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la vite e il vino
utilizzazione Lieviti e aromi Patrizia Romano, Angela Capece
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utilizzazione Lieviti e aromi Il vino può essere definito come un prodotto che si ottiene dalla trasformazione del mosto d’uva, mediante un processo biochimico, definito “fermentazione”, operato da particolari microrganismi, i lieviti.
Vino e fermentazione
• Il vino è una bevanda antichissima,
insostituibile complemento della buona tavola e, con i suoi numerosissimi componenti, è una delle sostanze alimentari più ricche e complesse
Mosto d’uva Il mosto d’uva è un mezzo nutritivo naturale, completo, che dal punto di vista microbiologico, è considerato un mezzo complesso, un mezzo cioè di cui non sono noti esattamente tutti gli elementi che lo compongono e le loro quantità. Si tratta di un substrato ottimale per lo sviluppo dei lieviti, poiché contiene tutti gli elementi necessari alla crescita di questi microrganismi e in una forma da essi utilizzabile. Caratteristica del mosto è la composizione non costante, anche da uve dello stesso vitigno in annate differenti o in aree diverse della stessa regione e anche della stessa vigna. In ogni modo, le componenti principali che caratterizzano il mosto d’uva sono rappresentate dagli zuccheri, glucosio e fruttosio, presenti in quantità piuttosto elevate e facilmente utilizzabili per via fermentativa dai lieviti, da composti azotati, quali ammoniaca, amminoacidi liberi e polipeptidi, da fosfati, solfati, composti del potassio e del magnesio, del calcio e di numerosi altri microelementi, oltre a diverse vitamine, quali biotina, acido pantotenico, piridossina e tiamina. La particolarità del mosto è rappresentata dal basso valore di pH (compreso tra 2,8 e 3,5 e determinato dalla concentrazione degli acidi malico e tartarico), che rende questo substrato naturale tendenzialmente acido e per questo difficilmente utilizzabile da
• Può essere definito come il prodotto
ottenuto dalla trasformazione del mosto d’uva, mediante un processo biochimico, definito “fermentazione”, operato da particolari microrganismi, i lieviti
• Fu Luigi Pasteur a identificare
e isolare il lievito responsabile della trasformazione del mosto d’uva in vino. Nel 1876 egli scriveva: “il gusto, le qualità del vino dipendono certamente in gran parte dalla natura speciale dei lieviti che si sviluppano durante la fermentazione”
Composizione del mosto d’uva
• Varia principalmente in funzione della
varietà d’uva, ma anche dello stato nutritivo della vigna, delle condizioni climatiche e geografiche, della qualità e quantità dei trattamenti antifungini, fattori che determinano il livello di maturità e sanità dell’uva al momento della vendemmia Mosto d’uva
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lieviti e aromi moltissimi microrganismi, presenti in grandi numeri come contaminanti naturali anche sui chicchi d’uva. Al momento della pigiatura dell’uva tutti i componenti contenuti all’interno del chicco fuoriescono e si mescolano alla microflora presente sulla buccia e sui raspi e, anche se il mosto rappresenta un substrato molto ricco, il basso pH determina un ambiente fortemente selettivo nei confronti dello sviluppo e della attività della quasi totalità dei batteri patogeni che non necessitano, per la loro crescita, di valori più elevati di pH. Questo determina una certa sicurezza del substrato “mosto” e quindi anche del vino dal punto di vista del rischio per la salute umana. Pertanto, se il mosto ha valori di pH nella norma solo i lieviti e alcuni batteri (malolattici) hanno la capacità di sviluppare e di operare poi la trasformazione per fermentazione del mosto d’uva in vino.
Foto C. Cangero
Processo fermentativo La fermentazione trasforma il liquido zuccherino, rappresentato dal mosto, in un liquido alcolico, il vino. Questo fenomeno biochimico, che coinvolge tutti i costituenti del mosto, si verifica a opera del sistema enzimatico dei lieviti, per cui la trasformazione del succo d’uva in vino è essenzialmente un processo microbiologico, in cui possono partecipare specie diverse di lieviti fermentativi e in particolare ceppi diversi della stessa specie. Il processo di produzione del vino inizia con la pigiatura dell’uva, che determina la diffusione delle cellule di lievito, presenti naturalmente sulla bacca, nel succo d’uva. Dopo la pigiatura, il mosto viene messo in vasche o tini dove le cellule di lievito continuano il processo di moltiplicazione, iniziato già in presenza di eventuali spaccature della buccia dell’uva. Nel momento in cui i lieviti vengono a contatto con il mosto iniziano subito a moltiplicarsi e ad accrescersi, utilizzando tutto l’ossigeno a loro disposizione per aumentare la loro biomassa (numero di cellule). I lieviti utilizzano le sostanze nutritive presenti nel mosto, in particolare gli zuccheri, ricavando cosi l’energia necessaria per la propria moltiplicazione e attività. Man mano che il processo fermentativo prosegue, nelle vasche o nei tini di fermentazione comincia a scarseggiare l’ossigeno, quindi le cellule di lievito non utilizzano più gli zuccheri presenti nel mosto per riprodursi, ma li trasformano principalmente in alcol etilico e anidride carbonica, che rappresentano i prodotti principali della fermentazione alcolica. Per questi motivi nelle fasi iniziali della fermentazione la quantità di etanolo che si forma è bassa, mentre nelle fasi centrali e finali del processo di produzione del vino l’etanolo e l’anidride carbonica rappresentano i prodotti principali formati dall’attività dei lieviti. La concentrazione finale di etanolo che si forma durante la fermentazione dipende principalmente dalla quantità di zuccheri presenti nel mosto, pertanto il contenuto di zucchero delle uve è fondamentale per scegliere il periodo più adatto per effettuare la vendemmia.
La pigiatura dell’uva rappresenta la prima fase della vinificazione
Zuccheri
Lievito
Etanolo, CO2, … Il mosto d’uva è trasformato in vino tramite la fermentazione alcolica operata dai lieviti, che trasformano gli zuccheri in etanolo, anidride carbonica e altri prodotti secondari
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utilizzazione L’andamento regolare della fermentazione e, quindi, il risultato del processo dipendono dai lieviti che hanno attuato la trasformazione, vale a dire dalle caratteristiche proprie dei lieviti, per prima cosa dalla loro capacità di produrre etanolo e dal livello di resistenza alle alte concentrazioni di questo alcol.
Fonti dei lieviti vinari
• I lieviti responsabili della fermentazione alcolica spontanea provengono per la maggior parte dalla superficie delle uve
Microflora dell’uva Dal punto di vista del legame col territorio, le uve rappresentano la sorgente più importante di microrganismi che saranno poi coinvolti nella fermentazione del mosto d’uva. Si tratta di diverse specie di lieviti, alle quali vanno aggiunte alcune specie di batteri. Va poi evidenziato che, contrariamente a quanto presumibile, il lievito vinario per eccellenza, Saccharomyces cerevisiae, che rappresenta la specie principale che opera la trasformazione del mosto d’uva in vino, è poco frequente e spesso anche assente da singoli acini o grappoli. Molti sono i fattori che influenzano la presenza dei diversi microrganismi sulla superficie degli acini d’uva. Tra questi sono di particolare importanza l’andamento meteorologico, la varietà dell’uva, il grado di maturazione, la posizione dell’acino all’interno del grappolo d’uva, i danni fisici provocati da uccelli, insetti e attacchi di muffe, l’impiego di prodotti chimici (fungicidi, insetticidi ecc). Accade con frequenza che gli acini siano danneggiati e che la fuoriuscita del succo favorisca lo sviluppo di muffe e di batteri alteranti. Le uve così contaminate subiscono alterazioni nella loro composizione chimica tali da influenzare negativamente il flavour e il colore del vino e anche la crescita dei lieviti durante la fermentazione alcolica. Per queste ragioni è fondamentale controllare lo sviluppo delle muffe sulla superficie delle uve per garantire la buona qualità del vino, anche in relazione alla potenziale produzione di sostanze tossiche, le micotossine, da parte delle muffe. Inoltre, i residui di fungicidi sulle uve possono inibire lo sviluppo dei lieviti coinvolti nella fermentazione alcolica. Partendo da tutte queste considerazioni, l’uva nella sua veste di materia prima determina non solo la composizione del mosto d’uva, ma anche la presenza dei diversi microrganismi, in particolare dei lieviti, che saranno naturalmente presenti nel mosto d’uva e che potranno poi partecipare al processo fermentativo. Infatti, in ogni fermentazione naturale sono presenti lieviti diversi, sia appartenenti a specie diverse sia ceppi diversi della stessa specie, e questa fluttuazione nella popolazione di lieviti comporta la produzione di vini caratterizzati da bouquet diversi e di qualità diversa.
