La Vite & il Vino - Storia e Arte

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La vite & il vino botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato


la vite e il vino

storia e arte Origine e storia Attilio Scienza

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storia e arte Origine e storia Introduzione Nessuna specie vegetale o derivato dalla trasformazione agricola presenta una diversificazione produttiva o qualitativa paragonabile a quella che offre la vite nelle sue circa 10.000 varietà o gli infiniti profili sensoriali dei vini che da queste vengono prodotti in tutte la parti del mondo. Questa diversità non dipende solo dalle condizioni pedoclimatiche dei luoghi dove l’uva viene prodotta, ma è soprattutto il risultato del lavoro di numerose generazioni di viticoltori che negli angoli più disparati dell’Europa e del vicino Oriente, a partire dal Neolitico, hanno dato a questa bevanda una precisa identità culturale, espressione di un interscambio continuo tra uomo, vitigno e ambiente di coltivazione. La storia della vite e del vino, pur essendo una grande storia per avvenimenti e per durata temporale, è in sostanza la sommatoria di tante piccole storie regionali e locali, che nel corso dei secoli si sono stratificate con modalità spesso di difficile interpretazione e che hanno come protagonisti gli innumerevoli ignoti viticoltori ai quali siamo debitori per il silenzioso e spesso incompreso lavoro che hanno svolto nella selezione dei vitigni, nella sistemazione delle colline rendendole adatte alla loro coltivazione, nella scelta delle forme di allevamento che consentivano alla pianta di plasmarsi ai climi più disparati, nel trovare le modalità di vinificazione che permettevano al vino di conservarsi, sebbene per tempi brevi, inalterato. Se le espressioni culturali cambiano nello spazio e nel tempo, in ogni regione e in ogni periodo storico, ogni gruppo sociale ha bevuto vini sempre diversi. È un viaggio nella civiltà europea e asianica, dove l’immaginario mitologico coniuga il luogo fisico con lo spazio simbolico e il nome del vino e del luogo divengono veicoli per richiamare alla

Caraffa in rame etrusca per attingere il vino, VII sec. a.C. (Museo Martini, Chieri - TO)

Falcetti di epoche diverse usati per la potatura e la vendemmia, provenienti dall’area atesina

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origine e storia mente altre immagini. Basti pensare al potere evocativo di Chio, l’isola dove l’uomo piantò la prima vite o Erea, luogo dell’Arcadia dove il vino eccita gli uomini e rende fertili le donne. Un tema così complesso, che coinvolge gli aspetti fondamentali della coltivazione della vite, della produzione e del commercio del vino in Europa, deve quindi fare ricorso oltre alle competenze interdisciplinari, dell’antropologia, della linguistica, della letteratura, dell’archeologia, dell’archeobotanica e a un approccio quantitativo della storia che se appare riduttivo perché affronta soprattutto problematiche economiche, ha però il merito di collegare i cambiamenti che si verificano nelle modalità di produzione o di consumo del vino con le cause di natura sociale, politica o climatica che le hanno determinate. Questo consente, rispetto alla storiografia classica, una scomposizione analitica della realtà e una ricostruzione dei vari fenomeni storici senza una scansione cronologica, attraverso una trattazione didascalica e frammentaria con esemplificazioni capaci di mettere in collegamento dinamiche varietali, scelte colturali, tecniche di vinificazione con le vicende economiche che le hanno determinate. Il concetto di “Rinascimento”, per esempio pertinente in rapporto a molti indicatori di storia culturale, è privo di senso in rapporto ai dati dello sviluppo della produzione agricola, mentre gli effetti della “piccola glaciazione” che hanno condizionato la demografia dell’Europa continentale per circa quattro secoli che sono ignorati nella descrizione consueta degli avvenimenti storici, quali le guerre o le occupazioni militari, sono stati invece determinanti nella geografia viticola del Vecchio continente e nello sviluppo commerciale dei vini del Mediterraneo orientale. Fonti Nella ricostruzione delle vicende storiche relative alla vite e al vino si ricorre alle testimonianze ricavabili dallo studio delle fonti. Queste sono rappresentate tradizionalmente: – dalle fonti letterarie ed epigrafiche (le opere enciclopediche e le prime Bucoliche, testi non specialistici che riportano notizie che

Palmenti in pietra granitica dell’Isola del Giglio (arcipelago Toscano) risalenti al II-III sec. a.C.

Palmenti in pietra

• Erano composti da tre parti: la parte

Sezione di un palmento greco in pietra del IV sec. a.C.

dedicata alla pigiatura dell’uva detta calcatorium, la parte centrale che raccoglie il mosto e quella più bassa dove il mosto che ha subito una prima chiarificazione spontanea viene raccolto in anfore o contenitori di pelle per essere trasportato in cantina per la fermentazione. Il palmento era di norma collocato all’interno di un vigneto nella sua parte più bassa

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storia e arte Tipologie di anfore da vino utilizzate nel Mediterraneo nel periodo classico ed ellenistico

Cananea (dal XVIII sec. a.C.)

Punica (dal 300 al 200 a.C.)

Etrusca (dal 650 al 380 a.C.)

Africana Greco-italica Dressel 1

Gallica (dal 180 al 160 a.C.)

Greca di Pompei

Grecomarsigliese

Cartaginese

si riferiscono a periodi molto distanti e a culture eterogenee), dagli scritti di eruditi, dai resoconti delle Accademie, dalle ampelografie e dai testi di viticoltura ed enologia; – dai ritrovamenti dell’archeologia rurale che forniscono informazioni attendibili sulle tecniche di coltivazione e di produzione del vino. In particolare un ruolo significativo è occupato dagli strumenti e utensili utilizzati per la lavorazione del terreno, per la potatura secca e verde per la vendemmia. Numerose sono inoltre le evidenze archeologiche relative alla trasformazione dell’uva in vino. In particolare i pigiatoi in pietra (i palmenti) e le parti in pietra dei torchi. In molte abitazioni rurali, soprattutto quelle conservate dalle ceneri del Vesuvio a Pompei, sono stati trovati i recipienti per la fermentazione e la conservazione del vino (i pithoi). Le anfore rappresentano nel contesto del commercio del vino un prezioso strumento di conoscenza, soprattutto per risalire alle zone di produzione, alla cronologia, al tipo di contenuto, ai mercati. Queste informazioni vengono tratte dai timbri, dall’epigrafia, dai materiali usati per la loro fabbricazione (analizzati anche con tecniche cristallografiche), dalla composizione dei resti del loro contenuto e relativa datazione, dalle città di produzione e dalle loro forme. Anche la monetazione antica con le raffigurazioni legate alla produzione del vino (grappoli d’uva, foglie di vite, anfore, divinità legate al consumo rituale del vino) e i luoghi dei ritrovamenti testimoniano l’importanza che la coltivazione della vite aveva ricoperto in passato;

Esempi di tetradracme magno-greche con raffigurazioni di grappoli d’uva e di soggetti legati all’immaginario enoico coniate a Naxos (Sicilia), 430-420 a.C.

Vaso per miscelare il vino, IV sec. a.C. (Museo Martini, Chieri - TO)

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origine e storia – dai reperti paleobotanici costituiti da resti di vinaccioli e di tralci di vite che attestano non solo la loro presenza negli orizzonti di abitati frequentati fin dal Neolitico, ma soprattutto consentono di distinguere attraverso le caratteristiche morfologiche dei semi le viti selvatiche (Vitis v. sylvestris) da quelle coltivate (Vitis v. sativa); – dalla paleontologia linguistica soprattutto riferita alla Magna Grecia e alla Sicilia che dimostra come, per esempio, molti termini di derivazione greca sono ancora in uso nella Calabria jonica, in Liguria ed in Lombardia. Analogamente, il lessico medievale può essere omologato a un’enciclopedia, propedeutico rispetto alle opere specialistiche; – dall’analisi del DNA dei vitigni valutato attraverso alcuni marcatori molecolari, che consente di ricostruire l’origine delle varietà (il loro pedigree), i percorsi che hanno compiuto per raggiungere il luogo definitivo di coltivazione, l’epoca dei loro spostamenti.

Palmento di origine greca, coperto in epoca medioevale, a causa del cambiamento climatico (piccola era glaciale) che costringeva alla pigiatura dell’uva in luogo coperto (Isola del Giglio)

Dalle bevande alcoliche primitive alla nascita del primo vino L’agricoltura sembra abbia avuto origine all’inizio del Neolitico (la cosiddetta rivoluzione del Neolitico) negli “immondezzai” dei primi villaggi preistorici dove il grande accumulo di radici, semi, pezzi di piante arboree tra cui la vite, davano origine ai primi frutteti caotici dai quali poi l’uomo scelse quelle più produttive e con le caratteristiche qualitative migliori. Questo processo di selezione e di domesticazione primitiva (si chiama anche “para-” e “protodomesticazione” e la viticoltura che si origina è definita “antropofila” o “per protezione”) vide la luce nel vicino Oriente, perché in queste regioni la formazione dei villaggi stabili fu più precoce, così come l’uso dell’aratro.

Aratura con cavallo in Turchia per l’impianto di un vigneto

Foto R. Angelini

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storia e arte

Forme dei vinaccioli

Vite selvatica

Viteselvatica selvatica Vite

Vite coltivata

L’evoluzione delle prime forme di viticoltura può essere così sintetizzata: nelle forme più primitive l’uomo raccoglitore si ciba solamente delle bacche di uva delle piante che incontra, mentre i viticoltori embrionali esercitano una forma di protezione delle viti più produttive nei boschi, in areali di paradomesticazione. La cosiddetta protoviticoltura coincide con l’introduzione dell’aratro, viene realizzata al di fuori degli immondezzai e implica la moltiplicazione delle piante per seme o per talea. Ma non fu l’uva il primo materiale fermentescibile impiegato per produrre una bevanda alcolica, anzi fu quasi sicuramente l’ultimo. Malgrado siano modeste le testimonianze archeologiche, queste consentono di intuire che il primo vino fu il risultato della fermentazione di una mescolanza di mosti di frutta diversa e di altri liquidi quali la linfa della betulla, il latte, il miele diluito con acqua (idromele), il malto. Molto importanti sono a questo riguardo le relative documentazioni linguistiche come, per esempio, i dialetti dell’Italia settentrionale dove sono associate espressioni in vernacolo che indicano astinenza o ubriachezza a piante che producono frutti fermentescibili quali il sorbo o il lampone. Per un tempo lunghissimo la selezione delle viti selvatiche non comportò un deciso miglioramento della loro produttività. Solo 5000 anni prima di Cristo nel vicino Oriente e 11.000 a.C. in Grecia appaiono le testimonianze paleobotaniche (la forma dei vinaccioli), che fanno intravedere le caratteristiche della vite domestica.

Vitecoltivata Vite coltivata

Scoperta del primo vino prodotto dall’uomo in Iran e in Sardegna Nel 1988 Patrick McGovern, archeologo molecolare dell’Università della Pennsylvania, analizzò alcuni frammenti di ceramica di un grande orcio che presentavano un residuo rossastro sulla superficie interna. Erano stati trovati tra gli anni ’60 e ’70 da una spedizione archeologica americana a Godin Tepe, un villaggio calcolitico dell’Iran occidentale. I residui sottoposti ad analisi molto sofisticate, come la spettrometria a infrarosso a riflettanza diffusa, hanno evidenziato la presenza prevalente nel campione di acido tartarico e con l’analisi cromatografica, tracce di una resina di albero. Poiché il frutto di vite è in natura, assieme a quello del tamarindo, il più ricco di acido tartarico, le conclusioni dell’archeologo hanno definito che quel recipiente aveva contenuto succo d’uva o vino o aceto. La datazione del C-14 della molecola dell’acido tartarico avevano accertato che l’età di quel residuo era di circa 5000 anni. La presenza della resina vegetale ricavata dal terebinto aveva una funzione di conservante nei confronti dell’acescenza, analogamente a quanto facevano e ancora fanno, sebbene in misura molto ridotta, i greci con la resina del Pino d’Aleppo per produrre il vino retsina. Nel complesso nuragico di “Bau Nuraxi” nella Sardegna centro-orientale, è stata trovata una

Forme dei vinaccioli

• Nella vite selvatica i vinaccioli sono

caratterizzati da un becco (punta superiore) molto ridotta, mentre nella vite coltivata, i vinaccioli hanno un becco più sviluppato

• Tali differenze hanno permesso

di datare gli orizzonti lungo il profilo del suolo, come una sorta di “fossili guida”. Negli orizzonti dell’Età del bronzo sono presenti quasi esclusivamente vinaccioli di vite selvatica, mentre a partire dall’Età del ferro i vinaccioli sono derivati da viti domestiche

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origine e storia

Mar Nero

Dimitra

Grotta di Franchtì

Cauc

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Arslan Tepe Can Hasan Korucutepe Tauro Monti del Hama Oronte

Uruk

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Godin Tepe

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Mar Rosso

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Ohalo Gerico En Besor Minshat Abu Omar e Tell Ibrahim Awad Buto

Hassek Mar Höyük Lago Van Caspio Lago Cayönü Urmia Kurban Höyük Mureybit Hajji Firuz Tepe Abu Hureyra Mo

Mar Mediterraneo

Chokh Shomutepe e Shulaveri Kura

Tello Golfo Persico

Siti con tracce di vite selvatica Siti con tracce di vite coltivata Area attuale di vite selvatica

Localizzazione in Mesopotamia delle prime testimonianze archeologiche di vite selvatica e di vite coltivata e rappresentazione dell’orcio di Godin Tepe risalente al 3500-3100 a.C., dove è stato ritrovato un residuo di lavorazione dell’uva (mosto, o vino, o aceto) che testimonia la più antica vinificazione

grande brocca askoide che all’esame gas-cromatografico dei residui sul fondo, aveva contenuto vino. La datazione dell’orizzonte dove è stata ritrovata, fa risalire la brocca a circa 3000 anni fa. Alla stessa epoca risalgono altri ritrovamenti di vinaccioli di vite e di pollini di vite domestica. A conferma di un’antica domesticazione della vite selvatica, il riscontro dell’elevata affinità genetica di un vitigno sardo, il Bovale piccolo, con alcune viti selvatiche del centro della Sardegna.

Foto R. Pastore

Centri di domesticazione della vite e origine delle varietà coltivate I luoghi più favorevoli per condizioni climatiche e culturali dove il processo di domesticazione ha portato alla costituzione dei primi vigneti al di fuori degli “immondezzai”, costituiscono il centro primario di domesticazione. Le testimonianze archeologiche e archeobotaniche hanno identificato questo centro nell’area siro-anatolico-mesopotamica a partire dal IV millennio. Da questa regione il processo di paradomesticazione si è spostato verso la Grecia attorno alla media Età del bronzo (centro secondario di domesticazione) e quindi verso Occidente sui percorsi della colonizzazione greca dell’Italia meridionale e della Sicilia (centro terziario di domesticazione) e della Pianura

Viticoltura in Sardegna

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storia e arte

Percorso documentato Percorso ipotetico Dislocazione cronologica dei centri di domesticazione della vite lungo il cammino che va da Oriente a Occidente dal 3500 a.C al 500 d.C.

Padana, della Francia mediterranea e della Spagna per opera di etruschi, greci, punici, romani (centri quaternari e quinquenari di domesticazione). Caucaso, Iran, Valle del Reno e del Danubio sono le zone interessate dalle ultime azioni, in termini cronologici di domesticazione. Oltre ai centri di domesticazione è necessario tenere conto dei cosiddetti centri di accumulo, zone situate sulle grandi direttrici di traffico commerciale o in prossimità di porti, dove per effetto dei numerosi contatti tra diverse popolazioni si sono raccolte nel corso dei secoli molte varietà che ancora oggi costituiscono una enorme riserva genetica, utile sia per la reintroduzione di vecchie varietà nella piattaforma ampelografica attuale, sia per programmi futuri di miglioramento genetico. Alcuni di questi centri di accumulo sono stati anche dei centri secondari di domesticazione e di creazione di nuova variabilità attraverso i processi di introgressione genica, intendendo con questa espressione l’inserimento di una parte del DNA di vitigni coltivati in vitigni selvatici attraverso l’incrocio spontaneo. A titolo esemplificativo si ricorda l’origine comune, da domesticazione di viti selvatiche, dei vecchi vitigni veronesi, come testimonia la loro grande affinità genetica e per contro l’origine di alcuni importanti vitigni europei dall’incrocio spontaneo tra le viti selvatiche o paradomesticate dell’alto bacino del Reno e di alcuni suoi affluenti con vitigni importati da regioni orientali.

Triangolo di acclimatazione delle varietà di vite di provenienza orientale nel periodo compreso tra il VII e il II sec. a.C.

Triangolo di acclimatazione

• Il materiale genetico proveniente

dalla Grecia, attraverso esperienze coloniali o degli emporion nella Magna Grecia e Sicilia, dopo un periodo di verifica produttiva e di valutazione del grado di adattamento alle condizioni pedoclimatiche (detto di acclimatazione) veniva spostato in altri luoghi dell’Italia centrale, soprattutto a sud di Roma ai confini con la Campania, per essere coltivato diffusamente. La maggiore concentrazione di varietà si aveva all’interno di un triangolo, come testimoniano anche recenti indagini rivolte all’identificazione di vitigni antichi

Domesticazione della vite La domesticazione della vite è intesa come un processo evolutivo regolato dall’uomo, durante il quale la struttura genetica di una popolazione vegetale viene modificata nel corso delle generazioni o per pressione selettiva o per introgressione genica. La riproduzione selettiva, prima per seme e poi per talea, è avvenuta come pratica quotidiana e ha avuto come primo scopo quello di fissare nella popolazione alcune caratteristiche 54


origine e storia produttive desiderabili quali l’ermafroditismo, le dimensioni del frutto, il contenuto in zuccheri, l’uniformità di maturazione e una certa tolleranza alle condizioni ambientali e alle malattie. L’ingentilimento ha però ridotto la rusticità delle piante e queste si affidano, per sopravvivere, alle cure dell’uomo. Con la necessità di dedicare tempo alla coltivazione delle piante, l’uomo ha in un certo senso “domesticato” se stesso. Una tappa fondamentale nella domesticazione consiste nella disseminazione intenzionale di semi, alla quale segue un processo selettivo. Così, il trasporto di semi da un’area a un’altra ha contribuito notevolmente alla formazione di nuovi vitigni attraverso l’introgressione del patrimonio genetico del vitigno alloctono in quello autoctono.

Centri di accumulo

• All’interno del centro di domesticazione

terziario (Italia meridionale e insulare), si sono creati dei centri di accumulo varietale i quali, posti su grandi direttrici di viaggio e in prossimità di porti, presentano una particolare ricchezza varietale

• Essi sono luoghi di scambio con altre

zone limitrofe (per esempio centro veneto con la Valle dell’Adige o del Lago di Garda) oppure luoghi dove le varietà accumulate non si spostano verso altre direzioni (in figura indicate dalle frecce indirizzate verso l’interno, per esempio il centro piemontese o sardo dai quali i vitigni presenti non si sono mai mossi)

Vite selvatica in Italia: significato naturalistico e interesse archeologico In molti boschi umidi dell’Italia centrale e in altre numerose località dell’Europa sia mediterranea sia danubiana, sono ancora presenti molte piante di vite selvatica. È abbastanza facile riconoscerla perché assomiglia alla vite coltivata e il suo sviluppo si realizza avvinghiandosi delle piante arboree. Contrariamente alla vite coltivata, presenta dei fiori unisessuali, le bacche e i grappoli sono di minori dimensioni e i semi presentano una forma più arrotondata. Le caratteristiche del seme hanno consentito ad un archeologo austriaco alla fine dell’800, Stummer, di riconoscere e datare nell’archeologia di abitato gli orizzonti che conservavano vinaccioli di vite selvatica (Vitis v. sylvestris) o di vite coltivata (Vite v. sativa). Questa distinzione di solito divide gli orizzonti appartenenti all’Età del bronzo da quelli dell’Età del ferro. Un’altra relazione tra archeologia e vite selvatica è stata recentemente trovata da ricercatori delle Università di Siena e di Milano in siti etruschi o in vicinanza di necropoli. Le viti ancora presenti presso queste tracce di abitato manifestano un DNA diverso da quello di altre piante di vite, trovate nei boschi vicini. Questo significa che i processi di domesticazione, sebbene limitati nel tempo, hanno modificato la struttura genetica delle viti che crescevano spontanee negli abitati e che sono state selezionate dai primi abitanti di quei luoghi. La vite selvatica è attualmente una specie a rischio di erosione in quanto gli ambienti dove vive sono minacciati nella loro integrità da incendi, disboscamenti, bonifiche. La sua scomparsa o la drastica riduzione porterebbe un grave danno alla ricerca delle origini delle varietà coltivate, in quanto attraverso l’analisi del DNA è possibile ricostruire il ruolo che hanno avuto queste viti nei processi di introgressione genica con i vitigni di origine orientale. Le prime espressioni di protodomesticazione della vite selvatica in ambito culturale etrusco sono chiamate “lambruscaie”, dalla denominazione protoligure di labrusca, con la quale Virgilio nelle

Centri di accumulo e di variabilità secondaria 1. Piemonte, Val d’Aosta 2. Veneto, Friulano 3. Toscano 4. Sardo 5. Calabria, Campania, Sicilia

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storia e arte Ecloghe chiama per la prima volta la vite selvatica. Si tratta di un gruppo di viti di età molto avanzata disposte sui bordi di una radura che si aggrappano ad annose quercie e che vengono, come nella viticoltura per protezione, aiutate nella loro crescita e fruttificazione, togliendo la concorrenza di alcune fronde della pianta tutrice. Qualche esempio di lambruscaia è ancora presente in Maremma e da queste piante il clan famigliare produce ancora oggi un vino, di norma quando nasce un bambino, che viene bevuto al suo matrimonio. Kalash, il popolo del vino Alessandro Magno, alla conquista dell’Asia, fondò in Afghanistan alcune città dedicate a Nysa, nutrice di Dioniso dove lasciò numerose guarnigioni costituite da uomini di origine mediterranea. Oggi questo popolo, fortemente perseguitato dagli islamici per la sua fede nestoriana, conta circa 4000 persone che vivono in tre valli isolate, alle soglie dell’Hindukush, nel Pakistan nord-occidentale ai confini con l’Afghanistan. Recenti analisi del DNA hanno accertato la loro parentela genetica con italiani e tedeschi. Perché questo popolo dagli occhi chiari e dai capelli biondi è interessante per la storia del vino? Perché tramanda una festa del vino tra settembre e ottobre che è probabilmente l’ultimo retaggio delle feste orgiastiche greche e romane. L’uva raccolta da viti paradomesticate che si arrampicano sugli alberi viene pigiata su palmenti di roccia da bambini maschi; il vino ottenuto dalla fermentazione, acidulo, corposo e poco fruttato, si beve al solstizio di inverno in pochi giorni durante i quali tutti si ubriacano per avvicinarsi alla divinità, Zorohastro. Nel corso dell’anno la popolazione non consuma più vino. Il vino ha quindi solo un significato di consumo rituale.

