L'Uva - Storia e Arte

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L’uva botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato


l’uva da tavola

storia e arte Aspetti storici Attilio Scienza

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storia e arte Aspetti storici Antica eredità Se nella ricostruzione delle vicende storiche che hanno riguardato la produzione e il consumo del vino nella civiltà occidentale nel corso dei secoli, le fonti archeologiche, archeobotaniche, letterarie forniscono una documentazione adeguata, nel caso della produzione e del consumo dell’uva da tavola le informazioni utilizzabili per comprenderne le origini sono frammentarie e spesso solo indirette. Le cause sono molteplici ma possono essere ricondotte alla considerazione che per la produzione di uva da consumare come frutto non vi era una viticoltura dedicata ma venivano utilizzati i grappoli, magari i migliori, dei vitigni che erano normalmente vinificati. Probabilmente ai nobili erano riservate le uve di vitigni particolari, coltivati attorno alle città, mentre il popolo si accontentava dell’uva che veniva prodotta negli orti urbani o nei vigneti da vino. Si ha comunque la percezione, suffragata da alcune citazioni letterarie, che nell’antichità in alcune regioni viticole del vicino oriente (Egitto, Israele, Persia ecc.) l’utilizzazione delle varietà da vino fosse tenuta distinta da quella delle varietà da tavola. Questa constatazione appare più verosimile se si pensa che i processi di domesticazione nelle regioni del Vicino Oriente siano avvenuti più precocemente rispetto alle regioni occidentali e che la maggiore disponibilità di materiali genetici selvatici, appartenenti alla Proles

Uva da tavola nelle rappresentazioni pittoriche antiche

• Un grappolo d’uva ha una tale forza

simbolica sia pagana sia cristiana da andare al di là della semplice rappresentazione di un frutto. Prima che la “natura morta”, definita anche pittura da cavalletto, che vede nel veneziano J. de Barbari il suo iniziatore nel XVI secolo, diventasse un’espressione, sebbene minore, dell’arte del ’700 e dell’800, grappoli e panieri d’uva erano stati raffigurati nei trompe-l’oeil e nei mosaici delle ville di Pompei ed Ercolano

• Nel triclinio della casa di Epidio Rufo

e nella casa del Fauno a Pompei l’uva rappresentata è la cosiddetta varietà Pompeiana, riconoscibile per le foglie palmato-cordate 3,5 lobate e i grappoli dalla forma conica e composta. Nelle raffigurazioni murali egizie, come per esempio quelle della tomba delle viti a Tebe, le dimensioni dei grappoli e delle bacche suggeriscono l’uso alimentare dell’uva dipinta. Anche le raffigurazioni musive dell’Impero Romano utilizzano con frequenza i grappoli di uva come soggetti di decorazione. Ben diverse erano le fogge dei grappoli riportati nella pittura vascolare greca e magno-greca, dove nell’intento dell’artista l’immagine dell’uva da vino, doveva assecondare l’uso simbolico della bevanda nei simposi

Foto S. Somma

Donna che porta in dono un grappolo

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aspetti storici orientalis, abbia consentito l’isolamento e il successivo sviluppo selettivo di varietà dalle caratteristiche del grappolo più adatte al consumo diretto. I primi riferimenti letterari sono attribuiti all’area culturale ebraica e possono essere desunti dal Vecchio Testamento, dove nella valle dell’Hebron (valle dell’uva) la coltivazione della vite, assieme a fico, olivo e sommaco, assume caratteristiche di pianta da frutto e non da vino. L’immagine forse un po’ oleografica degli esploratori che ritornano dalla valle dell’Eskhol (grappolo d’uva), con un grande grappolo portato a spalla da una pertica (Libro dei Numeri XIII,22-25), testimonia la percezione negli Ebrei dell’esistenza di vitigni dai grappoli di grandi dimensioni, che la Terra promessa, dove “scorreva latte e miele” (dove per miele si deve intendere dibs, sciroppo d’uva), offriva per l’elevata fertilità dei suoi suoli. Frutta dalle dimensioni inusuali ma note al biblista, che nella emblemata cinquecentesca assumono il valore simbolico della Provvidenza divina. In Siria e in Arabia erano inoltre note alcune produzioni di uve dai grappoli “straordinariamente grandi” come riferisce Teofrasto, e secondo Strabone in Babilonia e a Cartagine queste uve non solo erano utilizzate per il consumo diretto ma venivano usate per la produzione dell’uva passa.

Conservazione dell’uva da mensa in epoca romana

• In epoca romana molta cura era dedicata alla scelta dei grappoli (spargoli, senza difetti di allegagione, senza acini marci o immaturi) da destinare alla conservazione per un consumo invernale e primaverile. La superficie di taglio del rachide era immersa nella pece per evitarne la disidratazione e i grappoli erano appesi in un locale asciutto, fresco, oscuro (uva pensiles) o in un granaio dove, per la protezione della polvere che si alzava dalle cariossidi, la conservazione veniva prolungata. In altri casi i grappoli venivano immersi in trucioli o segatura di legno (scobe ramentisque). Catone consigliava di immergere e conservare i grappoli nel vino cotto, nel mosto o nell’aceto. L’uva seccata al sole veniva conservata in botti dove a strati alterni si mettevano gli acini e la vinaccia esausta asciutta. Per la conservazione si usavano anche vasi di terracotta (ollares) chiusi da un coperchio o da argilla. Singolare era la pratica di seccare l’uva al fuoco delle forge per farle assumere un gusto affumicato. L’imperatore Tiberio si faceva preparare un pane speciale con questa uva. Un altro modo di conservare l’uva era quello di immergere i grappoli rapidamente in una soluzione bollente di lisciva di cenere e quindi esporli al sole. La conservazione sulla pianta prevedeva l’uso di vasi di vetro sigillati con la pece entro i quali si metteva un grappolo o addirittura tutto il tralcio con i grappoli. In altri casi si stendeva tutta la pianta in fosse scavate lungo il filare nelle quali si ricavava una sorta di galleria chiusa e asciutta dove l’uva si conservava durante l’inverno

Uva da tavola negli scritti dei Georgici latini Presso i romani non vi era una specifica produzione di uva da destinare alla mensa. Varrone scriveva: “Uvae legitur non solum

Arte romana: Natura morta con coppa di frutta, Museo Nazionale, Napoli. Il contenitore di terracotta rappresentato era usato per la conservazione dell’uva (olla) (© 2010. Foto Scala, Firenze/Fotografica Foglia, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

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storia e arte ad bibendum sed etiam ad edendum”. A questo impiego si destinavano i grappoli di migliore aspetto, di maggiori dimensioni e di gusto più piacevole, come affermava Palladio (“majores uvas ac pulchae specie ad mensam”). Virgilio, principe dei poeti latini, nel II libro delle Georgiche, pochi lustri prima della nascita di Cristo, parla dei vitigni coltivati nell’Italia romana. Pur non distinguendo le varietà da vino da quelle da tavola, come invece farà più tardi Columella, dalle descrizioni che accompagnano l’elencazione delle varietà si comprende facilmente quali di queste erano destinate alla mensa. Tra queste ricorda infatti la Preciae (precoce), che per le foglie fortemente laciniate può essere avvicinata allo Chasselas cioutat, la Rhodia, di origine greca, usata alla fine dei pranzi importanti per offerte agli dei, la Bumastus o Bumamma, la Mennavacca o Bumesta, coltivata in molte regioni del Mediterraneo con vari nomi dei quali il più noto è Regina. Columella nel 42 d.C., nel III libro del De Re Rustica, offre la prima testimonianza sicura dell’esistenza e della coltivazione dell’uva da tavola. I nomi delle dodici varietà elencate ne individuano in modo molto preciso le caratteristiche uvologiche: – Precoque = precoce; – Duracine = a polpa croccante da conservare durante l’inverno; – Purpuree = per il colore rosso; – Bumaste = dalla forma di mammella di vacca; – Dactylis = per gli acini allungati come dita; – Libicie = dalla Libia; – Ceraunie = dal colore splendente come la corniola, pietra dura chiamata ceraunia; Foto S. Somma

Forme d’allevamento egizie e romane per uva da tavola

Particolare di anfora apula del IV secolo a.C. decorata con grappoli e pampini

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aspetti storici – Stefanitae = da ghirlanda sia perché i grappoli si intrecciano con le foglie sia perché era usata per fare ghirlande celebrative; – Tripedanae = per i grappoli che misurano tre piedi, ma anche perché dovevano essere lasciate crescere fino a tre piedi di altezza; – Unciarie o Uncialis = dalle bacche che pesavano un’oncia,ma anche perché si piantavano nell’intervallo di un’oncia di jugero; – Vennucole o Sticula = adatta a essere conservata in vasi (uvae ollares); – Numisianae = dalla Numidia, coltivata a Terracina.

Foto S. Somma

Per la sua acuta conoscenza degli aspetti economici delle produzioni dell’azienda agricola, affermava anche “che non conveniente creare un vigneto di varietà da tavola se questo non è vicino a una città”. Anche Plinio, nel libro XIV della Naturalis Historia, coevo di Columella, distingueva le uve da tavola (ad mensam, ad edendum, cibariae, escariae, suburbanae) da quelle da vino. Affermava inoltre che gran parte di queste varietà era di origine greca. Tra le uve da tavola cita in particolare quelle che erano coltivate in Campania, quali la Pergulana, una duracina adatta a essere coltivata a pergola, la Horconia, dal nome di una famiglia di viticoltori che la coltivava, l’Oleagina, per la forma ovale dell’acino, simile a un’oliva, la Pompeiana o Murgentina, soggetto preferito per i dipinti di Pompei. Non è facile confrontare le varietà descritte con quelle indicate dai Georgici latini con quelle coltivate ai nostri giorni anche perché molti dei vecchi vitigni coltivati fino a qualche decennio fa sono stati sostituiti da nuovi incroci. Per alcune, comunque, la semantica del nome può consentirne l’identificazione: oltre alla Bumasta già ricordata, la Oleagina è probabilmente l’Olivella o Olivetta, la Dactylis è la Pizzutella e la Balanite (da glande) per la forma degli acini, a ghianda. Isidoro di Siviglia, vissuto a cavallo tra il VI e VII secolo, uno degli ultimi Georgici latini, nel libro VII delle Etymologiarum porta un contributo importante alla conoscenza delle varietà delle uve da mensa, descrivendone alcune coltivate in Spagna. Vengono tutte genericamente chiamate “suburbane” perché la loro coltivazione era realizzata alla periferia delle città, per renderne più facile la commercializzazione. Alcune erano coltivate anche in Italia, ma altre sono tipicamente spagnole. Curiosa era l’etimo della Praecoquae, un sintagma che riassume la precocità di maturazione (prae) con la caratteristica di essere stramature, cotte al sole (coque). Anche il vitigno Lageos (lepre) offre una singolare interpretazione del suo nome, che deriva dalla precocità (la maturazione corre come una lepre) ma anche dall’effetto della radiazione che favorisce il colore fulvo delle bacche, come il mantello della lepre. Con il termine Orthampelos si indicavano le varietà da tavola che per il loro portamento eretto non avevano bisogno di sostegni.

Cratere che rappresenta Ercole e Dioniso sdraiati sotto una pergola

Uve del silenzio: ampelografia delle uve da tavola attraverso le raffigurazioni pittoriche

• Sotto il realismo apparente

e la descrizione minuziosa del frutto si dissimula una metafora religiosa: la faccia oscura del grappolo delle nature morte rappresenta l’intemperanza del dio antico e il disordine delle sue passioni, il frutto tentatore di Adamo ed Eva e la ubriacatura di Noè. Ma la faccia luminosa del grappolo, la presenza frequente del calice eucaristico, della mela, dei fichi e dei frutti di melograno, che evocano i simboli kabbalistici della vita, raffigurano il mistero della Resurrezione

• Una lettura attenta delle rappresentazioni dei grappoli negli ultimi tre secoli ci rivela che sotto la ricerca ostinata della realtà, di volta in volta, si nascondono l’umiltà e la poesia della materia, l’abbondanza bacchica, la decadenza e la vanità delle cose

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storia e arte Rapporti con il Mediterraneo orientale e diffusione dei nuovi vitigni da mensa in Occidente Un importante contributo al potenziamento della piattaforma ampelografica europea di vitigni da consumo fresco è avvenuto con il ritorno dei Crociati dalla Terrasanta in Europa. Molte varietà provenienti da Cipro e da Corinto, oltre che dalla Siria, Grecia orientale e Gerusalemme, vennero piantate in Savoia e nel Midì della Francia soprattutto nei vigneti dei comandanti crociati. Anche lo sviluppo del commercio del vino dolce durante la crisi climatica del Medioevo, da parte di veneziani e genovesi, dal Mediterraneo orientale verso l’Italia, ha favorito l’arrivo di vitigni soprattutto dalla Grecia, da usare per produrre vini “alla moda greca”, dolci, aromatici e alcolici. Queste varietà, rappresentate da Moscati e Malvasie, si diffusero in tutta l’Italia centro-settentrionale, dove si stava sviluppando una viticoltura intensiva, non solo su tutori vivi ma anche su spalliere e pergole per rispondere a una forte domanda di vino da esportare nell’Europa settentrionale con il nome di questi vitigni. In questo periodo, inoltre, prende l’avvio la