• Anche sulle superfici delle attrezzature della cantina sono stati trovati lieviti di specie diverse, il cui sviluppo dipende dalla natura e dalla pulizia alla quale sono sottoposte
• Altra fonte di lieviti, soprattutto per
la produzione di vini commerciali è l’uso di colture starter utilizzate per avviare e condurre il processo fermentativo. Tale pratica determina una dominanza nell’ambiente di questi lieviti che diventano “abitanti residenti” della cantina, e anche in assenza di inoculo, in anni successivi possono essere ritrovati come agenti della fermentazione dei mosti di quella cantina
Successione dei lieviti nel processo fermentativo Il processo fermentativo, che è alla base della trasformazione del mosto d’uva in vino, può realizzarsi o per fermentazione spontanea o per fermentazione guidata, ma in entrambi i casi a opera dei lieviti.
Raccolta dei grappoli per la selezione dei lieviti
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lieviti e aromi Nel caso delle fermentazioni alcoliche spontanee, cioè senza l’aggiunta di colture di lieviti selezionati (colture starter), si svolge un complicato processo biochimico in cui sviluppano insieme più specie di lievito che interagiscono fra di loro in maniera complessa e che si susseguono nel corso del processo fermentativo. In tutte le fasi della produzione del vino la crescita e l’attività dei lieviti rivestono un ruolo fondamentale sulle caratteristiche del vino; infatti, il regolare svolgimento del processo fermentativo e l’ottenimento di prodotti finali equilibrati e gradevoli sono determinati proprio dalle diverse specie che fermentano il succo d’uva. L’adeguata conoscenza dei principali lieviti e degli altri microrganismi implicati nel processo fermentativo è fondamentale per condurre in modo corretto le pratiche di vinificazione. La successione delle specie che s’instaura durante la fermentazione spontanea dei mosti dipende in gran misura dalle caratteristiche del mosto stesso, dalle specie di lievito presenti, dalle condizioni di fermentazione e dalle condizioni create dall’attività metabolica delle specie microbiche che si succedono. Come abbiamo visto, nel succo d’uva appena pigiato sono presenti diversi tipi di microrganismi, mentre la trasformazione del succo d’uva in vino è condotto essenzialmente dai lieviti. Questo si verifica perché i lieviti sono gli unici microrganismi che trovano nel mosto d’uva le condizioni adatte per il loro sviluppo. Infatti, i lieviti dominano la fermentazione alcolica in seguito alla loro capacità di svilupparsi rapidamente al basso pH del mosto e anche in conseguenza della loro capacità di produrre e di resistere all’etanolo, sostanza che inibisce lo sviluppo di altri mi-
Lieviti e fermentazione
• È stato dimostrato che le differenze
nelle pratiche colturali effettuate sulla vigna influenzano la comunità di lieviti presenti nel mosto e che le pratiche enologiche, a cui è sottoposto il mosto prima della fermentazione, possono indurre cambiamenti nella sua composizione e nel suo livello nutrizionale in modo da influenzare in maniera consistente la fermentazione
Foto F. Dell’Aquila
Ruolo dei lieviti nella trasformazione del mosto in vino lieviti Mosto d’uva
Vino
Fermentazione spontanea
Fermentazione inoculata
Sviluppo sequenziale di diversi generi/specie di lievito, presenti sulle uve e nel mosto
Utilizzo di ceppi commerciali di Saccharomyces cerevisiae come colture starter
Saggi in laboratorio
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utilizzazione crorganismi. Partendo dalle uve, va sottolineato che sugli acini predominano lieviti non-Saccharomyces, prevalentemente i lieviti “apiculati”, così definiti per la caratteristica forma allungata della cellula, tipo limone. Dopo un certo tempo dal riempimento delle vasche, anche dopo poche ore, comincia la fermentazione alcolica. I primi ad avviare il processo fermentativo (inizio fermentazione) sono appunto i lieviti apiculati perché presenti in numero molto elevato nel mosto e quindi rappresentano la microflora dominante. Questi lieviti, nonostante siano dotati di una certa attività fermentativa, sono caratterizzati da una bassa capacità di produzione di alcol e da un’elevata sensibilità alla concentrazione di etanolo, che man mano si forma. La loro presenza è normalmente limitata ai primi 2-3 giorni di fermentazione, quando il contenuto di alcol etilico è ancora basso. Trascorso tale intervallo di tempo e aumentato il tenore di alcol fino a 4-6 gradi, l’attività fermentativa e qualsiasi altra attività vitale di questi lieviti si arresta, a favore di specie di lieviti dotati di una elevata attività fermentativa e più resistenti all’alcol etilico, che prendono il sopravvento e portano a termine il processo. Questi lieviti, caratterizzati da cellule a forma ellittico-globosa, appartengono al genere Saccharomyces, per la maggior parte alla specie S. cerevisiae, e rappresentano i lieviti vinari principali. Tali lieviti sono dotati di un’attività fermentativa piuttosto elevata, che determina il consumo quasi totale degli zuccheri del mosto. Anche la presenza di anidride solforosa, antimicrobico aggiunto normalmente al mosto prima dell’inizio della fermentazione per inibire batteri e lieviti indesiderati, favorisce il sopravvento dei saccaromiceti sui lieviti apiculati, naturalmente poco resistenti all’anidride solforosa. Pur scomparendo presto dalla scena fermentativa, alcuni autori hanno riportato che i lieviti delle prime fasi fermentative raggiungono comunque uno sviluppo tale da riuscire a influenzare la composizione chimica del vino e quindi anche lo sviluppo e il comportamento biochimico dei ceppi di S. cerevisiae. Altre specie possono intervenire, accanto a S. cerevisiae, nelle fasi centrali e finali della fermentazione alcolica o durante l’invecchiamento del vino, in quanto dotate di una discreta capacità di resistenza all’alcol etilico. Questi lieviti producono una serie di composti secondari e, se nel corso della fermentazione si modificano i parametri fisico-chimici, possono diventare predominanti in parte del processo, contribuendo positivamente o negativamente alla qualità finale del vino. Al termine della fermentazione, se non si evita il contatto con l’aria atmosferica, è inevitabile lo sviluppo dei “lieviti della fioretta”, i quali, pur non avendo attività fermentativa, influenzano la qualità del vino, formando veli superficiali, spessi e fragili e utilizzando l’alcol etilico per la propria moltiplicazione, causando di conseguenza una netta diminuzione del grado alcolico.
Lieviti apiculati Saccharomycotes ludwigii, resistenti a etanolo e anidride solforosa, presenti nel vino come contaminanti a fine fermentazione
Cellule di lieviti del genere Saccharomyces
Lieviti apiculati e spore del genere Hanseniaspora, dominanti nelle prime fasi della fermentazione
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lieviti e aromi Saccharomyces cerevisiae e variabilità di ceppo per parametri enologici La specie vinaria per eccellenza è S. cerevisiae, nome coniato nel 1897 per indicare il lievito ritrovato nel malto. Nel corso degli ultimi duecento anni questa specie è stata oggetto di numerosissimi studi, e oggi S. cerevisiae rappresenta il microrganismo più conosciuto dal punto di vista fisiologico, genetico, morfologico e tecnologico ed è stato scelto come modello per gli studi genetici sulla cellula eucariota. S. cerevisiae è sempre stato considerato il lievito più importante in assoluto tanto che, di norma, la parola generica “lievito” senza nessun altra precisazione sottintende questa specie. S. cerevisiae, grazie alla sua vigorosissima attività fermentativa, alle sue caratteristiche di resistenza agli antisettici, all’elevato grado di tolleranza all’alcol etilico e alla capacità di sviluppare facilmente in presenza delle più svariate condizioni, è considerato il lievito più importante dal punto di vista enologico. Osservate al microscopio, le cellule di questa specie appaiono di forma globosa o subglobosa, ellittica o cilindrica, possono essere singole, appaiate o riunite per formare corte catene o aggregati. Tra le specie di lievito che possono compiere la fermentazione vinaria, S. cerevisiae è quella che produce, a partire dalla stessa quantità di zucchero del mosto, la maggior quantità di etanolo. Tutto ciò ha portato alla pratica, oggi ampiamente consolidata nella produzione del vino, di gestire e controllare la fermentazione alcolica del mosto attraverso l’uso di colture selezionate di S. cerevisiae, cioè di colture starter commercializzate sottoforma di lievito secco attivo, in pasta, mosto-lievito ecc. che attualmente sono comunemente utilizzate nelle cantine, specie nel caso di livelli produttivi consistenti.