Fusti di vite appoggiati a tronchi di querce in una zona umida nella Maremma meridionale

Vistosa fioritura di una vite selvatica a fiori maschili

Abbondante produzione di uva di una vite selvatica di una “lambruscaia”, testimonianza di una viticoltura primigenia etrusca, dove le viti selvatiche nei boschi sono soggette a forme molto primitive di coltivazione e dalle uve ottenute si produce ancora oggi un vino molto colorato e longevo

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origine e storia Ruolo dell’Asia anteriore nello sviluppo delle tecniche di coltivazione dell’uva e di produzione del vino e le prime testimonianze nell’Europa occidentale, in particolare in Italia Le modalità di coltivazione della vite nel II e III millennio sono documentate solo in epoca posteriore, da testi risalenti all’Egitto tolemaico o sono tratte dalla Bibbia o dai Cicli di Baal (Ugarit), dove sono indicate le tecniche di moltiplicazione vegetativa, la necessità della potatura annuale, la lavorazione del suolo con il rastro. Anche per il vino la documentazione più precisa proviene da Ugarit, Mari ed Ebla e riferisce delle tecniche di aromatizzazione con mirto, di dolcificazione con miele e della cottura del mosto per la sua concentrazione A partire dall’Età dei metalli, lo sviluppo dell’agricoltura nel secondo centro di domesticazione della vite, quello greco, e nel terzo, quello italico, si fondava su tre coltivazioni: quella dei cereali, dell’olivo e della vite. Gran parte del merito della diffusione di queste colture è delle popolazioni greche dedite ai commerci marini prima come prodotti finiti (vino e olio), poi come semi e piante (talee e polloni). Il contributo della civiltà greca, spesso mediato dall’etrusco nella terminologia vitivinicola latina e romanza, non solo testimonia il ruolo che questa ha esercitato nella diffusione della vite in Europa, ma ci testimonia le tecniche e gli strumenti usati per produrre l’uva e il vino, nonché le modalità sacrali per il consumo del vino come i corredi da simposio. Qualche esempio di nomenclatura latina e talvolta vernacolare derivata dal greco: – dal latino cadus (orcio per vino) dal greco cados, in italiano giara, in calabrese katu; – dal latino cantharus (brocca vino con due anse) dal greco cantharos, in italiano contero, in veneziano kantarela; – dal latino tinum (tino, grosso vaso cilindrico per vino), dal greco dinos, dall’etrusco tinos. La coltivazione della vite da sporadica diventa la componente fondamentale dell’economia della Magna Grecia e tramite la mediazione culturale degli Etruschi, a partire dall’enclave campana si diffonde in tutta l’Italia centrale. Anche il paesaggio agricolo tra il V ed il IV secolo a.C. subisce profonde trasformazioni: non più solo boschi, pascoli e zone arate ma compaiono filari di viti e olmi intervallati da campi lavorati, la viticoltura cosiddetta promiscua, secondo le descrizioni di Catone nella De Agricoltura. Il paesaggio viticolo delle regioni meridionali è però più simile a quello greco da cui erano partiti i coloni con viti allevate ad alberello, con potatura corta e sostegno morto, mentre quello delle regioni etrusche o influenzate dalla cultura etrusca (per esempio la Pianura Padana) erano caratterizzate da potature lunghe e dai sostegni vivi.

Il piano inclinato di roccia con piccoli canali sulla superficie è un palmento primitivo utilizzato una volta all’anno dalla popolazione Kalash per la pigiatura dell’uva proveniente da viti selvatiche presenti nella foresta. Nella parte bassa del piano di pigiatura, in corrispondenza delle incisioni nella pietra sono collocati dei contenitori per la raccolta del mosto

Esempio di viticoltura promiscua con vite allevata su alberate in Romagna

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storia e arte Gli etruschi furono il tramite principale per le numerose tribù di Galli padani, i Reti delle Alpi e i Veneti nella diffusione delle tecniche di coltivazione della vite di origine orientale nell’Italia settentrionale. La trasmissione subì però delle profonde modificazioni che tenevano conto della preesistente viticoltura primigenia della Pianura Padana (vitigni e modalità di allevamento), sviluppata dagli abitanti della Grande Liguria. Della viticoltura cisalpina e insubrica non solo si hanno numerose testimonianze archeologiche, paleobotaniche, epigrafiche, ma anche letterarie da parte degli autori classici quali Varrone, Columella, Virgilio, Plinio il Vecchio, georgici romani vissuti tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.

Foto R. Angelini

Forme antiche di allevamento della vite maritata all’albero

Vite maritata all’albero

Arbusto gallico

Modello trevigiano

Testucchio toscano

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Arbusto italico

Modello di Salò


origine e storia La produzione di vino era molto elevata, veniva esportato al di là delle Alpi e veniva conservato in grandi botti di legno. La forma di allevamento era il cosiddetto arbustum gallicum, costituito da una o più viti maritate a una pianta arborea e i festoni delle viti collegavano le piante lungo i filari. Diffusa era la concentrazione per riscaldamento diretto del mosto, che non veniva fatto fermentare e che si usava per preparare quello che oggi in Romagna si chiama “sapa”, ed è ancora diffusa come condimento per piatti di legumi. Questo modello di viticoltura non subì sostanziali modifiche neppure con l’occupazione romana.

Arte delle situle

• Per lo sviluppo del centro cinquenario

di domesticazione della vite, importante fu il contributo delle antiche popolazione venete, cerniera tra Occidente e Oriente, testimoniato dalla grande ricchezza di varietà antiche presenti ancora oggi nella viticoltura veneta, derivate spesso dalle viti selvatiche (per esempio Oseleta). L’esaltazione dell’arte del bere costituisce l’essenza più profonda dell’arte delle situle, tipico recipiente di bronzo usato da molte popolazioni di cultura etrusca o retoetrusca dal VI al V sec. a.C. (per esempio Trentino), per la mescita del vino in cerimonie rituali. Esse riportano scene che illustrano il banchetto sacro con libagioni di vino, consumi di carne e connubi che simboleggiano la fecondazione dei campi e dei vigneti, attraverso l’aratura

Situla diffusa in Italia settentrionale dal VI al V sec. a.C.

Le situle spesso riportano a sbalzo lungo la circonferenza scene di banchetti (sopra) e di cerimonie sacre che esaltano il rito della fertilità (sotto). Le scene sono tratte dalle cista di San Zeno (Trento)

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storia e arte Commercio del vino in epoca etrusca e imitazione fraudolenta dei vini greci L’abbondanza di ferro dei territori attorno all’isola d’Elba trasformò profondamente la civiltà etrusca, alla fine dell’Età del bronzo sia per la ricchezza che portò da tutto il Mediterraneo, sia per i contatti con il mondo greco, molto più evoluto dal punto di vista artistico e nella produzione di vino. Gli Etruschi, del periodo talassocratico, divengono dei fedeli imitatori dei modi di vita dei greci, dal culto dei morti alle manifestazioni del simposio. In questo periodo, il vino etrusco conquista il mercato francese come testimonia la grande ricchezza di anfore di foggia etrusca ritrovate nelle chiglie di molte navi affondate sulle coste di fronte a Marsiglia. Un’altra tipologia di anfora appare con frequenza insolita nei ritrovamenti, quella prodotta nell’isola di Chio. Quest’isola era famosa per produrre un vino dolce dalle caratteristiche inimitabili, perché prodotto da uve che venivano fatte appassire dopo alcuni giorni di permanenza nell’acqua del mare che toglieva la pruina dalle bacche e rendeva l’appassimento più rapido. Il successo di questo vino spinge gli Etruschi a imitarlo. Dapprima introducono la varietà adatta, l’Ansonica o Inzolia dalla Sicilia, vitigno che ha molte parentele genetiche con due varietà greche molto adatte all’appassimento per la consistenza delle bacche, il Rhoditis e il Sideritis, poi applicano i principi dell’appassimento come a Chio, ma soprattutto esportano il vino in Francia in anfore perfettamente imitate nella forma e nel marchio della lontana isola greca. Il trucco riesce, come dimostra la frequenza dei ritrovamenti di anfore di quella foggia. Per molto tempo gli archeologi si sono chiesti come mai l’isola di Chio così lontana e piccola poteva esportare tanto vino in Francia. Recentemente l’analisi cristallografica delle argille ha dimostrato, in base al contenuto di cadmio, che le anfore di Chio erano la minima parte delle anfore ritrovate con quella forma, mentre

Rotte del commercio del vino nel Mediterraneo

• Le testimonianze più antiche si

riferiscono ai commerci fenici che partendo dalle coste dell’Asia minore (Tiro, Sidone, Biblio) fanno scalo sulle coste dell’Africa settentrionale e da qui, attraverso la mediazione punica, si dirigono verso i porti del Mediterraneo occidentale

• I commercianti focesi, provenienti

da una piccola città vicino a Troia, sviluppano il commercio del vino attraverso gli emporion, che di solito, per le caratteristiche strutturali delle loro navi, vengono fondati alle foci dei grandi fiumi (Po, Rodano, Ebro ecc.) o su piccole isole come Ischia

• Dalle coste dell’alto e medio Tirreno

verso la Francia meridionale e da qui lungo il Rodano o verso Bordeaux via Narbonne per merito degli Etruschi a partire dal IV secolo a.C. viene alimentato un fiorente commercio di vino, non solo in anfore tipiche dell’Etruria, ma anche di imitazione con quello di Chio

Rotte del commercio del vino da Oriente verso Occidente nel Mediterraneo meridionale

Tiro Sidone Biblio

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origine e storia le altre provenivano in grande numero dalle fornaci dell’Etruria meridionale Mito del vino e consumo rituale nel simposio I greci hanno avuto il merito di avere trasformato il vino da semplice prodotto alimentare a merce di scambio e di avere legato il vino al culto di un dio protettore della viticoltura, Dioniso, che come dice Euripide “… in dono al misero/offre non meno che al beato, il gaudio/del vino ove ogni dolore annegasi”. Questo culto greco per Dioniso fu mediato prima dagli etruschi e più tardi ereditato dai romani che trasformarono il nome in Libero (Loufir in osco) e quindi in Bacco.

Rotte del vino e percorsi terrestri da Oriente verso Occidente nel Mediterraneo e in Europa lungo i grandi fiumi

Alberelli sostenuti da pali. I primi greci sbarcati in Italia hanno dato a quelle terre il nome di Enotria, da oinotron (palo da vite)

In particolare, furono i micenei, già nel I millennio a.C., a diffondere il consumo di vino nel meridione italiano attraverso un “processo di miceneizzazione della cultura indigena”, anche se la coltivazione della vite non era estranea alla cultura degli italioti prima dell’arrivo dei greci che questi chiamano gli indigeni

Alberello strisciante, espressione di una viticoltura delle isole del Mediterraneo orientale battute dai venti (Pantelleria)

Rotte del commercio del vino da Oriente verso Occidente nel Mediterraneo settentrionale Rodano Ebro

Po

Elea

Focea

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storia e arte

Kylix

Anfora a profilo

Hydria

Oinochoe

Pelike

Cratere a colonnette

Cratere a calice

Enotri, per le modalità di allevamento della vite con il palo secco (in greco oinotron, palo per vite), sconosciuto nel Mediterraneo orientale. Determinante fu anche l’instaurarsi degli emporion focei in alcune località europee, strategiche per i commerci come ad Ischia, il primo fondato in Occidente, a Adria e Spina sul delta del Po, o a Marsiglia sul Rodano, dove assieme al vino venne diffuso il suo impiego sacrale e rituale che ne determinò il successo presso le popolazioni dell’Europa continentale, Galli e Reti in particolare. Il consumo del vino non è fine a se stesso, ma costituisce lo strumento che favorisce lo sviluppo del simposio, momento importante nella vita sociale dei greci, la concretizzazione del mito del vino. Il vino incanta e fa dimenticare agli uomini le tristezze quotidiane, è il migliore medicinale per i mali dell’animo. Eletto il simposiarca, colui che aveva il ruolo di realizzare la miscela tra acqua e vino e che determinava il numero delle coppe che ciascuno era tenuto a vuotare, i partecipanti a turno parlavano su un argomento proposto, si recitavano poesie, si cantava e si suonava. Per il simposio si utilizzava un corredo di contenitori di foggia e funzione diversa, di preziosa ceramica, spesso associati ad altri oggetti di uso quotidiano, che si ritrovano nelle tombe più ricche degli etruschi. Nella ospitalità georgiana ancora oggi all’inizio di un banchetto viene nominato il simposiarca, una persona autorevole, chiamato tamadan che promuove i brindisi e sceglie gli argomenti per i commensali. Produzione, consumo e commercio del vino all’epoca di Pompei Il consumo del vino a Roma e nella Campania antica, fin dall’età arcaica, era soprattutto appannaggio delle città costiere ed era legato all’immaginario dionisiaco dei simposi. Solo più tardi verso il V-IV secolo a.C. il vino perde il suo carattere aristocratico-rituale per penetrare in tutte le classi sociali. Pompei rappresenta un esempio ricco di testimonianze archeologiche, per l’opera di conservazione esercitata dalle polveri uscite dal Vesuvio, del ruolo che occupava il vino nella vita dei romani. Gli scavi infatti hanno rivelato l’esistenza di numerose tabernae vinarie, di oenopolia annessi alle ville patrizie, di numerose anfore rodie e greche con i nomi dei proprietari e dei mercanti di vino. Non solo quindi produzione di vino locale, ma una forte attività commerciale e di vendita di vini provenienti da altre località. Della sacralità del vino e del significato di alcune pratiche agronomiche come la potatura, si comprende l’attenzione che i romani dedicavano a questa bevanda. Infatti, la data della svinatura fissata il 23 aprile era dedicata a Giove, padre liberatore, e il vino destinato alle libagioni, agli dei e alle celebrazioni popolari, dove-

Cratere a volute

Corredo per simposio greco ed etrusco

Corredo per simposio

• I vari contenitori assolvevano a funzioni diverse all’interno del rituale. Per esempio l’hydria serviva per contenere l’acqua necessaria per diluire secondo le indicazioni del simposiarca, il vino contenuto nell’anfora. La diluizione avveniva nei crateri di fogge diverse. Il kylix era invece utilizzato per libare e per bere

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origine e storia va essere ottenuto da viti potate, norma che divenne legge con il re Numa. Questa decisione che può apparire di poco conto, non solo favorì la produzione di vini di migliore qualità, ma segnò il passaggio dalla protoviticoltura di ispirazione etrusca, quella delle lambruscaie, alla viticoltura dell’arbustum italicum, espressione di un vigneto creato ex novo con lo scasso e l’impianto delle barbatelle. Anche se il fondamento dell’economia rurale romana era la coltura del grano (spelta e farro), l’importanza della viticoltura non era da meno, come dimostrano gli scritti dei georgici latini, che dedicarono molte pagine alla viticoltura, fornendo informazioni preziose ai coltivatori dell’epoca, sulle varietà di vite, sui tutori, sulle tecniche di potatura e di concimazione, nonché sulle modalità di vinificazione e di conservazione dei vini. Le prime descrizioni di vitigni della storia della viticoltura sono infatti contenute nelle opere di Plinio e Columella. I vitigni conosciuti in quell’epoca erano già molto numerosi, … quanti i granelli di sabbia del libico piano…, e venivano classificati in uve da tavola e uve da vino, che a loro volta, in relazione al vino a cui davano origine, venivano distinte in uve di primo merito che comprendevano vitigni indigeni e importati (le più importanti di questo gruppo

Evoluzione delle presse

• Le riproduzioni evidenziano il percorso evolutivo delle presse, partendo dal modello romano, detto di Catone con una o due viti. Un altro modello detto di Plinio, che ha avuto una grande importanza nella viticoltura medioevale e rinascimentale, utilizza per la pressatura l’azione di una lunga leva. Dal torchio a due viti si sono sviluppati modelli molto simili a quello originale fino alla fine del ’700 e nell’800 si è passati a una sola vite con gabbia verticale oppure orizzontale. Da quest’ultima tipologia sono nate le moderne presse meccaniche e pneumatiche

Tappe evolutive delle presse da uva

Torchio di Catone (I-II sec. a.C.)

Torchio francese (XVIII sec.)

Torchio a gabbia verticale (XIX sec.)

Torchio a gabbia orizzontale (XIX sec.)

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storia e arte

Vini di epoca romana

• Tra i circa 30 vini citati nell’epoca

romana, due meritano un approfondimento: il Cecubo e il Falerno

• Il Cecubo (o Caecubum), prodotto con

uve dalla varietà Cecuba e descritto da Strabone come “eccellente e sostanzioso”, era destinato al brindisi finale nei banchetti. Il medico greco Galeno così lo definisce: “gradevolissimo, di buon tono, di forte sostanza alimentare, ottimo per l’intelligenza e per lo stomaco”. Ai tempi di Plinio viene quasi abbandonato dai viticoltori perché subisce la concorrenza dei vini di Marsiglia, che per il loro gusto affumicato conquistarono il ricco mercato di Roma

• Il Falerno è prodotto nell’Ager Falernus,

tra Caleno e Sinuessa in Campania, presso il Monte Massico. I termini più usati per descriverlo, soprattutto da Orazio, sono severum (cioè asciutto), ardens (focoso), fortis (forte). Era di colore giallo e migliorava con un lungo invecchiamento. A 15 anni era perfetto e diveniva come diceva Marziale, fuscus, cioè bruno. Della mitica longevità di questo vino si ha testimonianza nel Satyricon dove Trimalcione offre un Falerno di 100 anni. La comparsa del sapore amaro veniva mitigata con l’aggiunta di miele attico, nel significato anche simbolico, di unire la forza latina alla dolcezza greca. Tale era la sua importanza che veniva offerto da Cesare al popolo per celebrare i suoi trionfi militari in Gallia e Spagna. Fino all’800 in Germania era sinonimo del vino di maggiore qualità in Europa

Ricostruzione dell’Italia viticola attorno al 100 a.C. secondo le indicazioni di Plinio e di altri georgici latini. I nomi in rosso si riferiscono alle città attuali, quelli in nero ai vini. La più grande concentrazione di vini famosi si trova a sud di Roma ai confini con la Campania, dove le persone importanti trascorrevano gran parte del loro tempo

erano le Aminee e le Nomentane), in vitigni che univano una bassa produttività a una discreta qualità (Murgentina minore, Argitis, Graecula) e varietà molto produttive, ma di scarsa qualità come la Scirpula e l’Horconia. L’enologia romana presentava degli elementi di grande innovazione rispetto a quella greca ed etrusca dalle quali derivava. Anche se la pigiatura avveniva nei palmenti, situati in luoghi coperti, l’esaurimento della vinaccia avveniva nei torchi detti di Plinio e di Catone a seconda delle modalità della pressatura e non nei palmenti stessi situati nei vigneti, come nelle viticolture arcaiche. La fermentazione si svolgeva in contenitori di terracotta, in genere non molto grandi (i pitoi) e interrati, mentre il vino era conservato, soprattutto nel periodo imperiale, in anfore di una tipologia chiamata Dressel 1, che rappresenta il simbolo dell’espansionismo politico ed economico romano in Europa. 64


origine e storia Limes culturali nella viticoltura italiana: l’esempio dell’isola d’Ischia I limes sono i confini nascosti, quelle barriere invisibili chiamate così dagli antropologi per la loro capacità di separare le espressioni culturali di due popoli, che sebbene abbiano vissuto vicini per secoli, hanno mantenuto le loro tradizioni e abitudini senza contaminazioni. Questi limes tra le testimonianze antiche della viticoltura in Italia sono abbastanza frequenti, anche se i segni della diversità tra le culture contrapposte, rappresentati da alcune espressioni nel linguaggio, dai vitigni più antichi ma soprattutto dalle forme di allevamento, o dall’uso rituale del vino, veri e propri iconemi, sono sempre più labili e confusi per la profonda trasformazione che ha subito la viticoltura primigenia negli ultimi 50-70 anni. Poter identificare in una zona, anche piccola, le tracce contigue di due diverse espressioni di viticoltura arcaica, significa poter ricostruire non solo le origini di quelle viticolture, ma anche la tettonica con la quale si sono svolte le fasi successive che hanno portato alla viticoltura attuale. Tra le frontiere culturali che ancora si intravedono in Italia, si ricorda quella tra la viticoltura della Lombardia, di ispirazione longobarda dove si utilizzava per il trasporto dell’uva un contenitore detto “nave” e quella della Romagna, bizantina, dove si impiegava invece la “castellata” o quel limes rappresentato da quel confine ideale dove l’influenza della viticoltura di Marsiglia verso Oriente era testimoniata dalla persistenza dell’uso del termine greco, più meno vernacolizzato di charax (carratia, carasso, caroci ecc.) che indicava il palo di sostegno della vite, parola che non veniva utilizzata di norma oltre la Lombardia.

Origine dei vitigni dell’antica Roma

• La semantica dei nomi dei vitigni coltivati dai romani aveva delle origini molto precise che si rifacevano soprattutto, come era nella tradizione georgica, alla loro origine geografica e alle loro caratteristiche morfologiche. La maggior parte erano una traduzione dal greco

• Nomi derivati da toponimi (nomi di

luoghi): Biturica, dalle terre dei Biturici, nel Bordolese, Falerna dall’Ager Falernus, in Campania, Graecula dalla Grecia, Libica dall’Africa punica, Murgentina da Murgenta in Sicilia, Raetica dalla Rezia ecc.

• Nomi derivati da antroponimi (nomi

di persone): Numbiana dal viticoltore che la introdusse a Terracina, Holconia dal viticoltore Holconius, Calventina dal viticoltore Calventinus ecc.

• Nomi derivati dalle caratteristiche

morfologiche del vitigno: Pumila, vite dai tralci poco sviluppati, Sopina, vite dai tralci molto lunghi, Rubelliana per il colore rosso del rachide, Hirtiola per le foglie ricoperte di tricomi lanugginosi, Capnios (fumo) dal colore grigio delle bacche, Lagea (lepre) per il colore rosso scuro come il sangue della lepre, Oleaginea per le bacche simili a una drupa d’olivo, Duracina per la durezza della polpa, ecc.

Foto R. Angelini

• Nomi di origine diversa: Precox

per l’epoca di maturazione, Eugenia per la sua nobile origine da cui Ugni, Trebbiano toscano in francese, Pergulana per la sua attitudine a essere coltivata a tendone ecc.