Uva di Corinto

• P. Pomet, un commerciante di spezie

di Parigi, scrive una Storia generale delle spezie, pubblicata nel 1694, dove riporta la sua testimonianza di viaggiatore in Oriente a caccia di spezie, illustrando i luoghi, le modalità di coltivazione e di preparazione dell’uva passa di Corinto. Dalla sua illustrazione l’uva di Corinto si presenta con grappoli di dimensione modeste, le bacche sono apirene, di diverso colore, grandi come i frutti del ribes, e le foglie hanno lembi molto lobati. Le viti sono allevate con forme basse nella pianura che si trova davanti alla fortezza di Zante in Grecia. Quando l’uva è matura, verso agosto, viene raccolta e stesa per terra per farla seccare. L’uva appassita viene quindi conservata in un grande magazzino chiamato Seraglio, in botti o in balle di diverso peso, dopo averne compresso le bacche, anche con i piedi. Singolare è l’origine del suo nome. Dal 1334 al 1377 quest’uva arrivava sul mercato inglese con il nome di Reysyns de Corauntz e la denominazione Uva di Corinto era usata attorno al 1500. Il nome currant è un’evoluzione graduale da Corinth, nome del porto dal quale partirono le prime spedizioni verso l’Europa. Agli inizi del 1700 i commerci di questa uva secca transitavano attraverso l’isola ionica di Zante e per questo il nome definitivo divenne Zante currant. Il nome più utilizzato nella terminologia moderna è Black Corinth, per distinguerlo dalle forme similari di uva passa ottenuta da mutanti di colore bianco e rosa ma dalle minori doti organolettiche

Caravaggio (Merisi Michelangelo da, 1573-1610), Giovane con canestro di frutta, Galleria Borghese, Roma (© 2010. Foto Scala, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

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aspetti storici commercializzazione dell’uva passa, soprattutto la Nera di Corinto, verso il mercato inglese. La viticoltura spagnola dal XII al XV secolo, fino alla cacciata dei Moriscos, avvenuta nel 1492, dispone di alcune varietà da tavola che le altre zone d’Europa non avevano. Autori di cultura geoponica, quali Ebin-el-Awar e Abdorraschid, descrivono alcune varietà dall’uso esclusivo per la mensa, stante il divieto di produrre e consumare vino in quella comunità, quali l’Assabea-el-Adari dagli acini ovali come una ghianda, chiamata anche Uva del bue, la Ma-la-Ressa’ o Dita di Vergine per la forma allungata delle bacche, Oioun-el-Bakar o Prugna per le dimensioni delle bacche e per il loro colore scuro, pruinoso, lo Zebib e il Kichmich, destinata alla produzione dell’uva secca, con semi la prima, apirene la seconda. Singolare è il divieto in vigore nella penisola iberica dopo la conquista musulmana di vendere uva nei mercati delle città in grandi quantità per assicurare un effettivo consumo del frutto e scongiurare la produzione di vino. Il passaggio da una viticoltura per l’autoconsumo a una viticoltura mercantile riduce le varietà finora impiegate anche per la difficoltà che avevano a maturare in condizioni climatiche che erano divenute poco favorevoli e orienta la scelta verso vitigni che coltivati vicino alle città, in quel periodo in forte espansione per l’arrivo di molti contadini affamati, vengono destinati al consumo diretto. Questa situazione rimane inalterata fino all’800, come testimoniano le prime rassegne ampelografiche di allora,

Uva da tavola rappresentata dal Bimbi

• Di particolare interesse l’intensa

attività pittorica del Bimbi (1648-1729), pittore toscano contemporaneo del Redi, presso la corte dei Medici. Nei quattro grandi dipinti raffigura con 77 grappoli altrettante varietà di uva da vino e da tavola che ci consentono di riconoscere quali erano i vitigni coltivati, in area culturale toscana, tra il XVI e il XVII secolo. Di questi, limitatamente a quelli da mensa, alcuni sono ancora presenti, anche se ormai poco coltivati (Frankenthal o Schiava grossa, Pizzutello bianco o Uva Corniola, Lugliola o Lattuario, Passerina o Corinto, Regina o Mennavacca, San Colombano, Seralamanna o Zibibbo), mentre altri sono scomparsi (Barbarossa, Bergo, Malaga nera, Madera bianca, Grassa bianca, Galletta nera, Paradisa o Uva di Venezia, Uva delle Donne o di Natale, Spagnola bianca, Moscatella detta Bizzaria, Zuccaia bianca)

• Un’occasione, questa, per ribadire

il problema dell’erosione genetica anche nelle uve da tavola e della necessità di attuare strategie di conservazione e valorizzazione del germoplasma antico

Bartolomeo Bimbi (1648-1725), Uve di 38 varietà, Galleria Palatina, Firenze (© 2010. Foto Scala, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

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storia e arte evidenziando una diffusione capillare nei territori agricoli sia di pianura sia di collina di questi vitigni, la cui variabilità si era nel frattempo arricchita di nuove accessioni e di selezioni locali. Si evidenzia una presenza generalizzata di varianti colorate e bianche di Moscati, Malvasie e Greci. L’uva da pasto nel Medioevo godeva di un’ottima considerazione dietetica (nella cosiddetta dietetica umorale) e veniva preferita l’uva bianca alla nera perché considerata più digeribile. Pier de Crescenzi, giudice bolognese, contemporaneo di Dante e di Marco Polo, nel suo Liber ruralium commodorum descrive le osservazioni ricavate dai suoi numerosi viaggi attraverso l’agricoltura italiana. Malgrado avesse attinto molte informazioni dalle opere dei Georgici latini, offre della viticoltura della Penisola uno spaccato molto originale. Numerose sono le citazioni di vitigni da tavola, a dimostrazione che nel Rinascimento le mense dei nobili si arricchivano dei loro grappoli. La Duracina o Duracla, come era chiamata a Bologna, si conferma essere tra le uve da tavola la più citata, il Muscatel o Moscato bianco compare per la prima volta in una rassegna ampelografica a testimonianza del suo arrivo in Europa a seguito dell’intensificarsi del commercio di vini dolci con la Grecia, la Linatica o Luglienga o Madaleine B. o S. Anna di Lipsia, coltivata soprattutto nell’Europa continentale per la sua precocità di maturazione, la Varana e il Melogono nero, coltivati per la loro serbevolezza in fruttaio. La descrizione che il de Crescenzi dà della Pergola o Bromesta può essere considerata un efficace trait d’union tra i tempi moderni e l’antichità, per comprendere come questo vitigno fosse ubiquitario in molte regioni europee sebbene con diverse denominazioni: Mennavacca in Campania, Bermestia in Sicilia, Apesorgia in Sardegna, Bramastone in Italia settentrionale, Bourduelas nel Jura, Weisser Verjus in Germania.

Nel villaggio di Thomery il primo esempio di viticoltura specializzata per l’uva da tavola

• L’abate Rozier scrive nel suo Corso

completo di viticoltura del 1783 che la coltivazione dello Chasselas a Thomery risale al 1730 ed era iniziata per rifornire di uva la mensa reale. Thomery era una località distante 64 km da Parigi che aveva trovato il modo di produrre uva da tavola di qualità all’aperto per rifornire il mercato parigino, malgrado la sua localizzazione geografica non molto favorevole alla viticoltura. Infatti lo Chasselas doré o Fontainebleau, come era anche chiamato dalla foresta omonima situata ai margini della quale sorge il paese, veniva prodotto da viti appoggiate su 350 km di muri esposti a sud-est. Alla esposizione ovest e sudovest era coltivata la varietà Frankenthal o Schiava grossa

• I muri, disposti in modo tale da non farsi ombra reciprocamente, erano alti da 2 a 3 m e tra i muri, lontani tra loro circa 8,5 m, vi erano 6 filari, 2 appoggiati ai muri e 4 controspalliere distanti tra loro 2,4 m. La forma d’allevamento, detta di Thomery, era una spalliera a cordoni verticali o orizzontali che presentava fusti di altezza diversa in modo da poter occupare tutta la superficie esposta del muro

Con l’età moderna l’uva da tavola esce dai giardini dei signori Numerose erano nel ’600 le uve da tavola, oggi in gran parte scomparse o quasi. Prevalevano le uve bianche e a sapore semplice, preferenze che sono rimaste anche nei consumatori d’oggi. Maturavano in tempi molto diversi e coprivano un periodo di consumo molto lungo, da luglio a novembre, consumo prolungato dalla conservazione in fruttaio. Era comunque un frutto delle classi agiate. Alla fine del ’600 la perdita di ruolo nel commercio internazionale, lo slancio minore nelle attività bancarie, i primi conflitti tra mondo aristocratico e la nascente borghesia, fanno tornare le classi ricche dell’Italia centro-settentrionale alla terra sia negli investimenti strutturali (abitazioni, sistemazioni di suoli, impianti di colture arboree) sia come luoghi di residenza permanente. Presso le abitazioni di campagna le persone più abbienti disponevano di pergolati dove coltivavano alcune varietà a maturazione

• Numerose e accurate erano le cure al

verde tra le quali le più importanti erano la cimatura del grappolo e la sfogliatura della chioma che si appoggiava al muro per favorire la buona riflessione del calore sui grappoli

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aspetti storici scalare e da serbo, mentre i viticoltori in mezzo ai vigneti da vino piantavano delle varietà che potessero fornire dell’uva da consumare durante i lavori in vigna, soprattutto d’estate. La distinzione tra uva da tavola e da vino appare quindi poco importante nella Toscana tardo-rinascimentale, come afferma il Soderini, in quanto ogni varietà può fornire uva ordinaria per la tavola, mentre se coltivata in ambiente adatto produce un buon vino. La creazione dei giardini-frutteto nei pressi delle abitazioni di campagna presuppone però la scelta di varietà da destinare esclusivamente alla mensa, o all’appassimento, come testimoniano le citazioni dei vitigni coltivati, di origine orientale come le Malvagie, le uve di Candia e di Cipro, le Passerine di Coranto (Corinto). Altri vitigni da tavola presenti erano l’Uva di Gerusalemme, dai grappoli lunghi fino a un metro, l’Uva Paradiso, la Pergolese, lo Zibibbo, il San Colombano e la Premice o Lugliola, che erano usati come decoro delle mense o come frutta da serbo, in quanto le varietà tardive erano di norma prevalenti. Faceva eccezione la Luglienga, che maturava verso la fine di luglio ed era la prima uva fresca che si consumava. La Campania, che durante il periodo imperiale aveva ospitato le ville per gli “ozii” dei patrizi romani e aveva favorito la produzione di vini e frutta di qualità destinata alle loro mense, mantiene questa ricchezza anche in età moderna, come testimonia il Porta nel Villae Libri del 1584, dove con citazioni fantasiose, quasi puerili, tenta di identificare i vitigni descritti da Plinio in quelli coltivati dai suoi contemporanei. Tra questi il Gingliese, così chiamato per i suoi acini di piccole dimensioni, il Leptorax per la precocità, la Muschatula (forse il Moscatellone) dagli acini grossi, croccanti e molto aromatici, le

Conservazione dell’uva secondo il metodo Thomery

• La conservazione dell’uva era realizzata con tre modalità: a rachide secco, a rachide fresco e sulla pianta

• La conservazione a rachide secco era

riservata per le uve di seconda scelta o per un consumo famigliare e veniva realizzata distendendo i grappoli su graticci di canne o letti di paglia oppure appendendo l’uva a fili appesi al soffitto

• Nella conservazione a rachide fresco

la preparazione dei grappoli iniziava nel vigneto con la gestione della chioma attorno al grappolo e con la pulizia dello stesso poco dopo l’allegagione. Molto accurata era la scelta dei grappoli nel vigneto e il loro trasporto dal campo al fruttaio. I grappoli venivano quindi messi, in numero di tre o quattro, in vasetti cilindrici di vetro contenenti acqua, con un pezzo di tralcio attaccato al rachide. Per contrastare fenomeni putrefattivi a carico dell’acqua si aggiungeva un po’ di sale e del carbone di legna assorbente. Quindi si appendevano questi vasi in ambienti moderatamente asciutti e oscuri. Durante la conservazione, che si poteva prolungare per circa un mese in modo da commercializzare l’uva nel periodo natalizio, si regolava l’umidità dell’ambiente ma soprattutto si manteneva il livello del liquido nei vasi. Il vitigno impiegato era lo Chasselas doré. La conservazione poteva anche realizzarsi sulla pianta come si faceva in modo più ampio ad Almeria (Spagna) con l’Aledo. In questo caso si usavano vitigni più tardivi e i grappoli erano insacchettati dopo l’allegagione lasciando aperto il fondo