Biodiversità dei lieviti vinari
• I lieviti responsabili della vinificazione
hanno una notevole biodiversità, strettamente collegata all’habitat dove vivono e pertanto condizionata da fattori di selezione che inibiscono o favoriscono la presenza di una specie sull’altra. Si possono considerare almeno due habitat diversi: l’uva e il mosto
• L’uva è un sistema solido, poco
dispersivo, con scarsa disponibilità di zuccheri utilizzabili dai lieviti e soggetto alla variabilità climatica, nonché ai trattamenti dell’uomo, come quelli fitosanitari. In questo “sistema” si trova una prevalenza di specie microbiche che non sarà poi presente nel mosto
• Dalla raccolta, con la rottura dei primi
acini, l’habitat cambia e dopo poche ore prendono il sopravvento altre specie. Il sistema “mosto”, per il basso pH e la composizione, permette lo sviluppo di un numero limitato di specie di lieviti, e di alcuni batteri, nel cui ambito esiste una notevole variabilità tra individui appartenenti alla stessa specie
• Gli studi attuali nel settore dei lieviti
vinari sono indirizzati in primo luogo alla conoscenza dei microrganismi che compongono quel determinato mosto
Mosto in fermentazione
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utilizzazione La selezione di una coltura starter di S. cerevisiae per vinificazione si basa sulla caratterizzazione e poi sulla scelta di ceppi dotati di alcune caratteristiche, fondamentali per una buona riuscita della fermentazione vinaria, come l’elevato potere fermentativo, la resistenza all’anidride solforosa, la capacità di produrre quantità più o meno rilevanti di composti secondari della fermentazione alcolica che influenzano l’aspetto aromatico del vino. Descriviamo brevemente alcune delle caratteristiche enologiche principali, evidenziando la variabilità dei ceppi di S. cerevisiae nell’espressione dei vari parametri. Variabilità di ceppo e andamento fermentativo La coltura starter viene addizionata in quantità massiccia al mosto appena pigiato, che non è un ambiente sterile, ma al contrario contiene già dei microrganismi, in quantità elevata e dotati di una significativa attività vitale. Affinché possa prendere il sopravvento sui microrganismi presenti nel mosto, la coltura starter deve possedere, come prima caratteristica, un’ottima capacità fermentativa, ovvero deve essere capace di fermentare il più velocemente possibile, imponendo le sue caratteristiche “positive” sui lieviti naturalmente presenti nel mosto appena pigiato. Altri caratteri, comunemente valutati come criteri per la selezione di ceppi da utilizzare in vinificazione e che assicurano il massimo rendimento del lievito nel condurre la fermentazione, comprendono: vigore e potere fermentativo e livello di resistenza a composti tecnologici. – Il vigore fermentativo esprime la capacità del lievito di avviare rapidamente la fermentazione, prendendo così il sopravvento sui microrganismi naturali del mosto, anche in presenza di sostanze ad azione antisettica, come l’anidride solforosa, normalmente aggiunta al mosto nelle dosi consentite e a temperature comprese tra 20 e 30 °C. – Il potere fermentativo, detto anche potere alcoligeno, è collegato al livello di resistenza del lievito all’alcol etilico, prodotto dallo stesso microrganismo durante la fermentazione alcolica. Questa caratteristica esprime la quantità massima di etanolo che il ceppo può formare in presenza di zucchero in eccesso ed è espressa a livelli massimi dai lieviti Saccharomyces, che proprio per questo motivo prendono il sopravvento nel corso della fermentazione vinaria, portando a esaurimento gli zuccheri e completando il processo praticamente da soli. Al contrario, i lieviti non-Saccharomyces non sono in grado di sviluppare quando la quantità di alcol etilico supera i 3-4° alcolici. Comunque, anche nell’ambito dei Saccharomyces, i diversi ceppi possiedono potere alcoligeno diverso, per cui questo carattere è un parametro fondamentale di selezione da valutare in un lievito da utilizzare come coltura starter. Un esempio della diversa capacità fermentativa tra ceppi di S. cerevisiae è riportato a lato. L’andamento del processo fermen-
g di CO2/100 ml di mosto
Screening per la selezione di lieviti starter
18 16 14 12 10 8 6 4 2 0
Sc1 Sc2
0
2
4
6
8
10
12
Giorni di fermentazione Variabilità dei ceppi di S. cerevisiae nella produzione di CO2
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lieviti e aromi tativo condotto inoculando due diversi ceppi è espresso come grammi di anidride carbonica (CO2) prodotti dai lieviti, fattore direttamente collegato al consumo degli zuccheri e quindi all’evoluzione del processo fermentativo. La variabilità di questo carattere è anche collegata alla provenienza del lievito: i lieviti provenienti da mosti ottenuti da vigne coltivate in zone calde generalmente sono caratterizzati da potere alcoligeno più elevato rispetto ai lieviti isolati da mosti di uve di zone fredde. Questo diverso livello di resistenza va collegato al diverso contenuto zuccherino delle uve: i mosti provenienti da regioni calde contengono quantità di zuccheri più elevate, per cui i lieviti isolati da questi mosti si sono adattati a sviluppare in un ambiente contenente elevate concentrazioni zuccherine. – Resistenza a composti tecnologici. È una caratteristica che il lievito deve possedere per svolgere la sua attività fermentativa in presenza di composti presenti nel mosto, quali residui di fitofarmaci e altre sostanze presenti sull’uva o additivi tecnologici comunemente aggiunti al mosto appena pigiato. Tra le sostanze utilizzate in vinificazione, l’anidride solforosa rappresenta certamente la più diffusa e comunemente usata in tutte le produzioni di vino. La pratica di aggiungere anidride solforosa è una pratica molto antica ed è adottata in tutto il mondo. La sua azione è mirata e garantisce un andamento regolare del processo fermentativo. Principalmente, l’anidride solforosa viene utilizzata per la sua azione antimicrobica, in quanto inibisce lo sviluppo di batteri e lieviti indesiderati presenti nel mosto d’uva e favorisce lo sviluppo selettivo dei lieviti resistenti a questo composto, rappresentati principalmente dai saccaromiceti. Anche per questa caratteristica esiste una certa variabilità tra i diversi ceppi della stessa specie, sebbene la maggior parte dei Saccharomyces sia resistente alle dosi del composto normalmente aggiunte al mosto. Il test in piastra contenente un terreno specifico per lo sviluppo dei lieviti, addizionato di una quantità di anidride solforosa simile a quella utilizzata in vinificazione, permette di valutare la resistenza del ceppo all’antimicrobico. Oltre all’anidride solforosa, nel mosto possono essere presenti residui di fitofarmaci, composti impiegati per la difesa della vite, rappresentati principalmente da rame e altri fungicidi. I diversi ceppi della specie S. cerevisiae hanno una variabilità significativa per il grado di resistenza a queste sostanze e sembra che livelli più elevati di resistenza siano dovuti a un adattamento del lievito all’ambiente. La presenza di queste sostanze sulle uve determina nei lieviti naturali l’acquisizione di resistenza ad alto livello, per cui se la coltura starter aggiunta al mosto non possiede resistenza a questi composti, i lieviti naturali del mosto, già adattati a queste condizioni, potrebbero prendere il sopravvento sulla coltura starter inoculata.