• Molti di questi vitigni non hanno più

un riscontro nelle varietà oggi coltivate

Viticoltura a Goreme, Turchia

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storia e arte Significativa è inoltre la dicotomia nel paesaggio rappresentata dalle alberate aversane, espressione di una viticoltura etrusca e a poca distanza dall’alberello, segno della coltivazione della vite secondo modelli greci. Di grande impatto culturale è anche il limes rappresentato nella Puglia salentina dalle tecniche di inumazione dei morti: poche centinaia di metri separavano due popoli che onoravano i loro defunti o con incenerimento o interrandoli in piedi con il viso rivolto a est. I primi spegnevano simbolicamente la pira con il vino rompendo il kylix dell’offerta, i secondi non prevedevano alcuna cerimonia. I vitigni che sono ancora presenti nei territori occupati da questi due popoli sono diversi, come sono diverse le tecniche di vinificazione. L’isola di Ischia, per le sue origini geologiche e per la cultura dei suoi antichi abitanti, rappresenta un modello esemplare di territorio viticolo dove le frontiere nascoste sono ancora visibili. L’isola è costituita da due aree, una di origine tettonica originatisi per la sollevazione del fondo marino e un’altra, meno stabile, frutto di fenomeni vulcanici. Le due zone, per la presenza del monte Epomeo, presentano inoltre due regimi pluviometrici diversi. La parte occidentale dell’isola, per la presenza di argilla, fu colonizzata dai greci che si dedicarono alla produzione di vasi, mentre quella orientale, ricca di boschi, rappresentò per gli etruschi e latini un luogo ideale per la lavorazione del ferro elbano. Le due comunità, anche per la diversa fertilità dei suoli e per la diversa piovosità, diedero vita a due modelli viticoli completamente diversi per vitigni coltivati e forme di allevamento. Ancora oggi è possibile distinguere le due zone e tracciarne idealmente il confine, osservando l’altezza delle spalliere, alte fino a 4 m, nelle zone di cultura etrusca e poche decine di centimetri in quella greca.

Limes a Ischia

• L’isola di Ischia ha due grandi origini

geologiche: una tettonica, risultato dell’emersione della terra dal mare, che presenta terreni limoso-argillosi, e una vulcanica. In queste due parti dell’isola si sono stabilite popolazioni di origine dedite ad attività economiche diverse. Sulla parte argillosa, i greci hanno fondato numerose fornaci per la cottura dei vasi, da cui il nome greco di Pitecusa, mentre sulla parte vulcanica latini ed etruschi lavoravano il ferro elbano. Complice la diversa fertilità dei suoli e la diversa disponibilità di piogge, il ruolo della cultura greca ed etrusca è evidente nelle diversità delle forme di allevamento. Vitigni e dialetti purtroppo non sono più così ben divisi sul territorio dell’isola

Suddivisione geologica e pluviometrica di Ischia 750 850

1000

Lacco Ameno Casamicciola Forio

Forma di allevamento di dimensioni ridotte presente ancora oggi nella parte occidentale dell’isola di Ischia (area gialla nella cartina), e spalliere, più alte, simili alle forme di allevamento etrusche, tipiche della parte orientale (area bianca nella cartina)

Serrara

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Barano

N Ischia


origine e storia Viticoltura tra la crisi dell’Impero romano e la sua rinascita con gli ordini monastici La crisi politico-sociale che investì l’Italia nel III secolo d.C. coincise con profondi cambiamenti economici, in gran parte legati alla decadenza dell’agricoltura e delle sue strutture produttive. Le cause furono diverse, ma due sembrano essere le motivazioni più profonde: l’avere costruito una società schiavistica dalla quale non si poteva uscire se non attraverso una grande catastrofe e l’aver elaborato una cultura nella quale il rapporto con la natura, nel senso della sua trasformazione, e con il lavoro erano due elementi molto sacrificati. Il rapporto con la natura era di tipo metafisico: essa era vista come laboratorio per la trasformazione, per l’indagine scientifica. Quanto al lavoro per la realizzazione della ricchezza materiale, veniva considerato degradante. Una civiltà così sbilanciata non poteva che finire in una grande catastrofe. A margine dell’interminabile e rovinosa guerra greco-gotica e degli sconvolgimenti che accompagnarono la conquista longobarda di buona parte dell’Italia, in prossimità degli insediamenti e all’interno degli spazi urbani presidiati da popolazioni ormai sparute, la vite perpetuò la sua presenza, pronta a cogliere nuove affermazioni non appena rinnovate condizioni di vita lo consentissero. A sostanziare le ragioni della sua sopravvivenza fu, insieme alla domanda per il consumo alimentare, la stretta connessione del vino, metaforico veicolo di tanti messaggi evangelici, con la dimensione mistico-sacrale e liturgica della nascente religione cristiana. Più timidamente fin dal VI secolo, con maggiore vigore nei secoli successivi, le vigna ripresero a guadagnare posizioni nelle

Evoluzione della struttura terriera

• Con i longobardi la struttura terriera

romana venne radicalmente trasformata e si crea una nuova aristocrazia agricola

• I longobardi ebbero grande rispetto

per il vino, simbolo di nobiltà e, come popoli del nord, furono molto attirati dai pretiosa vina italiani. Per ridare forza all’agricoltura e in particolare alla viticoltura, indebolite da secoli di abbandono e di razzie, nel 643 il re longobardo Rotari promulgò il celebre editto che fissava le regole per il rispetto della proprietà e delle strutture produttive del vigneto con multe severe ai contravventori

• Con la sconfitta dei longobardi

da parte dei franchi, circa cento anni dopo l’editto di Rotari, l’imperatore Carlo Magno volle riorganizzare i vari aspetti della vita economica e per l’importanza che i Franchi attribuivano alla produzione del vino e alla sua qualità, nel Capitolare de Villis vel de Curtis Imperatoris, una raccolta di norme e disposizioni, vi erano molti capitoli dedicati alla viticoltura e alla sua fiscalità

Palmento coperto di epoca medioevale (Isola del Giglio)

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storia e arte campagne europee, prevalendo inizialmente l’impulso espresso dai grandi monasteri. Le conoscenze sulla viticoltura medievale acquistano una certa consistenza solo a partire dal XIII secolo, in presenza di una documentazione progressivamente più ampia. Nei 6-7 secoli precedenti è possibile accertare la presenza della coltura della vite, in particolare nelle proprietà di monasteri, vescovadi parrocchie, attraverso atti notarili, donazioni, contratti di coltivazione dove viene indicata genericamente la presenza della vite con espressioni come, “vinea, terra quod vinea, petia de terra vineata, clausura una de vinea,” ecc. ma non si fanno mai riferimenti alle varietà coltivate. La ripresa delle attività mercantili e artigianali diede forte impulso alla viticoltura, vicino agli enti ecclesiatici e all’aristocrazia, i protagonisti della nuova espansione furono i ceti cittadini di nuova formazione a investire nella terra e a vedere nella produzione di vino “uno dei segni più tangibili della propria ascesa sociale”. Mentre le vigne a sostegno morto e interfilare stretto continuarono a dominare le campagne suburbane, con l’affermazione della mezzadria poderale venne introdotto, soprattutto nell’Italia centrale, un sistema di coltivazione promiscua che consentiva negli ampi spazi tra filari la semina di cereali e leguminose, e affidava agli alberi la funzione di supporto delle viti.

Il ruolo determinante svolto dalla regola benedettina e certosina nell’Europa continentale nella ricostruzione della viticoltura medioevale è ancora rilevabile dalla presenza all’interno dei chiostri di molti conventi di viti centenarie dall’origine sconosciuta Coltura promiscua con viti maritate agli alberi

Foto R. Balestrazzi

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origine e storia Le testimonianze sull’apprezzamento di cui godeva il vino nel Medioevo sono molto numerose. Dante lo rappresenta in una celebre terzina del Purgatorio (XXV, 86, 88) come qualcosa di straordinario, la sintesi tra la luce e il calore del sole e la linfa prodotta dalla pianta, paragonando questo processo a quello che trasforma il feto in creatura umana grazie all’intervento divino che vi infonde l’anima. Accanto alle virtù terapeutiche, si riconosceva al vino o ai suoi derivati come l’aceto una funzione igienica. Il vino è stato per molto tempo la sola bevanda sicura, dal momento che l’acqua non sempre era tale. In molte comunità rurali, in particolari ricorrenze festive quale il giorno del santo patrono o nel giorno del mercato, si eliminavano le gabelle sul vino per agevolarne il consumo. Malgrado l’ascetismo e il misticismo del nuovo pauperismo cristiano nell’immanente scadenza del primo millennio, l’impianto di un nuovo vigneto rappresenta lo stimolo al dissodamento di terre incolte e un nuovo impulso al commercio e consumo del vino. Un nuovo fiorire di opere neogeorgiche, ma che in volgare trattano di tecnica colturale di vitigni e di modi di vinificazione, contribuisce a migliorare le conoscenze dei proprietari terrieri che si accingono a diventare viticoltori. Clima e viticoltura medioevale: gli effetti della “piccola glaciazione” Tra il XIV e il XVIII secolo il clima dell’Europa subì un drastico raffreddamento. La cause non sono completamente note: forse l’inclinazione dell’asse della terra aveva ridotto la quantità di radiazione solare che raggiungeva la terra. L’effetto sull’agricoltura fu drammatico anche perché nei decenni precedenti il continente europeo aveva avuto un innalzamento della temperatura che aveva consentito di sviluppare la viticoltura fino a latitudini (in

Forma di allevamento utilizzata nel Medioevo in Europa continentale (pergola sveva)

Piccola glaciazione

Piccola glaciazione

• Nella viticoltura della Svevia e

dell’Alsazia medioevale la “piccola glaciazione” ha costretto i viticoltori ad adottare delle forme di allevamento particolari, simili a pergole basse, con lo scopo di tenere i grappoli vicino al terreno per utilizzarne il calore durante la notte e per poter agevolmente interrare la pianta durante l’inverno

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storia e arte Scozia) e ad altitudini (nelle Alpi) inconsuete per questa coltura. La difficoltà di produzione dei cereali maggiori a causa degli inverni rigidi comportò una riduzione delle produzioni zootecniche e la mancanza di proteine nobili indebolì le popolazioni che divennero preda facile della peste nera giunta da Costantinopoli con le galere genovesi. Nel 1348 si ebbe l’acme della mortalità e la crisi demografica causò l’abbandono delle campagne. Boccaccio e Dante ricordano nei loro scritti, sebbene con accenni diversi, le conseguenze di questa pestilenza sull’economia agricola della Toscana. La viticoltura subì i danni maggiori perché molti vigneti abbandonati non poterono più essere recuperati al ritorno della vita normale. I vitigni a bacca rossa vennero sostituiti da quelli a bacca bianca in particolare al posto degli Chardonnay, Sauvignon, Riesling che erano nati come vitigni per vini rossi, si utilizzarono i loro mutanti acromatici. Come capita in queste situazioni, al ritorno alla vita di tutti i giorni, gli scampati alla morte vollero festeggiare e la domanda di vino divenne in breve tempo molto forte, richiesta alla quale i viticoltori risposero piantando vitigni di bassa qualità ma di alta produzione, anche in zone di bassa vocazione qualitativa. In Francia, un editto reale del 1731 proibì l’impianto della vite al di fuori delle aree storicamente destinate a questa coltura. Molte varietà qualitative si persero per sempre. I vini prodotti, anche a causa del basso titolo alcolico, non duravano però oltre la primavera e per il loro gusto acetoso vennero rifiutati dall’alto clero e dalla nobiltà che rivolsero le loro attenzioni ai vini dolci, aromatici e alcolici provenienti dal Mediterraneo orientale che già da alcuni anni i commercianti veneziani facevano conoscere a tutto il nord Europa. Inizia così la fama dei cosiddetti vini greci che oltre a rappresentare un atteggiamento di moda, soprattutto tra la gioventù dell’epoca, stimolano molte zone soprattutto del centro Italia a produrre con i vitigni più disparati, di solito Moscati, Greci e Malvasie, vini che imitavano quelli che provenivano dalla Grecia. Naturalmente questi vini di minore fama e qualità erano consumati dai popolani. La gelata del gennaio 1709 chiude questo ciclo climatico con la scomparsa quasi totale della viticoltura dell’Italia centro settentrionale, e in particolare di molte zone degli Appennini e delle Alpi, dove la vite si era spinta nel periodo precedente alla piccola glaciazione fino a i 1000-1200 m s.l.m. Nella ricostruzione dei vigneti si privilegiarono le varietà più fertili e, come era avvenuto qualche secolo prima, i vitigni più nobili non vennero più reimpiantati. Il fluttuare delle temperature in Europa nel corso dei quattro secoli della piccola glaciazione può essere valutato efficacemente dalle corrispondenti scomparse e ricomparse dei vigneti nella Francia settentrionale e nell’Inghilterra, riportate dai documenti dell’epoca.

Moscati

• Moscato bianco, il più diffuso tra i Moscati non solo in Italia

• Moscato giallo e di Cipro, utilizzato anche come uva da tavola

• Moscato rosè, diffuso soprattutto nelle regioni orientali dell’Europa

• Moscato rosa, dal caratteristico profumo di rosa thea

• Moscato rosso o nero a cui appartiene il Moscato di Scanzo

• Moscato di Terracina, usato per

la produzione di vini liquorosi e per la mensa

• Moscato di Alessandria o Zibibbo,

da cui si ricavano i famosi vini dolci dell’isola di Pantelleria

Moscato rosé

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origine e storia Vinsanto, vini greci, malvasie e la moda dei vini del Mediterraneo nell’Europa medioevale Nella metà del ’200, in contrapposizione al vino latino, compare la denominazione di vino greco. Cosa fosse in realtà il vino greco, dal quale hanno preso nome molti vitigni coltivati in Italia, è un problema che ha assillato molti studiosi di storia della vite. Assodato che il vino greco era normalmente bianco, altamente alcolico e dal sapore dolce, nulla era dato sapere con certezza relativamente al vitigno, alla zona di produzione e alle tecniche di vinificazione. Per gli studiosi di economia medioevale era il vino che prodotto a Tropea, zona della Calabria rimasta per secoli sotto il dominio bizantino, manteneva una viticoltura dai connotati greci per la presenza dei monaci basiliani, ed era poi venduto dai genovesi e pisani, attraverso il porto di Napoli in tutta Europa. Il vino greco sembra quindi prendere nome dalle zone di produzione rimaste in mano ai bizantini fino ai tempi della conquista normanna. Nel corso del ’300 si imposero in Italia altre tipologie di vino levantino quali le malvasie, (dal nome di un porto attico caratterizzato dall’avere un solo sbocco sul mare, in lingua greca Monemvasia) provenienti dal Peloponneso e da Creta, soprattutto per merito dell’attività commerciale di Venezia che ne fece il vino per la nobiltà e l’alto clero di tutta Europa. Con la conquista di Creta da parte dei Turchi e la crescente domanda di questo vino, la disponibilità divenne via via minore. Si diffusero allora lungo le coste della Dalmazia, nell’Italia nord-orientale e nelle regioni centrali della Penisola, vitigni e tecniche enologiche (per esempio l’appassimento delle uve) adatte a produrre vini di questa tipologia. Per questa attitudine a produrre questi vini di imitazione, molti vitigni che non avevano peraltro nessun legame di parentela tra loro, vennero genericamente chiamati Malvasie.

Moscato rosso o di Scanzo

Moscato di Terracina

Moscato di Alessandria o Zibibbo Moscato bianco

Moscato giallo

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storia e arte Il vinsanto è stato di gran lunga il vino più commercializzato e imitato nell’Italia medioevale. Tra i numerosi significati che vengono attribuiti all’origine del nome (da xantos, giallo per il colore che spesso lo caratterizza, per l’uso liturgico nella chiesa bizantina o per l’epoca della pigiatura delle uve appassite in fruttaio, che di norma coincideva, per la versione trentina, con la Settimana Santa), quello derivato dall’isola di Santorini, da dove aveva preso origine, sembra il più pertinente. Vinsanto e malvasia sono accumunati da una denominazione d’origine che politiche mercantili disinvolte li hanno tristemente trasformati, da circa mille anni, in un generico vino dolce, o analogamente ricondotti a qualche vitigno con l’attitudine all’appassimento. L’arrivo di questi vini dal Mediterraneo orientale si intensificò all’inizio del ‘400 con la cosiddetta “rivoluzione dei noli” che farà scomparire la viticoltura nelle zone meno vocate di montagna, in quanto l’incremento del costo dei trasporti non rendeva più conveniente la produzione di vini a bassa conservabilità. In questo periodo divenne quindi vantaggioso utilizzare per i vini una denominazione che li rendesse riconoscibili e ne giustificasse un prezzo maggiore. Tale denominazione era di solito un sintagma, quasi un acronimo tra il nome del vitigno e il toponimo del luogo di origine o di commercializzazione. Con la diminuita presenza del commercio genovese e veneziano sui mercati del nord-Europa tra il XVI e XVII secolo i vini greci vennero sostituiti dai clarets francesi, in quella che venne chiamata l’offensiva dei vini leggeri. Nella Sicilia medioevale, malgrado la cultura araba non fosse favorevole alla coltivazione della vite per la produzione di vino, l’astinenza agli alcolici non era molto severa ed erano consentite molte eccezioni. Apprezzato era il vino trattato con l’aggiunta al mosto, di miele e senape. A Palermo era famoso il fondaco dell’uva passa (in arabo zabib) dal quale deriva il nome dello Zibibbo (Moscato di Alessandria), uva destinata all’appassimento. Gli arabi ridimensionano i latifondi con la creazione di piccole e medie aziende capaci di sviluppare una viticoltura intensiva (agrumi, cotone, canna da zucchero e uva) e creano la prima rete irrigua nelle campagne.

Vino e salute nel Medioevo e nel ’500

• L’impiego del vino come farmaco è noto

fin dall’antichità: numerose sono le citazioni nella Bibbia; Celso e Galeno lo consigliavano per chi soffriva di male allo stomaco e contro la debilitazione

• Nel Medioevo il vino ricevette una vera

e propria consacrazione come medicina quasi universale. I maestri della Scuola Salernitana compilarono un’opera in versi passata alla storia con il nome di Flos medicina o Regimen sanitatis. Tra le numerose citazioni si ricordano: “Dum saltant atavi patet excellentia vini” (“quando ballano i vecchi vuol dire che il vino è eccellente”), “At bene dilutum, sapiens moderamine sunptum” (“e bene diluito, scintillante e bevuto con moderazione”)

• Nel ’300 si scrisse un trattato sul vino

come medicina. Fondamentale è il commento del Mattioli, medico senese, sull’opera di Dioscoride, medico militare greco, relativa agli effetti benefici dei vini italiani: “il Falerno è di gran lunga il vino soprattutto quando è vecchio che ha le maggiori virtù salutari, così come il Sorrentino, mentre il Cecubo è di difficile digestione”

• Spesso ai vini venivano aggiunti estratti vegetali o parti di piante ed erano così usati per particolari patologie. Curioso era il “vino dell’oro spento” preparato spegnendo una lamina d’oro nel vino e usato nelle malattie della mente e per il conforto dei lebbrosi

Origine genetica di alcuni vitigni europei Nel 92 d.C., l’imperatore Domiziano preoccupato per la difficoltà che incontrava a rifornire di grano le sue legioni, soprattutto quelle sui confini settentrionali e orientali dell’Impero e per la crescente concorrenza che faceva la Gallia ai vini campani, emana un editto che obbliga a spiantare, nelle province dell’Impero al di fuori dell’Italia, la metà dei vigneti sostituendoli con grano. La riduzione del commercio del vino che seguì è documentata dalla scomparsa nei ritrovamenti archeologici, 72


origine e storia delle anfore vinarie risalenti al II sec., in tutto il Mediterraneo. A Domiziano seguono alcuni imperatori, come lui generali illiri, e finalmente si giunge a Probo, vissuto dal 267 al 282 che sposa un’acquitana la quale intercede presso il marito affinché la vite possa essere di nuovo coltivata nelle zone in cui era nata. Probo non solo acconsente a questo suo desiderio ma utilizza i soldati delle legioni orientali, dislocate sui confini della Pannonia per riportare le viti in Francia. Pochi secoli dopo, con la fondazione dell’ordine dei Benedettini e l’Europa che esce dalla crisi del III secolo, quella provocata dalla caduta dell’Impero romano, con la protezione offerta dai Franchi si ha la ripresa della coltivazione della vite soprattutto in quel territorio compreso tra il bacino del Reno e i suoi affluenti e la Germania meridionale. Alle viti portate dalle legioni di Probo si aggiunsero quelle arrivate con gli Ungari e gli Unni attorno al V secolo. Al motto ora et labora i monaci dissodano le terre abbandonate e bonificano boschi e paludi selezionando le viti che nei vigneMoscato rosa

Pedigree dello Chardonnay e di altri vitigni della Borgogna Pinot Meunier (Schwarzriesling )

Traminer

Gouais B. (Heunisch )

Pinot Noir

Aligoté

Chardonnay

Melon

Gamay B. e N.

Aubin V.

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Bachet N. Beaunoir Dameron Franc N. Knipperle Peurion Romorantin Roublot Sacy


storia e arte ti abbandonati davano i migliori frutti. Questi vigneti erano costituiti da viti semiselvatiche, raccolte nei boschi e dalle piante portate da oriente e naturalmente dai relativi incroci spontanei. Recenti analisi del DNA hanno accertato che in molti vitigni europei, sia nei vigneti più vecchi sia nelle collezioni, è spesso presente un genitore che è stato identificato con il nome di Gouais o Heunisch (da hunnisch, unno). Mentre la prima espressione in francese definisce in modo dispregiativo le modeste qualità del vitigno, la seconda, tedesca, chiarisce la sua origine, cioè dalla terra degli Unni, la Pannonia, portato dalle legioni di Probo o dagli invasori Ungari. L’altro genitore, il Pinot nero o il Traminer, sono invece viti selvatiche, delle quali rimangono ancora delle tracce riconoscibili in alcuni esemplari che vivono protetti in un’isola sul Reno. L’agronomo Pier de Crescenzi e le prime “guide” dei vini Tra il basso Medioevo e il Rinascimento, numerosi furono coloro che si occuparono di descrivere in trattati anche dal taglio aristotelico o naturalistico, gli aspetti tecnici della coltivazione della vite. Tra questi si erge la figura del bolognese Pier de Crescenzi. Nel suo Liber Ruralium Commodorum scritto agli inizi del ’300, egli interpretò il momento storico dell’Italia centro-settentrionale in occasione del suo riscatto dalle costrizioni imposte dalle servitù agrarie dei secoli precedenti. Fu certamente il libro che trattava argomenti di agricoltura più famoso del tempo, se si pensa che furono pubblicate 12 edizioni latine,18 tedesche, 2 polacche e 1 inglese. La descrizione delle varietà riportate rappresentò ricchezza di particolari e indicazioni agronomiche talmente innovative da essere imitata nel 1800. La fine del ’400 vede l’Italia al vertice in Europa nelle lettere, arti, scienze e agricoltura. Se all’inizio di questo secolo i vini italiani aventi un vero nome, specifico, non superavano forse la dozzina, verso la fine del ’500 questi erano diventati quasi un centinaio. Della loro descrizione si occupa un naturalista, medico di Papa Sisto V, nella sua opera Storia dei vini d’Italia, pubblicata nel 1560, Andrea Bacci, che offre il quadro completo dell’enografia italiana, descrivendo, da buon neogeorgico, di ogni vino i luoghi di produzione, la loro storia e naturalmente le caratteristiche qualitative. Poca attenzione viene rivolta all’aspetto varietale. Da illustre medico precisa le proprietà igieniche e terapeutiche delle diverse tipologie. Sono riportati vini di tutte le regioni italiane anche se la maggiore dovizia di particolari è riservata ai vini laziali, campani, siciliani e delle Marche, sua terra d’origine. In un’opera meno completa, una sorta di diario di due viaggi al seguito del Papa Paolo III Farnese del quale era il bottigliere, Sante Lancerio, coevo del Bacci, descrive vini italiani, francesi e spagnoli che venivano serviti alla men-

Pigiatura

Lavorazione nel vigneto

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origine e storia sa del pontefice. Sono vini che provengono anche da piccole località, spesso sconosciute, per i quali il giudizio di merito non coincide con quello del Bacci. Molto divertente è il commento sui vini francesi: “Sono buoni pei francesi per rosicare loro la collera, sicché in Roma non sono vini da signori”. Altri cronisti nel secolo successivo si sono cimentati nella scoperta e descrizione di numerosi vini italiani. Tra questi il Rendella che si occupò soprattutto di vini dell’Italia meridionale, il Lando che descrisse i vini del centro-nord e il Croce che invece si limitò ai vini piemontesi.