Spalliera detta di Thomery

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storia e arte Tostole (majorina e minorina), coltivate sul Vesuvio, dalla buccia resistente e polpa croccante, riferibili alla Duracina, l’Uva Groia, (la Pergolese di Tivoli o Pergolana), molto serbevole tanto che può essere conservata da una vendemmia a un’altra, la Ceraunia, derivata dal greco Corneulus, per gli acini duri come un corno, e l’Uva Digitella di Napoli. Sono gli scritti di Olivier de Serres, ugonotto francese, che riescono a strutturare il pensiero agricolo alla luce di considerazioni scientifiche e a gettare le fondamenta moderne della viticoltura. Il suo Theatre d’Agriculture et menage des champs, del 1600 non rappresenta il consueto contributo di un erudito ma un vero e proprio trattato moderno di viticoltura ed enologia, dove le produzioni sono legate al territorio e orientate al mercato. Le informazioni che riporta saranno fondamentali nella formazione degli studiosi di viticoltura dell’800. Olivier de Serres aveva una profonda conoscenza degli scritti dei Georgici latini, ai quali spesso si riferisce nella descrizione delle varietà. Dei numerosi vitigni da tavola vengono riportati tutti i sinonimi che nel tempo si erano formati nei vari luoghi di coltivazione in Francia, partendo dalle denominazioni latine. Si scopre così che il Pizzutello è il Piquepoule, che la Viganne è il Bicane di Rabelais, che il Barberoux o Marroquin è l’Uva d’Africa. Verso la metà del ’700 le rassegne ampelografiche realizzate da Autori di formazione tedesca o francese riportano sempre con maggior frequenza molte varietà che diverranno fondamentali per la viticoltura europea circa un secolo più tardi, con la ricostruzione postfillosserica come il Sauvignon, la Folle blanc, lo Chasselas, il Morillon (o Pinot), mentre si evidenzia una forte rarefazione delle citazioni dei vitigni da mensa la cui coltivazione ritorna a essere, dopo un secolo di interesse crescente da parte dei consumatori più abbienti delle città, sempre più confinata nei giardini di campagna dei nobili o negli orti dei popolani. La coltivazione dell’uva da tavola con la nascita e l’affermazione della borghesia, per effetto della Rivoluzione francese, non è più riservata ai frutteti della nobiltà ma diviene per la moda collezionistica dell’800 oggetto di interesse da parte di eruditi e appassionati che costituiscono delle ricche raccolte varietali, dove sono presenti, vicino alle uve da tavola, anche le numerose varietà di pero, melo, fico ecc., oggetto di scambio tra i collezionisti. Dai numerosi trattati di ampelografia pubblicati in quegli anni, soprattutto in Francia, si evidenzia che la coltivazione di queste viti da mensa era soprattutto concentrata in Champagne e attorno a Parigi. Questi testi di erudizione, che via via diventano sempre più dei cataloghi varietali, elencano quasi sempre le stesse varietà, senza dare indicazioni sulla coltivazione delle stesse, essendo destinati non ad agricoltori ma a collezionisti e vivaisti. Inoltre compare per la prima volta una distinzione tra i vitigni, con l’indicazione di quelli che possono essere coltivati a pergola come

Produzione forzata di uva da tavola del Nord Europa o coltura in stufa

• I contenuti simbolici dell’uva hanno

richiamato l’interesse in ogni tempo dei ricchi commercianti e degli aristocratici delle ricche città del Nord Europa e dell’Inghilterra. Mentre Parigi disponeva dell’uva da mensa prodotta a Thomery, il costo del trasporto dalle regioni di produzione del Mediterraneo verso le altre città dell’Europa continentale era molto elevato e rendeva proibitivo un consumo diffuso di questo frutto. L’esperienza della produzione forzata di frutta durante tutto l’anno in grandi serre aveva favorito attorno alla metà dell’800, la nascita di una viticoltura di uva da mensa molto vicina ai mercati di consumo. In Inghilterra, la superficie di serre destinate alla produzione dell’uva da mensa era, a inizio ’900, attorno ai 600 ha. La convenienza a produrre uva da mensa in serra cessò alla fine degli anni ’30, per il miglioramento dei trasporti su rotaia e per il costo elevato dei combustibili per il riscaldamento. Le serre erano di due tipologie: mobili e fisse. Quelle mobili consistevano in protezioni allestite, per periodi più meno lunghi, attorno a tratti di filari e utilizzate per anticipare il germogliamento e quindi la raccolta, o per consentire la conservazione dell’uva matura sulla pianta per un tempo più lungo. Quelle fisse erano serre riscaldate di norma lunghe 20 m, larghe 8 m e alte 3,5 m. Le viti potevano essere piantate ai lati della serra, (continua)

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aspetti storici i Moscati, le Malvasie, gli Chasselas, e che hanno finalmente un uso esclusivo da mensa o per produrre sciroppi, agresto o uva secca, ma non vino. Lo Chasselas, nelle sue varianti cromatiche (bianco, nero), morfologiche (a foglie laciniate) e aromatiche (moscato, neutro), per la sua precocità ed elevata adattabilità climatica, si rivela il vitigno più diffuso, seguito dalla Corinto (bianca, rossa, nera, grossa) e dai numerosi Moscati (bianco, rosso, violetto, nero, d’Alessandria). Sono presenti il Marocco violetto dalla difficile maturazione, il Cornichon bianco adatto alla coltivazione in serra, l’Uva panachè (o variopinta, o bizzarria) dagli acini variegati bianchi-neri, interessante solo per un uso decorativo, la Bourduelas usata per preparare salse o agresto (verjus), l’Uva della Maddalena, la più precoce in quanto maturava attorno alla metà di luglio (11 luglio, S. Maddalena). La produzione di uva da tavola non ha mai avuto un ruolo significativo nella viticoltura italiana fino a quando lo sviluppo delle reti stradali e ferroviarie della seconda metà dell’800 non hanno reso economico il loro trasporto dalle zone di produzione a quelle di consumo. Tuttavia vicino alle grandi città come Milano, Torino, Firenze, Roma e Napoli è sempre esistita una non trascurabile produzione di uva da consumo diretto. Nel 1912 il Marzotto, forse l’ultimo dei “raccoglitori“ di vitigni che erano stati molto attivi nel secolo precedente, dà alle stampe una ampelografia, la prima destinata esclusivamente alle varietà da mensa. Nella prefazione individua quello che era allora (ma an-

(segue) in filari al centro o coltivate in vaso, per poterle trasportare fuori della serra stessa a seconda delle condizioni termiche del periodo. Per conseguire l’obiettivo di rifornire il mercato ogni mese con frutta fresca, si operava sulla diversa precocità delle varietà adottate e sui cicli di riscaldamento. Con la produzione cosiddetta ordinaria il riscaldamento iniziava in aprile-maggio e la raccolta avveniva in autunno. Si utilizzavano le varietà Frankenthal (o Schiava grossa), Alphonse Lavallée, Foster’s White Seedling e Black Hambourg. Nella produzione assistita il riscaldamento veniva anticipato tra febbraio e marzo e la maturazione si aveva in luglioagosto. La varietà utilizzata era Gros Colman. Se il riscaldamento veniva anticipato a novembre-gennaio e la raccolta tra marzo e maggio, l’uva spuntava i prezzi più elevati perché arrivava sul mercato quando non vi era altra frutta. Le varietà erano le stesse delle coltivazione ordinaria. Altrettanto vantaggiosa era la produzione di uva cosiddetta ritardata, realizzata con vitigni quali Black Alicante e Frankenthal, con la quale si ritardava l’inizio della vegetazione provocando una mancanza d’acqua nel suolo e mantenendo la temperatura invernale nella serra tra 3 e 8 °C in modo che i grappoli, maturi tra dicembre e gennaio, potessero conservarsi sulla pianta fino a maggio. Inoltre, al fine di indurre una adeguata fertilità delle gemme e favorire una maturazione regolare, grande cura veniva posta nella nutrizione minerale e nella disponibilità di acqua nel suolo

Modalità di trasporto dell’uva in cassetta nel vigneto (Az. Mossi, Piacenza, 1930)

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storia e arte cora oggi non completamente risolto) il problema principale del collezionista, del coltivatore e del vivaista, l’incertezza cioè della nomenclatura e delle false sinonimie. Lo stesso vitigno veniva chiamato con nomi diversi in luoghi diversi oppure varietà diverse erano denominate con lo stesso nome. Se per la produzione di vino il problema era superabile in quanto l’uva veniva quotata per il suo grado zuccherino, per l’uva da tavola l’identificazione precisa della varietà era determinante nella formazione del prezzo soprattutto sui mercati esteri. Le collezioni avevano a questo riguardo un ruolo fondamentale. Nella classificazione delle varietà il Marzotto non usa come di consueto il criterio dell’epoca di maturazione ma la resistenza che queste offrono ai trasporti. Solo se sopportavano le manipolazioni e i trasporti le varietà erano interessanti per la coltivazione su ampie superfici in quanto destinate ai mercati esteri. Le altre, anche se meritevoli dal punto di vista organolettico, potevano solo avere un’importanza sui mercati locali, come per esempio l’Invernenga bresciana, la Trentina bianca dei Colli Euganei o la Dorata di Montegaldella del Veneto.

Giorgio Gallesio: pomologo e ampelografo “di strada”

• All’indomani della definizione dei confini tra gli Stati della Penisola, decisa dal Congresso di Vienna, Gallesio, come scrive nei suoi Giornali di viaggio, visita i mercati frutticoli di molte città italiane tra il 1815 e il 1824

• Identifica e riconosce molte varietà

di albicocche, ciliegie, mele, pere, pesche, fichi e altre specie frutticole minori e naturalmente di uva. Rispetto alla grande variabilità che presentavano pere, pesche e fichi, l’uva da tavola offriva una gamma varietale relativamente limitata, che non superava i quattro-cinque genotipi, di solito a maturazione tardiva

Dalla produzione in serra del Nord Europa al sole del Mediterraneo Solo dopo il 1850 le uve da tavola divengono oggetto di una coltivazione industriale (forse il primo esempio di frutticoltura cosiddetta industriale nell’accezione moderna del termine, rappresentata da una produzione rilevante di frutta per il mercato o per la trasformazione, di qualità costante, in impianti specializzati) al po-

• Alcuni risultati delle sue visite: sul

mercato di Milano il 3 ottobre del 1821 riconosce il Moscatellone, il Pizzutello e un’uva non meglio precisata proveniente da S. Colombano, su quello di Verona, il 14 ottobre del 1825, trova lo Zibibbo, il Moscatellone, la Bigolona e un’uva da composta (uva carne), sul mercato di Firenze il 22 ottobre del 1819 trova una maggiore varietà di vitigni rappresentati dalla Regina, la Salamanna o Moscatellone di Spagna e forse la Barbarossa o Zibibbo. Sul mercato di Napoli che visita il 29 novembre del 1824 trova, data l’epoca, solo uve tardive, quali la Catalanesca, la Regina, chiamata anche Triglia bianca, la Cornetta (o Pizzutello) e il sempre presente Moscatellone

Prima Mostra Nazionale Uva da Tavola (Piacenza, 1932)

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aspetti storici sto di una viticoltura di suburbio o marginale realizzata da forme di agricoltura da autoconsumo. Le prime regioni che iniziarono a produrre uva da tavola in modo specializzato furono l’Almeria in Spagna e la Puglia in Italia. A queste produzioni corrispondono le prime iniziative di esportazione. Il primo esportatore fu Francesco Cirio, di Nizza Monferrato (che in seguito legò il suo nome ai pelati in scatola), nel 1876 verso la Francia con la Verdea piacentina e la Colombana pisana e nel 1885 in Germania in coincidenza con l’apertura della linea ferroviaria del Brennero inaugurata nel 1887. Prima di allora le uve da mensa erano prodotte attorno alle grandi città e nel Nord Europa in serra. Per l’esportazione la raccolta iniziava con le varietà precoci quali lo Chasselas doré e la Luglienga ai primi d’agosto e continuava con il Moscato d’Amburgo, la Baresana e la Colombana. Ma i carri merci dei treni italiani erano obsoleti e la mancanza di freni ad aria compressa non permetteva di viaggiare su percorsi veloci per raggiungere rapidamente i mercati più importanti quale quello inglese. La lunghezza del viaggio e il costo del trasporto erano spesso inadeguati a un commercio economicamente conveniente. Dopo la Prima guerra mondiale a causa della crisi del mercato del vino, per le accresciute richieste dei mercati del Nord Europa e la forte contrazione delle produzioni in serra da parte dei Paesi Bassi, le esportazioni spagnola, portoghese e italiana subiscono la concorrenza delle produzioni di Algeria, Turchia, Grecia e Francia. Tra le due guerre arrivano sui ricchi mercati inglese e tedesco le uve da tavola dei Paesi dell’Est europeo, in particolare dalla Bulgaria. Il successo delle uve bulgare era dovuta all’eccellente qualità di quella produzione sia per le condizioni climatiche dell’autunno che consentivano di prolungare i tempi di raccolta, sia per le poche varietà che erano commercializzate, quali la Bolgar, l’Afouz-Aly (la nostra Regina), il Dimiat, il Chaouch. L’offerta italiana invece era frammentata in numerosissime varietà, non sempre di prima qualità, perché spesso erano semplici uve da vino. Questi erano solo alcuni dei problemi che limitavano il ruolo dell’Italia sui mercati esteri. Il più importante era però costituito dalla frammentazione dell’offerta. Nel 1930 una Commissione di tecnici istituita per analizzare la produzione di uva da tavola in Italia aveva accertato che erano coltivate più di 200 varietà da tavola e nel raccomandare quindi di ridurne il numero a 8-10 suggeriva nel contempo di costituire delle cooperative di produttori per la vendita all’estero sull’esempio di quanto avveniva nella provincia di Piacenza. In quegli anni prendono l’avvio le esportazioni dai Paesi dell’altro emisfero (Cile, Sud Africa, Australia) che portano sui mercati europei l’uva fresca all’inizio della primavera, che nel passato era rappresentata dall’uva conservata nei fruttai, ma che a causa delle accresciute condizioni economiche dei consumatori trova sempre meno estimatori.

