuovi gambi. Con le pannocchie iniziali si forma il primo braccio dell’oggetto e, tessendo a parte altri due-sei steli, si costruisce il manico e il secondo braccio. Alla fine, dopo aver conferito al lavoro la forma di cerchio, grazie anche all’ausilio di un sottile filo metallico e di un semplice spago, il cestino viene adornato con nastri variopinti e con coccarde colorate di raso a fettuccia. L’oggetto rituale può essere anche realizzato a forma di “ventaglio” e di “ala”, ottenuto con lo stesso procedimento del “cestino”. Alla fine dell’esecuzione non viene chiuso a forma di circonferenza, lasciando il manufatto disteso, piatto, simile a quello di un ventaglio, impreziosito, anche in questo caso, da coccarde di stoffa e da nastri multicolori.
Pratiche rituali
• Il quadro simbolico connesso alla
raccolta del riso affonda le radici nel tempo mitico ma può, se ricostruito, aiutarci a comprendere e a vivere meglio i tempi storici del presente che non sempre conoscono il lessico affettivo e produttivo che i patrimoni materiali e immateriali della tradizione portano con sé
Ritmi lunari Che il mondo contadino tradizionale fosse intimamente connesso ai ritmi lunari è cosa risaputa. Uomini, animali, alberi sono regolati dalla luna che ogni giorno è sempre diversa. Le attività agricole sono sempre state governate dalle lunazioni: a seconda delle fasi si semina e si raccoglie, si potano e si tagliano gli alberi, si vendemmia e si travasa il vino novello. Secondo i saperi popolari la stessa nascita di un figlio viene ancora computata in base alla
Sarchiatura meccanica del riso con la sarchiatrice Cabrini e Mocchi
Foto Ente Nazionale Risi
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forme e pratiche rituali luna, vale a dire che il parto avviene sempre nei giorni successivi “la luna compiuta”, ossia la luna vecchia. In questo contesto cognitivo contadino in cui si incontrano e si scontrano logiche colte e logiche popolari, il lunedì era dedicato alla luna. Si può riscontrare l’importanza di questo giorno anche dalla diffusione di prescrizioni e di elementi formulari simili, presenti in tempi e luoghi differenti. Prescrizioni analoghe, è risaputo, sono previste anche per altri giorni della settimana. Per esempio il martedì e il venerdì non sono adatti per contrarre matrimonio e intraprendere un viaggio. Nelle campagne la tradizione del lunedì sopravvive nonostante la cristianizzazione che impone il rispetto della domenica. Un esempio prossimo all’area d’indagine è fornito dallo Statuto concesso il primo febbraio 1410 dal vescovo di Ivrea, Bonifacio della Torre, alla Villa di Andrate, piccolo centro montano al confine tra le province di Biella e di Torino, in cui si stabilisce “la multa di due soldi imperiali” per “chiunque lavori la domenica e nei giorni di festa della Beata Vergine, degli Apostoli, di San Giovanni e di San Lorenzo”. Nelle terre d’acqua delle province di Biella e di Vercelli non è difficile vedere macchine agricole al lavoro in tutti i giorni della settimana, domenica e giorni festivi compresi ma, secondo un’usanza radicata tra gli anziani, i principali lavori dei campi non iniziano mai di lunedì. Si tratta di una regola consuetudinaria che viene osservata soprattutto per l’inizio della mietitura, poiché si ritiene che, disattendendo questa norma orale, il padrone muoia entro l’anno. La prescrizione, diffusa nel territorio della risaia piemontese, si rileva pure nell’Oltrepò Pavese. In entrambi i casi vige il divieto di iniziare a mietere di lunedì per scongiurare la morte del proprietario del fondo. Nella documentazione fotografica di Franco Pinna condotta nelle campagne cerealicole del Sud d’Italia sotto la direzione di Ernesto De Martino, si può vedere la preziosa sequenza in cui il padrone dei campi viene ritualmente ucciso attraverso una danza con falci messorie che lo privano via via dei vestiti. Il rituale, seppur apparentemente lontano dall’espressione formulare raccolta durante la ricerca nelle risaie, appartiene allo stesso sistema segnico, allude in qualche modo, a un detto popolare piemontese: “Il lunedì muore il padrone”. A questa espressione fa seguito il comportamento adottato da moltissimi contadini di dare inizio a una sorta di pre-mietitura nel giorno del riposo domenicale, anche preparando le macchine trebbiatrici. Nelle campagne di Carisio la consuetudine si applica anche ad altri importanti lavori agricoli come l’aratura e la semina, che vanno iniziati in giorni della settimana diversi dal lunedì.
Foto Ente Nazionale Risi
Semenzaio
Foto Ente Nazionale Risi
Riti agrari In riti agrari diffusi nell’Europa della tradizione, alcuni animali venivano sacrificati alla fine della mietitura e il loro sangue versato nei campi per fertilizzare la terra e favorire il raccolto successivo. Le loro carni venivano poi consumate in un banchetto rituale. Queste pratiche vennero sostituite da altre meno cruente, come la raccol-
Sradicamento del riso dal semenzaio per il trapianto
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storia e arte ta di alcune spighe da conservare in cascina. Il sacrificio vegetale subentra a quello animale che, a sua volta, avrebbe sostituito il più drammatico sacrificio umano. Il taglio dei cereali è sempre stato associato a riti di morte, nei quali vittime sacrificali sono gli spiriti animali che abitano le spighe del grano. Attraverso la morte e l’uccisione rituale che depotenzia il valore simbolico del raccolto è possibile garantire la rinascita vegetale della natura e avere la certezza che il nuovo ciclo agrario ritornerà a prosperare. Nella campagna vercellese, accanto a un sacrificio vegetale che allude alla morte rituale del padrone che inizia i lavori il lunedì, troviamo ancora un frammento di un più complesso e vasto sistema rituale che allude al sacrificio animale. James George Frazer nel noto studio Il ramo d’oro ci aiuta a cogliere un nesso fra questi due sistemi simbolici. “Uno speciale mazzo di spighe, generalmente l’ultimo lasciato in piedi, è concepito come il collo dello spirito del grano che viene di conseguenza decapitato quando si taglia il mazzo. Similmente il nome ‘collo’ o ‘collo del papero’ si dava comunemente all’ultimo ciuffo di spighe lasciato in piedi in mezzo al campo quando tutte le altre erano tagliate. S’intrecciava ben bene questo ciuffo e i mietitori stando lontani dieci o venti passi gli tiravano dentro i falcetti. Chi riusciva a tagliarlo, si diceva che aveva tagliato il collo del papero. Il ‘collo’ veniva portato alla moglie del padrone che doveva tenerlo in casa come portafortuna fino alla mietitura seguente”. Del sacrificio animale il territorio d’indagine conserva ancora attestazioni attive. A Fontanetto Po, terra di risaia, si pratica ancora la festa del col a l’oca che si effettua ogni anno nel giorno del sabato grasso. Vi partecipano e l’organizzano i giovani coscritti che compiono il diciannovesimo anno di età e che ricevono l’incarico dai loro predecessori, i giovani della leva uscente. I nuovi cusnà,
Foto Ente Nazionale Risi
Trapianto del riso
Trapianto del riso
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forme e pratiche rituali ottenute le “consegne”, organizzano durante l’intero anno serate da ballo e feste nel paese. Con l’aiuto dei genitori, dei parenti e degli anziani, la mattina della festa vengono prelevate e macellate altrettante oche quanti sono i coscritti. In passato erano impiegati indifferentemente galli o anatre, a seconda della disponibilità. Nel pomeriggio della festa, nascosti dentro il carro appositamente allestito, sfilano per le vie principali del paese, mostrando gli animali che saranno successivamente issati, uno alla volta, a una fune sulla strada antistante il municipio. Quando il carro viene fatto passare sotto l’oca appesa, un solo coscritto si leva e, con gesto rapido, stacca la testa del volatile lanciandola in mezzo alla folla. L’atto si ripete tante volte quanti sono i coscritti. Alla fine della manifestazione, le oche vengono cucinate e consumate con polenta in umido durante un pranzo collettivo. Secondo alcune testimonianze, in queste campagne, la festa del col a l’oca doveva essere assai diffusa. Il giorno del martedì grasso, infatti, un analogo cerimoniale sacrificale veniva effettuato nel limitrofo comune di Lamporo. Don Francesco Ottavis, dal dopoguerra parroco della locale chiesa, ci informa della grande partecipazione dei suoi parrocchiani per concorrere al taglio della testa di animali da cortile, per lo più galli, oche e qualche volta tacchini, tutti animali vivi legati a una corda tesa tra due balconi prospicienti la via adiacente la chiesa. Montati in sella i fantini dovevano staccare la testa dell’animale per meritarsi l’ambito premio che, opportunamente cucinato, allietava una festa collettiva che proseguiva fino alla domenica successiva. Una conferma dell’importanza rituale dell’oca è data dalla raffigurazione dell’animale all’interno di un edificio sacro di Fontanetto Po. Nella chiesa della Confraternita della Santissima Trinità è possibile ammirare un dipinto di grandi dimensioni, attribuito a Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, un pittore del Seicento attivo
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Mondine al lavoro
Mondatura
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storia e arte in questo territorio. Nel quadro intitolato Invenzione della Santa Croce sono raffigurati Dio Padre, una colomba al centro, poggiata sul braccio della croce a forma di T e Gesù appeso al legno. Ai due lati, san Carlo Borromeo e san Bononio. In basso i confratelli incappucciati di rosso e due offerenti. Sotto la croce le nuvole raccordano il mantello del Padre con il paesaggio. A uno sguardo attento la nuvola in basso, a sinistra di chi guarda, ha la forma di un’oca con gli occhi chiusi e con il becco generato dalle dita (l’anulare e il mignolo) della mano destra di san Bononio. Il pittore, mimetizzando l’animale all’interno della scena tragica della morte di Gesù, potrebbe aver voluto tramandare la testimonianza dell’importanza del rito, certamente attivo in quegli anni. Osservando un più ampio settore del territorio circostante la risaia vercellese, ritroviamo il rito dell’oca a Mortara. Qui, con cadenza annuale, l’ultima domenica di settembre si tiene il tradizionale, innocuo palio disputato tra le contrade cittadine che mettono in scena un gigantesco “gioco dell’oca” composto da cinquanta caselle. A ogni lancio di dardo, scagliato da un arciere contro un bersaglio numerato, a seconda del punteggio ottenuto, vengono mosse le pedine umane lungo un percorso stabilito. Immancabili i piatti a base d’oca che sono i veri protagonisti delle numerose bancarelle allineate lungo le vie del centro. Anche nel vicino Monferrato, a Quargnento, si tiene il palio dell’oca, che consiste in una sfilata in costumi d’epoca e in una corsa delle oche. Il rito autunnale dell’oca viene compreso in un più ampio proverbio diffuso anche in area piemontese: “Oca, castagne e vino, tieni tutto per san Martino”. In un lavoro condotto nella seconda metà dell’Ottocento sulle feste popolari, Gerolamo Boccardo, nel descrivere riti con animali indica anche la pratica della “Gattocheide” in cui venivano appesi a una fune, sulla pubblica via, gatti, oche o altri animali da cortile a cui si sarebbe staccato il collo. Questi riti, diffusi dal vasto territorio vercellese-alessandrino fino al Canavese, si svolgevano negli ultimi giorni di Carnevale, sconfinando nel tempo della Quaresima: “A fin di carnovale appendesi a una corda, in mezzo alla via, un’oca o un gatto; talora molti animali di ambe le specie vengono così in varie vie legati co’ piedi a una fune. Giovinastri mascherati, correndo di galoppo a cavallo, vanno a gara per afferrare colla mano la testa delle vittime, mentre passano a loro vicini; più e più tentativi succedendosi, nei quali le innocenti bestiole sono, per diporto crudele di popolo, iniquamente torturate, prima che la testa venga strappata: colui che riesce nel turpe intento riceve dal comune onori e ricompense”. A Tonco, nelle colline astigiane, ancora oggi si svolge la “Giostra del pitu”, del tacchino, che conserva i tratti cruenti della decollazione dell’animale precedentemente ucciso. Il pitu in corteo viene portato sulla piazza del paese davanti a un tribunale carnevalesco che, dopo un processo farsesco, emette la condanna. L’animale, appeso per le zampe, viene colpito dai giovani muniti di bastone
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Mietitura a mano
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Rivoltamento del riso a mano
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forme e pratiche rituali sino a quando, dopo vari tentativi, la testa del capro espiatorio rotola tra il pubblico. Il trofeo, raccolto e infilzato sul bastone giustiziere, viene portato in corteo tra il pubblico acclamante. Al termine di questa prima analisi dei frammenti rituali connessi alla raccolta del riso ritrovati nelle terre d’acqua, possiamo affermare che il sacrificio vegetale appartiene anche a questa coltura. Le informazioni raccolte ci dicono, anzi, che il sistema cerimoniale che governava il momento di crisi del lavoro del riso era particolarmente profondo e complesso. L’interdizione formulare di iniziare il lavoro il lunedì, la bambola, gli oggetti cerimoniali costruiti con le spighe prima di iniziare il lavoro e quindi non nel giorno infausto canonico, gli animali sacrificati durante il calendario annuale, dialogano cognitivamente tra di loro. Si tratta di dispersi frammenti rituali che ci riconducono all’atto della mietitura, al momento del raccolto del riso in cui il contadino deve interpretare il pianto vegetale per superare la morte della natura. Le composizioni floreali formate da spighe di riso e fiori realizzati con piume d’oca che ritroviamo, ancora oggi, sulle bancarelle delle fiere paesane sono ciò che resta di queste ultime reliquie, delle tracce oramai decontestualizzate di arcaici riti di morte e rinascita delle stagioni che dialogano attivamente con le uccisioni sacrificali degli animali della risaia. Un quadro simbolico che affonda le radici nel tempo mitico ma che può, se ricostruito, aiutarci a comprendere e a vivere meglio i tempi storici del presente che non sempre conoscono il lessico affettivo e produttivo che i patrimoni materiali e immateriali della tradizione portano con sé.
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Essiccatoio Germinarati e Guidetti
Il paragrafo Ciclo produttivo del riso è da attribuire a Piercarlo Grimaldi, i paragrafi Pratiche rituali, Ritmi lunari e Riti agrari sono da attribuire a Battista Saiu.
Trebbiatura con cavalli
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il riso
storia e arte Tradizioni etnico-musicali Emilio Jona, Alberto Lovatto
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 1 (Lorelyn Medina) e 596 (Gennady Kravestky) sono dell’agenzia Dreamstime.com. Le foto alle pagine 104 e 105 sono di Renato Guttuso © Renato Guttuso by SIAE 2008.
storia e arte Tradizioni etnico-musicali Mondine: una comunità di lavoro e di canto Nelle campagne padane fra Vercelli, Novara e Pavia, a partire dalla seconda metà dell’800, la lavorazione del riso assume un carattere nuovo legato al nuovo assetto organizzativo delle aziende risicole: grandi estensioni, passaggio dalla coltivazione a vicenda a quella stabile, rottura della relazione tra agricoltore e comunità, rottura del sistema della solidarietà fra le diverse cascine e fra le famiglie di una stessa cascina, richiesta e necessità di gestione sistematica e puntuale dell’estirpazione delle piante infestanti con una sistematica operazione di mondatura. In particolare questa fase del lavoro della risaia ha reso necessaria la migrazione stagionale di una quantità enorme di manodopera nella maggior parte femminile: decine di migliaia di donne provenienti da aree diverse della Pianura Padana e dalle colline piemontesi si spostava nelle risaie del Vercellese, del Novarese e della Lomellina per la stagione della monda. Questo periodico incontro di mondine provenienti da regioni diverse ha costituto uno straordinario laboratorio culturale e musicale, esperienza unica nella storia della cultura popolare italiana. Per comprendere come si svolgeva il lavoro della mondina, e quindi si realizzava il loro canto in funzione di lavoro, va definito lo spazio fisico e sonoro in cui esso avveniva. La risaia è divisa in piane, che sono spazi di coltivo delimitati da argini, le piane sono sommerse dalle acque, l’acqua scorre lentamente per tutta l’estensione defluendo da una bocca d’entrata a quella d’uscita collocata sul margine opposto. Le mondine lavorano in squadre, strappano con le mani le erbe infestanti e le passano di mano in mano a quelle che stanno ai due lati estremi della squadra di lavoro che le depositano in corrispondenza dei solchi colatoi. Le mondine di una squadra devono quindi procedere in riga, con ritmo di lavoro uniforme, costituendo un gruppo affiatato che resta stabile per tutto il periodo della monda. Le riflessioni di questo scritto si fondano sul materiale sonoro raccolto da Sergio Liberovici e da Emilio Jona fra il 1958 e il 1977 nelle campagne vercellesi, materiale che è stato oggetto di uno studio ampio oggi raccolto nel volume di Franco Castelli, Emilio Jona, Alberto Lovatto Senti le rane che cantano. Canti e vissuti della monda (Donzelli, 2005). Molte delle registrazioni di quella ricerca sono state raccolte stando sull’argine o in mezzo alla risaia, nello sforzo di guardare il canto dall’interno nella sua dimensione in plein air, con il registratore immerso nella dinamicità delle relazioni del gruppo, dove al canto si alternano commenti sul lavoro, battute, dialoghi, cenni di melodie.