Foto R. Angelini

Nascita della viticoltura nel Nuovo Mondo In America, soprattutto nelle zone di maggiore altitudine e vicino ai Grandi laghi (la mitica Vinland dei Vichinghi), le popolazioni locali utilizzavano l’uva delle viti native per alimentazione diretta e per fare l’aceto da utilizzare nella medicina popolare e come conservante di cibi. La vite non era coltivata, né l’uva veniva vinificata. Le prime indicazioni della coltivazione della vite nell’America latina vengono dal Messico attorno al 1520, come conseguenza dell’occupazione spagnola di quei territori dopo la scoperta dell’America. La produzione di vino era in parte destinata alla Messa e in parte al consumo dei conquistadores, dato che il costo del trasporto dalla Spagna era molto elevato e spesso i vini che arrivavano non avevano sopportato bene il viaggio. In soli trent’anni la vite si era diffusa in tutta l’America latina a tal punto da fare concorrenza ai vini europei e da costringere Filippo II, circa settanta anni più tardi dalla creazione dei primi vigneti, a promulgare un editto che impediva di piantare nuove viti.

Plaisir de Merle, Sud Africa Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Morgenster - Somerset West, Sud Africa Foto R. Angelini

Viticoltura a Franschhoek, Sud Africa Vendemmia meccanica a Robertson, Sud Africa

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storia e arte La viticoltura cilena prende l’avvio con la fondazione di Santiago, nel 1551, con l’impianto dei primi vigneti delle varietà Pais e Criolla. Il primo vigneto commerciale di 60.000 ceppi viene piantato a Linares nel 1665. Dal XVIII secolo i vini cileni iniziano a competere con i vini europei sui mercati internazionali. Nel 1851 inizia l’importazione di vitigni da Bordeaux e l’isolamento geografico del Cile, stretto tra le Ande e l’Oceano, evita la diffusione della fillossera. Nell’espansione verso nord gli spagnoli portarono la vite anche in California e le tracce di quella presenza sono ancora rilevabili dalla presenza di una varietà, la Mission, che testimonia il suo utilizzo nelle Missioni cattoliche, soprattutto francescane, che risalgono al 1770. Con la corsa all’oro nel 1841, la viticoltura si espande attorno alla baia di S. Francisco e risale al 1850 il primo impianto commerciale di un vigneto vicino a Los Angeles, che produceva fino a 1000 botti di vino l’anno. Con i grandi flussi migratori dall’Europa della fine ‘800 causati dai danni della fillossera, la viticoltura californiana ebbe un notevole sviluppo, che si interruppe per l’effetto dei tredici anni (dal 1920 al 1933) durante i quali, venne imposto il proibizionismo nel commercio e consumo degli alcolici negli Stati Uniti. Per la verità, nella seconda metà del ’700 Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, di ritorno da un viaggio attraverso la viticoltura europea, decise di fare un impianto di vigneti in Virginia. Ad assisterlo chiamò un italiano, Filippo Mazzei, ma i suoi esperimenti per diverse ragioni non sortirono grandi risultati produttivi. In Australia le prime regioni viticole (Adelaide, Hunter Valley la valle dello Swan River) furono colonizzate nei primi anni dell’800. Il primo vigneto risale però al 1791 e venne realizzato con talee provenienti dal Sud Africa nel giardino del governatore inglese a Sidney. Le varie correnti di immigrazione (italiana a Riverland, tedesca a Barossa, croata nell’Australia orientale e svizzera nella Yarra Valley) furono le protagoniste dello sviluppo di viticolture locali ispirate a quelle dei paesi di origine.

Foto R. Angelini

Vigneto a Stellenbosch vicino a Cape Town, celebre per la qualità dei suoi rossi nati da uvaggi vari e per gli ottimi bianchi

Constantia: è la zona viticola più umida del Sud Africa. Qui i primi colonizzatori olandesi, i boeri, piantarono i primi vigneti

Foto R. Angelini

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origine e storia La viticoltura del Sud Africa è di origine olandese e il primo vino prodotto, nel 1659, fu un moscato (detto hanepoot) le cui talee radicate provenivano dalle Canarie, scalo delle navi della Compagnia delle Indie. Centocinquantanni più tardi diventa una colonia britannica e Constantia, la più estesa proprietà terriera coltivata a vite, anche per le competenze portate dagli Ugonotti francesi, diviene la fornitrice del vino, di bassa qualità, delle navi della flotta britannica. L’arrivo delle malattie americane, nella seconda metà dell’800, fa cadere la viticoltura sudafricana in una profonda crisi dalla quale si risolleva tra le due guerre attraverso importanti investimenti tedeschi e tecnici italiani e francesi.

Vino e guerra: i vini di Bordeaux e i Weinführer

• Con l’occupazione della Francia,

finalmente i tedeschi possono bere tutto il vino di Bordeaux che vogliono, ma purtroppo con il perdurare della guerra e la drammatica riduzione di viticoltori o prigionieri o clandestini nella resistenza, la qualità del vino destinato alle mense dei generali tedeschi rischiava di peggiorare. Dalla Germania giunsero allora i cosiddetti Weinführer, commercianti e importatori di vino di Amburgo e Brema che avevano da molto tempo rapporti d’affari con gli Chateau o addirittura erano imparentati con i loro proprietari, con la missione di impedire il crollo della qualità dei vini. Un altro gruppo di “esperti” ebbe invece il compito di confiscare le aziende viticole ai proprietari non ariani. Con la fine della guerra alcuni Weinführer vennero impiccati dalla Gestapo con l’accusa di collusione con il nemico per i rapporti di amicizia che avevano avuto con i proprietari e altri rischiarono di essere fucilati dalla Resistenza come collaborazionisti

Il vino tra “secolo dei lumi” e l’arrivo delle “malattie americane” Il ’700 è caratterizzato in Italia a livello politico dalla fine della presenza spagnola e dall’inizio della Campagna d’Italia da parte di Napoleone I. È il secolo della Rivoluzione francese, della diffusione dei principi dell’Illuminismo, delle dottrine fisiocratiche e del fiorire delle Accademie di Agricoltura (dei Georgofili, Reale di Torino e molte altre in quasi tutte le città d’Italia) che diedero un impulso notevole, non solo allo sviluppo della viticoltura, ma anche dell’enologia, attraverso un’opera di divulgazione delle conoscenze scientifiche presso la nobiltà illuminata e la borghesia terriera, con la pubblicazione di opere specialistiche di studiosi e di agricoltori esperti. L’uomo si libera definitivamente della cultura aristotelica e al motto “si tenti l’esperimento” si assiste alla rivoluzione scientifica in tutti i campi, dalla chimica alla biologia, dalla fisica all’agricoltura. Compaiono i primi testi di ampelografia nei quali le descrizioni dei vitigni non sono più ispirate ai principi della cultura georgica, opere che anticipano i grandi lavori di catalogazione del patrimonio viticolo italiano che saranno fatti nell’800, presagio della distruzione operata dalla fillossera. È nella chimica e nella microbiologia che si raggiungono i risultati più prestigio-

Panoramica di un vigneto in Toscana

Foto P. Bacchiocchi

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storia e arte si: Lavoisier, illustre vittima della Rivoluzione (1794), toglie quella patina di alchimia misterica alla fermentazione alcolica e Spallanzani e altri studiosi francesi confutano la teoria della generazione spontanea, dimostrando il ruolo della flora blastomicetica nella trasformazione degli zuccheri in alcoli. Nasce in questo periodo la prima opera italiana di enologia, l’Oenologia toscana del Villifranchi, dove vengono indicati i metodi per preparare in modo moderno i vini toscani, Chianti in primis, partendo dalle norme igieniche, la cui mancanza in quei tempi era la causa principale della loro scarsa durata nel tempo. Con la Rivoluzione francese e la presenza di Napoleone in Italia, vengono fondate importanti istituzioni scientifiche tecniche e agrarie, migliora la formazione degli agricoltori e, con la distribuzione delle terre delle grandi proprietà ai viticoltori, si afferma un modo nuovo di fare agricoltura. Fino alla metà dell’800 è la Francia il Paese guida nel campo della viticoltura ed enologia con studiosi di assoluto valore come l’Abbe Rozier, al quale va riconosciuta l’intuizione di avere creato la prima collezione ampelografica fin dal 1770 per aiutare i viticoltori a dare un nome alle varietà coltivate nei loro vigneti o il Chaptal, enochimico divenuto ministro dell’Interno con Napoleone, al quale va il merito tra gli altri di avere messo a punto la tecnica di estrazione dello zucchero dalla bietola e di averne preconizzato l’impiego per migliorare i vini del Midì (la chaptalisation), o il Pasteur che classifica gli agenti della fermentazione alcolica e i responsabili batterici delle più temibili malattie del vino, indicandone le cure. Tra le maggiori innovazioni tecniche che vennero introdotte tra il 1700 e il 1800 si ricorda l’adozione di forme di allevamento a spalliera al posto delle alberate, la forma cosiddetta a guyot, dell’impiego di macchine per la pigiatura e la pressatura, delle pompe meccaniche, dei primi filtri a cellulosa al posto dei cosiddetti filtri olandesi, ma soprattutto viene separata la produzione dell’uva dalla sua trasformazione in vino e nasce quindi l’industria enologica. Alla produzione e alla commercializzazione dei vini di qualità contribuì in modo sostanziale la produzione industriale delle bottiglie di vetro, avvenuta in Inghilterra all’inizio del 1700. Già alla fine

Nascita delle Scuole enologiche, fattore di grande progresso per la viti-enologia italiana

• Attorno alla metà dell’800 sull’agricoltura

europea si abbatterono una serie di gravi calamità che provocarono una forte crisi alimentare e favorirono un forte esodo migratorio verso le Americhe. Oltre alle cosiddette “malattie americane”(oidio, peronospora, fillossera) decisivo fu il ruolo della pebrina del baco da seta e della cocciniglia bianca del gelso nel crollo della produzione serica dell’Italia settentrionale, a cui si aggiunsero i danni provocati dall’infezione del carbonchio ematico. L’Europa reagì con delle scelte molto moderne per quei tempi, sviluppando la ricerca e avviando la formazione agraria. In quegli anni sorsero importanti centri di istruzione agraria, nel Bramante, in Austria, in Ungheria, in Croazia e a S. Michele allora piccolo paese del Tirolo meridionale. I risultati non si fecero attendere e oltre ai rimedi per l’oidio, la peronospora, la fillossera e le malattie dell’allevamento del baco da seta, videro la luce in quegli anni i primi concimi minerali, fu messo a punto l’insilamento dei foraggi e l’applicazione dell’aratro di metallo voltaorecchio

Viticoltura moderna in Francia

Foto R. Angelini

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origine e storia del secolo, nel Bordolese vengono fatti i primi imbottigliamenti con bottiglie di foggia simile a quella attuale. Il gusto inglese, nel XVIII secolo, era più sofisticato di quello francese ed europeo in genere: caffé, cioccolato, the erano riservati all’aristocrazia, mentre la birra era destinata al popolo. Anche il vino fa parte di questi consumi di élite e si afferma in questo periodo un vino bordolese detto “vino nero” che è apprezzato per la sua tannicità. Ma è solo il preludio di un grande cambiamento. Alla fine della guerra anglo-olandese, nel 1711, muta il gusto dei consumatori, per quella che è chiamata “la rivoluzione delle bevande”. Entrano in crisi i clarets bordolesi e questi vengono sostituiti da whisky, vermuth, vini dolci e distillati in genere. La viticoltura delle zone classiche viene via via sostituita da quella di zone meno vocate, dove è possibile forzare la produzione di uva, in quanto il vino che si ottiene è destinato a essere distillato o aromatizzato o arricchito con alcol. Nascono in questo periodo i Sauternes, il Porto, lo Xeres, i vini da uve infavate del Reno e soprattutto lo Champagne che vede nella fabbricazione industriale delle bottiglie e nella creazione di un solido tappo di sughero, la soluzione per vendere gli acidi e deboli vini del suburbio parigino. Può sembrare strano, ma il concetto di qualità di un vino è un concetto moderno che risale alla nascita della borghesia con la Rivoluzione francese. Prima di allora, infatti, il vino era un retaggio esclusivo di nobili e alto clero e la qualità era gerarchizzata e codificata dalla notorietà dell’immagine della cantina, in definitiva dal potere economico del proprietario. La borghesia crea una nuova gerarchia qualitativa basata sulle doti sensoriali del vino e per la prima volta le correla all’origine geografica del vigneto. Il successo dei vini francesi, soprattutto del Bordolese, e la diffusione di numerose opere di erudizione agricola che preconizzavano seppur timidamente già alla fine del 1700 la coltivazione delle “uve francesi”, indussero alcuni proprietari terrieri dell’Italia settentrionale a introdurre alcune varietà di vite provenienti

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Cantine di Porto, Portogallo

Vigneti a terrazze sulle rive del Douro, Portogallo; zona viticola su colline di graniti e scisti, famosa per la produzione di vini da oltre 2000 anni e per il tipico vino Porto

Foto R. Angelini

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storia e arte da zone famose francesi, e in misura minore tedesche, come la Borgogna (Pinot-Chardonnay, Pinot nero, Gamay), il Bordolese (Cabernet, Merlot, Malbec), il Rodano (Syrah) e la Renania (Traminer e Riesling R.). Malgrado vi fossero molti dubbi sulla adattabilità di questi vitigni all’ambiente climatico italiano, espressi da molte istituzioni ufficiali italiane, in mancanza di studi specifici, tutti i dubbi caddero quando Guyot pronunciò la celebre frase “che il genio del vino è nel vitigno”. In Toscana, nel 1840, il Malenotti si lamentava del peggioramento dei vini della regione che soprattutto non erano adatti a essere trasportati, come invece non succedeva per “i vini di Bordò, del Reno e di Sciampagna” e consigliava di coltivare in Toscana un vitigno bordolese che si chiamava Claretto rosso. Inoltre, la gelata del 1709 aveva fatto scomparire molti vitigni di qualità e la creazione delle prime collezioni ampelografiche dove era possibile verificare il comportamento soprattutto produttivo, in loco, di queste varietà stimolava la curiosità e l’interesse dei viticoltori. Gli indugi vennero rotti nel 1870 quando un gruppo di viticoltori toscani e veneti iniziarono a importare in modo massiccio dalla Francia materiale vivaistico per costituire nuovi vigneti, poco tempo prima che la diffusione della fillossera in Europa inducesse i vari Stati a introdurre severe limitazioni alla circolazione del materiale di propagazione. Per la verità, il primo impianto di Cabernet S. venne realizzato nel 1820 dal cavaliere Bertone di Sambuy nella piana di Marengo, nell’Alessandrino. Non si può negare che la necessità di ricostruire la viticoltura italiana distrutta dalla fillossera accelerò il loro impiego.

Nascita dell’Istituto Agrario di S. Michele all’Adige

• L’Istituto Agrario di S. Michele nacque

per volontà della Dieta di Innsbruck, come emanazione dell’Istituto di Klosterneuburg, nel 1875 nell’antico convento agostiniano che domina il paese e il fiume Adige. Il suo ruolo nella ricostruzione viticola post-fillosserica, nella assistenza e nella formazione degli agricoltori trentini fu decisivo per lo sviluppo economico di un territorio di montagna povero altrimenti destinato allo spopolamento per l’emigrazione verso altri Paesi più ricchi di risorse. Nei suoi 130 anni di vita ha formato centinaia di tecnici di valore e accompagnato con le sue ricerche il destino viticolo provinciale tra crisi e successi. Analogo ruolo è stato svolto dalle altre Scuole di Enologia storiche, quali quella di Conegliano, Alba e Avellino

Distribuzione dei vitigni nel territorio atesino a metà del 1800 Vitigni atesini

• La cartina a lato mostra la distribuzione spaziale dei vitigni nel territorio atesino nel secolo scorso (1800-1900), prima dell’arrivo della fillossera

• Molti vigneti sono comuni alle due

aree culturali, quella tirolese e quella trentina, anche se sono chiamati con nomi diversi. Anche nelle diverse vallate dove in quel periodo era concentrata la viticoltura, lo stesso vitigno è chiamato con vari nomi

• Dopo circa un secolo e mezzo, durante il quale la gran parte di queste varietà è stata abbandonata, è in corso un efficace progetto di recupero

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origine e storia Anche le Scuole di Enologia nate attorno al 1875 diedero un forte impulso all’introduzione di queste varietà nei territori dove operavano e in particolare si distinse l’Istituto Agrario di S. Michele all’Adige che, per la sua appartenenza all’Impero Austro-Ungarico, poteva disporre di conoscenze molto vaste anche su vitigni di origine orientale. Molto importante fu l’opera del suo primo direttore, E. Mach, nell’introduzione di vitigni stranieri di qualità al posto dei numerosi vitigni autoctoni diffusi nelle vallate alpine, soprattutto per l’autoconsumo o l’esportazione di “graspato “ di bassa qualità verso l’Austria.

Successi dell’enologia italiana nell’800

• Le Esposizioni chiamate universali furono un fenomeno commerciale importante nel mondo tra la fine del ’700 e la metà dell’800. Naturale evoluzione delle grandi fiere europee medioevali furono una vetrina importante per mostrare i progressi compiuti dallo sviluppo economico dei Paesi partecipanti

Acerbi e la scuola ampelografica italiana L’ampelografia può essere definita una scienza ausiliaria della viticoltura che consente, oltre al riconoscimento dei vitigni, anche la valutazione delle loro caratteristiche produttive e il grado di adattamento alle condizioni pedoclimatiche. La descrizione delle varietà ha sempre interessato fin dall’antichità i cultori di materie viticole, ma solo con il superamento della cultura georgica avvenuta con l’Illuminismo, si sono poste alcune premesse metodologiche che consentono di riconoscere le varietà con una maggiore precisione. I recenti sviluppi dall’analisi del DNA attraverso marcatori hanno dato un contributo insperato non solo nell’identificazione dei vitigni, ma anche dei loro genitori. Il primo che ha posto il problema della distinguibilità è stato il De Crescenzi alla fine del XIII secolo, rara avis, un periodo storico dominato dai neogeorgici. Il concetto della stabilità, cioè della classificazione basata su alcuni caratteri morfologici poco influenzati dall’ambiente, è stato affrontato dagli ampelografi dell’800, dall’Acerbi in primis. Acerbi, figura eclettica (tra le tante attività che intraprese, fu il primo geografo della Lapponia), costituì una importante collezione ampelografica a Castelgoffredo (MN) e mise a punto agli inizi dell’800 un metodo

• In queste occasioni vennero degustati

i migliori vini prodotti nei vari Paesi, in specifici concorsi. Il primo fu a Parigi nel 1855 dove vennero presentati i vini del Bordolese quale risultato, innovativo per l’epoca, della prima classificazione dei diversi crus

• L’Italia, in occasione della Esposizione di

Vienna del 1873, ebbe moltissimi premi. Molte aziende piemontesi conquistarono mercati stranieri con il Moscato spumante e con il Vermuth. Numerosi furono peraltro i tentativi di imitazione, soprattutto in America, che portò alla Convenzione di Madrid del 1891, il primo esempio di lotta alla riproduzione fraudolenta dei marchi

Vigneti in Trentino

Foto M. Galli

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storia e arte di riconoscimento delle varietà detto “geoponico” dai grappoli e dalle bacche. L’immanenza delle distruzioni che stavano per essere operate dalla invasione della fillossera, spinge l’allora Ministero dell’Agricoltura a istituire delle Commissioni provinciali allo scopo di catalogare tutto il materiale viticolo esistente in Italia. Nello spirito collezionistico che animava l’800, alcuni illuminati agricoltori raccolsero presso le loro aziende molte varietà italiane e straniere allo scopo di chiarire il complesso tema dei sinonimi e di valutare il comportamento produttivo di vitigni di qualità provenienti da zone famose. Con la loro opera diedero un contributo importante non solo alla conservazione di molti vitigni destinati altrimenti alla scomparsa, ma alla diffusione di varietà straniere di pregio nella viticoltura italiana. Si ricordano, a questo riguardo, il Di Rovasenda e il Marchese Incisa della Rocchetta in Piemonte, il già citato Acerbi a Mantova, il De Pizzini in Trentino e il Mendola in Sicilia. Purtroppo di questi ampelografi sono rimasti gli scritti, ma le collezioni, come capita spesso per le biblioteche, sono andate disperse. Nascita della viticoltura moderna Quasi una premonizione deve avere guidato i passi di Guyot nel suo viaggio attraverso la viticoltura francese tra il 1863 e 1868, contemporaneamente alla prima segnalazione avvenuta nel Gard, nel sud della Francia, della comparsa di uno sconosciuto deperimento delle viti, che poi si sarebbe rivelato essere un attacco di fillossera radicicola. Guyot nella sua opera in tre volumi dà della viticoltura francese una fotografia dettagliata, in un momento di grande sviluppo di tutta la sua economia e di quella vitivinicola in particolare, descrivendo le diverse forme di allevamento alcune delle quali che risalivano al Medioevo, le centinaia e centinaia di varietà ancora presenti spesso mescolate nei vigneti, le caratte-

Immagine di grappolo di uva tratto dalla Pomona italiana del Gallesio (1817-1819). Il contributo di conoscenze fornito dagli ampelografi dell’800 è stato determinante per il recupero di vecchie varietà in via di scomparsa

Ciclo della fillossera della vite

Fillossera della vite

• Questo afide Rincote ha un ciclo sulle

foglie detto gallecolo, per le galle che forma e dentro le quali depone le uova, e un ciclo radicicolo, il più dannoso per la vite europea per le gravi alterazioni che provoca alle radici. Le viti americane sono tolleranti all’insetto perché i processi di coevoluzione hanno differenziato un secondo cambio esterno al cilindro centrale che impedisce ai numerosi parassiti secondari di insediarsi danneggiando così il sistema vascolare