Primato della provincia di Piacenza nella produzione e nella commercializzazione dell’uva da tavola tra ’800 e ’900

• La vicinanza di Piacenza ai mercati

di città importanti come Pavia, Milano, Cremona e Brescia fece sviluppare una prosperosa viticoltura collinare fini dagli inizi dell’800. Con l’arrivo delle malattie americane la produzione di uva da tavola francese venne gravemente compromessa e nel 1877 due importatori, H. Decugis e L. Lannes, si rivolsero alla produzione piacentina. Nel 1888 Zerioli di Piacenza iniziò l’esportazione prima in Svizzera e poi in Germania e, in pochi anni, spedì fino a 35.000 cassette l’anno nella sola Svizzera. La produzione complessiva piacentina fu stimata nel ’900 attorno ai 50.000 quintali. I due centri principali di smercio furono la Valtidone e la Val d’Arda, e nel 1913 furono spediti via treno circa 48.000 quintali di uva. Ma la fillossera non risparmiò i vigneti di Piacenza e la superficie vitata destinata all’uva da tavola calò. La Prima guerra mondiale rallentò la produzione e le esportazioni ma nel 1932, con la Prima Mostra Nazionale dell’uva da tavola, Piacenza riaffermò la sua leadership. Anche se la produzione si era ormai spostata nell’Italia meridionale, Piacenza rimase un importante luogo di commercializzazione. Vennero prodotte praticamente solo uve tardive anche di recente introduzione come Italia, Moscato d’Amburgo e alcuni incroci di Pirovano, ma i rischi delle produzioni a raccolta autunnale e la concorrenza delle regioni più calde spostarono la viticoltura provinciale verso l’uva da vino

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storia e arte Nel 1912 la produzione nazionale di uva da tavola era di circa 500.000 quintali e il contributo della viticoltura meridionale era circa del 45%. La regione più importante era la Puglia, con il 18%, seguita dall’Abruzzo con il 15% e dal Veneto con il 12%. Delle varietà coltivate in quel periodo, scelte per la loro capacità di sopportare i trasporti, non rimane ormai traccia e con la delocalizzazione della viticoltura da tavola dalle regioni settentrionale a quelle meridionali si è passati dai vitigni tardivi e quelli precoci. Nel 1924 la produzione di uva da tavola era invece concentrata in Emilia con il 30% del totale e in particolare in provincia di Piacenza. I vitigni più coltivati erano il Besgano a bacca nera, tardiva molto richiesta sul mercato di Milano, e la Verdea bianca, di buona trasportabilità, che andava sui mercati tedeschi e svizzeri con il nome di Dorée d’Italie. Significativi erano i dati dell’export di uva da tavola nel 1924 da parte dei principali Paesi produttori e la relativa destinazione. La Spagna era il Paese con la maggiore quota di uva esportata, con circa 500.000 quintali, seguita dall’Italia con 390.000 e la Francia con 270.000. L’Inghilterra importava soprattutto dalla Spagna mentre la Germania dall’Italia. In questo periodo i Paesi Bassi (Belgio e Olanda) esportavano 45.000 quintali di uva da tavola prodotta in serra, in gran parte verso la Germania. Dagli anni ’30 iniziano però a manifestarsi i primi sintomi di una crisi dalle molte cause tra le quali le più importanti sono l’eccesso di offerta, il basso prezzo di vendita praticato dalle uve che arrivavano dall’Est europeo, l’incremento dei costi di trasporti, una concentrazione di offerta nei mesi di agosto e settembre alle quali si aggiunge la difficoltà della conservazione dell’uva. Solo l’uva di Almeria, l’Aledo, imballata in barili con sughero granulare, che ne garantisce la conservazione per alcuni mesi, si salva dalle crisi ricorrenti. In Italia la campagna di commercializzazione si apriva a metà luglio con lo Zibibbo di Pantelleria, continuava con le uve precoci siciliane (Luglienga, Panse precoce, Chasselas doré) e si chiudeva alla fine di novembre con le tardive delle regioni meridionali (Prunesta della Puglia, Catalanesca della Campania, Bonvino bianco dell’Abruzzo, Pergolese di Tivoli, Cimminita della Sicilia, Apesorgia bianca della Sardegna). Durante il periodo natalizio venivano commercializzate uve conservate in fruttaio (come l’Angelo del Bolognese, la Verdea e la Paradiso del Piacentino) o lasciate in pianta come la Pergolese o Uva d’Inverno dell’Abruzzo e l’Uva di Tre volte di Trapani. In alcune zone d’Italia vi era anche una produzione di uve chiamate a “doppia destinazione”, varietà che riescono a offrire contemporaneamente una buona qualità per il consumo diretto e la vinificazione. Questa scelta, che poteva andare bene per la produzione destinata ai mercati locali, si è rivelata una delle cause più importanti della diminuzione dell’esportazione italiana negli

Alberto Pirovano, eclettico genetista di uve da tavola

• Alberto Pirovano nasce nel 1884 a Vaprio

d’Adda, in provincia di Milano, da una famiglia di vivaisti. Si può considerare il pioniere della mutagenesi indotta, un mutazionista devresiano sui generis in quanto precede storicamente l’avvento del mendelismo. Compie esperimenti di manipolazione genetica mediante energia elettromagnetica irradiata su polline, fiori e gemme presso l’Istituto di Frutticoltura ed Elettromagnetica di Roma, da lui fondato nel 1927. Ottenne pregevoli incroci tra i quali spicca il vitigno Italia, ottenuto nel 1911 incrociando il Bicane, vitigno a fiori femminili, con il Moscato d’Amburgo, probabilmente il maggior contributo italiano finora apportato al miglioramento dell’uva da tavola in termini sia qualitativi che di diffusione nel mondo. Tra le altre numerose varietà da lui create per correggere alcuni difetti quali la colatura o l’acinellatura si ricordano tra le più di 500 create per incrocio, la Perlona, la Delizia di Vario, il Primis. Ebbe l’intuizione di creare in anticipo sui tempi alcune cultivar apirene quali la Maria Pirovano (Zibibbo per Sultanina), la Sultana moscata e la Rodi. Tra i vitigni ottenuti dall’applicazione di correnti elettromagnetiche, tutti con colorazioni della bacca molto particolari, si ricordano la Ignea dal colore rosa aranciato e in ricordo dei padri dell’elettromagnetismo i vitigni Volta e Galvani

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aspetti storici anni che precedettero la Seconda guerra mondiale. Tra queste varietà a doppia destinazione si ricordano il Tarantino del Barese, la Cococciola di Ascoli, il Trebbiano in Abruzzo, l’Angelo a Bologna e la Verdea a Piacenza. Lo sviluppo di nuove varietà e l’introduzione di tecniche colturali proprie della frutticoltura industriale portano a un miglioramento della qualità dell’uva portata sui mercati ricchi del Nord Europa e quindi a un rinnovato interesse per questa frutta. Nel 1950 l’esportazione di uva prodotta in serra nei Paesi Bassi verso i mercati inglese e germanico non supera i 25.000 quintali annui. La produzione si sposta decisamente verso il sud della Penisola dopo il 1955 e su una produzione nazionale di 3 milioni di quintali dei quali 400.000 esportati; la Puglia partecipa con circa il 40% del totale. La Baresana diviene la varietà più coltivata, seguita dalla Pergolese o Mennavacca (Regina), mentre in Abruzzo la produzione prevalente è di Pergolese di Tivoli e in Sicilia, abbandonato lo Chasselas doré, si coltivano soprattutto vitigni molto precoci, quali la S. Anna di Lipsia, la Panse precoce, la Madeleine Angevine. Scompare definitivamente la produzione della provincia di Piacenza, mentre i suoi produttori-commercianti mantengono la loro attività per un certo periodo, esportando le uve di origine meridionale verso i mercati tedesco e svizzero.

Foto S. Somma

Raccolta di uva nel 1950

Conclusioni La storia dell’uva da tavola, singolare esempio di ambiguità identitaria, perché confusa con quella dell’uva da vino, ha tuttavia presentato aspetti rilevanti di originalità e sviluppo culturale. Sebbene in maniera molto minore rispetto al vino, la sua presenza sulle mense sia dei poveri sia dei ricchi ha espresso significati simbolici legati alla fecondità e alla ricchezza. Lo sviluppo delle varietà da mensa è apparso più simile a quello della frutta fresca che non a quello dell’uva da vino: lo dimostrano i luoghi e le modalità di coltivazione, la rapida evoluzione ed erosione delle varietà, le tecniche di conservazione e di trasporto. La mancanza di un rapporto fidelizzato con il terroir e con la trasformazione in vino ha reso la coltivazione dell’uva da tavola più effimera presso i viticoltori e soggetta ai cambiamenti di gusto e di mercato, ma la sua coltivazione in serra nei Paesi del Nord Europa ha reso il suo consumo una consuetudine importante durante le festività natalizie, quale auspicio di prosperità. Contrariamente alla produzione di vino l’innovazione genetica si è dimostrata per l’uva da tavola un fattore determinante di sviluppo, così come la domanda di qualità intrinseca e di sanità del frutto da parte del consumatore comporta una coltivazione in ambienti di grande vocazione quali il Mezzogiorno d’Italia. A questo proposito vale la pena ricordare un’affermazione dei Georgici latini: “l’uva prodotta negli ambienti più vocati era destinata alla mensa, l’altra alla vinificazione”.

Foto S. Somma

Moscato d’Amburgo, varietà coltivata nel Piacentino fin dagli inizi del ’900

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l’uva da tavola

storia e arte Religione e arte Gaetano Forni

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storia e arte Religione e arte Raccolta di vegetali, antropologia e religione Come scriveva Vico: “Il significato di un fatto, di un processo è comprensibile solo conoscendone la genesi”. Ecco quindi che noi possiamo renderci conto del significato della religione nell’ambito di una popolazione di raccoglitori di vegetali solo considerando il lunghissimo periodo in cui l’uva era un frutto tra gli altri frutti, raccolto per una funzione mangereccia immediata, come la generalità degli altri prodotti vegetali, cioè partendo dall’analisi antropologica dell’economia della caccia-raccolta, in ambito preagricolo. Ciò implica la necessità di rivivere il comportamento e la corrispondente mentalità del raccoglitore. Comportamento e mentalità che, mutatis mutandis, come ci insegna l’etologia umana, sostanzialmente, sotto il profilo psicologico profondo, non mutano nella loro essenza, nell’ambito di qualsiasi tipo di raccolta di prodotti alimentari vegetali spontanei, siano essi funghi o frutti, come l’uva, o erbe. E non mutano nemmeno nel tempo, almeno entro certi limiti. Considerando l’argomento che dobbiamo qui trattare, occorre quindi sottolineare e ribadire il fatto che, in epoca preistorica preagricola, la vite spontanea con i suoi frutti era una delle tante piante che le donne del branco nomade o seminomade teneva presente durante le soste che intervallavano le periodiche peregrinazioni. Come è noto, e come è stato rilevato studiando il comportamento dei cacciatori raccoglitori contemporanei o qua-

Significato antropologico della raccolta dei vegetali

• L’economia preistorica di raccolta

di vegetali richiede massimo impegno e non è scevra di difficoltà e pericoli. È soprattutto in queste situazioni che emergono il sentimento e il pensiero religioso. Questo quindi dipende sostanzialmente dalla coscienza comune in tutti gli esseri umani che l’Io dipende dal Non Io. Per capire veramente il significato antropologico della raccolta di prodotti vegetali e della straordinaria tensione psichica che essa provoca, occorre partire dalle proprie e più usuali esperienze, vissute direttamente o indirettamente, quale la raccolta dei funghi

Raccoglitore in equilibrio sul ramo di un alto noce per staccare con i denti i grappoli di uva nelle foreste transcaspiche (© Tiane Doan na Champassak/Agence VU)

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religione e arte si contemporanei, tribù amazzoniche, boscimane del Kalahari in Africa, le popolazioni nomadi ritornano, in seppur lunghi intervalli, nei medesimi luoghi. Le donne, solitamente dedite alla raccolta, ricordano perfettamente i luoghi del territorio ove sono ubicate piante che danno determinati tipi di frutti, dove crescono più abbondanti determinate erbe alimentari, particolarmente tenere e appetibili, conoscono determinati alberi con cui tengono rapporti per così dire personali. Questi comportamenti del resto possono essere almeno in parte noti pure alle popolazioni attuali cui apparteniamo, che praticano, per esempio, anche se in modo saltuario, la raccolta dei funghi. È quindi necessario rifarci a esperienze di questo tipo, per individuare, indagare e analizzare il comportamento e la psicologia dei raccoglitori. Ciò tenendo soprattutto presente che, nel caso delle genti specificamente raccoglitrici, si tratta di esperienze il cui eventuale esito negativo può giungere a essere causa di morte per fame. Ma è ora necessaria un’altra premessa. Sempre l’etologia umana ci spiega che le radici del comportamento religioso sono analoghe nell’uomo preistorico come in quello contemporaneo che sbarca sulla luna. L’evoluzione culturale cambia soprattutto le forme. Il fondamento profondo della religione consiste infatti nella coscienza, presente appunto in tutti gli esseri umani, della dipendenza dell’Io dal Non Io. Percezione di dipendenza che si accentua non solo nei momenti di gravissimo rischio, diretto o indiretto, di morte (per esempio anche il mancato sostentamento porta alla morte), ma affiora pure con la sensazione che un obiettivo fortemente voluto e perseguito rischia di diventare irraggiungibile. Percezione di dipendenza dal Non Io, presente anche nei cosiddetti atei. La diversità tra le religioni e di queste con l’ateismo dipende appunto dal diverso livello di assolutizzazione della percezione del Non Io e dalla presenza o meno della personalizzazione di questa. Gli atei evidentemente non credono in un dio personale, ma dipendono dalla Natura, dal Mondo, dall’Universo, che scrivono con la maiuscola. Quindi più vi sono incertezza e rischio in una situazione e nei risultati di una vicenda, e di conseguenza più vi è coscienza di dipendenza dal Non Io, più, nel caso delle relazioni religiose propriamente dette, vi è ricorso al Non Io, cioè alla divinità. Nell’ambito dell’ateismo soccorre lo studio della natura, della materia e, nei momenti più disperati, la speranza nel Fato, nel Caso.