Caratteri di selezione dei lieviti starter
• Per valutare l’attitudine alla
vinificazione dei ceppi starter vengono presi in considerazione diversi parametri • I parametri più importanti del processo di selezione degli starter sono: – vigore fermentativo – potere fermentativo (definito anche potere alcoligeno) – livello di resistenza a differenti composti tecnologici
Test di valutazione della resistenza dei lieviti all’anidride solforosa. Lo sviluppo del lievito è indicato dalla colonia che si forma sulla piastra e dall’immagine si nota che alcuni ceppi si sono sviluppati, risultando resistenti all’anidride solforosa, mentre altri dimostrano sensibilità
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utilizzazione Variabilità di ceppo e qualità organolettica del vino Altri caratteri che vanno valutati comprendono l’azione svolta dal lievito su sostanze del mosto che porta alla produzione di composti, che influenzano la componente aromatica del vino. Oltre all’etanolo, il composto primario della fermentazione alcolica, il vino contiene numerose sostanze che influenzano in maniera significativa la qualità organolettica di questo prodotto. Le sostanze che influenzano l’aroma del vino hanno diverse origini: • composti presenti nell’uva (aroma varietale); • sostanze che si formano nel corso delle operazioni di lavorazione del mosto (aroma pre-fermentativo); • composti prodotti dai lieviti nel corso della fermentazione alcolica; • sostanze che si formano durante l’invecchiamento del vino. I composti aromatici ritrovati nel vino sono rappresentati principalmente dalle sostanze prodotte dai lieviti durante la loro attività di trasformazione del mosto d’uva in vino. Durante la fermentazione alcolica, oltre all’alcol etilico e all’anidride carbonica, il lievito produce una serie di composti che influenzano significativamente l’aroma del vino, anche se la maggior parte di queste sostanze è prodotta in quantità molto piccole. Le avanzate tecnologie di analisi di cui disponiamo negli anni più recenti hanno permesso di identificare nel vino la presenza di un numero molto elevato di composti, oltre 1000 sostanze volatili e di queste almeno 400 sono prodotte dai lieviti nel corso della fermentazione alcolica. Questa attività dei lieviti determina il bouquet finale del prodotto. I lieviti, producendo livelli diversi (alto, medio e basso) di questi composti, esercitano un’importante azione sulle caratteristiche aromatiche del vino e ne influenzano la qualità. Il livello di produzione di questi composti è legato sia al lievito sia alla presenza più o meno abbondante di precursori nel mosto, che vengono poi trasformati dall’azione del lievito. Tipo e concentrazione di questi composti sono influenzati dalla specie e, nell’ambito della stessa specie, dal ceppo di lievito coinvolto nella fermentazione. A questo punto la domanda che ci si pone è se lieviti diversi che fermentano lo stesso mosto producono lo stesso vino. La trasformazione degli zuccheri del mosto in alcol etilico e altre sostanze a opera di una specifica popolazione di lieviti può portare alla produzione di vini con specifiche caratteristiche organolettiche, che dipendono strettamente dal ceppo di lievito che ha condotto la fermentazione. Sulla base di tutto ciò, l’effetto che il lievito esercita sulle caratteristiche aromatiche del vino è un altro carattere che riveste importanza fondamentale per una coltura starter. Infatti, il ruolo svolto dai lieviti nella produzione di un vino non è soltanto quello di assicurare il buon andamento della fermentazione, ma anche
Principali prodotti secondari della fermentazione
• Acetaldeide • Acetato di etile • N-Propanolo • Isobutanolo • Acetoino • Alcoli amilici • Acido acetico • Butandiolo
Acetaldeide
Etanolo Etilacetato N-propanolo Isobutanolo N-butanolo Alcol D-amilico Acido acetico Analisi gas-cromatografica dei prodotti secondari della fermentazione
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lieviti e aromi di contribuire significativamente alla composizione finale dei vini e alla loro qualità complessiva tramite la produzione di composti secondari, rappresentati principalmente da glicerolo, acidi organici, alcoli superiori, esteri e acetaldeide. Va sottolineato che tutti i lieviti vinari della specie S. cerevisiae producono gli stessi composti, quello che varia e che distingue un ceppo dall’altro è che lo stesso composto può essere prodotto in quantità molto differenti, influenzando la composizione finale del vino e quindi la sua qualità organolettica. Quantità eccessive di ogni composto influenzano negativamente la qualità del vino ed è bene che le quantità prodotte non superino il valore soglia di accettabilità. Per esempio, l’acido acetico, l’aldeide acetica e l’idrogeno solforato se presenti in quantità elevate conferiscono caratteristiche decisamente negative al prodotto. Anche gli alcoli superiori, rappresentati prevalentemente da propanolo, isobutanolo, alcoli amilici devono essere presenti in quantità bilanciate per evitare aromi e sapori indesiderati o sgradevoli. Così, l’alcol isoamilico, quando prodotto in quantità elevate, conferisce al vino un caratteristico odore di bruciato. Altri composti non hanno azione univoca, per esempio il glicerolo è bene che sia formato ai più alti livelli nel caso di vini rossi destinati all’invecchiamento perché conferisce corposità, mentre è bene che sia formato ai livelli più bassi nei
Acetaldeide N-propanolo Isoamilico D-amilico Acido acetico
Acetaldeide N-propanolo
Isoamilico
Isobutanolo
D-amilico
Lieviti starter diversi determinano quantità differenti di prodotti della fermentazione 120
Isobutanolo
Acido acetico
Alcol D-amilico
100 mg/L
80 60 40 20 0
Acetaldeide
R33 R28 R23 R4 R57 R54 R48 R47 R39 R37 R1 R13 Ceppi diversi di S. cerevisiae
300
N-propanolo
Acetaldeide
250
Acido acetico
200 mg/L
Isobutanolo
Isoamilico
D-amilico
150 100 50 0
Lieviti diversi producono quantità diverse dei vari composti che contribuiscono all’aroma del vino
R33 R28 R23 R4 R57 R54 R48 R47 R39 R37 R1 R13 Ceppi diversi di S. cerevisiae
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utilizzazione vini giovani che devono dare il senso di freschezza e per i quali la corposità è negativa. La produzione di questi composti è una caratteristica che varia tra i diversi ceppi; infatti, nell’ambito dei lieviti vinari di S. cerevisiae è stata riscontrata un’enorme diversità con ceppi dotati di differenti caratteristiche metaboliche e quindi capaci di produrre livelli molto diversi di questi composti secondari. Per questa ragione è molto importante individuare, all’interno della stessa specie, il ceppo di lievito che, dopo mirata caratterizzazione tecnologica, sia risultato più idoneo a condurre quel determinato processo fermentativo. Nel contempo dovranno essere individuati eventuali “lieviti killer”.