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origine e storia ristiche pedoclimatiche delle numerose località dove si coltivava la vite anche le meno note e periferiche. Sono bastati pochi anni per sconvolgere questo scenario e trasformarlo radicalmente. Un’avvisaglia delle calamità che si sarebbero abbattute in rapida sequenza, sulla viticoltura europea, fu rappresentata dall’arrivo dell’oidio dall’Inghilterra, dove aveva creato già qualche danno ai produttori di uva in serra. I danni sono particolarmente gravi nelle regioni meridionali dove si diffonde il panico tra i viticoltori e molti di questi spiantano i loro vigneti. Il rimedio era già noto agli orticoltori inglesi e con i trattamenti a base di zolfo in polvere generalizzati dal 1855 la viticoltura riprese il suo trend positivo. In Italia “l’insetto” come venne chiamato dai viticoltori, fece la sua comparsa a Como nel 1879 ai margini della grande viticoltura suburbana di Milano. Malgrado le precauzioni adottate per evitarne la diffusione e i primi timidi quanto inefficaci tentativi di lotta con fumigazioni nel suolo di solfuro di carbonio, l’infestazione dilaga e nel 1911 tutta la viticoltura italiana è colpita. Ma la soluzione del problema era vicina e si concretizzò per le osservazioni di un appassionato viticoltore del Bordolese, Laliman, che riferì in un convegno della sua collezione di viti provenienti dall’America che non manifestava alcuna sofferenza per i danni dell’afide. Da questa intuizione, per merito degli Istituti Sperimentali di Montpellier e Bordeaux iniziarono le prime missioni in America per recuperare materiale per l’innesto e per l’incrocio dato che molte specie americane non tolleravano il calcare o non radicavano bene. L’azione del Ministero dell’Agricoltura italiano si concretizzò nella creazione dei Consorzi antifillosserici provinciali e attraverso le Cattedre ambulanti e le Scuole di Agricoltura viene monitorata la diffusione dell’afide, ma soprattutto si creano i primi vivai di viti americane per fornire ai viticoltori il materiale per costituire i nuovi vigneti e si insegna loro la tecnica dell’innesto sia al tavolo sia in campo. Contemporaneamente, attraverso impianti sperimentali si valuta il grado di adattamento dei portinnesti ai terreni soprattutto nei riguardi del calcare attivo. Certo non fu facile convincere i viticoltori ad adottare i portinnesti resistenti. Si era diffusa l’idea che l’innesto con il piede americano avrebbe determinato un peggioramento dei vini e che la fillossera in poco tempo sarebbe scomparsa dai vigneti. Ci vollero i risultati di numerose ricerche sperimentali e la loro divulgazione in congressi e visite presso i viticoltori, per convincere i più scettici. Al di là della perdita del patrimonio viticolo, la distruzione dei vigneti ebbe conseguenze drammatiche sul piano umano e provocò una profonda trasformazione in molti distretti viticoli che dovettero convertire la coltura della vite con altre molto meno redditizie soprattutto nelle regioni meridionali e alpine. Nelle regioni dove l’importanza della viticoltura era marginale o dove la vite era coltivata per uso domestico, i vigneti non vennero più ricostruiti. Molti viticoltori emigrarono in America o si trasferirono nelle città, andando ad alimentare quella moltitudine di operai frustrati e delusi che all’inizio

Ibridi Produttori Diretti

• Contrariamente all’Italia dove queste

varietà ottenute dall’incrocio di viti americane ed europee con lo scopo di avere piante resistenti alle malattie e capaci di produrre uva con una quantità accettabile, hanno avuto un certo riscontro solo nelle zone dove la pressione delle malattie crittogamiche (pianura veneta e friulana) era più elevata, in Francia, per una minore cultura del vino e per le più difficili condizioni climatiche, si sono superati dopo la II guerra mondiale i 400.000 ha. Attualmente le norme comunitarie proibiscono la coltivazione degli ibridi a eccezione del Bacò n. 1 utilizzato per la produzione del Cognac e del Regent, autorizzato in Germania per produrre vini da tavola

Andamento della superficie investita a Ibridi Produttori Diretti in Francia dalla comparsa della fillossera a fine anni ’80

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storia e arte del ’900, soprattutto in Francia, furono facili vittime dell’alcolismo. Ma come spesso capita, dalle grandi tragedie nasce progresso e innovazione. La fillossera fece nascere in Europa una nuova viticoltura attraverso l’uso dell’innesto, la riduzione del numero dei vitigni coltivati, limitata a quelli di migliore qualità, la riduzione delle densità di impianto e una disposizione dei filari più regolare per consentire la lotta antiparassitaria, resa più complessa dall’arrivo della peronospora, le forme di allevamento si semplificano e con la spalliera viene introdotto l’uso del filo di ferro fino ad allora sconosciuto. Naturalmente ci sono state delle conseguenze negative per la viticoltura in generale: la perdita di variabilità genetica, una omogeneizzazione delle forme d’allevamento, l’introduzione degli Ibridi Produttori Diretti che in Francia ricoprirono quasi un terzo della superficie viticola tra le due guerre, l’abbandono di molte zone di difficile coltivazione per ricostruire i vigneti in fertili pianure, l’introduzione della concimazione minerale per incrementare la produzione di uva per ettaro. Nell’Italia centrale e padana la sostituzione delle alberate avvenne molto più tardi: attorno agli anni ’30 con la grafiosi dell’olmo che fece scomparire la viticoltura promiscua dal reggiano e con la “grande trasformazione” dell’agricoltura italiana che coincise con l’eliminazione della mezzadria dalle campagne toscane e marchigiane. Nasce anche una nuova professione, quella del vivaista viticolo. Inoltre la viticoltura italiana trasse molti vantaggi economici dalle distruzioni operate in Francia dalla fillossera, perché nel nostro Paese i danni furono meno rapidi, soprattutto al sud e quindi la produzione di vino non subì nel breve periodo il crollo paventato, rifornendo così il “concorrente” transalpino del vino di cui necessitava. Al grande cambiamento provocato dalla fillossera nella geografia della viticoltura italiana e francese, si aggiunse quello che inconsciamente indusse il potenziamento della linea ferroviaria alla fine dell’800, dal nord al sud dei due Paesi. Fino a quegli anni la viticoltura si era localizzata attorno alle grandi città per l’elevato costo dei trasporti che incideva enormemente sul prezzo dei vini, specialmente quelli di bassa qualità. La ferrovia capovolge praticamente la situazione che si era venuta a creare nel 1300 con la guerra dei noli e quindi rende conveniente il trasporto di vino a basso prezzo, ma di elevato grado alcolico delle regioni meridionali, rispetto ai vini prodotti attorno a Parigi o Milano. In pochi anni scompare, favorita anche dalla fillossera, tutta la viticoltura dei suburbi delle grandi città del nord Europa così come la coltivazione dell’uva da tavola nelle serre del Belgio, Olanda, Inghilterra favorita anche dal basso costo del gas di carbone e di Thomery, una piccola città sulla Senna dove la maturazione dell’uva da serbo (da conservare a raspo umido in grandi magazzini durante l’inverno per essere consumata a Natale) era favorita dal calore che emanavano i muri (circa 350 km di sviluppo) dove erano appoggiate le spalliere. La viticoltura attuale è il risultato di un cammino di generazioni di viticoltori dove il susseguirsi degli eventi ha dato vita a realtà

Foto M. Stefanini

Danni da filossera su ibrido di portinnesto Foto R. Angelini

Oidio Foto R. Angelini

Peronospora

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origine e storia Spalliera detta di Thomery Trasporti e commercio

• Prima dei collegamenti ferroviari

tra l’Europa settentrionale e quella mediterranea avvenuti nella seconda metà del 1800, il costo dei trasporti rendeva proibitivo il commercio di vini e di uva da tavola verso le grandi città europee. Si era infatti sviluppata fin dal Medioevo una viticoltura detta del suburbio per fornire vino a basso prezzo e una viticoltura in serra per la produzione di uva da tavola. A Thomery, un paese della Francia centrale, la coltivazione dello Chasselas, uva da serbo, le spalliere di viti erano appoggiate a centinaia di chilometri di muri per utilizzare il calore che da questi veniva emesso di notte e per favorire così la maturazione dell’uva. Questa veniva conservata per il periodo natalizio con la tecnica del cosiddetto raspo umido che consisteva nel porre il grappolo di uva con un tratto di tralcio in un bicchiere colmo d’acqua per tutto il periodo della conservazione. Lo sviluppo della rete ferroviaria e di nuove varietà tardive come l’Italia ha fatto scomparire in pochi anni un’attività che durava da secoli

molto complesse per cui non è più possibile riconoscerne le fasi evolutive. Il susseguirsi di processi di espansione e di contrazione quali risultato di crisi sociali ed economiche, di editti talvolta favorevoli e in altri casi sfavorevoli alla coltivazione della vite, di cambiamenti climatici e di grandi malattie, hanno condotto alla semplificazione dei modelli viticoli, (vitigni, forme di allevamento, tecniche colturali) dove l’esigenza di una efficace meccanizzazione discrimina quella viticoltura compatibile con la concorrenza ormai a livello mondiale, da quella destinata a scomparire per emarginazione economica. Le forme di allevamento, veri iconemi di un paesaggio che ha perso i connotati della campagna per assumere quelli di un sistema industriale, dopo 2000 anni di sopravvivenza e di testimonianza della diversità delle culture che, succedendosi, le hanno elaborate come un opere d’arte, sono in pochi anni scomparse. Così i vigneti nel tempo sono scesi dalle montagne e dalle colline, hanno conquistato le fertili pianure. Alla perdita di paesaggio si accompagna un cambiamento delle caratteristiche dei vini, sempre più espressione di complesse tecniche enologiche e sempre risultato di interpretazioni originali. Sono rimasti i vitigni, anche se ridotti nel numero e nella variabilità delle popolazioni varietali, con la grande e sempre meno misteriosa complessità del loro DNA, a fare da fossili guida della nostra storia. A loro affidiamo le nostre speranze per ricostruire una storia cha ha ancora molti lati oscuri, unitamente all’apporto dell’antropologia per poter legare in un unico abbraccio l’uomo e la vite in un destino comune. Ma la storia deve servire anche alle generazioni future per evitare che, come dice il detto, “chi non conosce la storia è costretto a ripercorrerla”. Per alcuni questo significa mantenere salda la tradizione e al motto “si è sempre fatto così” si ignora quanto di buono ha portato il progresso, per altri invece la tradizione deve

Foto R. Angelini

Pergolato nel monastero di S. Chiara, Napoli

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storia e arte Foto P. Bacchiocchi

Viticoltura moderna in Italia

essere “tradita” e quindi devono essere conservati i valori fondamentali, ricorrendo però agli strumenti perfezionati dall’innovazione tecnologica e genetica. Il nemico da battere è la tendenza alla banalizzazione e alla omologazione: nel gusto del vino, nelle poche varietà coltivate, nelle tecniche enologiche aggressive, nel linguaggio scontato della comunicazione. La viticoltura e l’enologia non sono solo delle attività economiche, ma rivestono un importante ruolo etico. Il loro obiettivo non si esaurisce nella produzione di un vino buono e genuino, bevanda ideale per l’uomo moderno, ma deve tenere conto della salvaguardia di ambienti di particolare valore storico e culturale, di vitigni forse fuori moda, ma testimoni di altri periodi della storia viticola, di tipologie di vino poco gradite ai consumatori frettolosi

Vigneti nella Valle della Loira

Foto R. Angelini

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origine e storia

Viticoltura a Pantelleria

dei nostri tempi, ma che consentono la sopravvivenza di piccole comunità di viticoltori, di tradizioni fatte di musica, poesia, cibi e folklore associate al consumo del vino, che se abbandonate fanno perdere a questa bevanda quell’aura che ne ha garantito l’esistenza fino ai giorni nostri. La storia recente indica per l’Italia delle scelte genetiche e colturali orientate verso vini dalla forte identità, che devono far percepire al consumatore attraverso una migliore conoscenza del terroir l’originalità e la rarità del vino che ha scelto. Dopo il periodo dei vitigni internazionali e quello dei vitigni antichi, per stimolare la curiosità del consumatore, come nella moda, verrà il tempo dei nuovi vitigni, risultato di incroci, resi meno costosi e di più rapida realizzazione, dallo sviluppo delle conoscenze del DNA.

Viticoltura in Toscana

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la vite e il vino

storia e arte Religione e arte Gaetano Forni

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storia e arte Religione e arte Bevande alcoliche e religione: il caso delle civiltà pre-proto agricole

Vino e mondo primitivo

• La cultura di un popolo è caratterizzata

Livello tecnico, tipo di civiltà e di religione In una trattazione che riguardi l’evoluzione del contesto antropologico culturale della vitivinicoltura, è evidente che le ere e le fasi che scandiscono tale evoluzione debbono essere considerate sotto due aspetti essenziali: il tipo di civiltà con il suo livello tecnico e il tipo di religione. Il livello tecnico condiziona profondamente il tipo di civiltà e quindi, in una certa misura, quello della religione. Basti confrontare, come esempio, la civiltà degli aborigeni australiani, che sono posti al livello tecnico dei cacciatori-raccoglitori, con la civiltà elettronico-informatica contemporanea e i loro conseguenti contesti culturali. Di questi l’arte costituisce la forma espressiva più significativa. E. Werth, nella sua opera fondamentale di etno-antropologia storica dell’agricoltura: Grabstock, Hacke und Pflug (1954), pone in evidenza lo stretto rapporto esistente tra evoluzione delle tecniche produttive, strutture sociali e livelli culturali, comprendendo in questi anche il tipo corrispondente di concezione religiosa. Ecco quindi che egli suddivide le epoche culturali della preistoria e della storia non secondo l’impostazione usuale, basata sulla materia prima con cui sono forgiati gli attrezzi: pietra grezza o levigata, rame, bronzo, ferro o acciaio, ma in base al tipo di strumento preagricolo o agricolo fondamentale impiegato. Così distingue le civiltà del bastone da scavo (Grabstock), quelle che noi indichiamo come paleolitiche, mesolitiche, della zappa (Hacke), cioè quelle neolitiche, e infine dell’aratro (Pflug), vale a dire le civiltà successive, dal tardo Neolitico in poi. Per Werth, sotto il profilo della storia culturale dell’agricoltura, lo spartiacque non sarebbe tanto la nascita di Cristo, ma soprattutto l’introduzione dell’aratro. In seguito a questa innovazione tecnologica infatti, con l’impiego dell’energia animale, il prodotto alimentare realizzato dal singolo coltivatore si quadruplica e persino si decupla. Ciò significa che l’operatore dotato di aratro produce cibo non solo per la propria famiglia, ma può produrre un sovrappiù per nutrire l’artigiano, il commerciante, il burocrate, il soldato, l’artista, il sacerdote. In altri termini, il villaggetto di soli coltivatori assurge al ruolo di borgata, di città. Nasce lo Stato. È la nostra civiltà. Poiché la sedentarietà si accentua, l’agricoltore non si limita alle sole colture erbacee annuali: grani-legumicoltura, ma estende la sua opera alle colture arboree, in primis alla viticoltura. Questa in precedenza era stata soprattutto praticata coltivando in sito le viti spontanee per protezione, ora invece per moltiplicazione vegetativa, trapiantando frammenti

da una struttura organica per cui gli elementi che la costituiscono sono strettamente connessi tra loro. Per questo, anche il tipo di alimentazione, il tipo di bevande alcoliche sono in relazione con il livello tecnico delle attività produttive, con il tipo di religione, con tutte le altre componenti di una data cultura. Viene quindi sinteticamente analizzata la natura dei processi religiosi il cui nucleo profondo sta nella consapevolezza della dipendenza dell’uomo da alcunché di esterno a lui. Considerate le capacità inebrianti del vino e delle altre bevande alcoliche, se ne constata l’uso limitato presso le popolazioni più primitive: uso in genere riservato agli sciamani o a personaggi analoghi, in particolare nelle manifestazioni religiose

Presumibile autoritratto di uno sciamano reperito nella Grotta di Vado all’Arancio (Grosseto), risalente al Tardo Paleolitico. Gli sciamani praticavano riti attinenti alla fecondità, quando erano in trance o in preda all’ebbrezza alcolica

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religione e arte di tralci (talee) fatti appositamente radicare (barbatelle). Come vedremo, a seconda del livello tecnico e quindi del tipo di civiltà, l’uso delle bevande alcoliche assume una rilevanza e impostazione diversa. Radicali, come pure vedremo, le conseguenti mutazioni in ambito religioso e quindi anche le loro espressioni artistiche. Mentre nelle civiltà dei cacciatori-raccoglitori l’uso delle bevande alcoliche è sconosciuto o è monopolio dello sciamano, con il sorgere delle società stratificate, muta anche il panteon degli dei, assumendo una struttura gerarchizzata. È in questo diverso ambito che la religione della vite e del vino acquisisce contorni, funzioni e significati nuovi. Differente ancora è il caso delle religioni fondate: mosaismo, cristianesimo ecc. Ma che vuol dire religione della vite e del vino? Come si manifesta? Qual è la sua funzione? Natura umana e religione: l’estasi e l’allucinazione alcolica nelle civiltà arcaiche Di solito chi tratta la religione di un popolo o il culto di una data divinità, sia in pubblicazioni scientifiche sia in quelle divulgative, si limita a descrivere il panteon di quella gente, le caratteristiche di quel dio. Ciò comporta un grave difetto, perché non permette di capire il significato e la natura di quel culto. Il che vuol dire che la lettura di quelle descrizioni sostanzialmente non serve a nulla: sono chiacchiere variopinte che dopo breve tempo si dimenticano, ed ecco quindi la necessità – volendo occuparci della religione e del culto del vino e della vite – di precisarne preliminarmente il valore e il significato. Sarà poi più agevole comprenderne le caratteristiche, le funzioni e le corrispondenti espressioni artistiche. Tra le guerre più feroci, condotte con più furibonda determinazione, sono da annoverare alcune di quelle motivate da obiettivi religiosi. Eppure, una caratteristica comune a tutti gli uomini, anche a quelli che si professano atei e che dovrebbe renderli sostanzialmente concordi, è la coscienza di dipendere, e non solo

Dea della fecondità reperita nella Grotta delle Veneri in provincia di Lecce. Risale al Paleolitico Superiore (Museo nazionale di Taranto)

Danza bacchica incisa su una pisside beotica conservata nel Museo Archeologico di Berlino. Queste manifestazioni rituali effettuate dopo abbondanti bevute appartenevano a una tradizione con radici che risalivano alla preistoria

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storia e arte per genesi, per cibo e per respiro, da ciò che è fuori di noi. Solo le farneticazioni del tutto cerebrali dell’idealismo potevano proporre l’idea che l’Io pensante crei il Non Io. Ciò partendo dalla ovvia constatazione che, attraverso i sensi, il nostro cervello fa vivere come propria la realtà esterna. Una concezione moderna opposta, molto diffusa, è in un certo senso l’ambientalismo. Ora, principio fondamentale di esso è la dipendenza dell’uomo dall’ambiente, in particolare da quello biologico. L’uomo cioè, attraverso l’evoluzione, è frutto ed espressione dell’ambiente. In altri termini più generali, tale principio si può formulare così: l’Io umano dipende dall’Io extra umano, concetto che alla fine è alla base di ogni religione. A questo punto è opportuno fare una precisazione: la consapevolezza di dipendenza dell’Io umano dal Non Io extra umano è stata egregiamente codificata già nell’antichità con Aristotele, con il suo concetto di un motore immobile, implicato dal profondo, perenne, mutevole divenire della realtà. Il riferimento che abbiamo fatto ad Aristotele, ci fa comprendere che siamo in un ambito religioso al confine con la filosofia. O meglio, che siamo alle radici filosofiche della religione. Per entrare nel campo della religione propriamente detta, è necessario fare un passo in avanti, giungere a quello che gli studiosi di scienze religiose definiscono concezione di un Dio Persona. Sotto questo profilo è evidente come i teologi precisino che il Dio delle religioni cristiane sia un Dio personale. A un osservatore superficiale, questa concezione potrebbe apparire come un ammantare sotto sembianze umane la divinità, o, se si preferisce, un umanizzare il divino. Ovviamente lo status “persona” della divinità non esclude la possibilità, per chi pratica il culto, di un processo ulteriore di antropizzazione. Il che è evidente soprattutto nel politeismo. Il livello più embrionale di questa umanificazione è costituito dall’animismo. Per esso ogni essere, ogni cosa ha un’anima, come è indicato anche dal termine che lo designa. Un ulteriore livello, che illustreremo brevemente più avanti, è dato dal politeismo. In questo l’umanificazione si completa. Ogni divinità ha sembianze umane non solo integrali, ma potenziate. Così essa non solo possiede la vita, ma la possiede in eterno. Bacco, il dio romano della vite e del vino, presiede per sempre al ciclo agrario della sua produzione e ai suoi effetti sui bevitori. Marte, il dio della guerra, protegge e potenzia il valore, l’efficacia dei combattenti. Così si può dire di Vulcano, il dio dei fabbri, di Cerere, la dea dei cereali, di Venere, la dea dell’amore e della bellezza. Uno stadio intermedio è offerto dallo shintoismo, la religione nazionale del Giappone. Nello shintoismo sono presenti aspetti puramente animistici e aspetti specifici del politeismo. Lo shintoismo pratica il culto degli alberi, ma anche quello degli antenati,

Durante le epoche glaciali, e tuttora nei Paesi dell’estremo Nord è in uso il vino ottenuto con la fermentazione della linfa di betulla, estratta dalla corteccia con adatti strumenti

L’offerta di grappoli d’uva al Dio ittita della vegetazione e degli uragani risale a tradizioni preistoriche. L’Anatolia, la patria degli Ittiti, è sita nell’ambito dell’area originaria di domesticazione della vite

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religione e arte cioè dell’anima dei morti. Così pure di Amaterasu, la dea tutelare del Giappone, dalla quale discende direttamente il Mikado, termine religioso che designa l’imperatore. Anche lo sciamanesimo ha come base di partenza l’animismo, ma è caratterizzato dalla presenza di un personaggio intermediario tra il mondo degli spiriti e gli uomini, appunto lo sciamano: un particolare tipo di sacerdote-guaritore, caratterizzato da una certa labilità nervoso-psichica, spesso a carattere ereditario. Le sedute sciamaniche, da lui praticate in stato di trance, gli permettono di contattare il mondo degli spiriti, di cui trasmette ai presenti interessati rivelazioni e interventi, per lo più terapeutici. Lo stato di estasi e di allucinosi, è da lui ottenuto mediante l’ingestione di funghi allucinogeni (l’Amanita muscaria ecc.), o di altre sostanze, come le bevande alcoliche, capaci di indurre turbamenti psichici, oppure anche mediante particolari rumori ritmicamente ripetuti per lungo tempo. Ci soffermiamo sullo sciamanesimo in quanto esso ci offre sostanziosi spunti analogici per riscoprire in chiave etno-archeologica le radici della religiosità connessa con l’estasi alcolica. Abbiamo detto analogie in quanto lo sciamanesimo è diffuso in aree caratterizzate da un clima freddo (Siberia, Canada settentrionale ecc.) e quindi diverso da quello della vite. Ciò non toglie che anche in quelle aree possano essere ottenute allucinosi con l’uso di bevande alcoliche locali (linfa fermentata di betulla ecc.). È chiaro che allucinosi ed estasi non sono condizioni indispensabili per relazioni religiose, ma sono potenti fattori di stimolo al loro riguardo. Per quel che riguarda le caratteristiche generali delle bevande alcoliche, si può dire che sostanzialmente si tratta di prodotti naturali, in un certo senso spontanei. Non solo l’uva, ma tutti i frutti molto zuccherini, se ammassati in recipienti rigidi o flessibili (otri ecc.), e quindi pressati e spremuti dal loro stesso peso, producono abbondante liquido che, in condizioni adatte, fermenta. In breve tempo la bevanda alcolica è pronta e in grande copia. È istintivo berne. Altrettanto istintivo attribuire lo stato subitaneo di ebbrezza e progressivamente l’estasi, l’allucinosi a un intervento divino. A differenza di quello prodotto dall’Amanita muscaria, o dai suoni ritmici ripetuti a oltranza, lo stato di ebbrezza, estasi, allucinosi ottenuto con l’impiego di bevande alcoliche è di tipo più partecipativo, dato che lo si ottiene con maggiore facilità, senza provocare intossicazioni immediate e senza la necessità di una particolare preparazione professionale, e perciò rientra in un certo senso nella vita quotidiana. Oltre che dalla spremitura e fermentazione di succhi zuccherini, i liquidi alcolici si possono ottenere in mille altri modi alla portata di ogni gente e in ogni luogo. Abbiamo accennato alla linfa di betulla, ottenibile spezzando un ramo giovane o incidendo la corteccia di questa pianta, ma liquidi fermentescibili

Il trionfo di Bacco (dipinto di D. Sayter nel Palazzo Reale di Torino, XVII sec.)