Squadre di mondine
• La squadra, composta da otto, dieci,
dodici mondine, rappresenta l’asse della struttura produttiva della monda e costituisce altresì la cellula antropologicamente significativa della vita di risaia. La squadra, oltre che unità fondamentale nell’esecuzione del lavoro di monda, costituisce altresì la condizione ideale per la nascita del canto e del suo dilatarsi nello spazio della risaia. La squadra è dunque anche gruppo nel quale nasce e si sviluppa il canto, espressione della polivocalità all’interno della risaia. Forse più dell’esperienza nel lavoro è l’abilità nel canto a motivare l’incontro fra le mondine e a determinare la composizione di una squadra
“La vegn la vegn la vegn la squadra delle bèlle”
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tradizioni etnico-musicali Durante il lavoro il canto oscilla continuamente tra due dimensioni comunicative-esecutive. Da un lato il canto disteso, a cui partecipa tutta la squadra, a voce piena e a volume alto, che dà vita spesso a contrasti e sfide tra le squadre. Dall’altro il canto raccolto, spazialmente ristretto, caratterizzato da un’esecuzione a mezza voce, ad accenni di melodie eseguite da una o poche mondine. Nell’una forma o nell’altra il canto costituisce presenza costante di tutto il tempo di lavoro, misurandosi con la fatica e con i tempi della monda. Le registrazioni in funzioni di lavoro documentano esecuzioni nelle quali le mondine non eseguono i canti per intero: il repertorio individuale di ciascuna mondina incontra quello delle altre determinando una sorta di stratificazione delle esperienze soggettive e collettive precedenti l’occasione esecutiva. Durante il lavoro i canti non sono mai eseguiti per intero, da capo a fondo. Tra una strofa e l’altra il canto si interrompe e altre squadre occupano il silenzio per distendere a loro volta la voce in una nuova canzone. Proprio l’intreccio delle esperienze delle mondine crea condizioni esecutive strutturalmente disponibili ad accogliere una varietà estrema di canti, anche del repertorio leggero purché collocabili all’interno di modelli melodici e armonici della polivocalità padana (Vola colomba, vittoriosa nel Festival del ’53 e raccolta più volte in risaia, rappresenta in questo senso un esempio emblematico). In risaia si canta di tutto ma tutto viene in qualche modo ridisegnato e adattato al canto di monda.
Canto e lavoro
• Il lavoro di monda non è cadenzato
da un ritmo metricamente stabile procedendo piuttosto in un continuum lento e faticosissimo di azioni concatenate. La stessa posizione con il corpo piegato e la testa reclinata, lo sguardo fisso verso il basso alla ricerca delle erbe infestanti costringono il canto a cercare una emissione tutta di gola e di testa. Non è il lavoro, dunque, a determinare il canto, ma è semmai la condizione lavorativa a motivarlo: si canta infatti non per il lavoro ma piuttosto “malgrado” il lavoro. Come scriveva Pietro Sassu, “in circostanze del genere, la funzione che prevale è la volontà di esaltare nel canto la propria presenza, di ‘alzare il canto’ quando il corpo è piegato sulle acque della risaia”
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storia e arte Le condizioni di vita della donna mondariso sono già tracciate in resoconti e inchieste di medici fin dal finire del ’700 e quindi nelle inchieste fondamentali del primo ’900 quali quelle di Oreste Bordiga e Giovanni Lorenzoni. Ma sul finire dell’800 e più ancora nei primi del ’900 questo lavoro, in tutta prevalenza femminile, che legava strati deboli di lavoratrici a mansioni faticose e malsane, per effetto dei mutamenti sociali si trasforma in occasioni di riscatto. La donna nel lavoro della risaia guadagna spazi di autonomia individuale e assume ruoli sociali nuovi e inattesi. Intorno a questa esperienza di lavoro e in un arco di tempo relativamente breve si articola quindi una condizione culturale, sociale e politica assolutamente significativa e unica. Questa vicenda lascia una traccia anche nella cultura alta; la mondina infatti entra, come un importante fenomeno sociale e umano, nella letteratura, nelle inchieste e nei reportages giornalistici, nella poesia, nella pittura. Basti ricordare il ben noto romanzo della Marchesa Colombi In risaia (1878, ora Novara, Interlinea, 1994), o La casa senza lampade (1915, ora Biella, Editrice Ieri e Oggi, 1998) di Maria Giusta Catella, una scrittrice borghese piemontese, e più recentemente quelli di Renata Viganò, di Davide Lajolo, i reportage giornalistici di Marcello Venturi, di Camilla Ravera, di Carlo Emilio Gadda. Si possono poi ancora citare le poesie di Ada Negri, gli stupendi quadri di Angelo Morbelli (1853-1919), sino ai monumenti alla mondina eretti davanti alle stazioni di Vercelli e Novara e all’epopea nazionalpopolare di un film come Riso amaro (1949) di De Santis.
Donna mondariso
• Il medico veronese Giovanni Zeviani
scriveva sul finire del ’700: “Fa compassione il vedere drappelli di fanciulle unite insieme nei seminati di riso, nei giorni più lunghi e cocenti dell’anno, starsene sotto del sole le intere giornate a mezza gamba sepolte nel pantano, col corpo piegato e storto, sotto la sferza e i continui rimbrotti di un indiscreto presidente villano, attente a scegliere con l’occhio, estirpare con la mano le molte male erbe che si intromettono con il riso; or nelle mani or nei piedi tagliuzzati da canne, morse e ferite da sterpi e da sanguettole; per un guadagno di poco maggiore di quanto dassi colà nel primo oriente”
“Ancor ben che siamo donne noi paura non abbiamo”
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tradizioni etnico-musicali E questo è il segno dell’attenzione che, su questo particolare fenomeno di lavoro stagionale e migratorio, è stata prestata sul versante non popolare della cultura italiana, mentre a partire da metà degli anni ’50 anche lo sguardo degli studiosi di folklore comincia ad appuntarsi sulle protagoniste di questo lavoro. Ma il mito della mondina che emerge come figura emblematica, punta avanzata dell’emancipazione femminile, eroina popolare fortemente caratterizzata nel fisico regale e nei valori di giustizia che incarna, è già presente nella pubblicistica del primo ’900, soprattutto in quella legata al movimento contadino e operaio. Perciò entrare in questo mondo sonoro vuol dire entrare nel vivo di un pezzo di storia orale delle classi subalterne e nel microcosmo della padania bracciantile, una campagna emblematica di memorabili lotte sociali, un tempo risonante di parole e di canti e oggi luogo del silenzio rotto solo di quando in quando dal rumore delle macchine agricole e dall’odore dei diserbanti. Sul finire degli anni ’50, quando questo lavoro stagionale iniziava il suo declino, si poteva ancora raccogliere, non defunzionalizzato ma vivo e ancor ricco, il mondo sonoro della risaia e contribuire così a far rientrare nel corpus dell’oralità il canto sociale che era stato in passato ingiustamente escluso per una errata concezione del folklore. Ciò è avvenuto anche perché il canto di monda aveva indubbiamente una connotazione nuova e aggressiva. In esso era infatti presente non soltanto l’antico canto narrativo della tradizione
“È già un mese che faccio la monda la disciplina è come soldati”
Portinaio portinaio di Pontestura
• Portinaio portinaio di Pontestura spingete la barca avanti siam mondine tutte quanti siam mondine tutte quanti Portinaio portinaio di Pontestura spingete la barca avanti siam mondine tutte quanti casa nostra vogliamo andar E nel partir sì e sì ma l’è nel tornar no no ma l’è nel lasciarti all’abbandon e l’è nel partir sì sì ma l’è nel tornar no no ma l’è nel lasciarti all’abbandon Pontestura (AL), 28 maggio 1966, coro femminile
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storia e arte folklorica contadina, ma anche l’innologia politica dei movimenti e dei partiti dei lavoratori, il canto licenzioso e quello anticlericale, la strofetta occasionale di carattere sociale, perché era il lavoro della monda a essere trasgressivo, per la promiscuità tra maschi e femmine, per la postura e le modalità del lavoro, per la particolarità dell’essere migrante, temporaneo e collettivo, segnato dalla fatica, dalla durezza delle condizioni di clima e ambiente, dalla conflittualità tra mondine e padroni, tra lavoranti locali e forestiere. Sono soprattutto le lavoranti forestiere che massicciamente trasmigrano dal Veneto, dall’Emilia e dalla Lombardia, che connotano fortemente il mondo culturale della monda. È infatti soprattutto la loro massiccia presenza che suggerisce un apparentamento forte fra il loro mondo e quello del coscritto e del soldato. Esiste una forte omologia fra l’esperienza della monda e quella della naja militare. Le mondine erano al comando di un “caporale” che le ingaggiava nei paesi d’origine, quindi venivano trasferite collettivamente al luogo di lavoro su treni come tradotte. Vivevano poi, per un tempo circoscritto, fuori dalla famiglia, una vita di sole donne nei campi e nelle cascine, dormivano in dormitori che sembravano camerate di caserme, mangiavano cibo che veniva distribuito loro come il rancio, mentre il tempo libero era loro concesso come una libera uscita e anche la loro vita amorosa-sessuale era simile a quella del soldato, perché temporaneamente libera dai tabù della comunità d’origine. Non è quindi casuale che molti dei canti di monda trovino radici in moduli espressivi desunti dal
Come in caserma
• … Mamma papà non piangere se mi hanno richiamato ancora pochi mesi e poi sono congedato sento le ruote che girano che gusto e che piacere lasciare la caserma tornare al mio paese…
… Se non ci conoscete guardateci nel viso noi siamo rovigotte donateci un sorriso dai dai dai sempre avanti e indietro mai… … Macchinista butta l’olio butta l’olio nei stantuffi di risaie siamo stufe a casa nostra vogliamo andare… … Macchinista prepara le macchine vado in congedo a fare l’amor… … O cara mama vienimi incontro ho tante cose da raccontare che nel parlare mi fa tremare la brutta vita che ho passà… Se non ci conoscete guardateci sul petto portiamo falce e martello e vogliamo aver rispetto Nè nè nè mamma mia venmi piè Trino Vercellese (VC), febbraio 1960, coro spontaneo di voci miste
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tradizioni etnico-musicali repertorio militare di caserma e di guerra, tanto da spingere a parlare della monda come naja delle donne. Senti le rane che cantano che gusto e che piacere lasciare la risaia tornare al mio paese
Se non ci conoscete guardateci nel petto
• Se non ci conoscete guardateci nel
petto noi siamo da Rovigo vogliamo aver rispetto dai dai dai sempre avanti indietro mai
non è che l’adattamento letterario e il viraggio al femminile di un noto canto di caserma. Anche il “caporale” che controlla il dormitorio e il lavoro trova spazio nel canto attraverso allusioni alla vita militare:
Se non ci conoscete guardate la cintura noi siamo da Rovigo e non abbiam paura dai dai dai sempre avanti indietro mai
Caporal di guardia a t’è un brut mus a t’è fat suné la sveglia che l’era ancura scur
Se non ci conoscete guardateci negli occhi noi siamo da Rovigo ne piase i giovanotti dai dai dai sempre avanti indietro mai
E quando non è la caserma è la prigione che viene evocata per raccontare la vita della mondina, come in questo canto raccolto da Jona e Liberovici a Veneria di Lignana (VC) nel 1970 dalla voce di un gruppo di mondine di Scardovari (RO), che descrive la giornata di lavoro in risaia:
Veneria di Lignana (VC), 29 giugno 1970, mondine di Scardovari
A la mattina il latte freddo e alle nove la pagnutina e la povera mondina tutto il giorno a lavorar
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storia e arte Alla matina c’è i moschini e alle nove c’è i tavani al mesogiorno quel brutto sole che mi faceva inrostolir
Canti di mondine
A mesogiorno risi e fagioi e alla sera fagioi e risi e di quel pane e naturale che l’apetito ci fa mancare
• In risaia si canta di tutto, il canto di
monda è una koinè di canti di lavoro, di siesta, di lotta o semplicemente di sfogo canoro, particolarmente composita e disomogenea, che spazia dal canto narrativo a quello della tradizione folklorica contadina, al canto dei coscritti e dei soldati della Prima e della Seconda guerra mondiale, dalla canzonetta di consumo a quella della tradizione anarchica socialista comunista, trascorrendo dalla licenziosità alla politica, dall’evasione all’anticlericalismo, dai ritmi militari alle ninne nanne, ai residuati di canti religiosi, ai resti delle rappresentazioni del Gelindo, alle strofette inventate su arie note durante il lavoro o il riposo, alla realizzazione di contrafacta che costituiscono una sorta di vera e propria “guerriglia semiologica”
E per dormire un po’ di paglia e tuta piena di bestioline e sembra proprio una prigione dove dormono i carcerà E alle otto la ritirata e alle nove c’è l’ispezione e sembra proprio una prigione dove dormono i carcerà
Un altro elemento che unisce l’aspetto militare a quello di monda è lo scambio culturale fra segmenti diversi di proletariato rurale, con un impatto e conseguenze rilevanti sul piano antropologico e su quello sociale e politico. L’incontro sul terreno del lavoro di masse di lavoratrici provenienti da aree economicamente e socialmente assai diversificate (montagna sottosviluppata, collina di piccola proprietà vitivinicola, pianura capitalista, piccolo paese, cittadina di provincia) fa sì che in risaia vengano messi a confronto modi, lingue, dialetti,
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tradizioni etnico-musicali culture, ideologie diverse e lontane. Le fonti orali e l’espressività popolare orale mettono bene in luce la natura e gli esiti non effimeri di questo melting pot di questo crogiuolo culturale rappresentato dalla risaia, e la ricerca sui canti lo conferma vistosamente ancora una volta. Ma per un altro verso questa nuova forma di vita, questo lavoro di squadra introduce nel quotidiano della mondina elementi di solidarietà, di coscienza di sé, della propria realtà, di un proprio essere nella storia e di appartenenza a una certa classe sociale. Così le mondine sono le più attive partecipanti alle leghe contadine e alle lotte sociali del tempo. Le mondine del vercellese in particolare furono le prime braccianti a conquistare, all’inizio del ’900, il diritto alle 8 ore. Si può dire che finalmente, anch’esse, irrompendo nella storia, trovano nel socialismo una prassi e un’ideologia forte che le libera dalla secolare soggezione ai poteri forti della Chiesa e della nobiltà e che dà loro una prospettiva realistica di emancipazione e di distacco. La canzone di monda trova una sua unità nei modi di esecuzione, nella formalizzazione e nel timbro inconfondibile di quel cantare collettivo che ha radice nelle forme della polivocalità padana che procede prevalentemente per terze parallele, con una prima voce che inizia il canto ed è seguita da una seconda voce che muove parallela alla prima e talvolta da una terza voce, al basso, spesso a fare da bordone su tonica e dominante. Lo stile esecutivo è connotato dalla funzione del canto, che originariamente è quello di accompagnare, alleviare, ritmare il tem-
Un mondo spensierato
• Lontano dalla comunità familistica
la mondina si ritaglia uno spazio e un tempo circoscritti che stanno fuori dai valori e dai doveri repressivi della società contadina di provenienza e la stagione della monda diventa una sorta di vacanza dal tempo calendariale consueto, che genera una sensazione di libertà e un’uguaglianza tra uomo e donna legata anche a quella nuova moralità laica e socialista che va nascendo nelle campagne padane ben sintetizzato dalla strofetta Amùr amùr amùr e dèghl’ai pòver e nò ai siùr Dèghl’ai pòver par carità e di siùr fèghla pagà
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storia e arte po del lavoro, per poi distendersi nel tempo della siesta in un susseguirsi di canti o di frammenti che passano dall’uno all’altro senza soluzioni di continuità. Le funzioni del canto in risaia sono quindi molteplici e compresenti: è canto di squadra che distoglie dalla ripetitività dei gesti del lavoro e in questo senso lo aiuta seguendone il ritmo e alleviando la fatica; è canto che occupa la mente e si fa anche protesta, rispecchiamento della propria condizione di vita, pedagogia, politica e diffusione di elementari principi di propaganda sociale; è proselitismo socialista ed è quindi la realizzazione di una sorta di autocoscienza di gruppo. Le mondine cantano insieme per “contare” insieme, dentro un lavoro ingrato ma svolto con allegria, un lavoro che è una vicenda collettiva, quasi un’epopea che, nel filtro della memoria delle più anziane, oscilla tra i due poli della sofferenza e del vitalismo gioioso: “Abbiamo fatto delle vite! dal vitti martiri! (delle vite di martirio)”; “Abbiamo fatto delle risate in quelle aie, dei balli!”. In questo contesto vanno anche letti i molti canti licenziosi che attengono, con la forza del simbolo e del mito, ai principi della fecondità e delle forze generative, cioè alle radici stesse della vita. Non solo, ma in una sorta di mondo alla rovescia i ruoli sessuali e sociali si trasformano e consentono alla donna bracciante cose prima impensate: la sfida al padrone, la liberazione dalle inibizioni sessuali, la dissacrazione di ruoli comu-
Strofette maliziose
• Ma lo vedi che l’albero pende e le foglie che cadono giù e per contentare le donne qui ci vuole la gioventù
Rituali della Curmüra
• Curmàia, curmàia
curmàia siur padron se ’s fa no la curmàia ’gh taiumma ’l pusè bon
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tradizioni etnico-musicali ni, l’adozione di moduli comportamentali assimibilabili a quelli maschili, anche qui sorprendentemente simili a quelli della vita di caserma. Nel lavoro di risaia sono quindi sottolineati aspetti trasgressivi del codice di comportamento femminile, cioè spregiudicatezza sessuale, cantare argomenti licenziosi e trasgressivi nei confronti dell’altro sesso ed è la monda con le sue squadre di sole donne che lo stimola e amplifica in una sorta di carnevalesca e teatralizzata ostentazione. Nei canzonieri delle donne mondine sono abbondanti le metafore sessuali, da quelle zoologiche come il galletto, l’uccellino, l’anguilla, a quelle di genere come la bicicletta, la chitarra, il boschetto, la cavagna rutta, il cordon ben tirà del frate birbante. In risaia si registrano strofette maliziose o allusive, minacce inserite nei rituali della Curmüra, la festa di fine monda, strofette, canzoni a dialogo che rimandano in maniera ancora più diretta alla sfera sessuale.