Lieviti killer
• Sono lieviti in grado di produrre tossine proteine o glicoproteine a basso peso molecolare con azione tossica nei confronti di cellule di lieviti sensibili. La cellula che produce la tossina è immune alla tossina stessa, ma può essere sensibile a tossine diverse prodotte da altri lieviti killer. La capacità di produrre tossine killer è piuttosto diffusa tra lieviti appartenenti a diversi generi e specie, ma tale peculiarità fu inizialmente osservata in Saccharomyces cerevisiae
Variabilità di ceppo e produzione di enzimi Un altro meccanismo mediante il quale i lieviti possono influenzare l’aspetto organolettico del vino è rappresentato dalla produzione di enzimi, che trasformano i composti neutri dell’uva in sostanze aromatiche attive. Glicosidasi ed esterasi sono alcuni degli enzimi prodotti dai lieviti che possono dare un contributo significativo all’aroma del vino, poiché attaccano sostanze complesse presenti nel mosto, liberando sostanze volatili, come i terpenoli, che hanno un forte impatto sensoriale. Queste sostanze, che conferiscono ai vini, in particolare quelli bianchi, note floreali e fruttate, hanno una forte influenza sull’aroma; infatti bastano quantità estremamente piccole, dell’ordine di pochi µg del composto per litro di vino, affinché ne venga percepito l’aroma. I lieviti coinvolti nel processo di vinificazione possono possedere questa attività a livello diverso. In particolare, i lieviti non-Saccharomyces in generale sono dotati di queste attività enzimatiche a livelli più elevati rispetto a S. cerevisiae, sebbene anche all’interno di questa specie sia possibile reperire ceppi in possesso di una discreta attività enzimatica. In conseguenza di ciò, è bene che nella selezione dei lieviti da utilizzare come starter questo parametro venga preso in con-
Foto A. Scienza
Schema di produzione dei composti aromatici
Enzimi
OH OH
O
O
CH3
Sistema di microvinificazione per lo studio dei processi di vinificazione
O
O CH
Composti aromatici
CH3
O
Composti aromatici
OH OH
OH
OH
OH Enzimi
500
lieviti e aromi siderazione. Le attività enzimatiche possedute dai lieviti vinari rappresentano proprietà enologiche importanti per il processo di produzione del vino, poiché ne possono migliorare le qualità organolettiche. Variabilità di ceppo e qualità salutistica del vino Il vino è considerato a tutti gli effetti un alimento, anche se l’apporto di sostanze nutrienti è trascurabile e i più importanti principi nutritivi sono presenti in tracce. Per quanto riguarda il suo rapporto con la salute, il vino è spesso al centro di polemiche e i consumatori sono continuamente bersagliati da notizie che finiscono con creare confusione. Tra gli effetti “collaterali” del vino sono da annoverare gli aspetti positivi, in parte regolati dall’attività dei lieviti, che in tal senso possono svolgere un ruolo favorevole contribuendo ad aumentare il contenuto di sostanze positive per la salute umana, quali quelle dotate di potere antiossidante. I più noti sono i polifenoli, presenti principalmente nel vino rosso, che sono tra gli antiossidanti più abbondanti in natura e che possono prevenire i danni provocati dai radicali liberi. Un’altra classe di composti ad azione antiossidante è quella degli stilbeni, il cui principale componente è il resveratrolo, presente nelle bacche d’uva, localizzato principalmente nella buccia. L’interesse crescente per la presenza di resveratrolo nel vino deriva dalla sua azione protettiva contro le malattie cardiovascolari. Il contenuto di queste sostanze dotate di potere antiossidante dipende da vari fattori, tra cui varietà del vitigno, fattori ambientali e colturali (annata, clima, altitudine, esposizione del vigneto), dalle tecniche di vinificazione e anche dal lievito starter utilizzato per la vinificazione. Recenti studi hanno infatti dimostrato che il ceppo di S. cerevisiae, utilizzato come starter per condurre il processo fermentativo, può influenzare il contenuto in polifenoli del vino.
Colture di lieviti in piastra
Lievito starter e qualità salutistica del vino
• Sono stati individuati ceppi particolari
di lievito che sembrano dotati della capacità di esaltare il contenuto in polifenoli totali e che sono definiti ceppi antiossidanti positivi, in grado quindi di conferire un valore aggiunto al prodotto “vino”. Tale caratteristica positiva non è posseduta da tutti i ceppi vinari ed è stata trovata una variabilità considerevole, come evidenziato dal grafico a lato. È importante sottolineare che la massima attività positiva del ceppo è correlata al substrato da trasformare, il mosto d’uva. Lo stesso ceppo non dà, cioè, i medesimi buoni risultati in fermentazione di mosti diversi, ma esiste una stretta correlazione tra lievito starter e mosto da fermentare
Contenuto di polifenoli: correlazione ceppo di lievito/vino 2000
mg/L
1500 1000 500 0
mosto L1 L2 L3 L5 L7 L8 L9 L11 L12 L13 L14 L15 C2 C3 C4 Ceppi diversi di S. cerevisiae
501
utilizzazione Colture starter Nella moderna industria vinaria, che lavora su larga scala, si richiedono fermentazioni rapide e affidabili, essenziali per ottenere un prodotto di qualità prevedibile e con caratteristiche riproducibili. Per ottenere questi risultati si è sempre più diffusa la pratica della fermentazione inoculata, cioè dell’aggiunta della coltura starter, nonostante i processi di fermentazione possano avvenire spontaneamente. La fermentazione spontanea è condotta dai lieviti naturalmente presenti nel mosto e, a seguito della considerevole variabilità che esiste tra questi microrganismi, porta all’ottenimento di prodotti con caratteristiche qualitative a volte anche molto diverse, in funzione della diversa popolazione di lieviti che di volta in volta ha sviluppato. Al contrario, la fermentazione inoculata, condotta dai lieviti starter addizionati al mosto appena pigiato e dotati di caratteristiche ben definite, porta all’ottenimento di prodotti con proprietà qualitative standardizzate e costanti nel corso delle diverse fermentazioni. Col termine starter si indica una popolazione di microrganismi, che possono essere allo stato fresco o secco, accuratamente studiati e selezionati in laboratorio e in possesso di caratteristiche ben definite e utili per favorire la conservazione e/o la trasformazione di un alimento, garantendone così salubrità, migliore qualità e conservabilità. L’aggiunta di lieviti starter selezionati permette di guidare e controllare il processo fermentativo, ottenendo prodotti più standardizzati, di migliore qualità, più sicuri da un punto di vista igienico. D’altro canto, però, l’uso indiscriminato di pochi ceppi commerciali per la produzione di vini con caratteristiche varietali diverse non garantisce l’ottimizzazione dell’interazione dell’attività del lievito con la composizione del mosto da trasformare. Nella produzione del vino vengono largamente utilizzate le colture starter e, a causa della sua predominanza nel corso della vinificazione, S. cerevisiae è universalmente ritenuto il lievito vinario per eccellenza. Naturalmente alcuni ceppi di questa specie presentano caratteri più idonei di altri per produrre vini di maggiore qualità, per cui si è diffusa la pratica di selezionare, a partire da lieviti naturali isolati da mosto in fermentazione, quei ceppi di S. cerevisiae in possesso di caratteristiche enologiche correlate alla qualità e alle proprietà del vino che si vuole ottenere e al processo di fermentazione adottato.