Bassorilievo su recipiente da vino (situla) risalente alla metà dell’ultimo millennio a.C. (Naturhistorisches Museum di Vienna)

Bassorilievi sulle situle

• Rappresentano spesso dei connubi

sacri, pratica rituale di lontane origini preistoriche, effettuata per sviluppare la vegetazione. Ai due celebranti si offriva del vino perché si pensava che i bevitori ebbri fossero invasati dalla divinità. Per questo le pratiche religiose, i riti e le feste erano accompagnati da abbondanti libagioni, specie da parte dei dignitari

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storia e arte

Codex Vaticanus B

• Quasi tutte le civiltà, a partire da quelle preistoriche, si sono dotate di una propria bevanda alcolica. A lato una miniatura del Codex Vaticanus B che illustra, al centro, la grande giara per la fermentazione della linfa di agave. A sinistra, la Dea dell’agave che sta brindando e, a destra, un bevitore. In basso a sinistra il cuore trafitto, dopo un sacrificio umano

Miniatura del Codex Vaticanus B (Collezione di D. Fournier)

sono facilmente ottenibili dal miele diluito in acqua, dal latte, dai grani germinanti di qualsiasi cereale (orzo, mais, riso, frumento, sorgo, miglio). Perché germinanti? Perché solo durante la germinazione le sostanze amidacee, non fermentescibili, si trasformano gradualmente in zuccheri fermentescibili. Anche la saliva umana contiene enzimi capaci di trasformare gli amidi in zuccheri, per questo anche dalle pappe di cereali o tuberi premasticati è possibile ottenere bevande inebrianti. È il caso della cicia degli indiani d’America, ottenuta masticando e diluendo in acqua tiepida il mais. Mentre la birra nei nostri Paesi è ottenuta dai cereali germinanti. Ecco quindi che, come si è detto, la facilità con cui sono ottenute le bevande alcoliche, rende possibili pratiche religiose collettive in cui lo status di ebbrezza, estasi, allucinosi è presente in tutti i partecipanti. Sin qui abbiamo prevalentemente considerato processi e situazioni più frequenti nella preistoria, nell’ambito di civiltà non ancora gerarchizzate. La loro religione era di tipo animistico o sciamanistico. Si trattava di popolazioni a livello culturale tardo Neolitico, insediate in piccoli villaggi. Era questa la situazione culturale di quelle ubicate nel vicino Oriente, nell’area in cui si manifestarono i primi prodromi di domesticazione della vite. Area che si estende dal Caucaso alla Siria. La vite, ancora a livello protodomestico, era coltivata sporadicamente negli orti o, più spesso, dato il prevalente comportamento seminomade di quelle popolazioni, in situ per protezione. Il vino era prodotto in piccole quantità e consumato prontamente. La bassa gradazione non permetteva il sorgere di gravi problemi sociali derivati da ubriachezza e altre conseguenze dell’uso smodato e generalizzato di bevande alcoliche ad alta gradazione. Diversa, come vedremo, è la situazione nelle civiltà a religione politeistica.

Spaccato di un’osteria in un Paese mesopotamico, risalente ai primi secoli dell’islamismo. Persino in ambito musulmano, ove la legge coranica sconsigliava il vino, il suo consumo era diffuso

Religioni politeiste

• Nelle società antiche socialmente

stratificate, prevalgono le religioni politeiste. Esse sono caratterizzate da una divinità suprema, quali Zeus nella Grecia classica e Giove in Roma. Tra le divinità subalterne esiste anche quella che impersona il vino e la viticoltura, per esempio Dioniso tra i Greci e Bacco tra i Romani

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religione e arte Divinità del vino e della vite nelle civiltà aratorie Ninurta, Osiride, Dioniso e Bacco nei panteon del mondo antico Con l’introduzione dell’aratro e quindi, come si è già accennato, con l’emergere delle prime città non solo in Mesopotamia e nella valle del Nilo, ma anche sugli altipiani che, dalla Palestina, si estendono sino alla Siria e all’Anatolia centrale, l’agricoltura modifica la sua struttura tecnica, economica e sociale. Sotto il profilo territoriale, non sono più gli orti con le loro aiole difformi, ma ora prevale la geometria a parallelogramma, imposta dall’impiego dell’aratro. La vite si coltiva in filari. La produzione è ormai quella di massa. Il che è da connettersi con l’evoluzione politico-sociale che ha comportato prima il costituirsi delle città-tempio, forma di città-Stato governata dal gran sacerdote del dio tutelare della città, poi dei grandi imperi. L’uva e il vino non erano più prodotti per uso proprio, ma dovevano essere consegnati nei magazzini statali. Tale evoluzione di tipo quantitativo fu congiunta a un perfezionamento qualitativo, per soddisfare le esigenze raffinate delle caste dominanti. Il processo si accompagna con una profonda ristrutturazione religiosa. La progressiva gerarchizzazione della società umana si proietta in un corrispondente ordinamento a piramide del nuovo firmamento politeista. Alla sommità il dio supremo: Enlil tra i sumeri, il Sole, nelle sue varie denominazioni: Ra, Ammone ecc. tra gli egizi, Zeus tra i greci, Giove tra i romani e così via. Immediatamente sottostanti alle divinità principali, tra le quali appunto quelle della vegetazione, come Ninurta tra i sumeri, Osiride tra gli egizi, Dionisio, il Dio della vite e del vino, tra i greci. Infine le divinità secondarie, ereditate dalle antichissime concezioni animiste, come il dio romano del letame, Sterculio. In queste civiltà gerarchizzate, con la coltivazione standardizzata di viti e cereali su grandi aree e la produzione massiccia delle bevande alcoliche derivate: vino e birra, il controllo dell’uso smodato di esse si fa rigoroso. Nell’antica Babilonia, il codice di Hammurabi (inizio del II millennio a.C.) che si dichiarava steso per ispirazione divina, commi-

Stendardo di Ur, 2500 a.C.: immagine di un alto dignitario sumero che tiene stretto il calice colmo di vino

La regina assira Assursharrat, VII secolo a.C., sorseggia il vino da una coppa (Palazzo Reale di Ninive)

La dea Nut offre da bere al marito e alla corista del tempio di Amun, VII secolo a.C. (Metropolitan Museum di New York)

Vendemmia nell’antico Egitto, da un affresco della tomba di Nakht, XVIII dinastia (Collezione Giraudon)

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storia e arte nava (paragrafo 110) la morte sul rogo alle sacerdotesse che avessero abusato dell’alcol frequentando una mescita di vino o birra. Il mito accentua i pericoli dell’alcol illustrando episodi di sbornia accompagnati con fatti incestuosi, con gesti folli: la dea sumerica Inanna fa ubriacare il padre, il dio Enchi, che così, privo di senno, le cede i suoi poteri. Invano, una volta dissipati i fumi dell’alcol, tenta di riappropriarsene, ormai il danno è fatto. In un altro mito, la sposa di Enchi, la dea Nimah, a seguito di una sbornia, crea degli uomini ciechi, zoppi, paralitici, che poi Enchi a stento riesce a risanare. Anche la Bibbia fa compiere a Noè (Genesi 9, 20 sgg.) e a Lot (Genesi 19, 20 sgg.) ubriachi atti incestuosi orripilanti. In ambito greco, Eschilo ci racconta come il mitico re Licurgo, dedicandosi in modo sfrenato alle pratiche dionisiache, in stato allucinatorio alcolico, massacra suo figlio, pensando di potare una vite, e Apollonio riferisce il mito di Penteo, fatto a pezzi dalla madre Agave ubriaca, che lo aveva scambiato per una fiera. Questo mito è interpretato anche da Euripide nella sua celebre tragedia Le Baccanti. A tutti sono poi noti i mitici episodi riportati dall’Odissea, di Polifemo ubriaco accecato da Ulisse, di Elpenore che, in preda all’ebbrezza, muore cadendo dal tetto del palazzo di Circe. Nella stessa direzione va il decreto del Senato romano che, nel 186 a.C., vieta i Baccanali, le feste in onore di Bacco, per evitare che i partecipanti in stato di ubriachezza commettessero sconcezze. Così pure il mito riferito da Plinio, per il quale il fatto che Romolo facesse le sue libagioni col latte evidenzia il timore, o meglio il terrore per le conseguenze nefaste che avrebbe potuto procurare il diffondersi dell’uso del vino come bevanda non solo nelle festività, ma in tutti i giorni. Da ciò anche la tradizione grecoclassica, peraltro comune anche a Roma, una volta accolto l’impiego del vino, di berlo sempre diluito con acqua. Significativo, al riguardo, il passo in cui Erodoto (VI, 84) riferisce che Cleomene, frequentando i barbari (gli Sciti), prese l’abitudine di bere il vino senza l’aggiunta di acqua, e in tal modo perse il senno.

Una baccante offre una coppa di vino a Dioniso (affresco nella Casa dei Vettii a Pompei)

Banchetti, convivi, simposi Il modello di comportamento offerto dagli dei relativamente al bere non è solo negativo. C’è anche un uso positivo della bevanda alcolica ai fini della convivialità, come era il caso durante i banchetti. Spesso le attività degli dei si concludevano in festini, con abbondanti bevute. Secondo i miti trasmessici dai vari Autori classici, le assemblee divine con banchetti si succedevano almeno una volta al mese. Naturalmente anche i conviti degli dei erano lo specchio di quanto si usava praticare negli strati sociali elevati dei Paesi mediterranei e del vicino Oriente. Nella Grecia antica era infatti costume tra la gente colta riunirsi, dopo la cena, tra amici, per mescere, ispirandosi alle divinità, da grandi vasi, detti crateri, del vino abbondantemente annacquato. Solitamente tre parti di acqua, che spesso

Dioniso neonato viene consegnato da Hermes a una ninfa nutrice (Museo Regionale di Palermo)

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religione e arte era acqua di mare, per una di vino. Ma Omero, forse per licenza poetica, accenna addirittura a venti parti di acqua. Al contrario, Alceo canta: “Perché attendere la lampada? Siamo al tramonto. Suvvia, amico, irriga la gola con il vino, prendi i grandi crateri variopinti e beviamo! Dioniso, il figlio di Semele e di Zeus, donò ai mortali il vino, oblio dei mali. Mesci una parte di acqua e due di vino fino all’orlo della tazza, bevi, poi un’altra tazza segua la prima e dopo un’altra ancora ... e ora le donne sono più ardenti e gli uomini più spossati ...”. Senofonte ci racconta il caso di un simposio in cui il padrone di casa, Callia, aveva invitato, per ravvivare l’incontro, due giovani bellissimi ballerini che mimavano con grande efficacia gli amori tra Dioniso e Arianna, eccitando i commensali, come scrive Senofonte, con ricchezza di particolari. Simposi di questo tipo sono ben illustrati anche dall’arte delle situle, arte propria a un’area, quella padano-veneto-slovena, abbastanza periferica rispetto alla Grecia. Si veda per esempio quella di Sanzeno. Ma spesso i simposi non erano così licenziosi. Esemplare al riguardo il Simposio di Platone, ove i dialoghi riportati sono altamente intellettuali. Come si svolgevano queste sedute? All’invito del capotavola, il simposarca, ognuno attinge con la tazza il vino dal cratere e si beve assieme. La conversazione si riferisce a un argomento proposto all’inizio. La discussione è frequentemente interrotta dagli inviti a bere del simposarca. La mente è sempre lucida poiché, come si è detto, il vino è abbondantemente annacquato. Una pratica abbastanza affine al simposio greco era la commissatio o compotatio dei romani. Nei triclini, dopo aver banchettato sdraiati sull’apposito divano o meglio letto, il torus, uomini e donne brindavano in successione in onore di questo o di quello, obbedendo agli inviti dell’arbiter bibendi e sotto lo sguardo compiaciuto del rex convivii.

Dioniso in corsa, circa 470 a.C. (Museo Archeologico di Agrigento)

Dioniso incontra la sua Menade, 470-440 a.C. (Museo Regionale di Palermo)

Le divinità della vite e del vino: il caso di Dioniso La vivace lirica di Alceo, con il suo rapido cenno a Dioniso, ci sollecita una domanda: ma chi veramente era questa divinità? Non è facile rispondere perché, se a tutti è noto che egli fosse, nel mondo greco e in quello ellenizzato, il dio della vite e del vino, è necessario tenere presente: – il politeismo, quello greco in particolare, non è una religione articolata in precisi dogmi, come appare quella che più conosciamo, la cattolica, ma si basava su tradizioni e miti molto diversificati, a seconda dell’artista che ce li ha interpretati e trasmessi. Aggiungasi che, come oggi avviene per la cultura anglosassone, quella greca, prima con la colonizzazione diretta lungo quasi tutte le coste del Mediterraneo, poi con le conquiste di Alessandro Magno, che unificarono anche politicamente tutto il Mediterraneo orientale, sino a parte dell’India e compreso l’Egitto, si compì una prima elle-

Simposio di Dioniso ed Efesto, circondati dai Satiri e dalle loro compagne, le Menadi, circa 400 a.C. (Museo Archeologico di Agrigento)

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storia e arte nizzazione di tutti questi territori. Infine, grazie alla superiorità culturale della Grecia, anche Roma, dopo aver ellenizzato se stessa, conquistando il Mediterraneo e l’Europa occidentale, ellenizzò tutti i Paesi conquistati, comportandosi da veicolo della cultura ellenica per cui, di fatto, tutto il mondo conosciuto venne ellenizzato. – Così Dioniso, il dio del vino, a Roma era conosciuto come Bacco, denominazione peraltro nota anche ai Greci, ma i miti che a esso si riferivano erano spesso sostanzialmente quelli stessi che i poeti Greci immortalavano nelle loro opere teatrali e i pittori greci nelle loro splendide ceramiche. È in tal modo che Liber, il preistorico dio del vino italico, e le sue mitiche vicende vennero sostituite da quelle di Bacco-Dioniso. Egualmente tra gli etruschi al dio del vino, Mautus subentrò Fufluus, di ispirazione greca. – C’è da ricordare che l’unificazione culturale dell’intero Mediterraneo e dell’Europa occidentale non dovette attendere le conquiste di Alessandro Magno e quelle romane per realizzarsi, in quanto in precedenza, sin dalla preistoria, vi fu un’intensa osmosi, per i più vari motivi, oltre a quelli commerciali, tra i vari popoli e Paesi di tale area. Esemplare la documentazione apportataci da popolazioni relativamente periferiche, quali gli etruschi e la gente dell’arte delle situle. Le scene religiose e quelle della vita di ogni giorno hanno tra loro una non piccola affinità con le corrispondenti dei greci e dei romani. – Occorre infine tenere presente un fatto che dipende da noi moderni. Esso concorre a spiegare le numerose variegature che differenziano, pur in una sostanziale unità di fondo, le numerose interpretazioni che gli studiosi contemporanei ci offrono della figura di Dioniso: questo personaggio divino noi lo conosciamo attraverso l’esegesi dei documenti antichi compiuta dai vari filologi che si sono occupati di letteratura classica. È chiaro che l’interpretazione di un soggetto piuttosto “pericoloso” sotto il profilo etico come le bevande alcoliche e le loro divinità è abbastanza diversa se compiuta da un puritano protestante o da un cattolico – diciamo così – dalle larghe vedute. Il primo valorizzerà nei miti e nell’arte dei classici la compostezza, il controllo dei sensi e delle emozioni, quindi tenderà a focalizzare le tradizioni mitiche che fanno di Dioniso un dio barbaro proveniente dalla Tracia o dall’Anatolia e, non potendolo fare dopo la scoperta degli antichi testi preclassici, in cui risulta già presente, lo descriverà come la tipica divinità propria degli strati infimi della popolazione greca. Al contrario, un esegeta illuminato non avrà difficoltà nell’accoglierlo come divinità greca autoctona, anche se probabilmente derivata da una preistorica divinità della vegetazione. Le sue radici quindi risalirebbero all’epoca antichissima in cui prevaleva la concezione religiosa animista. È in quest’ottica in definitiva che accogliamo il mito per il quale Dioniso fu uno dei moltissimi figli di Zeus. Figli avuti sia da sua moglie Era come da altre dee, sia da comuni donne mortali di cui spesso si invaghiva in modo folle. È così che gli capitò di innamorarsi perdutamente di Semele, figlia del re di Tebe Cadmo, che egli,

Scena di simposio su un cratere a campana attico, 440-430 a.C. (Museo Archeologico di Agrigento)

Dioniso offre una coppa di vino a Persefone, VI sec. a.C. (Museo Archeologico di Reggio Calabria)

Morte del re tracio Licurgo per strangolamento da parte di una vite, per vendetta di Ambrosia, IV sec. a.C. (British Museum)

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religione e arte viaggiando sotto le mentite spoglie di un bellissimo giovane, aveva casualmente incontrato. Era, la moglie tradita, meditò subito una vendetta feroce, e la sua rabbia si acuì in modo incredibile appena seppe che Semele attendeva un figlio. Riuscì infatti ipocritamente a spingere il marito Zeus a visitarla in pompa magna, nel suo carro di fuoco, folgorante di saette e lampi, per congratularsi con lei per il concepimento. Ma Semele, povera donna mortale, rimase istantaneamente fulminata e incenerita da Zeus, che sbadatamente non aveva previsto l’effetto micidiale delle sue saette. Zeus si intenerì e compassionevolmente raccolse il feto vitale dal grembo di Semele morente e se lo inserì nella coscia. Compiuta questa miracolosa gravidanza, venne alla luce un bimbetto vivacissimo, che decise di chiamare Dioniso. Come balio/precettore scelse Hermes (il Mercurio dei romani) che amorevolmente adempì il suo compito, con l’assistenza delle Ninfe. È chiaro che il tipo di educazione impartita da Mercurio, il messaggero degli dei, che usava scorrazzare per il mondo, e dalle Ninfe che, con le sorelle Ore, conducevano una vita spensierata e voluttuosa, in compagnia dei Satiri dal caratteristico piede caprino, era pienamente libera. Al fanciullo grassottello, figlio prediletto di Zeus, tutto era permesso: vagare nei boschi dell’Olimpo, giocare con i cerbiatti e con i cuccioli delle fiere. Fu così che si affezionò a due tigrotti, che poi lo accompagnarono per sempre.

Putti vendemmianti su anfora di vetro blu, lavorata a cammeo, I sec. d.C. (Museo Nazionale di Napoli)

Dioniso, mitico inventore del vino Un giorno molto caldo d’estate, mentre si riposava al fresco nella grotta delle Ninfe, completamente ricoperta dai tralci delle viti che crescevano spontanee tutt’attorno, si mise a trastullarsi con i grappoli d’uva che pendevano abbondanti tra i pampini. Un po’ ne piluccava gli acini invitanti, un po’ per divertirsi ne spremeva il succo in una tazza d’oro. Il gradevole profumo era invitante, e così bevve ingordamente quel liquido rosseggiante e spumoso. E qui accadde il miracolo: il suo corpo stanco si sentì subito percorso da uno slancio vigoroso e vitale. Visto lo straordinario cambiamento, anche le belle Ninfe, i selvaggi Satiri, le graziose Ore, sorseggiarono l’eccezionale bevanda. E così subito, invasi da un’eccitante ebbrezza, si misero a ballare e a correre nei dintorni. Valli e boschi risuonarono dei canti e delle grida gioiose dei compagni di Dioniso. Il miracolo si era compiuto nella grande grotta, grembo generoso della Madre Terra; un giovinetto divino da lei ispirato aveva creato uno splendido dono, una straordinaria bevanda: il vino. Ma il carattere di Dioniso non era certo quello di chi tiene tutto per sé, e di conseguenza subito corse a far assaporare non solo agli dei, ma a tutta l’umanità la sua creazione. Quindi, accompagnato dal vecchio e gioviale satiro, Sileno, Dioniso trionfante percorse sul suo carro adornato di tralci, trainato dalle due inseparabili tigri, le infinite vie del mondo. La gente accorreva e così apprendeva dal giovane dio, bello e maestoso più di un principe, l’arte di produrre il vino e le sue straordinarie proprietà.