Ancor ben che siamo donne
• Ancor ben che siamo donne noi paura non abbiamo per amor dei nostri figli noi in lega ci mettiamo E giù la schiavitù vogliam la libertà siam lavoratori siam lavoratori E giù la schiavitù vogliam la libertà siam lavoratori vogliam la libertà Noi vogliamo l’eguaglianza siam chiamati malfattori e noi siam lavoratori che i padroni non vogliam
Cori di mondine Nel dopoguerra, dopo l’esperienza fascista, la mondina ridiventa protagonista delle lotte bracciantili nella Pianura Padana e riassume in sé le potenzialità eversive-innovative del movimento contadino. È in questa fase, all’imbocco degli anni ’50, che nascono numerosi cori di mondine che diventano strumenti di propaganda politico-sindacale. È il momento in cui il Partito
Vercelli, 10 aprile 1960, coro delle mondine di Trino Vercellese (VC): Maria Gennaro, Giuseppina Isacco, Angelina Irico Vallaro
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storia e arte Comunista Italiano avvia esperienze come il Teatro di massa, i Pionieri d’Italia, le Feste de l’Unità, ma è dai cori spontanei che nasce questa nuova forma di coralità. Dalla dimensione tutta femminile del lavoro, da quel canto di genere timbricamente ben connotato, dall’esperienza della squadra di lavoro e canto, che prevede buon affiatamento, reciproca stima vocale, chiara definizione dei ruoli nella distribuzione delle parti del tessuto polivocale, nasce questa possibilità-necessità di individuare nuovi contesti esecutivi in un quadro comunicativo estraneo al mondo folklorico tradizionale. Questi cori si definiscono in ragione del loro repertorio specifico e di uno specifico stile esecutivo e si esibiscono con l’obiettivo di raccontare l’esperienza e la condizione di lavoro e di lotta in risaia. Pubblicano sovente raccolte di canti e, in epoca più recente, edizioni musicali delle loro esecuzioni. Essi rappresentano nel panorama della musica popolare una realtà unica: nessun’altra professione e nessun’altra esperienza di canto di lavoro infatti ha dato vita a gruppi corali come emanazione in chiave rappresentativa della pratica esecutiva musicale sviluppatasi in funzione di lavoro. Roberto Leydi notava giustamente che essi erano tutt’altra cosa dai gruppi folkloristici poiché erano lontani da “qualunque artificiosità spettacolare” e “portatori di una identità militante e partecipante alle vicende del presente”, ma erano anche visibilmente tutt’altra cosa dalla coralità spontanea nata nel contesto del lavoro di monda. A una prima generazione di cori sorti negli anni ’50 e ’60 ha fatto seguito l’esperienza di gruppi di mondine che ricominciavano a cantare insieme, in pubblico, a seguito dei lavori di ricerca e di
Otto ore di lavoro
• Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare e capirete la differenza di lavorare e di comandar
• Otto ore di lavoro
noi vogliamo solamente per quei poveri innocenti che rimangano a penar Evviva il socialismo che forti ci farà daremo il nostro sangue vogliamo la libertà I nostri padri ce l’hanno detto di inseguire i nostri diritti che nei cuori stanno scritti che noialtri li vogliam Casanova Elvo (VC), 29 giugno 1970, Giuseppe Costanzo
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tradizioni etnico-musicali rivitalizzazione della memoria e della cultura popolare che si sviluppano negli anni ’70. Una terza generazione di cori di mondine è sorta infine negli anni ’90, per effetto dell’azione di animazione sociale rivolta ad anziani. Nel tempo le esecuzioni dei cori di mondine si sono allontanate dai moduli esecutivi più tipici della risaia sia per effetto dell’età delle protagoniste sia per la distanza dall’originaria condizione di canto. Una diversità che si rivela anche nelle modalità di uso e di funzione della voce, nonché di tempo e di spazio rispetto alle esecuzioni che nascevano e si espandevano nei grandi spazi sonori, in paesaggi piatti e lucenti d’acqua, divisi da filari di pioppi, segnati da un sole cocente e da un alto tasso di umidità, quando le mondine lavoravano chine a piedi nudi nell’acqua a estirpare erbe che tagliano le dita, tra bisce e sanguisughe, tormentate da mosche, tafani e zanzare. Quello dei cori delle mondine è un canto che invece si leva in piazze, circoli, teatri, in un tempo celebrativo definito e circoscritto, a differenza di quello spontaneo che invade l’intera giornata di lavoro e che registra e traduce l’ambiguità tra la costrizione del lavoro e la libertà di essere altrove, lontani dalle censure e dalle regole della comunità contadina d’origine, in un insolito intreccio di fatica e di piacere, cantando la propria sorte e le proprie speranze per alleviare la fatica, passare il tempo, esprimere la propria femminilità, la propria emancipazione e autorappresentazione, per propagandare e cantare le proprie speranze. Entrambe queste forme tuttavia appartengono a una storia comune di grande interesse antropologico e di grande suggestione; entrambe appaiono specificatamente connotate ma definitivamente concluse.
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il riso
storia e arte Aspetti artistici Francesca Trecroci, Attilio Giacosa, Mariangela Rondanelli
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 1 (Lorelyn Medina) e 596 (Gennady Kravestky) sono dell’agenzia Dreamstime.com. Le foto alle pagine 104 e 105 sono di Renato Guttuso © Renato Guttuso by SIAE 2008.
storia e arte Aspetti artistici In Oriente il patrimonio culturale è imperniato su numerose tradizioni locali dove il rapporto uomo-natura risulta essere elemento ricorrente, inteso come un’integrazione dell’uomo nell’ambiente naturale. Il riso proprio in queste aree ha trovato espressione e spazio per un insediamento e una diffusione colturale e culturale divenendo, a tutt’oggi, emblema identificativo degli usi appartenenti al mondo orientale. Questo tipo di coltivazione anche nel nostro Paese ha avuto un aspetto interessante affermandosi nel tempo come identità storica e culturale territoriale. Le mondine hanno rappresentato, dagli inizi dell’Ottocento, un’immagine importante dal punto di vista socio-economico per l’Italia di quel periodo; il loro durissimo impegno che spesso le costringeva a trasferirsi per alcuni mesi verso le zone più a ovest della Pianura Padana, nel Vercellese, nel Novarese e nel Pavese, il loro particolare abbigliamento necessario per sopravvivere in situazioni di lavoro in alcuni casi precarie, le lotte e gli scioperi per rivendicare e ottenere condizioni lavorative eque hanno generato in pittori, poeti, registi, musicisti il bisogno e la volontà di riprodurre, ciascuno attraverso la propria arte, questo spaccato di verità. Il riso nel mondo non costituisce soltanto un alimento, “è società, cultura, politica, economia, bellezza del paesaggio e senso d’appartenenza, entra nella vita della gente come cibo quotidiano, entra nelle feste religiose e nei riti nuziali, nei quadri e nelle canzoni. Persino nelle nazioni ‘nuove’ al riso la coltivazione di questo pro-
Riso nell’arte e nella poesia
• “E, dono almo del Ciel, candido Riso,
/ solo fra tanti in mille e mille carmi / lodati semi non ancor descritto / cantar intendo; Te sopra ogni grano / tanto pregiato più dopo il Frumento, / quanto a ogni metal dopo il lucente / oro prevale il puro argento, quanto / a’ minor’ Astri dopo il Sol la Luna. / Quinci de’ tuoi Cultor qual esser reggia / la fatica, il saper, l’industria, e l’arte; / e in qual terra, e in qual acqua apprestar giovi / albergo al seme tuo; sotto quai segni / fidarlo al campo, e rimondar da l’erbe; / quando coglierlo poscia; in fine tutto / de la cultura tua l’ordine, e il modo / spiegherò a parte a parte…” Spolverini G., La coltivazione del riso, Anastatica dell’edizione di Verona, Carattoni, 1758
Oliviero Masi: Per i campi, 1988
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aspetti artistici dotto ha modificato i paesaggi, introdotto nuovi piatti e ha fornito ai contadini nuove fonti di reddito”. Le motivazioni e le osservazioni sopra esposte vengono perfettamente espresse attraverso il motto proposto dalla FAO: “il riso è vita”.
Anno Internazionale del Riso
• Il 2004 è stato designato l’Anno
Riso in pittura Immaginando un possibile collegamento tra la cultura del riso e le arti figurative, il pensiero e la memoria fotografica conducono all’Ottocento, epoca nella quale si afferma in Francia il Realismo, teso, appunto, alla rappresentazione della realtà nella sua complessità naturale e sociale. La volontà dei pittori realisti di cogliere l’oggettività avrà eco anche in Italia dove la pittura legata a tale movimento artistico verrà denominata “verista”. Il pittore livornese Giovanni Fattori (1825-1908) afferma nel 1903 che la pittura del Verismo italiano “porta lo studio accurato della società presente… mostra le piaghe da cui è afflitta”, dando così minore attenzione alla ricerca del colore e mettendo in maggiore evidenza il soggetto sociale. Uno dei pittori italiani che nella seconda metà dell’Ottocento attraverso i protagonisti dei suoi dipinti – gli umili, i lavoratori – racconta sulla tela i grandi temi esistenziali della vita umana è Pellizza da Volpedo. Nato nel 1868 a Volpedo, paese in provincia di Alessandria, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, incentra la propria attività su una ricerca verista. La società, la famiglia e la naturale configurazione del paesaggio che circonda il luogo d’origine giocheranno un ruolo fondamentale nella definizione di ciò che per lui è realtà, verità e quindi soggetto d’arte. In principio Pellizza predilige per le sue opere il genere figurativo, ponendo in secondo piano il paesaggio, ma nel 1888 frequentando come allievo l’Accademia di belle arti a Firenze conoscerà Giovanni Fattori, il quale gli consiglierà di compiere studi in campagna nel corso dei suoi soggiorni a Volpedo per cogliere l’emozioni visive e gli effetti di luce che solo il motivo dal vero suscita e trasmette. Negli anni successivi alla sua formazione in Accademia, il tema sociale diventa protagonista di una delle sue opere più note, Il quarto stato (1901). Pensato e studiato attraverso disegni e bozzetti per circa dieci anni, il quadro rappresenta uno sciopero come conseguenza della condizione di miseria in cui vertevano i lavoratori dell’epoca. Nasce come soggetto sociale anche l’ultima tela di Pellizza da Volpedo che in questa sede risulta per noi quella di maggior interesse: Membra stanche (1903-1906). L’opera illustra la dura vita dei lavoratori nelle risaie, spesso costretti a migrazioni stagionali: il paesaggio della profonda vallata del Curone sullo sfondo, illuminato da un sole prossimo a tramontare, ospita quattro figure sintetizzate (a causa dell’incompiutezza del quadro) ma visibilmente stanche e provate. L’intensità del colore, cioè la concentrazione cromatica rossa dei toni, si contrappone alle vette azzurre della catena montuosa all’orizzonte, accentuando il senso
Internazionale del Riso, su decisione della FAO (Food and Agriculture Organization). Le ragioni che hanno portato a tale nomina emergono nelle pagine del sito internet della FAO: “Quasi 3 miliardi di persone condividono la cultura, le tradizioni e le potenzialità del riso. Nei più remoti villaggi del Sud-Est asiatico, i contadini ancora definiscono un chicco di riso come un “chicco d’oro”. Nel moderno Giappone, la gente vede il riso come l’essenza della propria cultura. Lungo il fiume Senegal, nell’Africa occidentale, i contadini accolgono i loro ospiti con speciali piatti a base di riso”
Angelo Morbelli: In risaia (1901), Museum of Fine Arts, Boston
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storia e arte di profondità, ed è proprio in questa cornice naturale che si estende lo stato d’animo dei soggetti in primo piano, simboli del dolore, della vita, del lavoro e dell’amore. Ecco che cos’è per Pellizza l’arte, meglio esemplificata con l’espressione “arte per l’umanità”: secondo l’artista la condizione primaria è che l’idea venga compresa da tutti, altrimenti sarebbe privata del suo valore espressivo; il pittore sostiene che l’epoca in cui vive richieda un’arte pensosa, suggestiva e, sulla base dell’emozione e dell’impressione che desidera i suoi quadri trasmettano e generino a chi li osserva, Pellizza utilizza linee, forme e colori differenti. Il percorso creativo di Pellizza da Volpedo parte sempre da un’emozione prodotta dall’osservazione della realtà e lo stesso principio sembra essere anche alla base dell’attività artistica del contemporaneo e soprattutto amico Angelo Morbelli, il quale, attraverso il dipinto In risaia, ci regala un’immagine dettagliata dell’attività delle mondariso o mondine e del loro caratteristico abbigliamento. Nello specifico la rappresentazione di Morbelli è un vero e proprio fermo immagine su una delle attività fondamentali svolte in risaia denominata fase di monda che consisteva nell’estirpare le piante infestanti che soffocavano altrimenti la crescita normale del riso, compito alquanto difficile e delicato determinato dal fatto che le erbe infestanti potevano confondersi con le piantine di riso, a volte
Illustrazione di Renato Guttuso per Riso amaro
Pellizza da Volpedo: Membra stanche (1906), collezione privata
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aspetti artistici simili tra loro. Le donne si presentano curve su loro stesse, una a fianco dell’altra, con le mani e i piedi immersi nell’acqua; vestivano con abiti che consentivano loro di rimanere libere nei movimenti, ma nello stesso tempo che proteggevano il corpo dal sole e dalle punture degli insetti. Le mondine portavano gonne corte oppure lunghe e quindi, perché non si bagnassero, venivano rimboccate attorno alla vita creando un caratteristico rigonfiamento; scalze e con un fazzoletto in testa per proteggere il capo dal caldo sole dei mesi di giugno e luglio (periodo nel quale generalmente si effettua la monda), fin dalle primissime ore del mattino immergevano le loro gambe e le loro mani nella risaia. Un altro prestigioso uomo del panorama artistico italiano della seconda metà del Novecento sarà il pittore Renato Guttuso. Nato a Bagheria nel 1911 Guttuso si avvicinerà giovanissimo al mondo della pittura, e la sua naturale predisposizione per l’arte lo porterà nel corso degli anni a spostarsi dalla sua Sicilia verso città come Milano, Roma, e soprattutto quest’ultima eserciterà su di lui un grande fascino. La frequentazione di tali ambienti permetterà all’artista di conoscere illustri personaggi dell’arte, della letteratura e della poesia, della politica, del cinema: per citarne solo alcuni ricordiamo Pablo Picasso, Pablo Neruda, Elsa Morante e il regista Giuseppe De Santis. La conoscenza di De Santis porterà Guttuso a collaborare con lo stesso regista proprio in occasione della celebre produzione di Riso amaro, infatti nel 1948 eseguirà una serie di disegni e raffigurazioni per la brochure del film. Le mondine non potevano che essere un tema per nessun altro pittore che non fosse Guttuso: il loro rapporto con il lavoro, la carica di sensualità che emanavano in tutti i loro atteggiamenti, i loro sguardi e i loro comportamenti, erano tutte componenti di un
Dipingere per Renato Guttuso
• “… Ma il valore di un’opera d’arte
sta nella sua espressività ed è bene ripeterlo quando c’è in giro tanta disposizione a dimenticarlo… Perché un’opera sia viva, bisogna che l’uomo che la produce sia in collera ed esprima la sua collera nel modo che più si confà a quell’uomo. Un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata. Intendo dire che non è necessario per un pittore essere di un partito o d’un altro, o fare una guerra, o fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione. Come chi muore, insomma, per qualche cosa”
Renato Guttuso: Scene di vita agricola: le mondine (1953), collezione privata
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storia e arte universo femminile e umano che appartenevano solo al modo di fare pittura di Guttuso. L’artista siciliano sostiene che dipingere significa essere ispirati da ciò che si vede, si scopre e si pensa. Guttuso si mostra molto interessato al lavoro dell’uomo in campagna, alla fatica che l’attività richiede, alle ribellioni dovute alle ingiuste condizioni di sfruttamento cui le donne e gli uomini erano sottoposti, tutte osservazioni e pensieri che emergono evidenti nel quadro Scene di vita agricola: le mondine. La grande espressività trasmessa dal dipinto rientra nella fase della pittura realista di Guttuso. L’esigenza di dipingere aspetti della vita quotidiana e tematiche sociali d’accusa è la conseguenza della politica di soppressione negli anni della guerra.