Differenza tra vinaccioli di vite domestica (più appuntiti, in basso) e di vite selvatica (più panciuti, in alto)

Ricorso a esperienze di vita vissuta Ecco quindi che in tutte queste prospettive risultano utili, anzi preziose, come già si è accennato, le esperienze di vita vissuta. Di conseguenza è ora necessario effettuare una pur sintetica analisi psicoantropologica dell’esperienza di chi anche oggi si dedica a operazioni di raccolta. Ricordo al riguardo le gesta e le vicende che mi raccontava mio padre circa una sua parente, formidabile raccoglitrice di funghi. Quei quindici-venti giorni di ferie estive

Tralcio di vite selvatica con grappoli d’uva

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storia e arte essa li passava sempre nella stessa località piemontese di mezza montagna. E perché? Perché là conosceva i siti dei funghi. E le era costato moltissimo tempo, tenacia e fatica reperirli. Indagini pazienti e meticolose, mediante accorti sondaggi sui cercatori locali di funghi. Avvicinamenti circospetti ai medesimi, per sapere, con frasi e domande “innocenti” del tipo “Che tempo farà domani?”, “Verrà un temporale anche questo pomeriggio?”, “È ben segnato il sentiero che va alla cima Zeta?”. Ma fino a questo punto i luoghi dove crescono abbondanti i boleti erano ancora per lei top secret. Aveva dovuto cominciare con indagini ancor più circospette, da detective, appostamenti da finestre, con lunghe trattative se le finestre non erano quelle della propria pensione, ma di un’altra villeggiante. Pedinamenti delicatissimi nei riguardi dei ricercatori del posto, curando di non inciampare in sassi, non muovere fronde, per non far rumore o far sorgere sospetti. Alla fine, ecco trovato il sito dei funghi. E tutte queste macchinazioni senza alcun rimorso, perché quel bosco è del demanio, e quindi di tutti. I siti dei funghi non sono monopolio di nessuno. Ma trovare il sito non è tutto: il cercatore locale di funghi esce di casa alle 6.30. Allora bisogna precederlo, uscire alle 5.30 o anche prima. Quello è solo uno dei posti visitati. Occorre trovarne altri, perché i siti vanno visitati a intervalli più o meno lunghi, a seconda della specie fungina, dell’ospite da questa parassitato, dell’andamento stagionale. Il peggio poi erano le discussioni in famiglia, con il marito e i figli: “Perché noi d’estate dobbiamo andare sempre nelle stessa località? I miei amici vanno un anno a X, l’anno dopo vanno a Y. Un anno vanno al mare, un altro in montagna”. Tutti uguali questi mariti! Porti loro ogni giorno o quasi un bel cestello di funghi, e per di più li cuoci ogni volta in modo diverso, e non ti dicono nemmeno grazie! E brontolano, brontolano a non finire!

Venere di Savignano, Museo Preistorico ed Etnografico Pigorini, Roma (© 2010. Foto Scala, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

Statuetta di Venere proveniente dal Lago Trasimeno, collezione Palmi di Casale, Firenze (© 2010. Foto Scala, Firenze) Confronto tra grappolo di vite domestica e grappolo di vite selvatica

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religione e arte Anche senza tirare in ballo la villeggiatura della nostra parente e i suoi funghi, anche nella periferia della città, mi ricordo, delle viottole di campagna che, quando ero bambino, s’intrecciavano tra prati e campi. Esse erano generalmente affiancate da siepi, c’erano così mille siepi dove si sviluppavano sambuchi, prugnoli e soprattutto, in taluni siti, viti spontanee e così pure altre piante che fornivano fiori e frutti commestibili e talvolta medicinali. Alla loro ombra crescevano le erbe alimentari: le insalate selvatiche, i tarassachi, che le donne chiamavano piscialetto, perché stimolano a orinare anche nel letto, senza accorgersene. Le malve, efficaci contro il mal di ventre. Ne parla anche Fogazzaro in Piccolo Mondo Antico, per bocca di uno dei suoi personaggi, una massaia chiacchierona. E anche nelle campagne intorno alla città, in questo modo, si ripetevano le medesime vicende descritte, per la ricerca dei funghi. È ovvio che, mutatis mutandis, sostanzialmente ciò avveniva pure da parte delle massaie preistoriche e dei tempi successivi, per la raccolta delle uve dalle viti selvatiche o paradomestiche o comunque spontanee della Maremma toscana e delle altre località: del Caucaso, come di tutte le vallate fluviali circum mediterranee, come pure nelle siepi attorno alla mia città, ove crescevano, più o meno abbondanti, e talvolta crescono ancora, tali viti. È utile qui menzionare, a proposito della raccolta di uva da viti spontanee o subspontanee delle siepi, il trattato di erboristeria di Luigi Pomini (Torino, 1973) che ha il grande merito di contemperare le esigenze della farmacologia tradizionale con quelle di una farmacologia d’impostazione più moderna, il quale informa che l’uva di queste viti ha sempre elevati effetti nutritivi per i carboidrati che contiene. Inoltre, consumata fresca, ha efficaci effetti tonici, antireumatici, diuretici, lassativi, disintossicanti, depurativi. Consumata secca, combatte la tosse e cura le altre affezioni delle vie respiratorie. Il ricercatore o la ricercatrice di funghi o di bacche, di insalate o di uve spontanee, è pienamente conscio che gli esiti della sua ricerca sono del tutto precari. Quando ero bambino (avevo una decina di anni) talora accompagnavo nella ricerca una ragazzina, Luisa, anch’essa appassionata ricercatrice di funghi. Lungo la strada, un po’ percepivo, un po’ capivo quel che diceva pregando ad alta voce la Madonna, l’Angelo Custode e altri Santi: “Fammi trovare oggi una bella brisa (così chiamava Luisa i boleti). E poi perché solo una, ma due, tre, così faccio bella figura con la mamma, con papà, poi con quell’accidente di mio fratellino, che mi prende sempre in giro! E soprattutto con quella smorfiosa di Alda, che si dà un sacco d’arie perché lei ha fatto le magistrali e ha studiato il latino, e io no, perché ho frequentato solo la scuola di Avviamento Professionale. Il mio Angelo Custode deve proprio aiutarmi, farmi andare nel punto giusto, se no che ci sta a fare? Dio lo ha creato per fare se non per aiutarmi? E se non mi aiuta adesso, vuol proprio dire che mangia il pane a ufo, è stato creato per niente…”.

Venere di Lespugue, Musée de l’Homme, Parigi (© 2010. Foto Scala, Firenze)

Raffigurazione preistorica della Dea Madre, feconda produttrice di vegetali e protettrice delle donne nell’attività di raccolta

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storia e arte Rammentando ora quanto si è premesso all’inizio e per porre nella giusta prospettiva la tensione immanente nella ricerca di funghi della parente di mio padre e di Luisa nei confronti di quella delle donne della preistoria ricercatrici di uva e di altri frutti selvatici, bisogna tener presente che ovviamente, nel caso di Luisa, si trattava quasi di un capriccio, di semplice volontà di prestigio. Per la ricercatrice preistorica di uva e di altri frutti l’esito positivo della raccolta, talora base del suo nutrimento, come già si è sottolineato, poteva essere questione di vita o di morte e quindi la sua consapevolezza della propria dipendenza dal Non Io va moltiplicata anche per cento, per mille volte.

Fonte di ogni vita

• Come aveva magistralmente evidenziato C.G. Jung, l’idea principe della fonte di ogni vita costituisce un istinto profondo perenne insito nell’animo umano. Essa già dal Paleolitico è stata simboleggiata nella divinità suprema: la grande Dea Madre, che presso i Romani era Pomona

Dea della fecondità In epoca romana antica la divinità che sovrintendeva all’abbondanza dei raccolti di frutta era Pomona. Era raffigurata come una giovane e florida donna recante in mano una cornucopia (recipiente a forma di corno) ripiena di grappoli d’uva e di frutti variopinti, profumati e gustosi. Secondo il mito, le era marito Vertunno, dio anch’esso protettore dei vigneti e dei frutteti, che svolgeva i suoi benefici effetti soprattutto nei cambi di stagione: lo indica il suo nome (vertere = voltare). La leggenda riporta che Pomona aveva pretese impossibili nella scelta del marito. Ci riuscì Vertunno, con un’abile astuzia. Dopo vari tentativi infruttuosi e dopo aver studiato per lungo tempo i gusti dell’amata, avendo notato che si confidava e si intratteneva solo con donne anziane, Vertunno l’avvicinò sotto le vesti di una benevola e vivace vecchierella. Le parlava dei vari tipi di frutti, della dolcezza di certe uve, di come coltivarle in aiole che facevano risaltare la loro presenza, di come irrigarle nelle stagioni siccitose. Le fece capire che, con a fianco un marito competente, operoso, interessato alla sua opera di sviluppo e di potenziamento della fecondità dei frutteti e dei vigneti, avrebbe potuto condurre un’esistenza più felice e attiva. A questo punto, dopo averla convinta, si eclissò e subito dopo le venne incontro, sotto le vesti di un giovanotto aitante, sbucando da una siepe. Essa lo accolse con viso sorridente, mostrando di gradire la sua compagnia. Il momento delle nozze fu presto vicino. A un livello più arcaico, in continuità con la preistoria, giungono le ricerche di Momolina Marconi. Essa è riuscita a individuare figure più antiche della dea della fecondità, che hanno preceduto quella di Pomona, nell’ambito del Mediterraneo protostorico. Si tratta della Potnia Futòn, la possente Signora delle Piante, che troneggia nei miti pre-greci. Essa è indicata con nomi diversi e in forme diverse nelle varie leggende. Un esempio particolarmente significativo è quello di Circe. La sua sede è Aia, la terra fertile, umida, feconda. Scrive la Marconi: “Essa… (dispone) di un giardino dove coltivare segretamente tutte le piante necessarie per l’attività di ogni giorno (melograni, viti, fichi, cotogni…). Veramente la dea mediterranea… domina tutto il verde che ricopre la natura e – qua-

Iran settentrionale (1200-1800 a.C.), figura femminile stilizzata in terracotta del tipo Dea Madre, Museo Nazionale d’Arte Orientale “G. Tucci”, Roma (© 2010. Foto Scala, Firenze)

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religione e arte le farmachìs – porta in sé il segreto dei succhi celati, delle misture prodigiose: quindi ella sa e possiede le piante delle forre come le corolle dei prati; sa in una parola, tutta la natura, e tutta la natura possiede meravigliosamente. Tuttavia è comprensibile che questa vigile raccoglitrice di erbe e di infiorescenze e di radici medicamentose ne sia l’esperta coltivatrice in un giardino suo – aiuola nel suo più vasto giardino che è il mondo – …”. La Marconi aggiunge che “Europa o Atalanta, Persefone o Calipso – (sono) espressioni tutte della grande dea…come pure Artemis, Hygieia, come Hera, come Bona Dea, Feronia, Diana, Flora e tante ancora – …”. Essa tratteggia perfettamente la figura della donna, veramente “Domina” delle civiltà protocoltivatrici, per lo più matriarcali o almeno matrilineari, in cui essa, raccogliendo i prodotti vegetali spontanei in boschi e prati, proteggendo e coltivando piante nel proprio orto/frutteto, viene a conoscere tutti i segreti. Tra queste piante è inevitabile che troneggi la vite. Ed è per questo che la donna, nelle civiltà protocoltivatrici, è pure maga, fata o anche fattucchiera, a seconda della fisionomia propria, personale e di quella della gente cui appartiene. Circe, Medea, Calipso… rappresentano tutte appunto l’idealizzazione, l’ipostasi e la personificazione di questa femminilità arcaica che pure, almeno nei villaggi, deve essere perdurata come modello e tipo sociologico dal neolitico, e anche da prima, sino al periodo classico, e anzi nelle regioni mediterranee più conservatrici, sino a oggi. Ciò anche se il suo regno qui va limitandosi alla casa e significativamente all’orto, frutteto, vigneto (Salomone Marino, 1897). Ma bisogna aggiungere che la creatività, nei rapporti donna-pianta, esige tempo libero e non l’impellenza di compiti pressanti, quali possono avere madri, che debbono fornire alimento sufficiente per la famiglia; per questo, una funzione determinante nell’ideare le tecniche di coltivazione sopraccennate debbono aver avuto le ragazze e forse, in minor misura (la creatività è dote giovanile), le anziane, libere da incombenze familiari. L’attività plasmatrice di nuove piante è, sotto qualche aspetto, più limitata a partire dal tardo Neolitico quando le piante domestiche non vengono più protette nei siti ove sono nate e cresciute spontanee, una per una, ma trasferite altrove, coltivate e ammassate in aiuole sottoposte a cure standardizzate e quindi a condizioni di coltivazione uniformi. La selezione e l’evoluzione avvengono verso la creazione di quelle sottospecie che meglio si adattano alle condizioni di massa e alla coltivazione in serie. D’altra parte, anche il coltivatore è portato a individuare e a sviluppare quelle tecniche e quelle forme tecnologiche più efficienti a riguardo dei vegetali ammassati. Il rapporto personale donna-pianta si è trasformato nel rapporto comunità coltivatrice-collettività vegetale coltivata, in cui il termine “collettività vegetale” andrebbe meglio sostituito con quello di “massa vegetale”. In coincidenza con questa evoluzione di carattere agrotecnologico, permane possente nella psiche umana collettiva, in parti-

Arte cipriota: Divinità madre, Louvre, Parigi (© 2010. Foto Scala, Firenze)

Tyre, Età del Bronzo (1400-1230 a.C.), Deamadre con bambino in terracotta, Louvre, Parigi (© 2010. Foto CM Dixon/Heritage Images/Scala, Firenze)

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storia e arte colare nell’animo degli artisti, l’archetipo primordiale della Potnia futòn: la Dea Madre e Signora delle piante. Ecco che la materializzazione di essa la ritroviamo interpretata e indicata con le denominazioni più diverse in alcune opere d’arte moderna: la Signora delle Piante, di Osvaldo Peruzzi (1933), troneggiante tra paesaggi diversi: marini, montani, collinari. L’esplosione di fiori, frutti fantastici nel Trionfo Vegetale di Giacomo Balla (1927). La Donna Mistero, tra gigli neri, di Thayaht (Ernesto Michahelles) (1923), pittore che nello stesso anno raffigura anche la Dea Madre nella veste della Signora degli Uragani.