Fermentazione spontanea
Microflora naturale
Biodiversità
Qualità variabile nel prodotto finale
Fermentazione inoculata
Starter commerciali
Controllo di qualità
Prodotto standardizzato
Tipologia della fermentazione e qualità del prodotto finale
Interazione tra lievito e vitigno La principale critica che viene rivolta all’impiego della coltura starter usata per guidare la fermentazione è legata al fatto che i ceppi starter commerciali, benché siano in possesso di caratteristiche che assicurano un buon andamento del processo fermentativo, portano a un appiattimento della qualità organolettica dei vini, senza esaltare i tratti aromatici tipici del vitigno di provenienza. 502
lieviti e aromi È ampiamente dimostrato che lo stesso ceppo di lievito, aggiunto a mosti d’uva differenti, porta alla produzione di vini con caratteristiche organolettiche diverse, in funzione della diversa composizione, sia qualitativa che quantitativa, di precursori del mosto d’uva che vengono trasformati dall’attività metabolica del lievito nelle diverse sostanze aromatiche. È altrettanto ben documentato che dalla fermentazione di una stessa base di mosto d’uva con ceppi di lievito diversi si ottengono vini diversi, come conseguenza dell’attività metabolica specifica di ciascun ceppo e le differenze determinano anche una valutazione sensoriale diversa dei vini prodotti. Questa interazione lievito/vitigno appare evidente quando si confrontano i profili analitici di vini sperimentali ottenuti da vitigni diversi per fermentazione con ceppi diversi di S. cerevisiae. In tal senso, l’azione del lievito sulle caratteristiche organolettiche del vino diventa significativa quando la coltura starter è capace di ottimizzare i parametri qualitativi dell’uva, esaltandone anche le caratteristiche di tipicità. L’impiego come colture starter di lieviti selezionati in funzione del mosto da fermentare assicura, oltre a un regolare andamento del processo fermentativo, anche il mantenimento della tipicità organolettica di ciascun vino locale, che può essere compromessa dall’uso di colture starter non appositamente selezionate. Attualmente, nella maggior parte dei casi la stessa coltura starter commerciale viene utilizzata indifferentemente per la produzione di vini del nord e del sud Italia, di vini rossi e bianchi, e viene considerata non come un fattore primario in grado di influenzare la qualità e la tipicità di un vino, ma principalmente come una componente tecnologica del processo. In questi ultimi anni solo pochi produttori di vino hanno incominciato a usare ceppi starter
Pochi ceppi commerciali
Vini di diverse varietà e origine
Appiattimento delle caratteristiche organolettiche del vino
Fondamentale la selezione programmata della coltura starter Importanza della selezione degli starter
Comportamento di un ceppo di S. cerevisiae in fermentazione di tre mosti diversi
Comportamento di un ceppo di S. cerevisiae in fermentazione di 3 mosti diversi
• Sui vini sperimentali ottenuti a fine
fermentazione è stato determinato il contenuto di alcuni composti secondari, che influenzano l’aroma del vino, e dalla fermentazione di ogni mosto il lievito ha prodotto quantità diverse dei composti secondari analizzati (grafico a lato). L’unico composto che è stato prodotto in quantità quasi identiche nei tre vini è stato il propanolo e questo potrebbe indicare che la capacità di produrre questa sostanza è influenzata più dal lievito che dal substrato (mosto) utilizzato per la fermentazione
700 600
mg/L
500 400 300 200 100 0
Alcol isoamilico Composti secondari
Acetaldeide Propanolo Isobutanolo
Aglianico
Cannonau
Acido acetico
Nero d’Avola
503
utilizzazione Fermentazione di lieviti diversi in mosti diversi Cannonau
1500 1000 500 0
ADE
PR
ISB
ISM
ACT
Sc3 Sc2 Sc1
mg/l
mg/l
Nero d’Avola
200 150 100 50 0
ADE
Composti secondari
PR
ADE
PR
ISB
ISM
ACT
Sc3 Sc2 Sc1
mg/l
mg/l
ACT
Aglianico Vulture
800 600 400 200 0
ADE
PR
ISB
ISM
ACT
Sc3 Sc2 Sc1
Composti secondari
Composti secondari
ADE = Acetaldeide PR = N-propanolo
ISM
Composti secondari
Vermentino
500 400 300 200 100 0
ISB
Sc3 Sc2 Sc1
ISB = Isobutanolo ISM = Alcol isoamilico
ACT = Acido acetico
isolati dalle proprie zone di produzione vitivinicola. In questa ottica, il vino viene considerato come il prodotto del “territorio”, che comprende le tradizioni e la cultura popolare, ma che esprime anche le biodiversità microbiche che si sono selezionate e adattate nel tempo in una determinata area di produzione e che quindi la rappresentano. In questa ottica, la coltura starter per effettuare al meglio il suo compito dovrebbe essere il frutto di accurate selezioni al fine di individuare ceppi specifici, isolati da specifiche aree geografiche, che permettano di produrre vini con caratteristiche particolari in ciascuna area microclimatica, oltre che specifici delle diverse cantine della stessa area.
Fermentazione di lieviti diversi in mosti diversi
• Tre ceppi di S. cerevisiae saggiati
in quattro mosti diversi, hanno evidenziato l’influenza determinante sia della varietà d’uva sia del ceppo sulla composizione finale del vino. In ognuno dei mosti saggiati i tre ceppi esibiscono una grande variabilità, che in alcuni casi determina una differenza significativa nel contenuto del composto
Selezione della coltura starter A conclusione di questa analisi sul ruolo primario del lievito nella vinificazione e sulla sua influenza sulla composizione e qualità del vino quindi sulla necessità della scelta mirata della coltura in funzione del vitigno, esaminiamo per punti le fasi più salienti del 504
lieviti e aromi programma di selezione di lieviti che abbiamo messo a punto e applichiamo nel nostro laboratorio. La selezione dei lieviti starter per enologia ha lo scopo di ottenere, attraverso un programma ben definito, ceppi di lievito che siano in grado di condurre la fermentazione nella maniera desiderata nel rispetto anche delle caratteristiche individuali del vitigno. La prima fase del programma di selezione prevede la raccolta sterile di uve direttamente in vigneto, da piante scelte a random e in numero statisticamente significativo. I campioni d’uva, pigiati negli stessi sacchetti di raccolta e trasformati in altrettanti mosti, rappresentano la fonte primaria dei lieviti naturali che, isolati in numero considerevole da ciascun campione durante la fermentazione spontanea, saranno successivamente analizzati. Prima di passare allo studio dei lieviti collezionati, è necessario stabilire le caratteristiche che devono possedere i lieviti per quella specifica produzione. Infatti, i caratteri desiderabili per un lievito da usare come starter sono diversi, anche in funzione delle diverse tecnologie di vinificazione, del tipo di vino che si vuole ottenere e della varietà d’uva da trasformare. Dopo aver collezionato, quindi, i diversi lieviti naturali, si procede all’identificazione degli isolati per individuare i ceppi della specie S. cerevisiae che, come detto, rappresentano i potenziali candidati a colture starter. Su questi lieviti vengono poi condotte le prove, definite di caratterizzazione, per individuare quei ceppi in possesso dei parametri enologici desiderabili. I test da applicare sono numerosi e vanno da semplici saggi in piastra per la valutazione di resistenze a composti antimicrobici e determinazione qualitativa di attività enzimatiche, a prove di fermentazione su scala di laboratorio in mosti diversi con e senza aggiunta di antimicrobici ecc. e con successiva determinazione nei prodotti sperimentali dei contenuti di composti legati alla qualità organolettica e salutistica. Questi test permettono di valutare numerosi ceppi e di raccogliere un numero elevato di dati che, sottoposti ad analisi statistica, permettono di eliminare i lieviti decisamente classificabili come “non buoni” e continuare la selezione con un numero ridotto di ceppi di S. cerevisiae per prove su scala pilota in cantina sperimentale. Nella successiva fase, i ceppi risultati migliori vengono saggiati per la stabilità genetica delle caratteristiche enologiche di interesse, studiando la progenie nell’espressione di questi caratteri per l’ottenimento di discendenti in possesso delle caratteristiche volute e manifestate in modo stabile. Solo al termine di tutto questo processo i ceppi di lievito “buoni” possono essere considerati selezionati ed essere quindi utilizzati come colture starter.
Fermentazione controllata in laboratorio
Raccolta dell’uva Fermentazione spontanea in laboratorio Isolamento lieviti autoctoni Identificazione Caratterizzazione dei ceppi Genetica
Tecnologica Selezione ceppi Fermentazione su scala di laboratorio Fermentazione su scala pilota
Programma di selezione dei lieviti
505
la vite e il vino
utilizzazione Aromi e polifenoli Luigi Moio, Angelita Gambuti, Paola Piombino
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
utilizzazione Aromi e polifenoli Aroma del vino: espressione del carattere varietale
Aroma del vino
Aroma del vino e sue origini L’aroma del vino è dovuto alla presenza di alcune centinaia di molecole appartenenti a diverse classi chimiche che ne costituiscono la frazione volatile. Le concentrazioni dei composti volatili possono variare da frazioni di ng/L fino a diversi mg/L. La conseguenza di tale variabilità di natura chimica e di concentrazione si traduce in un contributo sensoriale molto variabile sia per la qualità sia per l’intensità odorosa. Le soglie olfattive di tali composti possono infatti differire notevolmente, pertanto alcuni composti presenti in tracce possono svolgere un ruolo chiave nell’espressione dell’aroma di un vino, mentre altri, seppure più abbondanti, possono intervenire in misura minore. Il contributo di ogni molecola volatile all’aroma del vino dipende, inoltre, dalla sua struttura e quindi dalla sua natura chimica e proprietà chimico-fisiche. I principali meccanismi coinvolti nelle trasformazioni biologiche, biochimiche e tecnologiche che intervengono nella genesi dell’aroma del vino sono: il metabolismo dell’uva, influenzato dalla varietà, ma anche dalle condizioni pedoclimatiche, dalle pratiche viticole, dal grado di maturazione e dallo stato sanitario della materia prima; i fenomeni ossidativi e idrolitici pre-fermentativi che accompagnano la pigiatura e la macerazione delle uve; i metabolismi primari e secondari dei microrganismi che conducono la fermentazione alcolica e la fermentazione malolattica; i processi di cessione e ossidazione che intervengono in caso di affinamento del vino in fusti di legno; le reazioni chimiche ed enzimatiche post-fermentative che hanno luogo durante la conservazione del vino e durante il suo invecchiamento in bottiglia.