Arte e alimentazione
• L’arte italiana e internazionale è ricca
di dipinti, disegni, rappresentazioni che riproducono prodotti alimentari, a testimonianza di quanto sia importante la cultura alimentare nella vita dell’uomo
• È sufficiente consultare Internet per
riportare alla luce anni di storia e di tradizioni (spaziando dalla pittura al cinema, passando per la fotografia sino ad arrivare alla cucina), che spesso è difficile recuperare attraverso i libri, magari perché antichi, in tirature ridotte, e quindi non disponibili nelle biblioteche della propria città
Arte in cucina Pieter Bruegel, maestro fiammingo del Cinquecento, nella fase iniziale della sua vita artistica si esprimerà soprattutto attraverso l’incisione. Purtroppo le scarse notizie documentarie non ci permettono di affermare con sicurezza l’anno di nascita dell’artista, così come la sua formazione; la prima data certa è il 1551, anno in cui Bruegel risulta iscritto come libero maestro nei registri della gilda di San Luca ad Anversa. Uno dei suoi quadri più celebri è La torre di Babele, soggetto tratto dall’omonimo episodio biblico e considerato anche, secondo la cultura fiamminga, simbolo della superbia e della follia dell’uomo che aveva osato sfidare la grandezza di Dio. L’opera racchiude in sé un messaggio di riflessione sulla vita e sulla storia, significato che il pittore sembra voler trasmettere anche con altre grandi opere: i Proverbi fiamminghi (1559) e
Oliviero Masi: Risaia allagata, 1988
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aspetti artistici il Combattimento fra Carnevale e Quaresima (1559). Nel primo quadro (ispirato a uno scritto del 1550 di Erasmo da Rotterdam, gli Adagia, contenente numerosi esempi che descrivono lo scarso equilibrio umano tra saggezza e follia), Bruegel ha avuto la capacità di inserire all’interno di un’unica scena circa centoventi proverbi o modi di dire, prodotti della saggezza popolare. Nel secondo dipinto contrappone il personaggio di Carnevale, raffigurato grasso mentre cavalca una botte sulla quale c’è infilzato un prosciutto tenuto da un coltello, alla figura che impersonifica la Quaresima, magrissima con un’arnia sulla testa, in quanto il miele era un tipico cibo quaresimale, e con la croce di cenere sulla fronte. Una pittura dunque ricca di simbologia a testimonianza di come Pieter Bruegel fosse particolarmente attratto e ispirato dal mondo contadino e popolare. Tale interesse viene avvalorato dal quadro intitolato Banchetto nuziale, festa di nozze alla quale Bruegel è presente e individuato, secondo la tradizione, nell’uomo posto sulla destra del dipinto nell’atto di confessarsi a un frate. Il quadro in oggetto, come del resto buona parte delle rappresentazioni di Bruegel, è affollato di personaggi e di azioni rivolte principalmente alla celebrazione del cibo. Il riso, per diversi anni utilizzato in svariate ricette, dai primi piatti passando per i secondi e sino ad arrivare ai dolci, è una materia prima che rende possibile la preparazione di diversi alimenti e bevande, e tale tendenza sembra oggi non solo rinascere ma crescere. Un semplice vocabolario della lingua italiana alla definizione di arte cita: “qualsiasi forma di attività dell’uomo in quanto riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”.
Banchetto nuziale
• Nell’opera le due figure poste in primo
piano sulla destra si stanno occupando di servire una pietanza conosciuta e apprezzata: la polenta, piatto caratteristico della cucina povera del passato e tipico dell’Italia settentrionale. La polenta appare nella classica e maggiormente nota versione gialla (fatta con farina di mais) e bianca, realizzata probabilmente con la farina di riso
• La presenza di un piatto a base di
farina di riso, all’interno di un dipinto del Cinquecento realizzato da un artista del Nord Europa, è curioso soprattutto se si considera che nel 1567, al mercato di Anversa, il riso veniva utilizzato come moneta di scambio. Emerge quindi il collegamento tra l’antica cultura alimentare orientale e quella occidentale
Pieter Bruegel: Banchetto nuziale (1568), Kunsthistorisches Museum, Vienna
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il riso
storia e arte Riso nella letteratura Giuseppina Baldissone
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storia e arte Riso nella letteratura Foto R. Angelini
Una storia antica Le civiltà del Sud-Est asiatico furono, fin dal terzo millennio a.C., “civiltà del riso”: non solo affrontarono e risolsero col riso il problema della fame, ma i loro miti sono ancora oggi miti agrari legati a quel tipo di civiltà. Stesso destino quando il riso passò in India, poi in Asia Minore, infine, scoperto dalle truppe greco-macedoni di Alessandro Magno, rimase a “germogliare” quasi in sordina sulle sponde del Mediterraneo, fino al Medioevo, quando nel IX secolo circa si acclimatò, per opera degli Arabi, in Egitto, sulle coste africane, poi in Sicilia e in Spagna. In queste due zone divenne ben presto un prodotto familiare, gastronomico, usato soprattutto sotto forma di farina per dolci e creme, come il “biancomangiare”, presente in tutti i ricettari dal XIV al XV secolo, quando iniziò a diffondersi nell’Italia del centronord e in altre zone europee: significativo il fatto che il riso allo zafferano appartenga simultaneamente ai ricettari dei Paesi Bassi e a quelli del Milanese, anche se nei grandi trattati gastronomici italiani questo cereale non abbonda, essendo soprattutto considerato, fino all’Ottocento, un cibo adatto a sfamare i poveri. Nel 1489 Ludovico il Moro emanò la prima ordinanza per disciplinare la nuova coltura, che destava forti perplessità igieniche, dato che, contrariamente agli Arabi, le popolazioni italiane adottavano il metodo dell’allagamento dei campi per la crescita delle pian-
Covoni di riso nel Guangxi, Cina
Vista dei complessi terrazzamenti per la coltivazione
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riso nella letteratura tine. Nelle zone intorno a Milano, soprattutto a Vercelli, Novara e Pavia, la nuova coltura dilagò rapidamente. Leonardo, quando lasciò Firenze per Milano, offrendo il suo ingegno al Moro con la qualifica di “esperto nel conducere acqua da un locho a l’altro”, fu colpito dalle acque della Lomellina e dal sistema irriguo delle campagne intorno a Vigevano. In questa città disegnò una delle più belle piazze italiane, poi terminata dal Bramante. I canali e le chiuse, in particolare, furono studiati da Leonardo e descritti nel Codice Leicester. Paesaggio letterario Il riso e la risaia hanno nella letteratura italiana un’identificazione soprattutto paesaggistica, che descrive un’estesa, sottile lastra d’acqua, rigata in modo geometrico da minute “corde” di terra: come un quadro di Klee o un’aeropoesia futurista. Si tratta di un’immagine ricorrente ma effimera: la risaia allagata, “terra d’acqua”, ha una durata stagionale di due mesi o poco più, dalla semina alla crescita della pianticella, che poi nasconderà con folte spighe e lunghe foglie lanceolate l’acqua stagnante sulle radici. È la terra di cui Paolo Diacono, nella sua Historia Langobardorum, racconta che, durante una delle famose grandi piogge con alluvioni devastanti, “Sesia e Ticino andarono insieme!”. Qui le cascine e i silos per il deposito del riso non si fanno quasi notare, e se si cerca nella memoria letteraria italiana un edificio “emergente” si deve andare nel Nord-Est: è la Risiera di San Sabba, alla periferia di Trieste, nata ai primi del Novecento per la pilatura del riso. Ma l’immagine dell’enorme edificio, che dal 1943 divenne l’unico campo di concentramento nazista in Italia, si staglia come qualcosa di sinistramente eccezionale, vagante solo in certi racconti di Fulvio Tomizza. La forma liquida e specchiante della risaia vercellese, novarese, lomellina, ma anche di quella cinese e vietnamita, del delta dell’Ebro o della Camargue, perdura nella memoria di chi vi è passato in macchina, in treno, in aereo o, semplicemente, l’ha vista al cinema con Riso amaro di Giuseppe De Santis o in televisione col Viaggio nella valle del Po di Mario Soldati. Eppure, là dove il riso cresce in asciutta, come in alcune nostre regioni (Sardegna), in Brasile e in genere nell’America Latina, ma anche negli Stati Uniti, la risaia non si distingue per una spiccata immagine paesaggistico-letteraria, ma economica. Fra le zone europee produttrici di riso, la risaia vercellese è forse la più riconosciuta, anche grazie al cinema: “A Vercelli le spighe di riso si esibiscono come i fiori a Sanremo”. Perfino Torquato Tasso, nel più famoso dei suoi Dialoghi, Il padre di famiglia, del 1580, caratterizzato dalla furia delle acque della Sesia in piena (al punto che “il passatore non voleva dispiccarsi dall’altra riva e aveva negato di tragittare”) descrive il Vercellese come una sorta di “isola” di confine, avvolta dal suo fiume.
Riproduzione dal Codice Leicester di Leonardo (Ed. Interlinea)
Canali e chiuse secondo Leonardo
• “Scala di Vigevine sotto la Sforzesca,
di 130 scaglioni, alti un quarto e larghi mezzo braccio, per la quale cade l’acqua e non consuma niente nell’ultima percussione, e per tale scala è disceso tanto terreno, che ha secco una palude, cioè riempiuto; e se n’è fatto praterie, di paludi di gran profondità” (Codice Leicester)
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storia e arte Anche Michel de Montaigne, negli stessi anni, dipinge queste terre nel suo Journal de voyage en Italie venimmo a dormire a Novarra...città piccola, e poco piacevole, posta in un piano. Intorno d’essa vigne, e boschetti, e terreno fertile. Di là partimmo la mattina, e venimmo a stare un pezzo, per far mangiar le bestie, a Vercel, [...] città del duca di Savoia ancora essa in piano, e lungo della Zesa fiume, il quale varcammo in barca.
Acqua di risaia
• Sulle acque stagnanti e sulle
responsabilità civili ed etiche di certe scelte, si sofferma il Parini, ampliando il suo sguardo verso tutta la fascia pianeggiante, la Lomellina, che da Milano comprende marcite e risaie in vasta estensione di luoghi e di colture
Montaigne osserva ancora che a Vercelli il Savoia ha fatto edificare “una fortezza bellina”, e continua “seguendo un bel piano, fertile massimamente di noci”: segno che quel paesaggio era ancora variamente ornato da una vegetazione multiforme. Da Vercelli nel 1762 passa anche Carlo Goldoni, che riesce a trovarvi confortevole rifugio e dedica una commedia all’Osteria della Posta. Minimizza il problema delle acque infide Alessandro Verri, che scrive da Novara al fratello Pietro, l’8 ottobre 1766:
“Pèra colui che primo a le triste oziose acque e al fetido limo la mia cittade espose; e per lucro ebbe a vile la salute civile”
Or ora abbiamo fatto un giro in questa Città...se le fisionomie non ci tradiscono, questa colonia dell’Asia, come vorrebbe il P. Ferrario, è ancor più stupida di codesta nostra metropoli. Le acque pericolose che si dicevano doversi da noi passare non arrivano a mezza gamba di un uomo.
(La salubrità dell’aria, vv. 25-30)
Sono acque più spesso inquietanti che idilliache, quelle che la letteratura di risaia presenta: acque malsane, al contatto con le quali ci si ammala di febbri malariche o si può essere punti e morsi dai numerosi insetti e rettili che vi si aggirano, per non parlare delle zanzare, le cui larve sono deposte e si schiudono proprio nell’umidità della risaia. Solo l’ottimismo illuministico di Thomas Jefferson, nel 1787, può dargli il coraggio necessario a introdurre la coltivazione del riso negli Stati Uniti, a qualunque costo: “Poggio, un mulattiere che va ogni settimana da Vercelli a Genova, contrabbanderà un sacco di riso grezzo per me fino a Genova, poiché esportarlo in quella forma comporta la pena di morte”. Nel suo viaggio verso Milano, dopo aver lasciato Vercelli, nota la bizzarria del tempo:
Foto R. Angelini
Nelle notti 20 e 21 (aprile), gli stagni di riso sono gelati per un pollice e mezzo (...) Qui cinque anni fa c’è stata una grandinata con chicchi grandi abbastanza per uccidere gatti e le risaie non possono trovarsi a meno di 5 miglia dalle città.