Archetipo della Grande Madre

• Anche gli artisti moderni

inconsciamente materializzano l’archetipo della Grande Madre nei ritratti, idealizzati e profondamente rielaborati, di donne loro contemporanee

Esaltazione biblica del frutto della vite: un formidabile grappolo d’uva, emblema della Terra Promessa Anche la Bibbia vetero-testamentaria ricorre alla simbologia dell’uva, quando vuole esaltare la fecondità, l’abbondanza. Tipica la vicenda dell’ispezione organizzata da Mosè nella Terra di Canaan, in sostanza l’attuale Palestina, nel periodo in cui gli Ebrei vagavano nelle steppe d’Arabia e della penisola del Sinai, per sondare quali fossero le caratteristiche e la ricchezza delle genti che avrebbero dovuto espropriare ed espellere, e soprattutto sulla fertilità e la bellezza di quella regione. È sostanzialmente ciò che la storia ci racconta di tutti i popoli nomadi o seminomadi, per lo più pastori. È la fama delle pianure fertili, con le loro ricche città, che spinge le genti pastorali guerriere delle steppe, dei monti, a invadere e saccheggiare le pianure fertili: in Mesopotamia fu il caso degli Accadi nei riguardi dei Sumeri. Nell’antico Egitto degli Hyksos, tribù del deserto, dei barbari Germani nei riguardi di Roma e, secoli prima, dei pastori di Romolo nei riguardi delle ricche terre etrusche.

Giuseppe Arcimboldo (1527-1593). Curioso ritratto dell’imperatore Rodolfo II d’Austria. I grappoli d’uva costituiscono la sua capigliatura Vendemmia nell’antico Egitto. Tomba di Nakht, XVIII dinastia

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religione e arte Mosè scelse un rappresentante per ognuna delle dodici tribù, come si legge nella Bibbia (Numeri 13, 4-25) e li inviò nella Terra di Canaan. Qui gli esploratori raccolsero campioni dei frutti tipici di quella regione: fichi, melograni, ma il frutto più impressionante fu un formidabile grappolo d’uva così grosso e pesante che occorrevano due uomini per trasportarlo. Essi dovettero appendere il tralcio con l’enorme grappolo su di una stanga, che, caricata sulle spalle, diede loro la possibilità di portarlo a vedere ai propri connazionali. Molto realisticamente, la Bibbia racconta altresì che alcuni degli esploratori raccontarono anche dell’apparente forza dei Cananiti, delle poderose opere di difesa delle città che gli Israeliti avrebbero dovuto espugnare dopo sanguinose battaglie. Non dobbiamo quindi meravigliarci che questi si ribellarono violentemente, minacciando di uccidere a colpi di pietra (lapidazione) Mosè e gli altri capi, che intendevano mobilitarli per quella spedizione di conquista. Fu poi principalmente Giosuè, uno degli esploratori, che, con le sue parole travolgenti, mostrando gli straordinari prodotti di quella terra, in primis il formidabile grappolo di uva, esaltando gli allettanti vantaggi della conquista, tentò di convincere i riottosi. Ma fu soprattutto la forza della religione e la tenacia dei suoi capi che da tempo prospettavano il miraggio d’impossessarsi della “Terra Promessa” da Dio ad Abramo e ai suoi discendenti (Genesi 12, 7). Di un territorio “in cui sgorgavano abbondanti latte e miele”, e sul quale si sviluppavano vigneti rigogliosi e i cui abitanti, come scrive la Bibbia, “potevano facilmente essere divorati come il pane”, ciò che trascinò alla fine i figli d’Israele all’invasione.

Simboli relativi all’uva su monete antiche greche e italiote. Qui moneta di Naxios (Sicilia), 430-420 a.C.

Foto R. Angelini

Nicolas Poussin (1594-1665), L’autunno o il grappolo della Terra promessa (1660-1664), Louvre, Parigi. (© 2010. White Images/Scala, Firenze)

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storia e arte In effetti le genti di Canaan, come in genere le popolazioni agricole e mercantili, sostanzialmente si mostrarono piuttosto imbelli e abbastanza facilmente vennero sopraffatte. È per noi soprattutto significativo il fatto che fu l’immagine del formidabile grappolo d’uva a essere uno dei simboli propulsori che galvanizzò il popolo d’Israele alla conquista. Ancora oggi lo troviamo riprodotto tra le scene bibliche raffigurate nelle nostre chiese.

“Io sono la vite, voi i tralci”

• Sin dall’antichità l’uva è ritenuta

il frutto per eccellenza, simbolo supremo dell’abbondanza, e i suoi tralci, con le grandi foglie, straordinario ornamento. Tralci e foglie di vite costituiscono per esempio l’ornamento fondamentale di un famoso monumento antico: l’Ara Pacis Augustea

“Io sono la vite, voi i tralci” Mentre la religione viticola pre-cristiana e anche l’esaltazione vetero-testamentaria dell’uva è spesso fumosa, basata su fantasticherie o esagerazioni mitiche, quella cristiana è centrata sulle parole di Gesù, di uno cioè che la vite la conosceva davvero, perché, anche se era artigiano, falegname, carpentiere, non contadino, in realtà, come tutti gli artigiani tradizionali, evidentemente coltivava il suo orto con qualche vite e qualche albero da frutto. Soprattutto vivendo in un villaggio, e quindi in full immersion con i compaesani viticoltori che acquistavano i suoi manufatti, zappe, aratri, carri, faceva propria la loro esperienza di lavoro e di vita. Riportiamo quindi le sue parole dal Vangelo di San Giovanni (15, 1-8). In esse il messaggio religioso è profondamente inserito nel linguaggio viticolo: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto Egli lo recide, e ogni tralcio che porta frutto lo pota per rimondarlo e perché ne produca anche di più… Come il tralcio non può portare frutto da sé medesimo, se non rimane nella vite, così neppure voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Colui che rimane in me e io in lui porta abbondante frutto… Chi non rimane in me è gettato via come tralcio sterile e viene poi raccolto e gettato ad ardere nel fuoco… Il Padre mio sarà glorificato se produrrete frutti copiosi…”. Questo passo, come è facile notare, contiene elementi di tecnica viticola, di principi di potatura che possono risultare preziosi per uno storico della viticoltura. Né Teofrasto né Esiodo, e neppure Catone o Virgilio o Columella, li evidenziano in modo così netto o chiaro. Leggendo questo passo del Vangelo sembra quasi di avere davanti agli occhi il viticoltore con la roncola che pota (potatura verde) ed elimina i tralci improduttivi. Poi, dopo la vendemmia, rimonda e accorcia i tralci a legno e quelli a frutto. Sembra di leggere i primi rudimenti della potatura alla Guyot. Il turista frettoloso che visita le nostre chiese, stracolme di immagini di tralci, pampini, foglie, viticci, grappoli, e forse gli stessi teologi che commentano i Vangeli, spesso non si rendono pienamente conto di questi aspetti e del perché profondo di suddetti simboli.

• Anche in ambito cristiano la vite

costituisce un elemento artistico di notevole rilevanza. “Io sono la vite, voi i tralci. Come il tralcio non può portare il frutto da sé medesimo se non rimane nella vite, così neppure voi, se non rimanete in me”, così scrive il Vangelo di San Giovanni, riferendosi a Cristo. Ecco perché nelle chiese il simbolo e ornamento principe è il tralcio di vite carico di frutti

Spesso le chiese, come questa di Vervò (TN) dedicata a San Martino, portano in evidenza tralci di vite e grappoli d’uva. Ciò in quanto Gesù disse: “Io sono la vite, voi i tralci…”

Vite e uva dalla religione all’arte Le varie specie e sottospecie dell’uomo preistorico sono state indicate dai paleontologi con appellativi significanti le loro caratteristiche operative o d’altro genere più tipiche, per esempio 50


religione e arte Homo abilis, Homo sapiens, riferendosi rispettivamente all’abilità nel foggiare i primi attrezzi o al primo rilevante sviluppo intellettuale, e così via. Ma l’Homo sapiens è anche, appunto perché sapiens, come abbiamo rilevato, religiosus e pure fictor (scultore), delineator (pittore, disegnatore). Ecco quindi che la Potnia futòn, come Gran Madre della fecondità delle donne innanzitutto, ma anche di quella delle praterie, delle steppe, delle foreste, delle acque, viene raffigurata con statuine come quella paleolitica (Paleolitico Superiore) di Grotta delle Veneri, in provincia di Lecce, rappresentata incinta, con floride mammelle. Ecco la Potnia futòn minoica, effigiata su un gioiello dell’epoca (età del Bronzo): essa è posta al centro; a destra una sacerdotessa le offre un frutto, a sinistra un’altra sacerdotessa sta piantando un albero. Ecco, proseguendo nel tempo, le sue effigi micenee, poi greche, romane e, infine, fantasticamente interpretate e riprodotte in epoche successive classicheggianti, Rinascimento in particolare, per esempio Circe, Cerere, Pomona, e del suo comprensivo e dolce marito, Vertunno. Ma ovviamente l’archetipo della dea della vegetazione e dei suoi frutti riguarda la fecondità della natura in forma generica. Più specificamente l’esaltazione dell’uva risulta nelle opere artistiche raffiguranti le imprese mitologiche delle divinità della vite. Ecco per esempio che Dioniso, il dio dell’uva prima che del vino, è rappresentato su un vaso (kylix) del 530 a.C., reperito a Vulci (e ora conservato nel Museo dell’Arte Antica di Monaco di Baviera), dor-

Il re tracio Licurgo strangolato da una vite, per vendetta di Ambrosia (IV sec. a.C.) (British Museum, Londra) Arte romana: Fauno e menade, affresco pompeiano, Museo Nazionale, Napoli (© 2010. Foto Scala, Firenze/Fotografica Foglia, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

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storia e arte miente su di una nave, l’albero della quale è una vite stracolma di grappoli. Si veda anche il Bacco dipinto come grappolo d’uva a Pompei. Raffigurazione di miti talora tragici, come quello del re tracio Licurgo, strangolato da una vite per vendetta: il re infatti aveva perseguitato le sacerdotesse di Dioniso. Ma ciò che più colpisce l’immaginazione dell’artista anche nel mondo antico è la vendemmia, raffigurata persino sulle monete, con grappoli d’uva talora isolati, talora connessi con il toro, simbolo di vigoria feconda, altre volte sul tralcio che corona la testa di Bacco/Dioniso, o addirittura sull’intera vite, allevata ad alberello. Si vedano anche le scene degli amorini vendemmianti nella casa dei Vetii a Pompei, e quella ad analogo soggetto, su di un’anfora in vetro cammeo, reperita sempre a Pompei. Gli uccelli beccavano l’uva del dipinto di Zeusi (Plinio, XXXV, 61-63): il verismo nelle nature morte Un significato originariamente religioso connesso con il culto della fecondità, della Dea delle Piante e quindi con il suo archetipo, hanno avuto anche le così chiamate “nature morte”. Basti ricordare le raffigurazioni di cornucopie (come si è visto, grossi recipienti a forma di corno bovino, ricolmi di frutti allettanti), presenti negli affreschi e bassorilievi relativi alle mitologie dell’antichità. Nature morte con eminente significato estetico si reperiscono pure negli affreschi di Pompei ed Ercolano. Noto il vaso di frutti con uva raffi-

Bacco/Dioniso dipinto come grappolo d’uva in uno straordinario affresco pompeiano (Museo Nazionale Archeologico, Napoli)

L’antico dio greco della vite, Dioniso, dorme tranquillamente adagiato su un’imbarcazione cullata dalle acque; l’albero della nave è una vite (Museo dell’arte antica, Monaco D.)

Pompei, il venditore di frutta

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religione e arte gurato in un fregio della villa di Giulia Felice a Pompei, conservato nel Museo Nazionale di Napoli. Plinio (XXXV, 61-63) riferisce di un pittore di Eraclea in Magna Grecia, Zeusi (circa 450-394 a.C.), che dipingeva l’uva in modo talmente realistico che gli uccelli andavano a beccarla. Era un pittore di fama internazionale che operò a Crotone, ad Atene, ove frequentò Socrate, a Pella in Macedonia, dove decorò il palazzo reale. Morì a causa della violenta emozione provocatagli dallo straordinario apprezzamento ricevuto per un suo quadro, appunto eccezionalmente veristico. Questo perfezionismo esigeva uno sforzo notevole nell’artista. Lo sottolineava anche il Caravaggio, che precisava: “per dipingere un cesto d’uva e altra frutta occorre lo stesso impegno che per rappresentare delle figure umane”. Ma i Paesi dove sbocciò l’era d’oro delle nature morte, in cui spesso troneggiava l’uva, furono l’Italia del Rinascimento e, con lieve precedenza, l’Olanda della medesima epoca. È un periodo esplosivo sotto il profilo demografico, agricolo (per le profonde innovazioni agronomiche), commerciale (queste derivate dalla recente scoperta dell’America). Erano gli anni fine ’500-prima metà del ’600 in cui in Italia operavano e scrivevano colossi dell’agronomia, quali Agostino Gallo, famoso per le sue Vinti giornate dell’agricoltura, e Camillo Tarello, che aveva fatto brevettare dal Senato Veneto il suo metodo di coltivazione “continua”. Metodo geniale che permetteva di evitare l’intervallo di un anno a maggese, ogni due o tre, a seconda della rotazione. Egli quindi giustamente poteva vantarsi di aver aggiunto un nuovo continente produttivo, quello

Bacco incoronato di pampini e uva: maiolica del XVI secolo della bottega Della Robbia, esposta al Museo Viticolo di Torgiano (PG)

Arte romana: Natura morta con coppa di frutta (particolare), Museo Nazionale, Napoli (© 2010. Foto Scala, Firenze/ Fotografica Foglia, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

Fregio scolpito con animali fantastici e un tralcio di vite, arricchito da grappoli d’uva; l’opera fa parte di un pergamo, che si trova nella chiesa di S. Maria Maggiore a Pianella, Pescara (© Archivi Alinari/Archivio Anderson, Firenze, 1931 ca.)