Trionfo di Dioniso-Bacco in un mosaico di Sousse in Tunisia, III sec. d.C. (Sousse Museo)

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storia e arte Era, inviperita per il trionfo del figlio della sua rivale, che odiava a morte, lo colpisce con le più incredibili calamità. Innanzitutto ecco che si mise a colpire di pazzia chiunque avesse bevuto vino, ciò a partire dallo stesso Dioniso. Chi beve vino perda la ragione, decreta Era. Ma Zeus interviene e li guarisce. Ecco che da allora l’ubriachezza è solo uno stato temporaneo. Ma Era non si arrende: un giorno che Dioniso viaggiava per le sue missioni, fa assaltare dai pirati la sua nave, mentre lui dormiva. Anche qui un prodigio: l’albero della nave si trasforma in una vigna stracolma di grappoli, mentre i pirati, come per incanto, si tramutano in vivaci delfini. La sequenza di avventure è infinita. Capitano infatti anche le nozze di Dioniso. Ma come avvenne ciò? Durante una delle sue solite imprese, sbarcato con il suo seguito sull’isola di Nasso, nel mar Egeo, dopo una sfrenata baldoria accompagnata da balli, canti e inni, alla fine si assopisce. Il sonno incipiente del dio è interrotto dal sentire lontani gemiti e singhiozzi. Come sempre compassionevole, Dioniso accorre. Trova una soave fanciulla in lacrime. È Arianna, la figlia del re Minosse, disperata, perché abbandonata dal suo bel Teseo. Mentre le asciuga le lacrime con i suoi baci, Dioniso se ne invaghisce, le fa sorseggiare il suo magico liquore, un vino rosso, spumeggiante. Presto Arianna, pervasa da un senso di gradevolissimo benessere, si abbandona nelle braccia di Dioniso. Dimentica l’ingrato Teseo, che lei aveva liberato dalle grinfie di Minosse, e acconsente con gioia alle profferte d’amore di Dioniso, che le chiede di sposarlo. È il momento di tornare all’Olimpo, di presentare a Zeus e a tutta la compagnia divina la giovane sposa. Arianna, acquisito il dono dell’immortalità, condivide con il marito gli onori che gli uomini gli tributano come inventore della più soave bevanda e maestro supremo nelle tecniche di coltivazione della vite e di produzione del vino. Abbiamo tracciato la biografia di Dioniso, interpretando lo spirito brioso dei miti che a lui si riferiscono. È chiaro che il mondo del vino, nell’ambito della mitologia greca, non si riduceva a Dioniso e alla sua corte. I celebri vitigni greci, la manipolazione dei vini spesso si rifacevano a eroi mitici che li avrebbero creati, introdotti (Diomede per esempio). Circa le divinità del vino degli altri Paesi che usavano questa bevanda, c’è subito da precisare che, anche se tutte quelle civiltà vantavano specifici dei del vino, nessuno gareggiava per ricchezza e vivacità di informazioni con Dioniso-Bacco. Ci limiteremo, cominciando dalla Mesopotamia, a ricordare che i sumeri onoravano Gestinana come dea del vino, mentre tra gli accadi è Siris la dea del mosto. Essa è figlia di Nin.ka.si, il cui nome significa “signora dalla bocca sazia” (di cibo) e che quindi abbisogna di bere. Il nome della dea sumerica invece significa “vigna celeste”. Probabilmente perché tra i sumeri che vivevano nella bassa Mesopotamia, la viticoltura non era praticata, anche se i loro altolocati gustavano il vino. La vigna era quindi per loro un sogno celestiale, come appunto indica il nome.

Putto ubriaco sorretto da un compagno (Museo Nazionale di Atene)

Baccanalia e Vinalia

• Queste festività si svolgevano il 23

aprile, in onore del vino nuovo e di Venere. Esse erano precedute un mese prima, il 17 marzo, da quelle in onore di Liber (Bacco). Si accendevano grandi falò, si offrivano al dio i primi germogli, si mangiavano uova colorate assieme a foglie tenere di insalata, si immolavano capretti. Tradizione che si è conservata anche nella nostra Pasqua. Il 19 agosto infine si svolgevano i Vinalia rustica, feste in preparazione della vendemmia, che “fondavano” sotto la protezione di Bacco il nuovo ciclo del vino. Queste in autunno si completavano con i Brumalia, in onore del dio Brumus, altra denominazione di Bacco

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religione e arte Tra i Cananei siro-fenici, il supremo dio della vegetazione e quindi anche della vite e del vino era Baal, il grande nemico del dio ebraico Jahvè, più affine alla divinità suprema, celeste dei pastori. Tra gli egizi era invece Osiride. Essi pensavano che il vino trasudasse dal suo corpo e quindi chi ne bevesse partecipasse in un certo senso alla sua divinità. Circa gli etruschi e i romani, abbiamo già rilevato come alla fine questi popoli identificassero il panteon greco con il proprio, seppure con qualche particolarità locale. Molto vivo divenne tra i Romani il culto di Priapo, personaggio sessualmente superdotato, nato dalle nozze tra Venere e Bacco. Era onorato come protettore dei vigneti e degli orti, per il suo potere di scacciare il malocchio.

Religioni monoteiste

• Tra le religioni monoteiste primeggia

il cristianesimo. Gesù, il fondatore, ha particolarmente valorizzato la vite e il vino, ciò specialmente in due episodi: all’inizio della sua predicazione, alle nozze di Cana, in cui tramuta l’acqua in vino. Poi in occasione dell’Ultima Cena, quando identifica se stesso con il ceppo della vite e i suoi discepoli con i tralci che da essa derivano, indi il vino offerto in sacrificio con il proprio sangue, raccomandando di ripetere questo sacrificio in sua memoria

Dai riti in onore di Dioniso si svilupparono la tragedia e la commedia, simboleggiate da maschere in questo mosaico romano

Vite, vino e religione cristiana L’eccezionale contributo dei Semiti: il monoteismo delle religioni fondate Come aveva acutamente posto in evidenza uno dei pionieri della scuola etnografica storico-culturale tedesca, il padre Verbita Wilhelm Schmidt, le religioni primordiali dei popoli pre-agricoli: animismo, sciamanesimo e così via, presuppongono, anche se solitamente in forma fumosa e lontana, la credenza in un essere Supremo, da porre all’origine di tutte le cose e di tutti gli eventi. Schmidt, nella sua opera monumentale, stesa in più di quarant’anni di ricerche: Ursprung der Gottesidee (1912-1955), una dozzina di volumi, un migliaio di pagine ciascuno, ha posto in evidenza che la figura di questo essere Supremo acquisì poi una maggiore rilevanza presso i popoli pastori. Ed è proprio un popolo pastore, quale era all’origine l’ebraico, che elaborò questa concezione religiosa con un rigore minuzioso, portandola alle sue estreme conseguenze anche sul piano etico. Jahwé (JHWH, secondo la grafia consonantica dell’ebraico) era un dio il cui culto era imperniato sul

Parabola dei cattivi vignaioli che uccidono i messaggeri e il figlio stesso del proprietario (miniatura tedesca del X secolo tratta da Codex Aureus Epternacensis conservato al Germanisches Nationalmuseum, Nuremberg)

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storia e arte terrore. Si esprimeva, comunicava con fulmini e lampi, in ciò simile a Giove. Fondatore di questa religione si può considerare Mosè. Una radicale innovazione si ebbe con la predicazione di Gesù, un “ebreo marginale”, come lo definisce oggi uno dei maggiori biblisti contemporanei, P. J. Meyer. Gesù era proveniente dalla Galilea, una terra che si considerava semi pagana o comunque compenetrata con genti pagane, devote al culto di Baal, dio, come si è visto, della vegetazione, identificato, sotto l’influsso greco, con Dioniso, il dio del vino. Egli, diversamente da quanto affermava la tradizione ebraica del suo tempo, predicava che Dio è amore, è padre, non padrone. Un dio che, come provvede agli uccelli dell’aria che non seminano e non mietono, come veste i gigli dei campi in modo così meraviglioso che Salomone, con tutto il suo sfarzo, fa ben misera figura al loro confronto, a maggior ragione provvede ad assistere gli esseri umani che, ai suoi occhi, valgono ben più dei passeri e dei gigli. Gesù era anche chiamato “mangione” e “beone” e quindi certamente apprezzava il vino, e frequentava “peccatori e pubblicani”, per convertirli. Dai suoi seguaci Gesù era denominato “il Cristo”, cioè “l’Unto”, “il Consacrato” a Dio. Per questo la religione da lui fondata, imperniata sui principi da lui predicati, dal suo appellativo si indica come cristiana. Questa religione costituisce, come tutti sanno, una delle componenti essenziali della nostra civiltà. Essa, con l’ebraismo e l’islamismo, rappresenta la triade religiosa che potremmo correttamente definire rivoluzionaria, che il mondo semitico ha offerto all’umanità, in confronto al precedente politeismo impregnato di banalità, troppo negativamente umane, del politeismo. Non si può essere consapevoli del posto che vite e vino occupano nella religione cristiana senza analizzare e riflettere sul racconto del primo miracolo di Gesù, quello delle Nozze di Cana, che troviamo nel IV Vangelo, di San Giovanni (2, 1-11) e che qui riportiamo: “... eranvi nozze in Cana di Galilea. C’era la madre di Gesù e anche Gesù, coi suoi discepoli, vi venne invitato. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: ’Non hanno più vino’. Gesù le rispose: ‘Che importa a te e a me, donna? L’ora mia non è ancor venuta’. Ma la madre disse ai servi: ‘Fate tutto quello che vi dirà’. C’eran lì sei anfore di pietra, preparate per la purificazione degli Ebrei, ciascuna della capacità di due o tre metrete. Gesù disse loro: ‘Riempite di acqua queste anfore’. Ed essi le riempirono fino all’orlo. Poi soggiunse: ‘Attingetene ora e portatene al capo del banchetto’. Ed essi gliene portarono. Allorché il capo del banchetto ebbe assaggiato l’acqua cambiata in vino – egli non sapeva donde venisse quel vino, ma ben lo sapevano i servi, che avevano attinto l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: ‘Tutti servono in principio il vino più buono; poi, quando la gente ha bevuto ben bene, quello meno buono; tu invece hai riservato il buono fino a questo momento’ Gesù in Cana di Galilea compì questo suo primo miracolo e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.” Ecco i punti che dobbiamo prendere in considerazione:

Primo miracolo di Gesù: l’acqua tramutata in vino, per intercessione della Madre, a un banchetto di nozze a Cana (Gv. 2, 1 ss.)

Significativo esempio di sincretismo religioso: in questo mosaico di Paphos (Cipro) Dioniso fanciullo è presentato all’adorazione dei presenti. Ciò a imitazione delle scene usuali di Gesù Bambino adorato dai Re Magi

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religione e arte − Gesù non ha ancora iniziato la sua missione, ma perché l’anticipa, perché rompe gli indugi e in quali circostanze? − In un rito nuziale: il momento più determinante e simbolicamente, ritualmente significativo dell’attività riproduttiva nell’ambito umano; − nella fase del banchetto; − in tale situazione, non essendo ancora venuta la sua ora, dapprima a parole rifiuta l’invito di sua madre a provvedere perché sul più bello del banchetto il vino è finito; − ma la madre ignora il suo diniego, invita i servi ad eseguire le disposizioni che suo figlio senza dubbio darà loro; − così avviene il miracolo: l’acqua tramutata in vino. Ciò che ci deve far riflettere sono i seguenti elementi, tutti rilevanti per una concezione del mondo e quindi religiosa, a forte incidenza matriarcale: − l’impero della donna, della madre; − il connubio uomo/donna sintetizzato nelle nozze; − il vino; − il banchetto. Ovviamente ciò non significa che Gesù in questo episodio si comporti da pagano, ma la prospettiva non è certo quella di un rigorismo patriarcale, quale era quello della tradizione Javistica. Per spiegare il fatto è utile tenere presente che anche secondo la dottrina cristiana più ortodossa, Gesù, oltre che vero dio, era anche vero uomo e il contesto culturale fa parte integrante dell’uomo. E quelli sopra elencati sono le componenti del contesto culturale, venato da sfumature matriarcali, della Galilea al tempo di Gesù.

Se Gesù identifica la vite e il vino con se stesso, ecco perché nelle chiese il simbolo dei grappoli di uva e dei tralci compare frequentemente. Particolari della chiesa di San Martino a Vervò (Trento), con bassorilievi dorati eseguiti dagli Strudel (detti anche Ströbel) di Cles, operanti tra il ’600 e ’700

Il Cristo del torcolo è un motivo pittorico diffuso, specie a partire dal XVI secolo, in Tirolo come in Baviera, che fonde la spremitura dell’uva con quella del Cristo torchiato dal peso della croce e sottolinea la corrispondenza del succo dell’uva con il sangue di Gesù (affresco del ’500)

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storia e arte Il vino nell’Ultima Cena diventa componente del Corpo Divino di Cristo Altro momento culminante della vita del Cristo è quello dell’Ultima Cena, con i suoi apostoli, quando “preso un calice e avendo reso grazie a Dio, lo diede loro dicendo ‘Bevetene tutti perché questo è il mio Sangue della nuova alleanza, sparso per molti in remissione dei peccati’” (Matteo 26, 27-28). Ecco quindi che il vino, in quel rito che si ripete nella Santa Messa, diventa misticamente per il credente parte del Corpo Divino del Cristo. Per il non credente, uno straordinario simbolo di esso. Ma non è tutto. Sempre nell’Ultima Cena, come si legge nel Vangelo di Giovanni (15, 1-6), Gesù pronunciò anche queste parole: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che è in me e non porta frutto, Egli lo recide, e ogni tralcio che porta frutto Egli lo rimonda, perché ne produca anche di più... Come il tralcio non può portare frutto da sé medesimo, se non rimane unito alla vite, così neppure voi, se non rimanete in me. ... Chi non rimane in me, è gettato via come il tralcio sterile e inaridisce; e poi viene raccolto e gettato ad ardere nel fuoco”. Cioè non solo il vino, ma anche la vite, nel Vangelo viene misticamente divinizzata. I Cristiani, con il battesimo, sono dei

Monaci domenicani in refettorio. Chiesa di S. Maria e San Domenico della Mascarella (Bologna, XIII secolo)

Polittico della Beata Umiltà del Lorenzetti: le suore nel refettorio pranzano meditando

Frati dell’Abbazia di Saint-Germain-de-Près che stanno colmando le botti, XVI secolo (Collezione Giraudon)

Bassorilievi del XII secolo rappresentanti la vendemmia, nelle Formelle dei Mesi di Ferrara

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religione e arte componenti del Corpo Mistico di Cristo. Ciò in quanto Gesù è la vite mistica, e i suoi seguaci i tralci di tale vite. Anche questi passi del Vangelo diventano comprensibili nella realtà agricola della Palestina del suo tempo, una realtà centrata sulla viticoltura, oltre che sulla cerealicoltura e sulla pastorizia. Molte delle parabole e dei detti di Gesù fanno riferimento all’attività vitivinicola nei minimi dettagli. Fanno riferimento alle torri di guardia costruite nei vigneti per scacciare uccelli, altri animali e ladri (Matteo 21, 33; Marco 12, 1). Del resto, anche nel discorso giovanneo relativo all’Ultima Cena, che si è sopra riportato, sono da rilevare le distinzioni specialistiche fra tralci da frutto e tralci sterili. L’eliminazione di questi ultimi e la mondatura dei primi costituiscono un chiaro riferimento alla potatura. Non è inutile ribadire l’abisso che separa la concezione religiosa monoteista da quella politeista. In quest’ultima gli dei offrono un modello spesso peggiorato del comportamento umano. Nelle religioni monoteiste, la divinità spinge l’umanità verso una perfezione ideale. Certo potrebbe apparire deprimente il fatto che nella concezione ebraico-cristiana l’uomo, in seguito al peccato originale, è, in un certo senso, peccatore per definizione. La gioia è offerta nel cristianesimo dalla redenzione operata dal Cristo. C’è però ancora una volta da sottolineare che, per quel che riguarda l’oggetto di questa trattazione, sia nel cristianesimo sia nel politeismo, la vite e il vino appaiono in entrambi i contesti, seppure in modo radicalmente diverso, divinizzati.

Monaci benedettini perfezionano nel loro laboratorio le tecniche di produzione dei vini spumanti (Collezione Béranger/Explorer)

Il re longobardo Autari offre alla fidanzata, la bella principessa bavarese Teodolinda, una preziosa coppa da vino, affresco dei fratelli Zavattari, XV secolo

Vendemmia e trasporto dell’uva in bassorilievi della basilica di San Marco, Venezia XII-XIII secolo

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storia e arte Vite e vino nell’arte Vite e vino nell’arte religiosa pagana e paganeggiante Le tradizioni mitiche dell’antica Grecia ci sono note per le descrizioni e i riferimenti tramandatici da lirici e drammaturgi greci. Molti di tali miti sono poi raffigurati sui recipienti ceramici che gli scavi archeologici in Grecia, in Etruria e nei vari Paesi mediterranei colonizzati dai greci hanno recuperato in abbondanza. Così il mito di Dioniso che, per intervento di Giove, trasforma i pirati in delfini e l’albero della nave in vite è stato raffigurato verso il 540 a.C. da Exekias sulla celebre coppa a due anse (kylix) reperita a Vulci e conservata nella raccolta ceramica di Stato di Monaco. Oltre a dipinti su ceramiche, importanti per i nostri fini sono gli affreschi e i, seppur rari, mosaici. Tra i primi, di eccezionale ricchezza e interesse quelli di Pompei ed Ercolano sepolti dalle ceneri del

Un miracolo di Zeus: i pirati assalitori di Dioniso mutati in delfini e l’albero della nave in vite. Tutto mentre Dioniso dorme tranquillamente, circa 540 a.C. (München Staatliche Antikensammlungen und Glyptotek)

Banchetto etrusco nella Tomba dei Leopardi a Tarquinia, 470 a.C.

Bacco rappresentato come un grappolo d’uva, in una villa romana di Pompei (Museo Nazionale di Napoli)

Nell’affresco della Tomba delle Leonesse a Tarquinia è rappresentato un enorme cratere circondato da suonatori e ballerini impegnati in una danza frenetica, 520 a.C.

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religione e arte

La divinità egiziana della vegetazione offre del vino alla regina Hathor (tomba di Horemheb)

Vesuvio, a seguito della nota eruzione del 79 d.C. Tra gli affreschi che riguardano la vite e il vino sono esempi significativi il Bacco in veste di grappolo d’uva, la scena delle baccanti nella Villa dei Misteri, il brindisi col corno di Ercolano. Sempre tra gli affreschi, sono da segnalare anche quelli delle tombe etrusche. Molti di essi si riferiscono al vino e al bere: famosa la Danza del vino. Il dipinto, inserito nella Tomba delle Leonesse, che risale al 520 a.C., rappresenta un enorme cratere circondato da suonatori e ballerini impegnati in una danza frenetica. Stupenda anche la scena del festino nella Tomba dei Leopardi, in cui vari personaggi sono rappresentati mentre “maneggiano” coppe, ampolle e brocche di vino. Frequenti i dipinti inerenti al vino, reperiti nelle tombe egiziane. Significativa la scena rappresentata nelle tomba di Horemheb, in cui il dio del vino Osiride offre questa bevanda alla dea Hathor, la vacca divina, madre degli dei. I mosaici erano invece talora impiegati nelle pavimentazioni. Noti i mosaici romano antichi con scene viticole, reperiti a Saint-Roman en Gal (fanno parte di un calendario rustico), quello della vendemmia di Treviso ecc. A proposito dell’arte come espressione di religioni politeiste e le loro manifestazioni culturali, c’è anche da ricordare che, con il vivido culto per l’antichità che caratterizzò il nostro Rinascimento, gli artisti dell’epoca rievocarono con il loro magico pennello i più significativi episodi dei miti e delle feste dionisiache. Noti sono l’affresco dell’Apoteosi di Arianna, Venere e Bacco del Tintoretto, la Baccante esposta agli Uffizi di Firenze, il Trionfo di Bacco del Tiziano, il Bacchino con il grappolo d’uva del Caravaggio e quello del Reni, ma non mancano affreschi rinascimentali con il riferimento all’Antico Testamento, come il Noè ubriaco di Michelangelo, nella Cappella Sistina.

Affresco illustrante una bevuta rituale, nella Villa dei Misteri a Pompei

Mosaico gallo-romano di Saint-Romain-enGal, rappresentante l’impeciatura dei vasi vinari (dolia) (Collezione Lauros-Giraudon)

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storia e arte Vite e vino nell’arte cristiana Non si può dire che le iconografie riguardanti la vite e il vino nell’arte cristiana siano meno frequenti che in quella riguardante il politeismo antico. Piuttosto si può affermare che i temi sono in numero più ridotto. Esiste un’infinità di rappresentazioni dell’Ultima Cena: quella in cui Cristo identificò nel vino il suo sangue. Tutti presentano sulla grande tavola tazze e calici di vino. Bisogna aggiungere che esse si riferiscono a momenti diversi, illustrati dal racconto degli evangelisti riguardante questo episodio culminante della vita di Gesù. Il momento colto da Leonardo da Vinci nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano è quello in cui il Cristo rivela che uno dei dodici apostoli l’ha tradito. Il grande artista mostra con estrema abilità le diverse espressioni che i convitati manifestano. C’è chi è impietrito, esterrefatto nell’ascoltare l’incredibile fatto. Altri che, alzando l’indice in modo quasi minaccioso, perché offesi dal sospetto, sembrano chiedere: “Sono forse io?”, sicuri di una risposta negativa. Altri ancora che mettono le mani avanti come per dire: “Certo io no!”. Altri ancora che, forse distratti, non hanno ben percepito l’affermazione di Gesù, per cui chiedono ai vicini quanto rivelato dal Cristo. Un momento scelto da qualche artista è quello in cui il Cristo offre il pezzo di pane intinto nel vino a Giuda, il traditore. Altri ancora mostrano Giuda che si mette da parte, in un angolo. Infinite sono pure le rappresentazioni di tipo devozionale che si riferiscono al rito della Santa Messa. Esse non tralasciano di focalizzare la consacrazione del pane e del vino. Come già si è accennato, il riferimento alla vite e al vino da parte del Cristo non si limita all’Ultima Cena. Innumerevoli sono anche le raffigurazioni della scena del miracolo durante le nozze di Cana. È stato anche detto che le parabole dei Vangeli sono estremamente più vive e vivide delle Georgiche di Virgilio e delle Opere e i Giorni di Esiodo, e, dovremmo aggiungere, spesso pervase di acute specificazioni botanico-agronomiche. Abbiamo già rilevato

Scena di rifornimento di vino a un convento. Mosaico del pavimento della Cattedrale di Reggio Emilia (XII secolo) La celeberrima Ultima Cena, dipinta da Leonardo da Vinci nel refettorio di Santa Maria delle Grazie di Milano: straordinaria la diversità di espressione dei dodici Apostoli, sconvolti dall’annuncio di Gesù che uno di loro lo avrebbe tradito

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religione e arte quelle a proposito dei tralci di vite da frutto o da legno e della potatura. Al riguardo non si può tralasciare di menzionare, anche se riguarda il frumento e non la vite, la straordinaria la parabola che fa riferimento ai diversi rendimenti di questo cereale a seconda dei tipi di terreni e delle cure a esso apprestate. Ancora più penetranti le descrizioni riguardanti il comportamento dei vari operatori agricoli, in particolare dei proprietari terrieri, dei fattori, dei braccianti che si occupano dei vigneti. L’arte medievale non ha mancato di rappresentare in modo vivace anche questi argomenti. Ovviamente le parole del Cristo nell’Ultima Cena, che identificano il succo di uva fermentato, il vino, con il suo sangue, e la conclusione “fate questo in memoria di me” (Luca 22, 1) ha determinato l’esigenza che, ovunque vi fossero dei cristiani con le loro chiese e i loro sacerdoti, si coltivassero le viti per poter produrre il vino necessario per obbedire al comando per così dire testamentario di Gesù. Ciò anche laddove, in seguito alle invasioni barbariche, l’agricoltura si era ridotta a produrre solo gli alimenti più essenziali: i cereali per il pane. Ecco quindi di riflesso gli affreschi riguardanti monasteri con i loro vigneti, le mense in cui le brocche del vino sono sempre presenti. C’è anche da rilevare che uno degli ornamenti più frequenti degli altari, delle colonne delle chiese e dei chiostri sono i tralci d’uva. Spesso i messali, i libri di preghiere, specialmente quelli che riportano le orazioni riguardanti le varie ore della giornata (Libri d’Ore) sono riccamente illustrati con scene agresti stagionali. Tra queste non mancano quelle relative alla viticoltura e all’arte del vino. Famoso il Libro d’Ore del Cardinal Federico Borromeo, conservato all’Ambrosiana di Milano. È utile ricordare che le attività agrarie specifiche dei vari mesi illustrati in quel Libro d’Ore, dall’artista quattrocentesco Cristoforo De Predis, sono anche state riprodotte in gigantografie artistiche esposte al Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura, nel Castello di Sant’Angelo Lodigiano.