Le acque di risaia sono anche a loro modo attive nella storia: nel corso della battaglia di Palestro, durante la II Guerra d’Indipendenza (1859), la sorpresa del loro flusso direzionabile contribuisce in modo decisivo al buon esito dei combattimenti, come è narrato in forma epica e un po’ enfatica nel romanzo di Salvator Gotta, Addio, Vecchio Piemonte!: Il 30 maggio, era un Lunedì e pioveva con intensità e insistenza, come d’autunno [...] Su quei terreni messi a risaia, le truppe
Risaie in Lomellina
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riso nella letteratura sono costrette a tenersi sulle strade, simili ad argini; sicché male vi si possono spiegare in caso d’assalto [...] I bersaglieri si avventarono a capo chino, le baionette inastate, a stormi, di corsa, in quel “fossato della morte”, in pochi minuti riempito di cadaveri e di feriti fino agli orli, carnaio bagnato dall’acqua rossa di sangue [...] gli Austriaci non volevano cedere terreno [...] Ma nel giorno seguente le divisioni francesi potevano entrare senza contrasto in Novara.
In realtà, il dilagare delle acque nella Pianura Padana, a causa delle scelte politico-economiche, è progressivo e devastante, nonostante i tentativi di tutelare con una legislazione le fasce che circondano le aree urbane, la risaia avanza fin nelle città, distruggendo a poco a poco tutta la vegetazione preesistente: gelsi, salici, platani, ontani a poco a poco sono abbattuti, così come i boschi di pioppi e di querce, per fare sempre più spazio alla monocultura. Così il paesaggio, dal Seicento in avanti, ma soprattutto dal secondo dopoguerra del Novecento, è a poco a poco spianato: è lo sfondo dei poemi e dei dipinti di Giorgio Sambonet, dei romanzi di Dante Graziosi e dei versi di Giuseppe Deabate, in cui l’idillio non disdegna un’occhiata alla fatica, che di quel paesaggio è parte inscindibile, mentre decisamente drammatico è
Giorgio Sambonet: Sogno di terra d’acqua, Università del Piemonte orientale, Dipartimento di studi umanistici, Vercelli Giorgio Sambonet: La nucleare, Museo Camillo Leone, Vercelli
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storia e arte lo sguardo della protagonista, Nanna, nel romanzo In risaia, della Marchesa Colombi: Alle quattro, quando uscì dall’acqua dopo tante ore di quella fatica, non poteva reggere al riflesso abbagliante del vasto piano bianco dardeggiato dal sole. Al lungo guardare nell’acqua, lucente come uno specchio, gli occhi erano spossati e non resistevano più alla luce, dovunque li volgesse vedeva una palla azzurra fluttuarle dinanzi.
L’immagine è ripresa da Eugenio Barisoni: “La risaia sotto il sole è un affogatoio e vapora su dalle morte acque fiatate di calore e lezzo di limo che chiudono la gola”. La scomparsa dei boschi ha lasciato tracce letterarie: troviamo nel romanzo di Sergio Givone, Favola delle cose ultime, il racconto in forma epica dell’immane distruzione boschiva subita dalla pianura vercellese: i due giganti gemelli, Lun e Laut, distruggono un intero bosco di querce, poi Lun spezza il collo a Laut per rubargli sette monete d’oro, e lo getta in un dirupo: L’indomani al primo sole sono già sul posto [...] incidono un taglio ad angolo nella direzione prevista. È come se sapessero esattamente quando e dove cadrà: si allontanano al momento giusto, appena prima che inizi a scricchiolare. Restano alcuni minuti a contemplarne la morte. [...] Poi lo attaccano con le seghe. Prima i rami spezzati, poi gli altri, via via fino al tronco. Ultimo il ceppo.
Copertina del libro della Marchesa Colombi, In risaia (Ed. Interlinea)
L’esito contemporaneo è un’alterazione del paesaggio, tale da annullare il senso stesso del limite: quello che Jacques Brel cantava come Le plat pays, “Avec des cathédrales pour uniques montagnes / Et de noirs clochers comme mats de cocagne” si adatta molto bene anche alla “bassa landa” in cui si è trasformata la pianura. A perdita d’occhio il cielo e il suo specchio risarolo si identificano, l’assenza si moltiplica in un infinito della vista, che basta a se stessa senza creare altro. Il vero limite è quello lontano, delle Alpi: un baluardo e un confine, più che una “siepe” accanto a cui sedere e “mirare”; sarà anche per questo che in queste zone la letteratura è, tutto sommato, povera, mentre la pittura ha saputo creare i suoi tesori. È curioso osservare che nel mondo, ovunque ci sia risaia, la terra appare come una terra d’acqua e la pianura una distesa senza confini: perfino in Camargue, come osserva lo scrittore Michel Tournier: Il salice e l’ontano crescono presso acque dalla natura diametralmente opposta. L’ontano è l’albero delle acque stagnanti e cupe. È l’unica silhouette verticale che popola le piane brumose del nord. [...] Contrariamente all’ontano, il salice costeggia i limpidi fiumi. È l’albero delle acque correnti e chiacchierine.
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riso nella letteratura Sorprendente può essere la descrizione di una risaia in quella che si chiamava Indocina, la cui esistenza stessa deve essere difesa dalla furia dell’oceano, mediante la costruzione di una diga, è il titanico e disperato tentativo di una madre dura e ostinata, descritto da Marguerite Duras in uno dei suoi romanzi più significativi:
Risaie secondo James Joyce
• “Una risaia vicino a Vercelli,
sotto una cremosa foschia estiva. Le falde spioventi del cappello ombreggiano il suo sorriso falso. Ombre rigano il suo volto falsamente sorridente, percosso dalla calda luce cremosa: ombre grigie color siero sotto le ossa della mascella, strisce di un giallo tuorlo d’uovo sul ciglio inumidito, umore giallo rancido nella polpa morbida degli occhi.”
Costruito che fu il villaggio, la madre vi sistemò tre famiglie, diede loro riso, barche e di che vivere fino al raccolto delle terre bonificate. Il momento propizio alla costruzione della diga arrivò [...] Era venuta la stagione delle piogge. La madre aveva abbondantemente seminato vicino al bungalow. Gli stessi uomini che avevano costruito la diga erano venuti a trapiantare il riso nel grande quadrilatero chiuso dalle diramazioni degli sbarramenti. Due mesi erano passati. La madre scendeva sovente per veder crescere le piantine, che diventavano via via più verdi e alte fino alla grande marea di luglio. Poi, in luglio, il mare era salito come sempre all’assalto della piana. Gli sbarramenti non erano abbastanza potenti, erano stati corrosi dai granchi nani delle risaie. In una notte, sprofondarono.
Figure Il lavoro e il paesaggio di risaia sono popolati di figure che li caratterizzano fino alla prima metà del Novecento; almeno quattro appaiono significative dal punto di vista letterario: la mondina, il camminante, il brigante, il cacciatore. La prima delle quattro Risaie nel Vercellese
Foto R. Angelini
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storia e arte è quella più soggetta agli stereotipi, la più nota e malintesa. La nomination agli “Oscar” nel 1949 per il film di De Santis, Riso amaro, la bellezza di Silvana Mangano, l’interesse per il cast da parte di Cesare Pavese (innamorato di Constance Dowling), la presenza di grandi attori (Vittorio Gassman), la riscrittura romanzesca di Davide Laiolo hanno attirato l’attenzione su questa figura un po’ divistica di mondina, protagonista seducente e tragica di una vicenda popolare assai ricca di effetti, nonostante i tagli operati dalla censura. La tipicità di queste situazioni si riscontra in larga misura nelle arti figurative, nei quadri di Morbelli, Gazzone, Raviglione, nei disegni di Guttuso, nelle fotografie di Tarchetti e nelle immagini cinematografiche successive a De Santis: La pattuglia sperduta di Piero Nelli (1954), La risaia di Raffaello Matarazzo (1956), Ercole e la regina di Lidia di Pietro Francisci (1958), Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961). Una figura eroica, esemplare dello sfruttamento femminile in risaia, è rappresentata dalla protagonista del romanzo La casa senza lampada, di Maria Giusta Catella. I risaroli e le mondine sono stati gli “strumenti” che fino a trentaquarant’anni fa hanno contribuito in modo decisivo al lavoro in risaia, come scrive Sebastiano Vassalli:
Mondine nella letteratura
• “Esse mi parvero stanche, specie le più
piccole, ma non esauste. I capelli, talora biondastri, se li ravviavano con una carezza della mano e buttando il capo all’indietro, con un lungo respiro: c’era un brùscolo dentro, o fili di erba, come un segno della terra da cui venivano, su cui campavano. Chinai la faccia, anche per sfuggire la potente e inconscia allusione della femminilità: vidi i loro piedi larghi, dai diti aperti, che parevano ignorare la calzatura, quasi come zampe terrose. Brùscoli vi erano appiccicati: e segnato, ai polpacci, il livello della melma.”
In pratica, la tratta dei “risaroli” continuò fino all’occupazione napoleonica, e all’Ottocento: quando l’evolversi parallelo del profitto e della pubblica morale nei paesi cattolici permise che si utilizzassero le donne ovunque ci fosse la possibilità di rimpiazzare la mano d’opera maschile nei lavori più infami e male pagati. Soltanto allora, ai ‘risaroli’, subentrarono le cosiddette ‘mondariso’, o ‘mondine’.
(Carlo Emilio Gadda)
• “Mondine, foto di gruppo, 1940. Le più vecchie, la fronte devastata dalle rughe e i capelli bianchi ormai senza forza, erano sedute per terra, le piante dei piedi all’insù, scure e spesse come suole di scarpe. Al centro le donne di mezza età, con l’aria di chi non si aspetta più niente dalla vita. In alto le giovani, facce da incoscienti. Tra di loro un uomo con un bastone in mano impugnato come un frustino, l’espressione di chi vuole distinguersi.”
Le gride emanate dalle autorità per alleviare le sofferenze di uomini e donne addetti al lavoro in risaia furono numerose quanto quelle manzoniane per vietare ai signori l’uso dei “bravi”, e simile ne fu in genere anche l’inefficacia. A rendere quel
(Laura Bosio)
Angelo Morbelli: Per ottanta centesimi! (1895), Fondazione Museo Francesco Borgogna, Vercelli
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riso nella letteratura riso meno amaro arrivò nel 1906 un unico grande successo: la conquista delle otto ore di lavoro, avvenuta proprio grazie agli scioperi a oltranza delle mondine del Vercellese, unite nella Lega dei Lavoratori. Della figura del camminante parlano invece quasi tutti i narratori novaresi, in primo luogo Eugenio Barisoni e Dante Graziosi. Si tratta di una variante padana della figura del vagabondo, nomade solitario, un po’ brigante e un po’ poeta, o meglio, o anche, novellatore e cantastorie. Dei vagabondi padani e italici in genere si sono occupati anche studiosi di letteratura e nouvelle histoire, interessati alla circolazione orale delle novelle: un esempio recente può essere quello di Gianni Celati. Anche i briganti popolano, sia pure in modo non peculiare, le terre di risaia, spesso confondendo i loro contorni con quelli dei camminanti, talora assurgendo alla fama popolare per le loro gesta comunque generose. Anche questi sono personaggi contemplati dalla letteratura occidentale in varie tipologie: non c’è storia antica o mito in cui non si parli del “divino monello”, di una sorta di dio birichino, estroso, un po’ briccone, che non si lascia inquadrare nell’immagine ordinata ed equa di una società governata dal logos. Nella piana vercellese e novarese, per esempio, si narrano le gesta del Biundìn, bellissimo brigante dal cuore buono, capace di galanterie, spavalderie e ingenuità, fino al punto da lasciarci la pelle, incidendo per sempre il ricordo della sua morte nella fantasia e nella tradizione popolare. Ne troviamo le gesta un po’ ovunque, dai romanzi di Givone a quelli di Graziosi, fino alla moltitudine di pubblicazioni locali che ne ricostruiscono storia e leggenda. Ma colui che conosce tutti, perché tutti incontra e interroga, e nello stesso tempo ignora, è il cacciatore. La caccia ha da sempre una forte valenza simbolica: da una parte l’uccisione dell’animale corrisponde all’eliminazione delle pulsioni primitive nefaste (si pensi al Minotauro), dall’altra, la ricerca della selvaggina rappresenta l’inseguimento della traccia, del segno, una ricerca spirituale, riconoscibile perfino nei graffiti delle grotte di Lascaux e di Altamira. Lo scrittore che ha fatto della caccia la sostanza della propria scrittura è Eugenio Barisoni, che nella sua prima raccolta di racconti, Cacciatore si nasce, individua le caratteristiche del personaggio: La maggior parte delle volte [...] è questione di attitudine, voglio dire un insieme di qualità che fanno il cacciatore eletto, e che è tanto difficile trovare riunite nello stesso individuo. Prima di tutto la grande e vera passione, la quale è il motore che muove e sostiene il fisico, pure nei momenti di spossatezza e di scoramento. Poi la gagliardia del corpo, apparecchiato e indurito dalla disciplina alle fatiche più gravi, ai disagi e alle inclemenze e stravaganze del tempo. La conoscenza profonda della selvaggina e delle sue abitudini, e, soprattutto, del terreno di caccia. Infine, la perizia nel tirare, per cui uno, sentendosi sicuro, cerca tutte le occasioni di sparare anche ai selvatici più difficili.
Mare di risaia, p. 42 (in alto) e p. 49 (in basso) del libro di Vassalli Il mio Piemonte (Ed. Interlinea)
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storia e arte Cibo letterario La letteratura, in ogni parte del mondo, è comunque ricca soprattutto di riso sotto forma di cibo. Nel Sior Todero brontolon (I, 5), Carlo Goldoni fa del tempo di cottura una diatriba socio-culturale tra servo e padrone. È probabile che le diverse abitudini geografiche di cottura dipendano dai diversi processi di lavorazione: brillato o integrale, è diversamente resistente. Qualche volta si presentano invece diverse interpretazioni della stessa ricetta e le varianti, perfino nelle definizioni, possono rappresentare bonarie polemiche regionali: è il caso di De Roberto e di Camilleri. Il primo, nei Vicerè, presenta come una leccornìa dei monaci Benedettini “le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone”. Gli arancini di Montalbano, di Camilleri, sono presentati nella novella omonima con tanto di ricetta, eseguita da Adelina, la serva fedele del commissario. Del risotto si spargono i profumi in vari romanzi: memorabile quello ai tartufi di Antonio Fogazzaro in Piccolo mondo antico, che inonda e movimenta il dialogo per un intero capitolo: I tre salirono al portico col quale la villetta Maironi cavalca, da ponente, la via dell’approdo alla chiesa parrocchiale di Cressogno. Il curato e Pasotti fiutavano, tra un sospiro di dolcezza e l’altro, certo indistinto odore caldo che vaporava dal vestibolo aperto della villa. “Ehi, risotto, risotto” sussurrò il prete con un lume di cupidigia in faccia. Pasotti, naso fine, scosse il capo aggrottando le ciglia, con manifesto disprezzo di quell’altro naso. “Risotto no” diss’egli. “Come, risotto no?” esclamò il prete, piccato. “Risotto sì. Risotto ai tartufi; non sente?”