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storia e arte improduttivo, occupato prima dal maggese, al vecchio continente, quello già produttivo. Ecco che questa situazione, stato d’animo, modo di pensare si rifletteva anche nella pittura e in particolare nelle cosiddette “nature morte”. Termine sorto a posteriori verso la fine del XVII secolo in Olanda e certamente accettabile per indicare le raffigurazioni miscellanee di oggetti inanimati, come per esempio in quell’opera di Samuel van Hoogstraaten (1627-1678) che illustrava cinture, pennelli da barba, tagliacarte, pettini ecc., ma poco adatto per indicare quadri con stupendi e vivissimi mazzi di fiori, cesti ricolmi di grappoli d’uva allettanti, vassoi traboccanti di mele variopinte, di pesche trasudanti gocce di succhi di cui è facilmente immaginabile il soave profumo e il gradevole sapore. Per queste opere sarebbe molto più adatto il termine “Nature vive”! In realtà, come riporta Norbert Schneider, uno specialista nello studio critico di questo settore artistico, alcuni degli autori di queste opere erano consapevoli del loro vero significato: Jordaens per esempio indicava il suo capolavoro, in cui Pomona riceve offerte di grappoli di uva, come Allegoria della fertilità. L’influenza in Italia dei pittori fiamminghi autori di nature morte fu favorita dal fatto che Alessandro Farnese, figlio di Ottavio Farnese e Margherita d’Asburgo, ricoprì la carica di governatore dei Paesi Bassi dal 1577 al 1592. Egli e i suoi amici e collaboratori collezionarono diverse opere di tale genere. Esse divennero presto di moda, tanto da invadere, alla fine del ’500, le quadrerie delle

Grappolo d’uva nelle nature morte

• Dal Rinascimento, epoca in cui esplose il tipo e modello dell’arte delle nature morte di uve e di frutti, esso trova grande interesse anche tra la gente comune. Nelle nature morte vegetali, i grappoli d’uva non mancano quasi mai. Le motivazioni profonde di questo interesse sono da connettersi al loro legame innato con l’archetipo della Grande Madre, la cui manifestazione suprema è la produzione di frutti

Caravaggio (Merisi Michelangelo da, 1573-1610), Canestro di frutta (la fiscella), Pinacoteca Ambrosiana, Milano (© 2010. Foto Scala, Firenze)

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religione e arte principali raccolte italiane. Un crogiolo di queste nuove correnti pittoriche fu Cremona, per questo definita dai critici d’arte l’Anversa italiana. Non c’è quindi da stupirsi che, tra i più significativi pittori di nature morte del nostro Paese, ci siano i Campi, nati e operanti appunto a Cremona, in particolare Vincenzo (1536-1591). L’atteggiamento della fruttivendola nella tela conservata nella pinacoteca di Brera a Milano (inv. n. 333), che mostra al cliente con orgoglio uno splendido grappolo di uva nera, tolto da una tinozza ricolma di tali frutti, è espressione del nuovo modo d’interpretare la realtà. Quello stesso che animava il Gallo e il Tarello, centrato sull’esaltazione e sul rinnovo dell’agricoltura. Si sono distinti, tra gli artisti italiani che dipinsero nature morte, altri conterranei dei Campi, in particolare Panfilo Nuvolone (15811651) e suo figlio Carlo (1609-1661). Tuttavia la nascita in Italia dell’arte delle nature morte, intesa come forma artistica indipendente, la si deve assegnare al già citato Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (1571-1610), in quanto originario da questa località lombarda. Fu la realizzazione del suo straordinario capolavoro, lo stupendo canestro di frutti dipinto a cavallo tra il 1597 e l’anno successivo, che gli fece meritare tale primato. Il fitopatologo prof. Elio Baldacci, nelle sue lezioni all’Università di Milano (anni ’50-’70 del ’900), soleva ripetere che tale opera era una sintesi, un piccolo trattato visivo sulle malattie della vite e degli altri alberi fruttiferi, per l’esattezza e la precisione con cui Caravaggio vi aveva illustrato su foglie e frutti i sintomi delle varie malattie: la mela appare bacata, gli acini dell’uva e la buccia delle pere portano i segni specifici provocati dai vari parassiti e così via. Questo capolavoro, ora conservato all’Ambrosiana di

Panfilo Nuvolone (Cremona 1581-Milano 1651), Alzata con uva, altri frutti e farfalle (Caroli e Veca, 1999)

Giovanna Garzoni (1600-1670), Uva, pere e una lumaca, Galleria Palatina, Firenze (© 2010. Foto Scala, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

Bartolomeo Cavarozzi (1587-1625), Festoni di grappoli d’uva e altri frutti. Cavarozzi è uno dei più affascinanti pittori che ispirò la sua arte a Caravaggio (Gregori, 2003)

Vincenzo Campi (1536-1591), Natura morta con frutta, Pinacoteca di Brera, Milano (© 2010. Foto Scala, Firenze, per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)

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storia e arte Milano, era stato inviato dal Cardinale Del Monte, estimatore e protettore del Caravaggio, al Cardinal Federico Borromeo. Un’altra famosa natura morta di questo pittore è il Fanciullo con Canestro di Frutta, conservato nella Galleria Borghese di Roma, da lui elaborato, come pure il Bacchino Malato, con identica precisione, quasi fotografica, nei primi anni ’90 del ’500. Altro pittore lombardo di nature morte fu Giuseppe Arcimboldo (1527-1593), famoso per i suoi bizzarri ritratti di imperatori (Rodolfo d’Austria) e di altri personaggi, realizzati come composizione di frutti con grappoli d’uva. Alla scuola caravaggesca fiorentina, appoggiata dalla Corte Medicea, appartennero stimati pittori di nature morte, quali Filippo Napoletano (1587-1629), Giovanna Garzoni (1600-1670), specializzata in lavori a tempera su cartapecora, e Bartolomeo Bimbi (1646-1729), realizzatore, oltre al resto, di 24 tele con ogni specie di frutti, dall’uva agli agrumi. Importante anche la scuola caravaggesca napoletana, con artisti di rilievo quali Luca Forte. Nelle sue nature morte egli sapeva raffinare i suoi dipinti abbinando alla rappresentazione dei frutti quella dei fiori. Tra i pittori di nature morte, talora influenzati da correnti post caravaggesche, è da citare anche il genovese Bernardo Strozzi (15811644). L’arte delle nature morte prosegue ben oltre il ’600, tanto che Umbro Apollonio, nella sua monografia La natura morta nella pittura

Agronomi

• In agronomi, almeno idealmente tali,

quali il Gallesio, il Garnier Valletti e Girolamo Molon, la coscienza tecnicofrutticola più raffinata si sposa con la bellezza dei modelli di frutti e di grappoli

Bartolomeo Cavarozzi, Putto vendemmiante

Christian Berents (1658-1722), Donna che coglie l’uva (Museo di Capodimonte, Napoli)

Bartolomeo del Bimbo, detto Bimbi (1648-1729), pittore prediletto dai Granduchi Medicei di Toscana. La vivacità e la freschezza dei colori fanno sembrare i suoi frutti come appena colti (Palazzo Pitti, Firenze)

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religione e arte italiana, a p. 79 viene a dichiarare che “Il vero secolo delle natura morta è il Novecento”. Ma poi precisa che nei dipinti di questo secolo “gli elementi della realtà oggettiva… restano privati della loro forma tangibile per vivere solo in quanto esponenti lirici, oppure in quanto… ricevono funzioni allusive… così le nature morte ‘metafisiche’ di Giorgio De Chirico (1888) oppure di Carlo Carrà (1881)… Nelle nuove nature morte… (quelle realizzate) da Gino Rossi (1884-1947)… a Filippo de Pisis (1896-1956)… gli oggetti diventano vere e proprie figure… su di esse si esercita… il processo astrattivo”. Ecco che allora chi vuol ritrovare la realtà oggettiva e le forme tangibili deve rifugiarsi nei modelli plastici di frutti e grappoli oltremodo concreti, realizzati anche per motivi pratici (la distinzione delle varietà per l’insegnamento della frutticoltura e viticoltura non solo nelle scuole professionali, ma anche nelle aule universitarie). Stiamo riferendoci ai modelli in gesso o cera di Antonio Piccioli (1794-1842) e di Garnier Valletti (1808-1889), ai disegni della Pomona Italiana di Giorgio Gallesio (1772-1839), opere non prive anche di un rilevante valore estetico. Se essenziali, sia per la formazione culturale degli operatori viticoli, sia per la comprensione del significato e della rilevanza della viticoltura, sono i musei che ne illustrano le vicende e la storia, è evidente che anche a questo settore dovrebbero essere dedicati opportuno spazio e attenzione.

Viticoltura nei proverbi

• Viti e gelsi non vogliono compagnia (non devono essere coltivati in consociazione con altre colture)

• Per arricchire bisogna avvitire (cioè piantare viti)

• Se d’aprile a potar vai, molt’acqua beverai (cioè produrrai poca uva)

• Chi nel marzo non pota, la sua vigna

perde la vendemmia (Questi due proverbi sono tra loro complementari)

• Vigna piantata da me, moro (gelso) da mio padre, olivo da mio nonno

• Il vecchio pianta la vigna, il giovane la vendemmia

• Se tu vuoi della vite trionfare, non gli

tôrre e non gli dare, e più di due volte non la legare (Non consociare la vite con altre piante, e non darle letame, il tralcio non deve essere troppo lungo, così che possa essere legato una sola volta)

• Non mi toccare (potare) quando sono molle

• Fammi povera, ti farò ricco (La potatura energica aumenta il raccolto)

• Ramo corto vendemmia lunga • Chi vuole un buon potato, più un occhio e meno un capo (Pochi tralci con molte gemme)

• Chi lo beve, non lo mangia (Il grano consociato con la vite non rende)

• Chi ha vigna ha tigna (La vite va curata) • Casa fatta e vigna posta non si sa quel che costa (Come per la casa, anche per la vigna le spese sono imprevedibili)

• Casa fatta e vigna posta, mai si paga

quanto costa (I costi sono imprevedibili e possono superare i guadagni)

Il naturalismo caravaggesco appare completamente abbandonato a favore di un maggiore effetto della decorazione nella Scuola Genovese e in particolare in Bernardo Strozzi (1581-1644) (collezione privata)

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l’uva da tavola

storia e arte Numismatica Giuseppe Ruotolo

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storia e arte Numismatica Sulle monete antiche l’immagine del grappolo dell’uva, simbolo bacchico per eccellenza, fu vastissima. La citazione delle molte zecche che lo utilizzarono quale simbolo della città sede di zecca sarebbe solo esercizio nozionistico, comunque largamente incompleto. Non vi è regione che si affacci sul mare Mediterraneo, “il mare vinoso” come lo chiamava Omero, ove non sia documentata l’esistenza di più zecche, che in qualche modo non abbiano usato un’immagine che possa essere ricollegata all’uva o al vino: a iniziare da Dionysos, sino alla rappresentazione di uno dei personaggi del suo corteo o di un simbolo dionisiaco. Dionysos fu per i Greci antichi fra i più importanti dèi terrestri. Fu il dio del vino, della viticoltura e della fertilità della terra e più in generale rappresentò il progresso umano. Fu anche il dio della gioia e della liberazione: il vino, sin dalla più remota antichità, permise agli uomini di liberarsi dai vincoli terreni e dimorare in una dimensione superiore e Alceo, poeta greco del VII-VI secolo a.C., espresse questi concetti in alcuni versi: “… il figlio di Zeus e di Semele / che diede agli uomini il vino / per dimenticare i dolori”. Quello che può essere ricordato in questa circostanza è che sulle monete antiche vi furono figurazioni di grappoli di uva con e senza pampini, con e senza viticci, talvolta ancora attaccati al tronco, spesso associati con altri simboli: con una bipenne, con la clava, con un delfino, con la spiga di grano, con un kantharos, con un bastone, con due stelle, poggiato su un tavolo, entro corona di spighe di grano, entro corone di edera o di vite. Queste diverse associazioni facevano certamente riferimento a culti e tradizioni locali, di cui siamo informati solo attraverso la documentazione delle monete, che per ricchezza di immagini ci mostra documenti che non è possibile reperire in alcun altro ambito. Talvolta più grappoli furono rappresentati a Mende in Macedonia, a Meliboea in Thessalia, a Stratus in Acarnania, a Eretria in

Maroneia, Tracia, emidracma, circa 386/5348/7, argento, magistrato Neomenias, peso 2,46 g