Un’osteria medievale. Arte gotico-veneta tardo medievale (Museo del Monte, Portofino)

Noè, inventore del vino, beve sino a inebriarsi, XIII secolo (Basilica di San Marco, Venezia)

Vendemmia e pigiatura in un bassorilievo romano conservato nel Castello di S. Angelo Lodigiano, ospitante il Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura

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storia e arte L’arte laica della vite e del vino Anche principi e re, i loro feudatari e poi i mercanti vollero avere a disposizione del vino per i loro banchetti, così come illustrano diversi affreschi medievali e delle epoche successive. Pure nelle epoche più recenti non mancarono artisti che rappresentarono la vite, il vino e i suoi bevitori. Colpisce il contrasto tra i bevitori dei o uomini, rappresentati negli affreschi o raffigurati sui vasi degli antichi, così pure, nei banchetti rinascimentali, i bevitori in festa, sprizzanti un’euforia sfavillante, e gli uomini spesso solitari, dallo sguardo cupo o melanconico, dei veristi moderni, quali L’uomo dell’osteria di Ottone Rosai, Il bevitore di Mario Sironi, Il bevitore al tavolo di Amedeo Modigliani, tanto per fare degli esempi. Bisogna però ricordare che anche gli antichi ci hanno lasciato opere di tipo veristico, come la Vecchia ebbra di Mirone il Giovane (III secolo a.C.) o il Giovane satiro che, barcollante, stringe a sé un otre ormai mezzo vuoto. Statua che ornava la fontana della casa dei Centenari di Pompei, ma anche questi personaggi ispirano, nella loro ebbrezza, alcunché di sovrumano, di divino. Ieraticità che appare ancora più evidente nel bassorilievo su un vaso greco in cui un satiro solleva e sostiene il Sileno ebbro, accasciato a terra. Se arte significa interpretazione più o meno trasfigurata della realtà, è evidente che, quando la trasfigurazione si riferisce a una realtà religiosa, costituita dalla connessione del divino con l’umano coadiuvata da una sostanza inebriante come il vino, l’interpretazione artistica si rende straordinariamente più efficace e incisiva. Ciò spiega il grande interesse e l’emozione che suscita in noi questo tipo di arte, sia nella versione pagana, in cui la visione di Dioniso-Bacco dal viso illuminato e illuminante, circondato dalle menadi festanti e da satiri ebbri saltellanti ci infonde un’ebbrezza eccitante. Essa può farci rivivere i momenti di una buona bevuta con gli amici. Sia, nella concezione opposta, il senso austero e

Sileno ubriaco sorretto da un satiro (vaso greco, Louvre a Parigi)

Banchetto con brindisi a Palazzo Nani a Venezia, XVIII sec.

Lo stappo dello spumante. Gli sguardi fissano il tappo che sta volando verso il soffitto (dipinto del 1720 di François de Troy)

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religione e arte

Frati nell’osteria, affresco di G. A. Bassi, detto Sodoma, 1500 circa (Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Siena)

sovrumano del divino che ci pervade quando osserviamo dipinti e altre raffigurazioni dei Misteri Cristiani, e in particolare quello della Santa Messa, cioè dell’Ultima Cena. Emozione potenziata quando assistiamo a questo rito sempre nuovo e reale, in cui il sacerdote innalza il calice col vino, sangue mistico di Cristo, lo beve e lo fa bere ai fedeli. Anche il rito infatti è espressione, è sentire, è compartecipazione, è arte, e in questo caso capolavoro mistico di arte. Certo non è di tutti capirlo, assaporarlo, e in ciò potrebbe essere agevolato il credente. Ma anche la fede non basta: occorre immedesimarsi in Cristo con una lunga preparazione. Persino di un poema letterario, quale la Divina Commedia, è stato detto che diversa è la comprensione compartecipata dei versi che si riferiscono a verità della fede o a scene bibliche da parte di un critico credente e quella da parte di chi è solo un dotto medievista. Spiega anche come, osservando un dipinto veristico come quelli del Sironi o dell’Induno o del Modigliani, senza che ce ne accorgiamo risentiamo almeno un minimo degli effetti della trasfigurazione artistica che l’Autore ci trasmette. Ma l’arte non è solo pittura o scultura in quanto le sue forme espressive sono infinite. Tutti sanno che è arte anche la creazione letteraria, quella musicale, quella architettonica e così via. L’arte, la religione del vino, è un tema straordinario tale che, per essere trattato in maniera adeguata, non basterebbe un’intera enciclopedia. Per aiutare a capire ciò, bisogna tenere conto del fatto che il vino non monopolizza il mondo delle bevande alcoliche e quindi occorre confrontarlo, contestualizzarlo nell’ambito di tutte le altre, considerare il posto che anche altre bevande alcoliche, quali la birra e il gioddu (il latte fermentato alcolicamente della tradizione sarda) occupano nell’ambito delle proprie civiltà. Quello

Guido Reni: Bacco adolescente che porge sorridendo una tazza di vino (Palazzo Pitti, Firenze)

Vecchia ebbra, di Mirone il giovane, III sec. a.C.

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storia e arte

Vendemmia, pigiatura e torchiatura nei “Mesi” del Breviario del cardinal Federico Borromeo, XV sec. (Biblioteca Ambrosiana, Milano)

che il vino di linfa di betulla ha in altre, quello che il pulque, la linfa di agave fermentata, occupa nelle culture centro-americane, e così via. Ma porre, capire la vastità dell’argomento, rendersi conto che ogni civiltà, ogni popolo ha il suo vino, con cui può connettersi con la propria divinità, è già molto e ci avvia ad approfondirlo, assaporarlo in tutta la sua inesorabile ampiezza. Musei della vite e del vino Illustrare in un museo, in maniera efficace, scientificamente e storicamente corretta ed esteticamente piacevole, la vite e il vino nelle varie loro manifestazioni, nel succedersi delle epoche storiche, i diversi modi di vendemmiare, pigiare, torchiare l’uva e poi le vinacce; la fermentazione del mosto, i vasi vinari, i tipi di vino più famosi… è un’arte e delle più raffinate.

Mario Sironi: Il Bevitore (Milano, collezione privata)

Ricostruzione del viso umano a base di frutti, fatta dall’artista rinascimentale Arcimboldo: la capigliatura è costituita da grappoli d’uva

Ottone Rosai: Uomo all’osteria (Roma, collezione privata)

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Gérard Terborch: Donna che beve un bicchiere di vino (Collezione Giraudon, Museo Atheneum di Helsinki)


religione e arte L’Italia, grazie anche all’iniziativa di alcune grandi case vinicole, possiede il vanto di diversi musei della vite e del vino, alcuni assai pregevoli per i pezzi conservati e per la ricchezza dei mezzi espositivi. La Guida ai Musei Etnografici della Olscki ne segnala più di una trentina. Tra questi, particolarmente significativi sono quelli di Monte Sant’Angelo (Foggia), San Floriano del Collio (Gorizia), Radda in Chianti (Firenze), Caldaro (Bolzano), Capriolo (Brescia). Una ricca documentazione iconografica che parte dall’antico Egitto per giungere ai Mesi del Breviario Borromeo e ai Tacuina Sanitatis è presente nel Museo di Storia dell’Agricoltura di Sant’Angelo Lodigiano. Pubblicizzato più di recente, ma eccellente esempio di un museo realizzato da un’antica famiglia di viticoltori è quello degli Schweiggl di Cortaccia. Nell’area della comunità locale, essi hanno reperito ed esposto microstrumenti di selce risalenti al Mesolitico, poi attrezzi dell’Età dei metalli, persino vomeri. Ricca la documentazione di Età romana. La storia del territorio si identificò con quella della famiglia e della comunità locale (qui vige tra tradizione del maso chiuso) e in questo modo si assiste al progressivo prevalere della viticoltura, con un ricco corredo di attrezzi da coltivazione e da cantina, nel loro contesto culturale, in particolare religioso. Ma uno dei primi e più importanti musei specifici della vitivinicoltura sorti in Italia e illustrati nella Guida Olscki è quello di Pessione (Torino), realizzato dalla Martini e Rossi. Oltre a un’organica illustrazione della viticoltura e della vinificazione piemontese, con l’esposizione di importanti torchi a trave per la pigiatura e di caratteristici carri per il trasporto dell’uva o del mosto, vi si vedono dolia e seriae romane del II secolo a.C., ma non mancano preziosi esemplari di ceramica greca ed etrusca. Gareggia con questo Museo quello della Fondazione Lungarotti di Torgiano, in Umbria, pure illustrato nella Guida Olscki. Fondato nel 1974 dai coniugi Lungarotti, a sostegno culturale dell’economia della zona, famosa anche all’estero per i vini pregiati che produce, è certamente straordinario sia per i pezzi archeologici esposti, sia per l’organicità della struttura, sia per il raffinato gusto estetico dell’allestimento. Il Museo si apre con il richiamo alle origini medio-orientali della vitivinicoltura. Preziosa la brocca da vino del III millennio a.C., proveniente dall’Anatolia centroorientale, alla quale si accompagnano in sequenza pezzi elladici, greci, etruschi, romani e così avanti sino all’epoca attuale. Bella anche la raccolta di prodotti ceramici locali rinascimentali e seicenteschi.

Gli strumenti del bottaio nel Museo L’Uomo nel tempo di Cortaccia, Bolzano

Magnifico torchio a trave esposto nel Museo vitivinicolo di Torgiano (PG), ove è documentato il cammino della vite domestica dall’Anatolia e dall’Egeo fino al nostro Paese

Vite e vino nel canto e nella musica L’espressione musicale è connaturata all’uomo. Quindi la storia delle sue origini si perde nella notte dei tempi. Il canto, come la musica, spesso avevano motivi pratici. Così il canto magico che doveva potenziare la fermentazione del mosto, documentatoci da

Maiolica del XVI secolo proveniente dalla bottega dei Della Robbia di Firenze, raffigurante Bacco incoronato di pampini e uva (Museo vitivinicolo di Torgiano, PG)

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storia e arte Varrone, scrittore romano di agricoltura (116-27 a.C.), si praticava l’11 ottobre. Esso consisteva in una nenia ritmica tramandata dai tempi preistorici, che suonava così: “Novum vetus / vinum bibo / novo veteri / morbo medeor...”, che significa “bevo vino nuovo e vecchio per curare nuovi e vecchi malanni...”. Un famoso cantore del vino fu il figlio di Apollo, onorato come dio della musica: Orfeo, i cui inni orgiastici facevano delirare di piacere le Menadi, le sacre sacerdotesse di Dioniso. Quando Orfeo, in lutto per la morte della moglie Euridice, non volle più suonare né cantare, le Menadi inferocite per la disperazione lo uccisero. I canti di lode al vino nel Medioevo li dobbiamo ai cosiddetti clerici vagantes, docenti nomadi che, girovagando, praticavano forme rudimentali di insegnamento. Noto l’inno che iniziava “Ave, felix creatura / quam produxit vitis pura”. Pura ha qui il significato di vite domestica, in contrapposto a quelle impure, le selvatiche. All’epoca in cui i mercenari tedeschi, i Lanzichenecchi, scorrazzano per l’Italia, Cosimo Bottegari, del XVI secolo, faceva loro cantare, un po’ in dialetto veneto, un po’ in tedesco: “... mi piasére malfasié / et bibare col fiascon / trinke koraus bon compagnon...” Un secolo dopo Giacomo Carissimi, nel suo Baltasar, cantava: “Rosis caput coronemus / calicesque profinemus / dulci plenos nectare ...”. È un latino che tutti comprendono. Così, nel medesimo secolo, attraverso Antonio Vivaldi, denominato il “prete rosso” per il colore dei capelli, che, nell’Autunno (parte della sua sinfonia Le quattro stagioni) dedica alla vendemmia un brano musicale euforico caldo. Anche gli stessi celebratissimi Sebastian Bach e Ludwig van Beethoven riecheggiano qua e là, nelle loro composizioni, melodie di inequivocabile sapore dionisiaco. Si arriva così ai grandi musicisti dell’opera italiana dell’800.

Cavalleria rusticana

• Nella Cavalleria Rusticana di Mascagni,

Turiddu, prima del duello, brinda “... Viva il vino spumeggiante / nel bicchiere scintillante ...”. Indimenticabile anche il brindisi di Verdi nella Traviata “Libiamo, libiamo nei lieti calici / che la bellezza infiora”. Esso rievoca quello della tradizione popolaresca: “Viva Noè, gran patriarca / salvato dall’arca / sapete il perché? / Perché fu l’inventore di un grande liquore / che a tutti noi piace / e tutti noi beviam. / Bevevano i nostri padri? / Sì ! / Bevevano le nostre madri? / Sì! / E noi che i figli siamo / beviam beviam beviamo / e noi che i figli siamo / beviam beviam beviam! / ”

Sul Piave

• “Di qua e di là del Piave / ci stava

un’osteria, un’osteria. / Là c’è da bevere e da mangiare / e un buon letto per riposar” e alla fine, successivamente all’incontro con la bella mora, “... e dopo nove mesi / nasceva un bel bambino, un bel bambino / sputava il latte, beveva il vino / era figlio d’un vecio alpin!” Una bottiglia di buon vino troneggia sulla tavola, in questa scena de La Bohème di Giacomo Puccini

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religione e arte

Falstaff beve per riscaldarsi dopo il tuffo nel fiume

Sempre nell’ambito delle tradizioni popolari contemporanee rientrano gli inni un po’ erotici, cosparsi di parole dialettali, inneggianti al vino, cantati dalle truppe nei giorni tragici delle battaglie. Emblematico quello degli alpini nella prima guerra mondiale che, nella tensione logorante per la difesa del Piave, sognavano la pace e la distensione.

Un magnifico manifesto per lo champagne (Collezione Musée de la Publicité)

Il vino nella letteratura Pochissimi sanno che nel primissimo testo scritto della letteratura romana (VII-VI secolo a.C.), quello delle Leges regiae, l’articolo II riguarda il vino: “Vino rogum ne respargito” che, nella traduzione del Pisani, significa “Non cospargere di vino il rogo (del sacrificio)”. Così pure la prima opera della letteratura romana, il De agricultura di Catone il Vecchio, vissuto a cavallo tra il III e il II secolo a.C.: un vero e proprio trattato di ingegneria agraria, dedica ampio spazio alla viticoltura e all’enologia. Ma anche molti degli Autori successivi non sono da meno: a cominciare da Virgilio, vissuto nell’ultimo secolo a.C. che, nelle Georgiche, dedica l’intero secondo libro alla viticoltura. Non parliamo poi di Plinio (I secolo d.C.) che sacrificò la sua vita per la scienza (morì durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., di cui stava indagando manifestazioni ed effetti), il quale dedica il XIV libro della sua enciclopedia Naturalis historia, alla voce vitivinicoltura. Elenca 185 tipi di vino e cita, illustrandole brevemente, un’ottantina di aree vinicole. Più approfondito nelle tecniche di coltivazione Columella, vissuto nel medesimo secolo, che nella sua opera in dieci libri De re rustica dedica il III e il IV libro alla vite e al vino. All’inizio del Medioevo, Cassiodoro (ministro del re goto Teodorico il Grande, 454-526) scrive un trattato sulla vendemmia. Qual-

Il vino è una componente della cultura di un popolo. Numerose sono le accademie e gli istituti culturali che si rifanno alla vite e al vino. Qui i componenti del Capitolo della Confraternita della Vite e del Vino di Trento

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storia e arte che secolo dopo Rotari, re longobardo, nel suo celebre Editto, un vero e proprio codice di leggi, promulgato il 22 novembre del 643, dedica vari articoli alla viticoltura. Non è da meno Carlo Magno (742-814), fondatore del Sacro Romano Impero, che, nei Capitularia, cioè nella raccolta delle sue disposizioni legislative, sono inserite le norme relative alla viticoltura e alla vinificazione. I grandi Autori del Medioevo già avanzato tutti glorificano o almeno apprezzano il vino, a cominciare dal Boccaccio (1313-1373) che in quasi tutte le cento novelle del Decamerone vi fa riferimento e spesso accenna anche al tipo particolare di vino preferito dai singoli personaggi delle sue novelle. Anche Dante Alighieri, il maggior poeta di tutti i tempi, era sensibile al mangiare e al bere raffinati. Scrive un biografo suo contemporaneo: “Li delicati lodava”. Persino San Francesco d’Assisi (1182-1226) che, nel suo Cantico delle Creature, si rivela pioniere di un vero ambientalismo, come scrive il suo seguace Tommaso da Celano, abbastanza di sovente parlava del vino, approvandone l’uso moderato. Negli scrittori del ‘500 e del ‘600, la moderatezza è spesso dimenticata: basti leggere il giudizio di Francesco Redi, l’appassionato cantore del vino di Montepulciano: “Montepulciano d’ogni vino è re” che, nel suo “Ditirambo di Bacco in Toscana”, scrive: “Quando errando, oh, quanto va / quel cercar di verità / chi dal vin lungi si sta!” Ovviamente dello stesso parere fu Lorenzo il Magnifico (1449-92), l’autore del famoso carnascialesco Trionfo di Bacco in Toscana. Anche i poeti dialettali entrarono in questo climax dionisiaco, così Maffio Venier (1519-1586), in un suo sonetto dedicato a un ammalato che sogna il vino, così si esprime: “Vòi bever più d’un zafo (poliziotto) e d’un faschin / e se il mare fusse vin, me faria pesse (pesce)”. Sonetto che in parte ha ispirato canzoni popolari moderne, per esempio quella, pure veneta (triestina), che dice “Se’l mare fosse pocio e i monti de polenta...”. Non è da dimenticare poi Teofilo Folengo nelle opere e in particolare nel suo capolavoro, il Baldus (1517), famoso per il suo realismo comico-grottesco, non perde occasione per esaltare il vino, talora anche in tono un po’ volgare “dulces quas Corsia pissat orinare”, cioè la Corsica “fa la pipì con una dolce orina”, il suo vino. Ciò forse per l’affinità del colore. E così si arriva ai poeti moderni quali il Carducci che, in onore del vino, si firmava Enotrio Romano e scriveva brindisi di questo tipo: “... nei bicchieri nostri, o Libero, fuma, gorgoglia e splendi / né più stranier quadrupede...”. Era il tempo della II Guerra d’Indipendenza (1859-60) e Carducci, con il termine quadrupede, si riferiva alla cavalleria austriaca. A Carducci seguono il delicato Pascoli (1855-1912) fino al focoso e spavaldo D’Annunzio (1863-1938) che, nelle sue spericolate avventure, si inebriava di gloria e di vino. In tempi più recenti (1930), Paolo Monelli scrive

Falstaff, il personaggio shakespeariano che ha ispirato l’opera di Giuseppe Verdi (1813-1901) a lui dedicata, si ristora con un boccale di buon vino

Nell’Elisir d’amore di Gaetano Donizzetti (1797-1848), il filtro amatorio che il dottor Dulcamara offre all’innamorato respinto è un potente vino di Borgogna (incisione di De Valentini)

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religione e arte in stile brioso ed elegante il suo capolavoro, Il ghiottone errante, ora completato da un altro gioiello enologico-letterario, Il vero bevitore.

Vino e salute

Vite e vino nell’architettura e nella scultura Molti dei templi che gli antichi dedicavano ai loro dei erano quelli innalzati in onore di Dioniso. Particolarmente significativo sotto il profilo storico-economico, oltre che culturale, era quello di Eraclea di Lucania (IV secolo a.C.). Esso è in fatti documentato dalle famose due tavole bronzee reperite sul greto del letto del torrente Salandrella-Cavone presso Pisticci (MT), che riportano i contratti di affitto e di enfiteusi delle terre possedute dal tempio del dio. Altri templi sono documentati dal reperimento delle statue che in essi erano esposte. Una bellissima statua di Dioniso, ora esposta nel museo archeologico di Eleusi, nell’Attica proviene dal tempio a lui dedicato in quella città. Anche le chiese e le cattedrali cristiane, pur se non dedicate direttamente alla vite e al vino, lo sono indirettamente, in quanto centrate sull’altare in cui si celebra, con la Santa Messa, la morte sacrificale di Cristo. Rito nel quale il vino diventa misticamente il suo sangue. Ecco quindi che, come si è già accennato, l’architettura deve far convergere la costruzione verso questo sacro rito. Non solo, ma gli edificatori hanno adornato chiese e basiliche con motivi riguardanti tralci, pampini, grappoli. Tipico l’esempio già citato della basilica di San Zeno in Verona, dove questi elementi sono arricchiti dalla raffigurazione delle attività vitivinicole attinenti ai mesi di agosto e settembre. La diffusione di questo tipo di simboli ornamentali riguarda anche le chiese di remoti centri montani.

• L’arte del vino e della viticoltura presenta anche aspetti farmacologici

• L’ebbrezza, l’allegria, l’euforia, il

calore che danno le bevande alcoliche istintivamente connettono l’arte del bere con quella della salute

• La più famosa enoiatra, cioè terapeuta

dei mali umani mediante l’utilizzo del vino, fu senza dubbio la moglie di Augusto, Livia. Il suo toccasana era il Pucino, il vino prelibato, dotato di una notevole alcolicità, affine, alcuni pensano, all’odierno Passito, che essa produceva, curandone personalmente le varie operazioni colturali, nei propri possessi in Istria, alle foci del Timavo

• Nel Rinascimento, un enoterapeuta di

successo fu Sante Lancerio. Per ogni tipo di disturbo Lancerio suggeriva il vino ad hoc, così, per la tipica spossatezza dei vecchi, il rimedio migliore era l’Aglianico, vino capace d’infondere nuove energie. Per il catarro il Casentino, per l’insonnia l’Asprinio della Campania

• Andrea Bacci (1524-1600), medico

di Sisto V. nel suo imponente “De natura vinorum Historia” descrive i vini delle varie regioni italiane, illustrando le loro proprietà terapeutiche. Durante il suo peregrinare giunse a Balsorano in Abruzzo. Qui si incontrò con un discendente dei Conti Piccolomini, che gli confidò di avere 130 anni e di avere combattuto e vinto i suoi mali con un vino straordinario: il Montepulciano d’Abruzzo

• La famiglia del poeta Ludovico Ariosto

aveva grande fiducia nelle virtù terapeutiche del vino. Scrive il figlio Virginio che il padre “stette assai tempo gravato di un catarro, che poi guarì per causa del vin buono e maturo”

Originale manifesto pubblicitario che propaganda l’uso dello zolfo ramato contro le malattie crittogamiche della vite

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