Copertina del libro di Andrea Camilleri, Gli arancini di Montalbano (Mondadori)
Foto R. Angelini
Copertina da Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico (Gulliver) Risone in essiccazione all’aperto, Cina
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riso nella letteratura La minestra di riso, invece, non è gradita in collegio, dove in genere ha aspetto e gusto di scipita routine. Gian Burrasca, per esempio, preferisce la pappa col pomodoro: 6 febbraio Prima di tutto una lieta notizia: i convittori del collegio Pierpaoli non mangeranno più minestra di riso per un pezzo! [...] Il magazzino era fiocamente illuminato dal chiarore che veniva da un finestrino aperto sulla parete di faccia alla porta, in alto; e a quella luce incerta vedemmo da un lato una fila di balle aperte, con della roba bianca. [...] Vi misi le mani. Era il riso, quell’odiato riso che nel collegio Pierpaoli ci era servito a tutti i pasti, tutti i giorni, meno il Venerdì e la Domenica.
Fabio Tombari, invece, caratterizza il dì di festa nella famiglia dei nonni con il “riso coi fegatini”, che peraltro piace anche a Marinetti e a Bassani, che nel Giardino dei Finzi-Contini racconta la sua prima cena nella magna domus, nella stanza in stile floreale, con un menu che si apre con “una minestra di riso in brodo e fegatini”. Notissimo il risotto dell’Adalgisa, di Gadda, che nelle Meraviglie d’Italia fornisce anche la ricetta. Né mancano i contemporanei più recenti, da Del Giudice a Nuvoletti, a Scarpa. Nell’ultimo libro d’artista di Giorgio Sambonet, Il pittore in cucina, inconsueto ricettario-catalogo di una serie monografica di oli, figurano molti risotti, illustrati quasi in parodia delle grandi riviste di cucina, tipo “Grand Gourmet” o “Elle”, di cui Roland Barthes diceva che si trattava di cibo da vedere, con ricette ineseguibili ma molto fotogeniche. La presenza del risotto nelle forme più raffinate, come quello alla violetta, alle ortiche o alle fragole in alcuni ricettari pubblicati di recente, anche sui quotidiani, testimonia di una ripresa culturale del riso, cibo non fortunato nelle descrizioni d’ambiente, perché
Copertina del libro di Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca (Feltrinelli)
Spigatura
Foto R. Angelini
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storia e arte spesso legato alle immagini della miseria, dello squallore, delle situazioni in cui non abbonda la gioia di vivere. Il collegio, la casa contadina, le strade dell’India e della Cina sono gli sfondi che ricorrono in tante storie, in cui i personaggi sono descritti nell’atto di mangiare del riso. Ma oggi paella e riso di mare si trovano ormai come piatti sfiziosi ed eleganti sulla tavola dei buongustai più raffinati della letteratura: si pensi ai romanzi di Montalbàn, a cui il commissario Montalbano di Camilleri rifà bonariamente il verso, condividendone i gusti gastronomici, oppure ad Amado, con O livro de cozinha de Jorge Amado, o a Isabel Allende, che dedica al riso al latte, come si usa nei Paesi latino-americani, una sottile e importante attenzione nei suoi Afrodita: Una notte del gennaio 1996 sognai di tuffarmi in una piscina colma di riso al latte [...] in cui nuotavo con la grazia di un delfino. È il mio dolce preferito – il riso al latte, non il delfino – tanto che nel 1991, in un ristorante di Madrid, ne ordinai quattro porzioni e poi una quinta, come dessert.
Va detto, comunque, che nessuno scrittore ha attribuito al riso l’importanza che gli hanno dato Marinetti e il Futurismo. Il 28 dicembre 1930, nella “Gazzetta del Popolo” di Torino, appare il Manifesto della cucina futurista, firmato da Marinetti e Fillìa, che si pronuncia vigorosamente “contro la pastasciutta”, con un ragionamento alla Feuerbach: “Pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”. Marinetti proclama l’abolizione della pastasciutta, come “assurda religione gastronomica italiana”, come qualcosa che, “a differenza del pane e del riso” non si mastica ma si ingozza, perciò indebolisce il corpo e la men-
Copertina del libro di Isabel Allende, Afrodita (Feltrinelli)
Foto R. Angelini
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riso nella letteratura te, impegnandoli in assurde fatiche digestive. Nel Manifesto sono proposte ricette futuriste a base di riso. A Torino, l’8 marzo 1931, è inaugurata la Taverna Santopalato, che nella “Lista del primo pranzo futurista” annuncia al punto 3 il “Tuttoriso, con vino e birra” secondo la formula di Fillìa. Non mancheranno in seguito il Risotto all’arancio, la Minestra di riso (che, guarda caso, è un riso coi fegatini, di antica tradizione, con qualche variante: riso, fegatini e fagioli in brodo di quaglie), il Riso di Erodiade, il Risotto Trinacria, il Risoverde. Va precisato che negli anni seguenti si tratterà sempre più di una scelta politica e ideologica: dopo le sanzioni comminate all’Italia nell’ottobre del 1935, l’entusiasmo per l’industrialismo da parte dei futuristi si trasforma in naturismo, appassionata esaltazione della campagna e dell’agricoltura per necessità di autarchia. La mostra naturista di Torino (ottobre 1935), organizzata allo scopo di glorificare le forze naturali della terra piemontese, invita gli italiani a limitare il consumo di carne a favore di un’alimentazione vegetale e un’intera sala dell’esposizione è dedicata al riso italiano. La scelta del riso ha comunque, per i futuristi, anche un valore estetico e rappresenta, nel doppio significato, tutto ciò che si oppone al pianto e alla malinconia. In questo, la predilezione futurista si congiunge alla lunga tradizione terapeutico-culinaria che lo considera alimento benefico sia per il piacere sia per la salute. Favorevoli all’uso del riso nella grande cuisine saranno poi tutti i maestri classici dell’arte culinaria, da Brillat-Savarin all’Artusi, ma anche gli innovatori della nouvelle cuisine, da Gault e Millau fino a Beaucuse e Adrià, pronti a entrare, tutti quanti, nella letteratura, che sempre più spesso si sofferma sul cibo, sui gusti e sui profumi di cui si deliziano i personaggi dei romanzi e dei racconti.
Le stagioni dell’acqua
• “Per tanti anni le risaie per me erano
state solo uno sfondo, anzi una cornice allarmante, con quella confusione degli elementi, terra cielo acqua mescolati in un solo orizzonte, il cielo che entra nella terra, la terra che si raddoppia e si increspa nell’acqua, l’alto e il basso che si rivoltano e non significano più nulla. Sentir parlare di ‘terra d’acqua’ mi dava il prurito come una puntura di zanzara. Da queste parti il riso è una fonte di vita, un orgoglio e una prigione, e la ‘terra d’acqua’ è l’immagine a cui non si sfugge: è nei titoli delle mostre fotografiche, con i tramonti lunghi sulla risaia allagata e i pioppi che si riflettono (o si suicidano?) a testa in giù; è nei quadri dei pittori locali ispessita dai colori a olio e appiattita dagli acrilici; è nei versi dei poeti, nei discorsi degli amministratori, nei cartelli…” (Laura Bosio)
Oliviero Masi: Risaia allagata, 1986 (particolare)
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il riso
storia e arte Cinema di risaia Enrico Terrone
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche. Crediti: le foto alle pagine 1 (Lorelyn Medina) e 596 (Gennady Kravestky) sono dell’agenzia Dreamstime.com. Le foto alle pagine 104 e 105 sono di Renato Guttuso © Renato Guttuso by SIAE 2008.
storia e arte Cinema di risaia “Sono alcuni secoli che nell’Italia settentrionale si coltiva il riso, come in Cina, come in India. Cresce su un’immensa pianura che copre le province di Pavia, di Novara e di Vercelli. Su questa pianura hanno impresso segni incancellabili milioni e milioni di mani di donne”. L’incipit di Riso amaro, affidato alla voce stentorea di un radiocronista, individua le principali coordinate della risicoltura e delle sue rappresentazioni. La storia del cinema di risaia si dipana fra l’“immensa” Pianura Padana e le ben più immense terre d’acqua dell’Asia Orientale. Si tratta di una storia quasi tutta ancora da scrivere, ma con un paio di indiscutibili capisaldi che si devono al cinema italiano – i proverbiali Riso amaro (1949) di De Santis e La risaia (1956) di Matarazzo – nonché significative occorrenze nell’ambito del cinema orientale, come per esempio i giapponesi Kome – The Rice People (1957) di Tadashi Imai e Pioggia nera (1989) di Shohei Imamura, oppure la commedia hongkongese Hainan ji fan – Rice Rhapsody (2004). Fra le cinematografie nazionali d’Oriente che si sono imposte all’attenzione negli ultimi anni, un importante contributo al tema risicolo viene dalla Cambogia, dove si segnalano il documentario The Khmer Rouge Rice Fields: The Story of Rape Survivor Tang Kim (2004) di Rachana Phat e soprattutto due film narrativi di Rithy Pann: Neak Sre – Rice People (1994), presentato in concorso al Festival di Cannes del 1994, e Un barrage contre le Pacifique (2008), che ha per protagonista l’attrice francese Isabelle Huppert, ed è un adattamento del romanzo omonimo di Marguerite Duras già portato sullo schermo nel 1957 da René Clement. Per quanto riguarda il cinema italiano contemporaneo, l’immaginario della risaia sembra ormai del tutto rimosso dal campo delle grandi e medie produzioni, ma continua a produrre esiti considerevoli nel nuovo documentarismo fiorito in concomitanza con l’avvento delle tecnologie digitali, di cui sono esempi le produzioni di autori legati al territorio vercellese quali Matteo Bellizzi e Manuele Cecconello. Data questa varietà di contributi, ritengo che un discorso critico sul cinema di risaia, allo stato attuale, prima di lasciarsi tentare dalle ambizioni enciclopediche, dovrebbe affrontare in profondità tre punti essenziali, nel cui chiarimento consistono le finalità del mio studio: – il passato: ritornare sui titoli più studiati e discussi – le ormai classiche epopee delle mondine di Riso amaro e La risaia – consolidando le acquisizioni critiche che si sono sedimentate nel tempo e verificandone la tenuta alla luce delle nuove metodologie analitiche, in particolare quelle basate sulle nozioni di “plot” e di “mondo narrativo”; – l’altrove: iniziare a interrogare le modalità di rappresentazione della risaia nell’ambito del cinema orientale, la cui sterminata produzione è diventata negli ultimi due decenni un oggetto d’elezione per studiosi e cinefili;
Locandine del film Riso amaro
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cinema di risaia – il presente: misurarsi con il fenomeno della rinascita del documentario nell’era digitale, e con quella sua estrema propaggine costituita dalla diffusione dei video su Internet e dal fenomeno di Youtube. Il passato Riso amaro e La risaia sono i film che testimoniano in presa diretta degli ultimi frangenti di un mondo storico – quello della monda, del trapianto, della presenza umana in risaia – che ormai non esiste più, soppiantato a partire dagli anni Sessanta dal progresso delle tecnologie meccaniche e chimiche. Ad accomunare le due opere è proprio questo sguardo dal vivo, carico di presenza e di concretezza, su una realtà ripresa come se fosse eterna e che invece, di lì a poco, volgerà al suo termine. Le differenze fra i due film sono numerose e rilevanti, sia in termini formali, sia ideologici, sia a un mero livello di giudizio estetico, per cui Riso amaro è universalmente considerato come uno dei più importanti film sul mondo agricolo della storia del cinema, mentre su La risaia gli apprezzamenti sono più cauti e il consenso più rado. Ma resta un forte legame tematico che unisce le due pellicole, ed è significativo che a firmarle siano due importanti e sottostimati registi del cinema italiano – Giuseppe De Santis e Raffaello Matarazzo – ai quali va riconosciuto il merito di aver perseguito l’ideale di una sintesi fra la forza visiva del cinema neorealista e la forza narrativa del cinema hollywoodiano. Per tale ragione i critici più incauti o bacchettoni hanno liquidato Riso amaro e La risaia come melodrammi proditorii, quando invece – cercheremo di mostrare – è proprio nella dialettica fra la rappresentazione (neorealista) del mondo e lo sviluppo (hollywoodiano) del plot che il discorso di questi film trova un’autentica profondità di senso. Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis Come hanno notato alcuni fra i più attenti commentatori, la costruzione narrativa si basa sul dualismo e sulla simmetria inversa: ci sono due protagoniste, Silvana (Silvana Mangano) e Francesca (Doris Dowling); la prima è una mondina che diventa una criminale, la seconda è una criminale che diventa una mondina. All’arco di trasformazione dei personaggi femminili corrisponde l’invarianza delle figure maschili, bloccate nello stereotipo: il caporale Marco (Raf Vallone) è la quintessenza della saggezza e della virtù, mentre il delinquente Walter (Vittorio Gassman) incarna una forma di malvagità radicale e irredimibile. Pur avendo caratteri che non evolvono, questi personaggi rappresentano dei punti di riferimento cruciali per l’evoluzione delle protagoniste: la redenzione di Francesca passa attraverso il distacco da Walter e l’avvicinamento a Marco, mentre la perdizione di Silvana si compie lungo la traiettoria inversa. Una funzione narrativa analoga
Riso amaro di G. De Santis. Nella sequenza della rissa in risaia, un ampio movimento della macchina da presa definisce l’ambientazione passando dal dettaglio al campo lungo
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storia e arte svolgono gli “oggetti-valore” che sono al centro dell’intreccio, cioè la collana rubata e il riso da rubare: Francesca scopre la falsità (reale e simbolica) della collana e si oppone al furto del riso, mentre Silvana si lascia affascinare dalla collana e irretire dai piani criminali di Walter. A seconda che si scelga il punto di vista di Francesca o di Silvana, la trama può essere schematizzata in due forme opposte: nel primo caso avremo “una donna complice di un furto si unisce alle mondine senza contratto e lavora al loro fianco ribellandosi al suo amante malfattore per redimersi”; nel secondo “una mondina si lascia affascinare da un malfattore e collabora ai suoi progetti criminali inimicandosi le compagne e finendo per perdersi”. Lo sviluppo di questa doppia trama si articola in tre atti. Nel primo, assistiamo alla partenza delle mondine dalla stazione di Torino e al loro arrivo alla cascina; l’evento dinamico che mette in moto la storia, anticipando il corso degli eventi, è il ballo di Silvana e Walter, cui fa seguito la colluttazione con poliziotti; in questa fase, Silvana appare ben integrata fra le sue compagne fra le quali Francesca sembra invece un corpo estraneo. Quando, dopo l’arrivo nella cascina, Silvana sottrae a Francesca la collana rubata, il racconto svolta verso il secondo atto, che occupa l’intero periodo della monda e al cui interno si dipana lo scambio di ruoli e di destini fra le due donne; il punto centrale è l’arrivo di Walter nella cascina, con una nuova scena di danza fra lui e Silvana, seguita questa volta dalla rissa fra il malfattore e il soldato e dalla rivelazione della falsità della collana rubata. Il terzo atto, che si svolge nell’ultimo giorno della monda e inizia con la scelta di Silvana di collaborare al furto del riso, trova il suo climax nella sequenza dell’omicidio e del suicidio, e si conclude con la resa dei conti: Francesca salva il riso delle mondine (obiettivo materiale), si lega a Marco (obiettivo relazionale) e redime se stessa (obiettivo interiore), mentre Silvana perde su tutti i fronti. A queste traiettorie speculari conferisce unitarietà non solo il controverso legame d’amicizia che si instaura fra le due ragazze, ma soprattutto l’inserimento della loro vicenda in un mondo narrativo ben individuato nelle sue coordinate spaziali (la cascina, la risaia) e temporali (i quaranta giorni che costituiscono la stagione della monda). Su questo orizzonte si staglia una pluralità di aggregazioni: al centro della scena vi sono le mondine, suddivise in “regolari” e “clandestine”; ai margini, si muovono i militari che occupavano la cascina prima dell’inizio della monda e i malfattori che progettano il furto del riso; fuori campo, aleggiano le decisioni dei padroni da cui dipendono il lavoro e le sorti delle giovani donne. Questa realtà materiale e sociale non si limita a fare da sfondo alla vicenda di Francesca e Silvana, ma la compenetra e la determina in maniera decisiva: è infatti nel posizionarsi e nel riposizionarsi in rapporto all’aggregazione e all’orizzonte che si compie il destino delle due protagoniste, per cui Francesca si redime
Riso amaro, il cineromanzo. Collezione del Museo Nazionale del Cinema, Torino