Foto R. Angelini

Maroneia, Tracia, statere, circa 386/5-348/7, argento, magistrato Euchithemios, peso 10,84 g Resti di Selinunte

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numismatica Euboea e a Cnidus in Caria; sulle monete battute a Maeronia in Lydia e a Lix in Mauretania furono apposti due grappoli di uva, mentre a Naxos, isola dell’Egeo, fra i due grappoli fu inserito un kantharos. A Phlius, nel Peloponneso, quattro grappoli di uva furono posti in una ruota e in Tracia a Maroneia una pianta di vite con pampini e quattro grossi grappoli di uva occupa un campo del rovescio di uno statere databile alla prima metà del IV secolo a.C. A Locri Opunti in Locride i grappoli furono posti al vertice di un triangolo e in questa rappresentazione si può credere di vedere rappresentate le ultime tracce di antichissime credenze orfiche alle quali si sovrapposero pratiche devozionali misteriose legate a Dionysos. Un grappolo di uva appare rappresentato anche su qualche bronzo della serie grave del Lazio e fu poi utilizzato, con significato apotropaico, in parecchi bronzi anonimi della Repubblica, talvolta in associazione a una farfalla in atto di posarsi, ma rimane difficile spiegare l’associazione. Su un emiobolo in rame emesso dalla zecca di Arpi in Daunia, databile al III secolo a.C., al diritto si osserva la testa di Athena, con elmo corinzio, volta a destra, e al rovescio il grappolo di uva e intorno la legenda APΠA NOY. Il culto di Dionysos, sorto nelle regioni più orientali del mondo conosciuto dagli antichi greci, passò nella selvaggia Tracia, ove assunse carattere orgiastico e strepitoso e così penetrò in Grecia, ove ebbe modo di diffondersi e modificarsi, elevandosi da celebrazioni rappresentative della vita agricola e pastorale e del trascorrere delle stagioni a espressione della vita spirituale, innalzandosi al rango di filosofia di vita come nelle credenze eleusina e orfica e nelle rappresentazioni teatrali: la tragedia, la commedia, il dramma satiresco. In Grecia, in Sicilia e in Magna Grecia e più in generale dove i Greci dominarono, il culto di Dionysos ebbe queste valenze. L’immagine di Dionysos sulle monete deve essere considerata a tutti gli effetti come sigillo cittadino scelto come emblema della città, in cui è possibile individuare elementi che caratterizzano il luogo dal punto di vista sia geografico sia produttivo. Altrettanto importante fu l’aspetto religioso giacché la moneta fu sempre considerata a tutti gli effetti emanazione della divinità. Spesso l’emblema cittadino fu rappresentato dall’immagine della divinità protettrice della città, associata a particolari simboli e attributi o figurazioni relative al mito, sottolineando il ruolo di custode che la divinità assumeva nei confronti di tutti gli aspetti della vita cittadina. A volte la rappresentazione di Dionysos sulle monete di una particolare zecca conteneva e racchiudeva in sé più valenze, ciascuna non meno importate delle altre. In queste circostanze il segno distintivo, il sema, raggiungeva la massima espressività. La moneta antica fu in effetti strumento espressivo della città greca, che vedeva rappresentata la propria identità nel segno apposto, utilizzato

Zecca di Arpi, III secolo a.C., emiobolo, rame. Testa elmata di Athena, volta a destra, e grappolo di uva Foto R. Angelini

Tempio di Segesta

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storia e arte come affermazione di indipendenza e autonomia politica, caricando sovente le scelte iconografiche di significati ideologici e trasformando spesso le emissioni in vere e proprie manifestazioni artistiche. La prima polis a coniare monete in Sicilia, intorno al 530 a.C., sembra sia stata Naxos, colonia greca situata sull’odierno Capo Schisò, ai piedi di Taormina. Il tipo della più antica monetazione di Naxos mostra la testa di Dionysos al diritto con un grappolo di uva e la legenda NAXION al rovescio. Queste rappresentazioni ricorrono sia sulla dramma, la moneta di argento di maggior valore del peso pari ai nostri 5,7 grammi circa, sia sulla sua frazione, verosimilmente corrispondente al valore di un obolo e del peso di circa 0,80 grammi. Fra queste antiche emissioni a doppio rilievo di Naxos il dio fu rappresentato con la testa barbuta, più spesso volto a sinistra, coronato da un serto di edera. La figura è di stile arcaico, ma l’artista che lo rappresentò riuscì a infondergli un grande phatos mostrandolo di profilo, con grande occhio di prospetto, l’iride e la pupilla ben marcate, la fronte sfuggente, due grandi baffi spioventi e la barba lunga e appuntita, i capelli ben raccolti sulla nuca che scendono ondulati sul collo. Al rovescio un tralcio con grappolo di uva e pampini. Il tipo sembra alludere alla produzione vinicola che, forse per la natura del suolo scarsamente adatta a colture diverse, doveva costituire una peculiare caratteristica della città, in effetti è evidente l’allusione alla specializzata coltivazione della vite quale espressione di una qualificata attività del ceto dominante. Questa produzione numismatica fu bruscamente interrotta quando Naxos fu conquistata da Ippocrate di Gela (490 a.C.) e poi spopolata da Hierone di Siracusa (476 a.C.). Quando la tirannide di Siracusa nel 461 a.C. cadde la città si ripopolò rapidamente e verso la metà del V secolo ripresero le coniazioni. I tipi ricalcarono i vecchi motivi, ma in questa nuo-

Naxos, Sicilia, litra, 461-404 a.C., argento, peso 0,52 g. Testa barbuta di Dioniso e grappolo d’uva. Intorno, foglie e viticci Foto R. Angelini

Naxos (Sicilia), 461-430 a.C., dracma, argento, peso 4,30 g. Testa di Dionysos volta a destra e Sileno itifallico in atto di bere del vino da un kántharos

Resti del centro romano di Egnazia, Brindisi

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numismatica va fase la rappresentazione di Dionysos sulle monete di Naxos raggiunse le vette della migliore produzione artistica, tuttora insuperata. La testa barbuta del dio, coronato con serto di edera, volta a destra, fu rappresentata con i capelli raccolti sulla nuca; l’occhio è visto di profilo con folte sopracciglia e palpebre grassocce e le labbra appaiono carnose e sensuali. Al rovescio visto frontalmente, un Sileno itifallico ebbro, appoggiato al suolo, con il braccio destro sollevato a reggere un kántharos che si immagina ricolmo del liquido spremuto dall’uva. Si tratta di una delle più straordinarie creazioni dell’arte monetale, opera di incisore con singolare sensibilità, del quale però non ci è stato tramandato il nome, come in altre circostanze. La vite fu sempre espressione di festività, di allegrezza, di gioventù spensierata e fiducia nel futuro: una tessera in bronzo, di incerta attribuzione perché anepigrafe, ma sicuramente di avanzata epoca imperiale, mostra da un verso la testa di un bambino coronata di pampini e il petto circondato da una ghirlanda di grappoli di uva. È stata avanzata l’ipotesi che possa trattarsi del piccolo Annio Vero, figlio dell’imperatore Marco Aurelio. Al rovescio la sigla SC è inscritta in un serto di pampini e di uva. Su un sesterzio dell’imperatore Traiano (98-117 d.C.) rappresentante la Dacia, uno dei due bambini che stanno accanto alla personificazione porta un grappolo di uva, mentre l’altro ha fra le braccia delle spighe. Verosimilmente deve interpretarsi come un grappolo di uva l’oggetto, spesso indistinto, che fu posto in mano alla Vbertas sulle monete di Traiano Decio (249-251 d.C.) e di sua moglie Etruscilla, di Erennio (249-251 d.C.) e di Ostiliano (249-251 d.C.), entrambi loro figli, di Treboniano Gallo (251-253 d.C.), di Valeriano padre (254-260 d.C.), di Gallieno e di sua moglie Salonina, del tiranno Postuno (259-267 d.C.), dei due Tetrici (267-273 d.C.), di Claudio II il Gotico (269-270 d.C.) e di suo fratello Quintillo (270 d.C.), di Aureliano (270-275 d.C.), di Tacito (275-276 d.C.) e Floriano (276 d.C.), sicché è verosimile che l’allusione alla fertilità sia stata costante. Su grandi bronzi di Adriano, Antonino Pio, Faustina juniore moglie di Marco Aurelio e di Commodo (175-192 d.C.) la Terra – Tellvs stabilita – che appare sdraiata all’ombra di una vite posando il capo sul globo terrestre che le sta accanto e sul quale saltellano quattro putti, rappresentazione delle stagioni, si poggia con il gomito sinistro a un canestro ricolmo di grappoli di uva. Questa figurazione fu ripetuta in un bronzo di Giulia Domna, moglie di Settimio Severo (193-221 d.C.) con la legenda Fecvnditas. Pomona nel medaglione di Commodo con il motto Temporvm felicitas appare seduta tenendo nella mano sinistra due spighe di grano e un seme di papavero indicando con la destra due fanciulli nudi che le stanno davanti in una tinozza; il primo in piedi coglie dalla vite i grappoli maturi mentre il secondo fu rappresentato nell’atto di pigiarli e un terzo fanciullo, ancora in fasce, sembra godere della

Neapolis (Napoli), statere di argento del 325-241 a.C. (diritto). Testa di ninfa con grappolo di uva dietro al collo

Taras (Taranto), statere di argento del 345335 a.C. (rovescio). Taras nudo a cavalcioni del delfino tiene con la mano destra un grappolo d’uva

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storia e arte

Repubblica Italiana, biglietto di Stato da 100.000 lire, II tipo Caravaggio

scena. Non è improbabile che questa così vasta e diversificata rappresentazione faccia riferimento a particolari vitigni coltivati localmente, senza dimenticare che sia il grappolo dell’uva sia le diverse parti della vite erano utilizzati in modi e circostanze diverse quale rimedio contro i mali e come antidoti per veleni e un aforisma molto in voga affermava che “si rendevano necessarie le medicine ogni volta che mancava il vino”. La vite però fu anche simbolo di fertilità e si può supporre che anche il grappolo di uva avesse tale significato nella monetazione antica. L’apposizione sulle monete di questo simbolo agreste fu del tutto abbandonata durante il Medioevo, giacché la moneta si caricò di significati diversi. La figura del grappolo di uva sulle monete, svincolata da qualsiasi legame con Dionysos (Bacco per i Romani) tornò in auge quando i re vollero far credere che ricchezza e abbondanza erano facilmente raggiungibili. È il caso del tornese battuto a Napoli durante i moti del 1647-48, quando si realizzò la “rivoluzione di Masaniello”: sul più piccolo dei nominali battuti in rame si pose da un verso il simbolo della repubblica e del libero popolo napoletano e al rovescio il grappolo dell’uva, mentre sui nominali maggiori si rappresentarono il fascio di spighe (mezzo grano o tre tornesi) e il cesto ricolmo di spighe e di frutta con ben evidenti proprio i grappoli di uva (due tornesi). La rappresentazione del grappolo di uva sul nominale minore fa supporre una scelta ben ponderata, giacché il tipo avrebbe avuto la massima circolazione e il messaggio insito avrebbe raggiunto ogni strato sociale. Un cesto ricolmo di frutta, con diverse varietà di uva, tratto da un dipinto del Caravaggio è posto al verso dell’ultima banconota da 100.000 lire stampata dalla Banca d’Italia dal 1983. È uno dei rari esempi di richiamo al mondo agricolo su biglietti di Stato, per questo aspetto preceduto solo dal biglietto del valore di cinquanta lire, tipo Capranesi “buoi” emesso dal 1915 al 1920 e dal biglietto da 2 lire emesso con decreto di emissione del 14-11-1939.

Velia (Campania), statere di argento del 410-400 a.C. (rovescio). Testa di ninfa con orecchino e collana che presenta nel campo grappolo d’uva con foglia e viticci

Ferdinando IV di Borbone, I periodo, zecca di Napoli, 4 cavalli 1790. Testa del re, nuda, volta a destra (in alto) e segno del valore (C 4, cavalli 4) con data 1790 e grappolo d’uva con pampini (in basso)

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numismatica Foto R. Angelini

Banconota slava da 1000 dinari

Il grappolo di uva, con gli stessi intrinseci significati, fu apposto anche su uno dei più piccoli nominali, il quattro cavalli, battuti nella zecca di Napoli a nome di Ferdinando IV di Borbone fra il 1788 e il 1792. In epoca moderna il grappolo d’uva è stato scelto e utilizzato sul tipo da 5 lire della prima serie della Repubblica Italiana, non solo quale espressione della vocazione agricola del popolo italiano, ma anche quale simbolo pregnante della nostra tradizione. Si deve anche rammentare che nel primo progetto per la monetazione della Repubblica Italiana dedicato in modo speciale all’agricoltura, un grappolo di uva figura nei pezzi di argento accanto a un caduceo. Il grappolo di uva con o senza pampini, talvolta rappresentato in associazione con altri simboli agresti, è possibile trovarlo coniato su alti piccoli nominali battuti in Austria, in Grecia e in Israele dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale. In Romania e in Spagna su monete metalliche coniate sul finire degli anni ’30 del secolo scorso si trova il grappolo di uva che è anche raffigurato su una piccola serie in bronzo e alluminio del Camerun. Infine anche sul più piccolo dei nominali dell’ultima serie della Repubblica Italiana (50 lire Cerere) si trova questo simbolo tanto significativo nella storia del progresso civile.

Repubblica Italiana, 5 lire, 1949, I serie

Foto R. Angelini

50 lire della Repubblica Italiana Banconota greca da 500 dracme

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