• La complessità dell’aroma del vino
e le difficoltà riscontrabili nel suo studio sono conseguenze della grande variabilità dei suoi componenti, nonché della diversità delle numerose trasformazioni biologiche, biochimiche e tecnologiche che intervengono nella sua genesi
Foto A. Scienza
Identità sensoriale del vino Tra i composti volatili che costituiscono l’aroma del vino, le molecole odorosamente attive che provengono dall’uva e che sono espressione caratteristica della varietà, giocano un ruolo determinante nella tipicità e nella qualità dei vini , di cui costituiscono l’aroma varietale. Esiste una differenza sostanziale nel processo di formazione dell’aroma varietale, a seconda che si parli di vini ottenuti da uve aromatiche o da uve neutre. Nel caso delle prime una larga parte dei composti responsabili dell’aroma verietale è infatti già presente in forma odorosamente attiva nelle uve, e pertanto i mosti ottenuti da tali uve possono già presentare parzialmente espressi i caratteri aromatici varietali tipici dei vini finiti (Moscato), eccetto per il contributo di alcune sostanze odorose che si formano in quantità più rilevanti nel corso dell’invecchiamento del vino (Riesling).
Riesling
Frazione volatile del vino
• Le molecole volatili fino a oggi
identificate nella frazione volatile del vino appartengono essenzialmente alle seguenti classi chimiche: esteri, alcoli, terpeni, acidi, lattoni, aldeidi, chetoni, acetali, fenoli, composti azotati, solforati e ossigenati
506
aromi e polifenoli Diversamente, per le varietà di uva cosiddette neutre, esse non contengono significative quantità di composti odorosamente attivi e i mosti, caratterizzati da odori erbacei dovuti alle aldeidi a 6 atomi di carbonio, mancano di odore tipico. Ciononostante, da tali uve è possibile ottenere vini che già al termine della fermentazione alcolica sono dotati di caratteristiche di elevata tipicità aromatica che li rendono riconoscibili alla degustazione (Sauvignon blanc, Cabernet, Merlot e Pinot noir). Quindi, il corredo genetico di una data varietà di uva può indurre diversi meccanismi per rendere l’aroma del corrispondente vino riconoscibile. La via più diretta è senza dubbio quella di indurre la produzione di alte concentrazioni di molecole odorose che siano completamente assenti o presenti in basse quantità in altre varietà: è il caso dei terpenoli per le uve moscato e aromatiche. Il secondo meccanismo prevede l’intervento di precursori specifici. In questo caso il mosto non ha particolari note aromatiche varietali che invece vengono successivamente espresse dopo la fermentazione alcolica o rivelate durante la maturazione: è il caso dei mercaptani, norisoprenoidi, metossipirazine, fenoli volatili, antranilati e cinnammati che rendono riconoscibili alla degustazione molti dei vini ottenuti dalle cosiddette varietà internazionali (Sauvignon, Chardonnay, Merlot, Cabernet, Pinot ecc.). Esiste inoltre un ulteriore meccanismo, molto meno diretto dei due precedenti, con cui i geni di una varietà di uva modulano la sintesi di aromi. La sintesi di amminoacidi e acidi grassi di una cultivar è in gran parte sotto controllo genetico. Queste molecole rappresentano i mattoni utilizzati dai lieviti per la costruzione di proteine e membrane, pertanto i lieviti avranno a disposizione materiale diverso al variare della varietà d’uva da cui è stato ottenuto il mosto in cui essi crescono. Poiché alcuni importanti aromi del vino sono prodotti secondari del processo di costruzione di proteine e membrane, il profilo di questi sottoprodotti è indirettamente controllato dal genoma della varietà di uva. Questo meccanismo è quantitativamente il più importante nella differenziazione di vini prodotti da uve neutre, pertanto, non la composizione quantitativa assoluta, ma la composizione quantitativa relativa, ovvero le proporzioni tra diverse molecole d’aroma, rappresenta un criterio oggettivo per la classificazione dei vini in base alle origini varietali delle uve da cui sono stati prodotti. Da un punto di vista qualitativo, sulla base di quanto riportato, è possibile immaginare uno spazio sensoriale i cui contorni sono definiti dai vini a forte carattere varietale, e all’interno del quale si collocano diversamente i vini ottenuti da varietà neutre il cui carattere varietale non è attribuibile a uno o pochi composti, ma piuttosto a un equilibrio tra diverse molecole odorose responsabili di note varietali meno marcate e quindi più difficilmente riconoscibili. Nel caso dei vini bianchi, le varietà che delimitano il perimetro di questo spazio sensoriale a tre vertici, grazie al loro spiccato ca-
Aroma varietale
• Il concetto di aroma varietale, introdotto da Cordonnier nel 1956, mette in luce l’esistenza di un legame tra alcuni caratteri olfattivi e aromatici tipici delle uve e dei vini di determinate varietà, e la presenza di alcuni costituenti volatili non necessariamente esclusivamente tipici di quelle varietà, ma in esse presenti in concentrazioni tali da influenzarne in maniera determinante il carattere sensoriale
Aroma Moscato
• Il carattere aromatico varietale
floreale del Moscato è dovuto all’elevata concentrazione di terpeni e in particolare di linalolo, percepibile nelle uve, nel mosto e nel vino Foto A. Scienza
Moscato bianco
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utilizzazione rattere aromatico varietale e alle oramai note origini molecolari di tali note tipiche sono: i vini ottenuti da uve aromatiche quali Moscato, Traminer, Malvasia, Gewürztraminer, Riesling, caratterizzati essenzialmente da note floreali attribuibili alle alte concentrazioni di terpeni presenti in questi vini; lo Chardonnay con i suoi odori di miele, vaniglia, mela, ananas, dovuti soprattutto alla formazione di norisoprenoidi, come il β-damascenone, che derivano dalla degradazione dei carotenoidi delle uve; il Sauvignon blanc riconoscibile grazie alla caratteristica nota di frutto della passione, frutta esotica, dovuta alla presenza di mercaptani e in particolare del 4-metil mercaptopentanone. All’interno di questo spazio sensoriale è possibile individuare una posizione che ben definisce il carattere aromatico di qualsiasi vino bianco. Il Trebbiano, per esempio, è un vino al quale non è possibile riconoscere peculiarità aromatiche e pertanto, essendo dotato esclusivamente di aromi di fermentazione, può essere collocato al centro dello spazio
Aroma Pinot noir
• Responsabili delle spiccate note
odorose di frutti rossi (cassis, amarena, ciliegia) dei vini ottenuti da questo vitigno sono gli etil- e i metilcinnammati e antranilati
to sca Mo Traminer Malv asia Ge wü r ztr Rie am sli ine ng r inv ec ch iat o
Posizione di alcuni vini bianchi non aromatici nello spazio sensoriale definito dai vini bianchi a forte carattere varietale (vini aromatici, Chardonnay e Sauvignon blanc)
g
lin
s Rie
Floreale, rosa, fiori d’arancio
o
n Fia
Sauvignon blanc
Frutto della passione, frutta esotica, ribes
Pinot noir
Kerosene Trebbiano Greco
Falanghina
Chardonnay Miele, mela, ananas, vaniglia
Aroma Riesling
• Il suo carattere varietale viene espresso
soltanto dopo invecchiamento del vino con la comparsa di una caratteristica nota odorosa di kerosene la cui molecola responsabile è il TDN, derivante dalla degradazione dei carotenoidi
sensoriale. Al contrario invece, i vini ottenuti dai tre vitigni bianchi autoctoni della Campania, Fiano, Greco e Falanghina, se opportunamente vinificati, esprimono note aromatiche che li rendono riconoscibili e distinguibili tra loro, pertanto essi occupano posizioni diverse all’interno dello spazio sensoriale definito per i 508