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cinema di risaia scoprendo l’importanza dell’aprirsi agli altri in termini di onestà e solidarietà mentre Silvana si perde negando la propria appartenenza sociale in nome di illusorie credenze nel fascino, nel lusso e nell’affermazione individualista. Più in generale, il tema di Riso amaro consiste nella contrapposizione fra un sano e solido principio di realtà (simboleggiato dalla risaia e dal riso) e l’ingannevole seduzione del principio di piacere (simboleggiato dai fotoromanzi e dalla collana): Francesca impara a misurarsi con la concretezza del mondo mentre Silvana si perde dietro alle sue illusioni come una Madame Bovary delle risaie. Lo stile del film traduce questo dualismo nei termini di una dialettica formale fra un registro realista (basato sulle ambientazioni in esterni, sulla coreografia delle masse e sugli ampi travelling) e un registro espressionista (segnato dai contrasti luministici e dalla fascinazione dello sguardo per la sensualità della performance di Silvana Mangano). Il bianco e nero di Otello Martelli (che era stato direttore della fotografia per Paisà e lo sarà per La dolce vita) interpreta plasticamente questo doppio registro: “un erotismo sottile, un’atmosfera sensuale e umida, non devono far dimenticare l’oggettività delle scene puramente documentaristiche: l’arrivo in camion, l’installarsi nelle stanze sordide e fatiscenti delle cascine, il trapianto del riso, la festa d’addio, triste e vischiosa, le giornate di pioggia e la disoccupazione coatta nei granai soffocanti, il cielo grigio, l’acqua sporca…” (da René Prédal, La photo de cinema). Analogamente la partitura di Goffredo Petrassi si misura con le fasce di rumori (i grilli, la pioggia) e con la musica di scena (il boogie-woogie del giradischi e dei balli e i canti popolari delle mondine, dai quali il commento orchestrale riprende alcuni motivi melodici), senza tuttavia rinunciare a far risaltare la tragicità della vicenda con intense sottolineature espressive. Nella sua costruzione narrativa come nel suo disegno stilistico, Riso amaro è al tempo stesso, in maniera inestricabile, la storia di personaggi moderni tormentati da illusioni e desideri socialmente determinati, e la rappresentazione di un mondo ancestrale dove l’esistenza degli uomini si confonde con l’essere dei semi, delle piante, della terra e dell’acqua. La risaia (1956) di Raffaello Matarazzo Se per certi aspetti La risaia è quasi un remake di Riso amaro, per altri ne costituisce invece un rovesciamento radicale. La struttura narrativa deve molto al film di De Santis: il tempo della storia corrisponde al tempo della monda (con un primo atto in corrispondenza dell’arrivo in cascina, un lungo atto centrale e un terzo atto concentrato nell’ultimo giorno), lo spazio gravita intorno alla risaia (con tanto di canti corali e rissa fra mondine), la protagonista interpretata da Elsa Martinelli unisce in sé gli aspetti virtuosi (la volontà di riscatto) e viziosi (la spregiu-
Riso amaro, il cineromanzo. Collezione del Museo Nazionale del Cinema, Torino
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storia e arte dicatezza della seduzione) dei personaggi di Doris Dowling e Silvana Mangano. Similmente i deuteragonisti maschili si ripartiscono in modo manicheo fra un versante positivo (là il caporale Raf Vallone, qui il meccanico Rik Battaglia) e un versante negativo (là il ladro-stupratore Vittorio Gassman, qui il viveurstupratore Michel Auclair). Le differenze fra i due film, tuttavia, prevalgono sulle analogie: tanto più Riso amaro costituisce un racconto chiuso, centripeto, focalizzato sul tema risicolo, quanto più La risaia tende all’effrazione, alla digressione centrifuga, al superamento del proprio soggetto. Questa differenza d’assetto è riscontrabile innanzitutto in termini stilistici, con il passaggio dal sobrio formato Accademy (1,37: 1) di Riso amaro alla larghezza quasi raddoppiata del Cinemascope (2,35: 1) di La risaia, le cui maestose carrellate esaltano l’orizzontalità del paesaggio ma anche la possibilità di oltrepassarlo; un analogo effetto espansivo si ha in corrispondenza delle transizioni dal cupo bianco e nero di Otello Martelli alla luminosità tersa e alla varietà cromatica della fotografia in Eastmancolor di Luciano Trasatti, e dal sorvegliato e filologico commento musicale di Petrassi al sontuoso sinfonismo, culminante nei passaggi per percussioni e vocalizzi, della partitura di Lavagnino. La differenza fra i due film si amplia ulteriormente se si considera l’articolazione delle sequenze concepita dalla sceneggiatura e attuata dal montaggio: in Riso amaro (montato da Gabriele Varriale, fedele collaboratore di De Santis) le concatenazioni di inquadrature forniscono una serie di punti di vista differenti su un unico spazio unitario, individuato dalla cascina vercellese dove è ambientata la storia; all’opposto, ne La risaia, l’immagine eponima si riduce progressivamente a un ritornello visivo, mentre si impone una serie di spinte digressive – sapientemente orchestrate da Mario Serandrei, il più grande montatore della storia del cinema italiano – le quali allontanano la narrazione dalla cascina della bassa novarese che ne dovrebbe costituire il centro, privilegiando gli spazi cittadini (la gelateria, il ballo, le giostre, il campo da calcio) e arrivando fino a Milano dove ha luogo la prima vera svolta del racconto. A queste divergenze formali corrisponde una profonda differenza in termini di sviluppo narrativo e di senso ideologico: se Riso amaro racconta di una redenzione che passa attraverso il lavoro nella risaia e di una perdizione causata dal suo rifiuto, La risaia celebra all’opposto l’affermazione di un’eroina che si scopre completamente estranea all’universo delle mondine, e unita invece da un legame di sangue alla genia dei padroni. La linea narrativa principale del film di Matarazzo riguarda infatti il rapporto fra la protagonista Elena e il padrone della risaia Pietro (Folco Lulli) che è in realtà suo padre; dopo il primo punto di svolta nel quale l’uomo incontra la sua amante d’un tempo dalla quale scopre di aver avuto una figlia che è proprio Elena, si innesca un
La risaia di R. Matarazzo. La prima grande sequenza di monda del film ha come motivo dominante il movimento da destra a sinistra delle mondine, sul quale si raccordano immagini differenti: la carrellata orizzontale della macchina da presa, lo sguardo in macchina della protagonista, l’inquadratura delle donne che camminano lungo l’argine
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cinema di risaia meccanismo epistemico (tipico dei film di Hitchcock) per cui lo spettatore conosce la verità mentre la protagonista ne resta all’oscuro, scambiando le attenzioni affettuose del padronepadre per avances erotiche; l’equivoco inizia a dissiparsi nello snodo centrale del film, quando l’uomo, mettendo a repentaglio la propria vita, salva la ragazza da un incendio divampato nel dormitorio delle mondine; dopo ulteriori complicazioni la storia raggiunge il proprio climax al momento dell’agnizione, con l’agognato riconoscimento del padre da parte della figlia, preludio dello scioglimento conclusivo. In termini ideologici, la differenza non potrebbe essere più netta: Riso amaro, girato a pochi anni dalla Liberazione, è un’opera ancora intrisa di spirito resistenziale e di fiducia nella capacità del popolo di unirsi per edificare una società più giusta, più degna; La risaia è invece il film dell’Italia sulla soglia del boom economico, per cui nella parabola di una mondina “per errore” che si scopre figlia del padrone e si fidanza con un meccanico rampante, si celebra l’accantonamento del conflitto di classe, dell’antagonismo sociale e delle istanze rivoluzionarie, in favore di un’imminente alleanza fra il vecchio e il nuovo capitale. L’altrove Il cinema orientale è un territorio immenso che fa capo a nazioni, tradizioni, culture ed estetiche estremamente differenziate. È sufficiente analizzare qualche titolo sul tema risicolo, perché si colga l’eterogeneità delle rappresentazioni: se da una parte – nella cinematografia giapponese – la risaia si dà come un segno storico del passato che Pioggia nera mette in scena parallelamente al trauma atomico, dall’altra – nelle produzioni cambogiane – il lavoro nei campi di riso domina costantemente l’esistenza quotidiana delle persone, come si coglie tanto nel film narrativo Rice People quanto nel documentario The Khmer Rouge Rice Fields: The Story of Rape Survivor Tang Kim, nel quale una donna racconta la sua esperienza di sopravvissuta ai campi di prigionia degli Khmer rossi e la sua scelta di diventare monaca buddista, mentre sullo sfondo la vita nella risaia sembra scorrere sempre identica a se stessa, indifferente al tempo e alla storia. Pur nell’estrema diversità di luoghi, situazioni e forme, questi film sembrano comunque possedere significativi legami tematici che attraverso le figure del riso e della sua lavorazione conducono a uno strato antropologico primordiale: una visione del mondo basata su tempi ciclici, su elementi magici, panteistici, animistici (riscontrabili in tutti i titoli esaminati, persino nel più disinvolto e globalizzato, l’hongkongese Rice Rhapsody), ma soprattutto su una concezione matriarcale della comunità umana, che abbraccia in una visione unitaria la fertilità della terra e la fecondità della donna.
La risaia di R. Matarazzo. La sublimazione del lavoro in risaia nei termini di un’estetica del paesaggio e della composizione è funzionale a un discorso narrativo conciliante, al cui interno il conflitto sociale sfuma sullo sfondo
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storia e arte Pioggia nera (1989) di Shoei Imamura Il film, tratto da un romanzo di Goenne Masuji Ibuse, inizia con un ampio prologo che mostra le immagini cruente dell’esplosione della bomba atomica a Hiroshima, il 6 agosto del 1954, evento durante il quale la giovane protagonista Yasuko viene bagnata dalla “pioggia nera” mentre le radiazioni colpiscono direttamente i suoi zii (la sua unica famiglia, dal momento che la madre è morta durante il parto e il padre si è risposato trasferendosi altrove). La vicenda principale è ambientata cinque anni dopo, nel 1950, nel piccolo paese circondato dalle risaie dove vive la nonna di Yasuko e dove la ragazza e gli zii hanno riparato dopo la catastrofe. Il nodo narrativo che i protagonisti devono sciogliere consiste nel ritorno alla vita, in termini sia biologici (controllare e curare gli effetti delle radiazioni) sia psicologici (superare il trauma) sia sociali (trovare un marito per Yasuko). I punti di svolta del plot sono rappresentati da una serie di matrimoni mancati (i pretendenti temono per la salute e la fertilità di Yasuko e lei stessa è scettica sulla possibilità di un legame) e di funerali celebrati. Nello sviluppare una storia dagli esiti ineluttabilmente tragici, Pioggia nera insiste molto sulle contrapposizioni elementari fra la guerra e la pace, fra la città e la campagna, fra la malattia e la salute. In questo assetto simbolico di impronta nostalgica, la rappresentazione idilliaca del paesaggio di risaia accentua per contrasto, ma anche lenisce per contatto, la crudeltà del destino che attende i protagonisti. È significativo, a questo proposito, che l’unico personaggio sano della famiglia di Yasuko sia l’anziana nonna che non si è mai allontanata dalla campagna e in un dialogo deplora l’esproprio delle risaie imposto dalla riforma agricola; ed è ancor più significativo che l’unica forma positiva di scioglimento della vicenda di Yasuko e dei suoi zii, di contro ai fallimenti delle cure mediche e dei tentativi di reinserimento nella società, sia l’apparizione quasi magica di una carpa gigante nello stagno, rappresentata poeticamente da una combinazione di riprese in ralenti e di sottolineature melodiche. Mentre nel prologo e nei flashback che ritornano sull’esplosione nucleare il film si affida a un bianco e nero carico di contrasti ed enfatizzato dalla musica, nella sezione agreste la fotografia risulta decisamente più serena e luminosa mentre la partitura musicale rinuncia ai toni accorati lasciando spazio al paesaggio sonoro e alla voce narrante del diario dello zio. Con questo, lo stile di Pioggia nera da un lato si approssima allo sguardo distaccato e “trascendentale” caratteristico dello stile di Ozu (di cui Imamura fu assistente), dall’altro non rinuncia agli elementi pittoreschi e grotteschi, all’immaginario bucolico e acquatico, alle ascendenze surreali che contrassegnano la filmografia di Imamura, raggiungendo il loro apice nei più recenti L’anguilla e Acqua tiepida sotto un ponte rosso. In questo regime di ambivalenza, l’immagine della risaia si dà come contrappunto elegiaco della rappresentazione cruenta della catastrofe atomica.
Pioggia nera di S. Imamura. Il dualismo fra storia e natura è posto sia dal montaggio, che contrappone il cupo ricordo della catastrofe atomica al paesaggio pacifico della risaia, sia dalla composizione dell’inquadratura dove le figure dei protagonisti si stagliano in controluce sulle immagini di lavoro agreste dello sfondo
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cinema di risaia Rice People (1994) di Rithy Panh Nella Cambogia degli anni successivi alla dittatura di Pol Pot (1975-1979), in un presente all’apparenza fuori dal tempo, due sposi con sette figlie vivono della coltivazione di una piccola risaia. Nel corso di un’annata infausta, prima l’uomo muore per un’infezione e poi la donna impazzisce: saranno le figlie più grandi a prendersi cura della risaia e della famiglia. Quanto e più di Riso amaro e degli altri predecessori, Rice People non si limita a usare la risaia come sfondo di una storia, ma la promuove al rango di protagonista. Il tema del film coincide con il problema della monda: la coesistenza del riso e delle erbe infestanti, la lotta fra ciò che nutre e ciò che avvelena, fra il bene e il male, fra la vita e la morte. In Riso amaro questa allegoria della risaia si poneva soprattutto in termini morali, per cui Francesca si mondava del male incarnato da Walter mentre Silvana ne veniva irrimediabilmente contaminata; similmente, in Pioggia nera la figura della monda corrispondeva al tentativo dei protagonisti di fronteggiare la contaminazione radioattiva con la salubrità della vita agreste. In Rice People la corrispondenza allegorica è invece radicalmente letteralizzata: la risaia non si contrappone a una minaccia esteriore (il male morale, il male radioattivo), ma è essa stessa ricettacolo tanto del male quanto del bene. La figura più eloquente di questa duplicità è la coppia di serpenti che costituisce il doppio negativo della coppia di sposi, anticipandone il destino (il maschio muore, la femmina sopravvive). All’ecosistema risicolo si lasciano ugualmente ricondurre le presenze dei granchi e dei passeri che
Pioggia nera di S. Imamura. Apparizione magica della carpa gigante Rice People di R. Panh
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storia e arte minacciano le coltivazioni; e anche la spina infetta che porterà alla morte dell’uomo è un frutto avvelenato della risaia. Quel che vale nel male vale tuttavia, a maggior ragione, nel bene: per i protagonisti il riso è il valore ultimo, il bene supremo, la sostanza che rende possibile la vita e nel nome della quale la vita stessa può essere sacrificata. In questa prospettiva, la corrispondenza fra lo spazio-tempo del film e la risaia è totale, assicurando al racconto l’unità di luogo (per cui rimane fuori campo l’ospedale cittadino in cui viene ricoverata la madre), di durata (che coincide con l’anno agricolo) e di azione (la risicoltura in tutte le sue fasi, dall’aratura alla monda, dalla mietitura alla seconda semina, dalla lavorazione del riso al suo consumo alimentare). Lo spazio del film si dà dunque essenzialmente come paesaggio, mentre il tempo è scandito dalle variazioni cromatiche: dalle tinte terrose dell’aratura al croma grigio-azzurro delle risaie inondate, per arrivare al verde acceso della crescita e al giallo fiammante della piena fioritura, cui fanno seguito le tonalità più sfumate dei giorni del raccolto. Nessun film prima di Rice People aveva mai mostrato la risaia con una tale ricchezza di dettagli, con uno sguardo così scandagliante e preciso, che si avvale della durata e della mobilità delle inquadrature, come anche del diradarsi dei dialoghi in favore della varietà timbrica delle fasce di rumori naturali, occasionalmente integrate dalle delicate linee melodiche della partitura. Così rappresentata, la risaia costituisce un universo chiuso, dalle venature magiche e diaboliche, fuoriuscire dal quale risulta impossibile: “le emozioni dei personaggi non sono che il contrappunto di una vita regolata sulla cultura del riso” (Vincent Vatrican, Les gens de la rizière, Cahiers du cinéma, n. 484). Lo si intuisce chiaramente in una delle scene iniziali, quando alla protagonista che sogna per le figlie un futuro di studio e di lavoro lontano dai campi, il marito risponde recisamente: “siamo nati per queste risaie, è l’unica vita che conosciamo; le nostre figlie e i loro figli dovranno lavorare la terra per nutrirsi; questo è l’unico modo; questo è tutto ciò che abbiamo per sopravvivere”.
Rice Rhapsody di K. Bi. La supremazia dei personaggi femminili, nella scena del pranzo a base di riso è evidenziata dalla macchina da presa che ruota privilegiando la linea che unisce la donna e la ragazza, per poi concludersi con un raccordo sull’asse
Rice Rhapsody (2004) di Kenneth Bi La titolare di un prestigioso ristorante di Singapore, la cui specialità è il riso col pollo, ha due figli gay e un terzo, il più giovane, che sembra orientato sulla medesima strada; la donna, desiderosa di un nipotino, stenta ad accettare questa situazione e accoglie in casa una studentessa francese nella speranza che le seduca il figlio. Rice Rhapsody è una commedia metropolitana – brillante nella prima parte, un po’ sfilacciata nella seconda – che si colloca nel filone ultimamente molto in voga del gay-movie, di cui condivide il tema essenziale del superamento del pregiudizio, mentre la presenza della ragazza francese nella famiglia cinese rimanda a un altro schema drammaturgico molto collaudato, quello basato 128
cinema di risaia sulla collisione culturale di etnie diverse (cfr. Il mio grosso grasso matrimonio greco, Sognando Beckham). Il motivo eponimo del riso contrassegna il mondo narrativo individuando nel cucinare la principale attività della protagonista, nel ristorante il luogo cruciale della storia e nel pranzo il momento privilegiato di incontro e confronto fra i personaggi; inoltre lo spunto gastronomico innerva l’intreccio secondario che lega la protagonista in un rapporto di affettuosa rivalità al proprietario del vicino ristorante, specializzato nel riso con l’anatra. Si tratta, in tutta evidenza, di una vicenda perfettamente calata nella contemporaneità e dunque propensa a lasciare fuori campo i processi primari di produzione per focalizzarsi invece sul prodotto finale e sui servizi offerti al consumatore. Eppure anche in una trama così aliena dall’immaginario tragico della risaia e tutta concentrata sui più frivoli risvolti culinari, emerge comunque un tratto elementare comune a tutte le opere finora considerate, e cioè il nesso privilegiato che sussiste fra la rappresentazione risicola e una concezione matriarcale della vita comunitaria. È un dato di fatto che i principali film sul riso raccontano storie che hanno per protagoniste delle donne e sviluppano discorsi che si risolvono in una celebrazione dell’universo muliebre. Questo dipende in parte dalla peculiarità del lavoro della monda, al quale, citando la prosa antidiluviana del radiocronista di Riso amaro, “occorrono mani delicate e veloci, le stesse mani che pazientemente infilano l’ago e cullano i neonati”. Ma, al di là di questo nesso pratico, sembra esserci un legame simbolico più profondo che si radica nelle concezioni archetipiche della terra come madre, nelle allegorie primordiali della fecondità e della prosperità, nell’analogia fra i quadrati di terra umidi e fertili e il sesso della donna. In Riso amaro, questa weltanschauung matriarcale si esprimeva attraverso “scene d’azione del tutto inusuali dove i due uomini si trovano immobilizzati e passivi mentre le due donne, con le armi in mano, si fanno carico dell’azione” (Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma). In Pioggia nera la giovane protagonista, che vive nel culto della madre defunta e ha un rapporto labilissimo col padre, rinuncia alla possibilità del matrimonio e si fa carico simbolicamente di tutto il male del mondo, mentre l’anziana nonna, vedova, rappresenta la forza sana e incontaminata della vita agreste. In Rice People abbiamo una famiglia composta da una madre e sette figlie femmine, dove prima la malattia e poi la morte del padre fanno sì che il legame fra le donne e la risaia risulti totale, assoluto. In The Khmer Rouge Rice Fields: The Story of Rape Survivor Tang Kim la risaia ospita la storia di una donna che si ribella al potere degli uomini, prima fuggendo dal campo di prigionia e poi scegliendo la strada nel monastero. Pur nella sua apparente leggerezza di commedia sentimentale, Rice Rhapsody sviluppa a sua volta, energicamente, un analogo nesso sotterraneo fra il potere nutritivo del riso e la forza vitale
Riso amaro di G. De Santis. Nella sequenza della rissa in risaia, la contrapposizione fra le due protagoniste si rappresenta attraverso la nettezza degli stacchi di montaggio
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storia e arte femminile, mettendo in scena un nucleo familiare con un padre assente e tre figli omosessuali, dove la madre è l’unica persona ad avere davvero a cuore l’unità e la continuità della famiglia, nel prendere le redini della quale troverà un’alleata preziosa in una ragazza francese che è a sua volta personaggio emblematico di una femminilità autosufficiente ed egemone. Il presente Il ritorno del tema della risaia nell’ambito della produzione cinematografica contemporanea dipende da differenti fattori, quali la diffusione delle tecnologie digitali di ripresa e post-produzione, un redivivo interesse degli studiosi e del pubblico per il genere documentario, la rilevanza crescente che assumono nell’opinione pubblica le questioni agricole ed ecologiche. Ma il recupero nostalgico dei valori legati alla tradizione e al territorio non può comunque escludere la consapevolezza dell’irreversibilità del progresso tecnologico e della mutazione sociale. Ed è proprio per questo dualismo fra nostalgia e consapevolezza, e per le forme della sua rappresentazione, che si caratterizzano i più interessanti documentari contemporanei di soggetto risicolo. Posto che la risaia è ormai un luogo sottratto alla presenza umana e consegnato alle potenze della tecnica, si può decidere di riportare alla luce le tracce e le vestigia del passato con realismo scrupoloso e partecipe, come accade nel lungometraggio di Matteo Bellizzi Sorriso amaro, oppure si può mirare a una trasfigurazione poetica del dato concreto che restituisca in termini di visione allucinata ciò che stenta a rivelarsi nella realtà, ed è l’obiettivo a cui tendono i video di Manuele Cecconello; o ancora si possono filmare le parole di uno scrittore della statura di Sebastiano Vassalli – come fa Mario Tosi nel suo mediometraggio Cercando Zardino (2007) – per raccontare le risaie novaresi nel loro passato remoto, nei loro villaggi scomparsi, nei loro inverni, nel loro nulla. In parallelo al rigoroso lavoro di questi documentaristi, che seppure su posizioni stilistiche differenti condividono una concezione del testo filmico nel solco della cultura letteraria e audiovisiva del Novecento, si assiste all’affermarsi di modalità di rappresentazione che risultano invece fondamentalmente estranee alla storia e alla prassi del cinema così come le abbiamo fin qui conosciute: sto parlando, si capisce, dei video a bassa e bassissima definizione che trovano la propria forma espressiva in un’estetica del punto di vista aleatorio, del frammento a sé stante, dell’inquadratura improvvisata e dell’istante rubato, conquistandosi un proprio spazio vitale nel viavai telematico di YouTube.
Cercando Zardino di M. Tosi. Le parole de La chimera di Sebastiano Vassalli restituiscono al passato storico le immagini del presente
Sorriso amaro (2003) di Matteo Bellizzi Alcune anziane signore del comune di Nonantola, in provincia di Modena, tornano nelle terre del Vercellese dove negli anni del dopoguerra avevano lavorato come mondine e ritrovano i 130
cinema di risaia luoghi e i volti che segnarono nel bene e nel male la loro giovinezza. Sorriso amaro, con il suo titolo programmatico, celebra il ritorno malinconico e quasi nostalgico all’epoca delle mondine, ma testimonia anche dell’irreversibilità del cambiamento storico e dell’ineluttabilità del congedo dal passato. Il “riso amaro” dei tempi delle mondine non esiste più, e al suo posto resta soltanto il sorriso amaro con cui dal presente se ne osservano le vestigia. Nell’affiancare e confrontare l’ora e l’allora, il film intreccia tre modalità di rappresentazione specifiche del documentario: 1) il racconto orale con cui le protagoniste rievocano e commentano davanti alla macchina da presa il loro vissuto nelle risaie; 2) l’interazione fra le riprese e il materiale di repertorio: fotografie, cinegiornali e soprattutto le sequenze del film Riso amaro, ora montate in alternanza con le scene del documentario ora sottoposte direttamente agli sguardi, ai ricordi e ai giudizi delle ex-mondine; 3) la messa in scena degli eventi passati (i canti, i balli, il lavoro in risaia, la vita in cascina), ambientati negli stessi luoghi in cui si svolsero e recitati – o se si preferisce rivissuti – dalle stesse persone che ne furono protagoniste. Attraverso questa terna di procedimenti il film sviluppa il proprio discorso sul compenetrarsi del passato e del presente, adottando una chiave stilistica che si basa sulla neutralità del punto di vista e sulla discrezione dello sguardo, mentre la vena più contemplativa e nostalgica è affidata alle ascendenze rotiano-felliniane delle musiche. La suggestione del passato sembra talvolta prevalere sull’appartenenza al presente, che risulta tuttavia perentoriamente ribadita quando l’immagine di un trattore fra le risaie interrompe il flusso avvolgente della rievocazione, oppure quando una frase impertinente o un moto di spontaneità intaccano la chiusura della rappresentazione, concedendo allo spettatore l’intuizione di una sottile complicità fra la mondina che racconta e il regista che la sta filmando. Land Art II (2005) e Dove il cielo si tuffa (2006) di Manuele Cecconello L’originalità dei video di Cecconello consiste nell’interpretare lo spazio essenzialmente in termini di tempo, trasformando l’innata staticità del paesaggio in un flusso incessante di colori e suoni, in un magma audiovisivo incandescente. Sia in Land Art II sia in Dove il cielo si tuffa ad attirare l’attenzione è la natura cangiante della risaia: le luci che la accarezzano, i movimenti che la attraversano – ora un treno, ora un trattore, ora un pesce, ora un uccello – e soprattutto la variazione della gamma cromatica, dai marroni ai grigi e agli azzurri, e poi dai verdi ai gialli, in un trasmutare di tinte che il lavoro del montaggio sottrae alla distensione del corso dei mesi per consegnarlo allo scorrere palpitante dei minuti. Land Art II è il video dove questa estetica
Sorriso amaro di M. Bellizzi. Il senso del presente come riflessione sulle immagini e sui luoghi del passato
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storia e arte della temporalizzazione dello spazio raggiunge i suoi esisti più estremi: la risaia diventa un territorio post-umano, che sembra ormai abitato soltanto dalle cose, dalle piante, dagli animali e dalla macchine, e sul quale si posa lo sguardo stupefacente e stupefatto di un visitatore presumibilmente extraterrestre. La quieta immobilità del paesaggio è contraddetta dalla sistematica variazione del punto di vista, in una concatenazione di stacchi, scatti e sfocature che rende labile la distinzione fra continuità e discontinuità, fra movimento di macchina e montaggio. In questo processo di alienazione del consueto e di trasfigurazione dello spazio familiare della risaia in un paesaggio fantasma, risulta decisivo il ruolo della colonna sonora, dove le musiche enigmatiche prelevate da Spheres di Keith Jarret si intrecciano con una pluralità di rumori naturali e artificiali, unificati e resi irreali dal sound design del duo Bergero-Sigurtà. Quel che ne risulta è una rappresentazione inumana e baluginante, che preserva la realtà della risaia ma non quella del soggetto che la percepisce, facendoci vedere ciò che vediamo da sempre come non l’abbiamo mai visto. L’estremismo sperimentale di Land Art II si risolve in una forma più conciliante nel successivo Dove il cielo si tuffa, prodotto da Tecnomovie per l’Ente Nazionale Risi. Si tratta di un’opera esteticamente determinata dalla dialettica fra due istanze: da una parte l’esigenza di documentare lo stato attuale della risicoltura e di valorizzare la produttività del territorio, dall’altra l’ambizione di sviluppare un discorso artistico in grado di connotare e riconfigurare il dato oggettivo. L’equilibrio fra queste due dimensioni è impostato dalla sceneggiatura di Francesco Brugnetta, un testo per voce narrante che racconta la cronologia della risaia – dall’aratura di marzo alla mietitura di settembre – combinando intenti pedagogici e licenze poetiche. Su questa base, arricchita dalle melodie suadenti e solenni di Giulio Monaco, si innesta la trama visiva concepita da Cecconello come un flusso di atmosfere luminose terse e intense, di ampi movimenti di macchina, di morbide dissolvenze, di armoniose alternanze fra i totali e i dettagli. Al punto di vista sfuggente ed enigmatico della sonda aliena di Land Art II subentra qui lo sguardo più riconoscibile, ma altrettanto inumano, di una divinità onnisciente e benevola. Dal presente al futuro: le risaie in rete È sufficiente recarsi sul celeberrimo sito Internet www.youtube. com e scrivere nella casella di ricerca la parola “risaia” – oppure rice paddy o riziere se vogliamo avventurarci oltre i confini patri – perché sullo schermo del nostro computer si dipani una quantità di piccoli film che aspettano soltanto un clic del mouse per farci conoscere tutto quello che vorremmo sapere sul riso e non abbiamo mai osato chiedere. C’è la ripresa a mano, scura e traballante, del trattore che attraversa col suo spandiconcime
Dove il cielo si tuffa di M. Cecconello. Il passaggio del tempo come variazione cromatica nel paesaggio della risaia
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cinema di risaia le acque di Ronsecco; c’è un magnifico tramonto con un cielo carico di nuvole, lo specchio riflettente della risaia in aprile e il rumore del vento in sottofondo, filmato dal finestrino di un automobile sulla strada che porta a Vercelli; c’è la comitiva di forestieri che attraversa con zaini e scarponi le campagne della Lomellina dove dall’acqua iniziano a spuntare le piante di riso; ci sono i due reporter siciliani che assistono al taglio del vialone nano nelle risaie ormai gialle della Baraggia. Poi ci sono le mondine dal Laos che piantano il riso nell’acqua riparandosi dal sole sotto enormi cappelli; ci sono i contadini che tagliano il riso con la falce in Thailandia; c’è il turista americano che riprende con un’ampia panoramica le verdeggianti risaie cinesi a ridosso delle montagne, mentre sulla strada passa un autobus; c’è l’aereo che bombarda di diserbante le verdissime risaie dell’Arkansas; c’è l’imponente mietitrebbia John Deere che raccoglie il riso ormai maturo, dalle tinte dorate, in California. E ci sono infinite altre variazioni sul tema, alcune già archiviate da tempo, altre appena immesse in rete, altre ancora prossime a entrare in circolo. Le risaie non sono mai state così vicine, così visibili, così a portata di mano; eppure qualcosa sfugge, qualcosa non torna. A un’estensione sterminata della superficie del visibile sembra corrispondere un deficit di profondità, al proliferare dei riferimenti si contrappone la dispersione del senso. Quel che una volta apparteneva alla realtà e da lì entrava a far parte del discorso estetico di documentaristi e narratori, adesso galleggia in uno spazio anonimo e irreale, dove tutto esiste per tutti, ma nulla forse potrà mai più essere veramente compreso da qualcuno.
Foto Collezione del Museo Nazionale del Cinema, Torino
Riso amaro, il cineromanzo
Foto Collezione del Museo Nazionale del Cinema, Torino
Riso amaro, il cineromanzo Riso amaro, foto di scena
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