aromi e polifenoli vini bianchi. Nel caso dei vini rossi, ai vertici dei vettori che definiscono questo nuovo spazio a tre dimensioni è possibile immaginare: il Pinot noir caratterizzato da forti odori di frutti rossi (cassis, amarena, ciliegia) dovuti a etil- e metil- cinnammati e antranilati; il Cabernet Sauvignon caratterizzato da note vegetali di peperone verde; il Merlot con le sue note speziate di pepe e di cuoio. Alcune metossipirazine sono fortemente coinvolte nell’espressione delle note aromatiche tipiche di questi ultimi due vini. È possibile quindi dire che lo spazio sensoriale al quale appartengono i vini rossi è dominato da note aromatiche di frutti rossi (alle quali contribuisce anche l’odore di fragola dovuto al furaneolo, identificato per la prima volta nel 1980 da Rapp et al. nelle cultivar americane, ma successivamente rilevato come composto odorosamente attivo anche in diverse varietà rosse di Vitis vinifera) e da odori vegetali/speziati. All’interno di questo spazio sensoriale è possibile individuare la posizione che meglio esprime il carattere aromatico di ciascun vino rosso, come esemplificato nella figura per alcuni importanti
Aroma Sauvignon blanc
• Il suo aroma è caratterizzato dalla
presenza di mercaptani responsabili della nota di frutto della passione che rende riconoscibile questo vino
Foto A. Scienza
Posizione di alcuni vini rossi non aromatici nello spazio sensoriale definito dai vini rossi a forte carattere varietale (Pinot noir, Cabernet Sauvignon, Merlot) Frutti rossi
Pinot noir Cassis, ciliegia, amarena, frutti di bosco Fragola Cv. Americane
Merlot Spezie, cuoio, frutta secca, frutti rossi
Primitivo Nero d’Avola Pallagrello nero Aglianico
Cabernet Sauvignon Sauvignon blanc
Peperone verde, carrube, pepe verde, frutti rossi Vegetale Speziato
Aroma Cabernet e Merlot
• Per questi vini le metossipirazine
sono all’origine degli odori vegetali (peperone verde) e speziati (pepe)
vini rossi del sud Italia. Comparsa di note aromatiche varietali dopo la fermentazione alcolica e/o dopo l’invecchiamento del vino Si è visto che, pur in assenza di significative quantità di compo509
utilizzazione sti volatili varietali nel mosto, durante il processo di vinificazione si instaurano trasformazioni chimiche e biochimiche che portano alla formazione di caratteri sensoriali riconducibili al tipo di uva vinificata. In uno studio del 1974 condotto da Cordonnier e Bayonove venne osservata per la prima volta, dopo riscaldamento, la formazione di composti volatili varietali in mosti di uva preventivamente privati dalla frazione volatile. Un effetto simile si osservava dopo trattamento con enzimi glicosidasici, evidenziando così nei mosti d’uva la presenza di precursori d’aroma. Successivamente, diversi studi hanno dimostrato la presenza nelle uve di precursori d’aroma non odorosi in grado di rilasciare nel corso della vinificazione e/o dell’invecchiamento del vino, composti volatili coinvolti nell’espressione del carattere aromatico varietale del vino. Sia nelle uve aromatiche che in quelle neutre una larga parte della componente aromatica varietale è infatti presente sottoforma di precursori glicosidici non volatili e quindi odorosamente inattivi. Tali precursori sono costituiti da una frazione potenzialmente odorosa comunemente detta aglicone, legata con un legame β-glicosidico a un residuo zuccherino. Nel corso della maturazione il contenuto di glucosidi appartenenti a diverse classi di composti volatili, aumenta sia nelle foglie che negli acini, accumulandosi, nel caso di questi ultimi, principalmente a livello della buccia. Sebbene la maggior parte dei precursori aromatici sinora identificati nell’uva sia di natura glicosidica, esistono evidenze della formazione di importanti composti volatili a partire da precursori non glicosidici presenti nell’uva. Gli acidi ferulico e p-cumarico sono due di questi: da essi, durante i processi fermentativi e a seguito dell’attacco di microrganismi della specie Brettanomyces, possono formarsi composti volatili a elevata attività odorosa, quali etil- e vinilfenoli responsabili di odori sgradevoli di medicinale o di cavallo che a basse concentrazioni possono tuttavia essere correlati a odori positivi quali speziato, affumicato, legno. Recentemente la presenza di altri precursori non glicosidici per composti solforati a elevatissimo impatto odoroso è stata riportata in uve della varietà Sauvignon blanc. Tali composti sono caratterizzati da strutture chimiche in cui la frazione volatile è legata a un residuo di cisteina, e da essi possono originarsi mercaptani. Un aspetto di estremo interesse enologico nella genesi di tali composti volatili a partire dai rispettivi precursori è legato al fatto che numerosi ceppi di lievito possiedono enzimi in grado di degradare il precursore cisteinico portando alla liberazione della frazione volatile, con conseguente incremento dell’aroma varietale nel corso della fermentazione alcolica. La presenza di composti volatili derivanti dall’uva presenti sottoforma di precursori non odorosi e poi rilasciati e resi olfattivamente attivati nel corso della vinificazione e/o dell’invecchia-
Importanti molecole d’aroma di diverse tipologie di vino β-damascenone (norisoprenoide) O
sotolone (lattone)
linalolo (terpene)
OH
OH O
O
metil antranilato (antranilato) O OCH3 NH2 2-metossi-3-isobutil pirazina (pirazina) N O
N
4-etilfenolo (fenolo)
HO 4-mercapto-4-metilpentan-2-one (composto solforato) H SH
O
Composti chimici dell’aroma
• Terpeni, norisoprenoidi, pirazine,
composti solforati, antranilati sono fino a oggi le classi chimiche di composti maggiormente coinvolti nell’aroma varietale del vino
510
aromi e polifenoli
Aromi e invecchiamento
• Con il progredire dell’invecchiamento il
carattere aromatico del vino si modifica passando da un aroma di natura principalmente fermentativa a uno più complesso, fortemente influenzato da componenti aromatiche varietali tipiche dell’uva di origine
Terpeni liberi e legati mento del vino, ne determina un interessante aumento della complessità aromatica. Nel corso dell’invecchiamento il basso pH determina una degradazione degli esteri di fermentazione, pertanto il loro contributo sensoriale diminuisce notevolmente. Parallelamente, gli aromi varietali presenti sottoforma di precursori, in particolare terpeni e norisoprenoidi vengono gradualmente rilasciati e possono quindi contribuire al profilo aromatico globale, determinando un aumento della complessità e della specificità aromatica del prodotto.
Invaiatura
Maturazione Surmaturazione
Wilson et al., 1984; Park et al., 1991
Fattori che influenzano l’aroma varietale nell’uva Il profilo compositivo qualitativo dei composti odorosi che provengono dall’uva, caratteristici della varietà e quindi responsabili dell’aroma varietale, è sotto controllo genetico; da un punto di vista quantitativo, invece, tale composizione è fortemente influenzata da fattori ambientali (esposizione, clima, terreno) che condizionano la produttività quantitativa e qualitativa della vite in una determinata area geografica e da cui dipendono anche il grado di maturazione delle uve e il loro stato sanitario. Studi condotti su cultivar internazionali riportano che nel corso della maturazione, a partire dall’invaiatura, negli acini si riscontra un accumulo di terpenoli liberi e legati; in fase di surmaturazione alcuni Autori hanno riportato una diminuzione delle forme libere antecedente alla fine dell’accumulo di zuccheri nella buccia, altri hanno osservato un lieve aumento anche in surmaturazione suggerendo che la temperatura a cui avviene la maturazione è un fattore fortemente condizionante. Una evoluzione analoga è stata riscontrata per i norisoprenoidi come conseguenza della diminuzione dei carotenoidi a partire dall’invaiatura. L’intervento degli enzimi dell’uva nella degradazione
Terpeni liberi
Invaiatura
Maturazione Surmaturazione
Gunata, 1984; Marais, 1983; Park et al., 1991
Andamento della concentrazione di terpeni liberi e legati, nel corso della maturazione di diverse uve
511
utilizzazione ossidativa dei carotenoidi e poi nei meccanismi di glicosilazione è all’origine di tali trasformazioni, incentivate dall’esposizione delle uve al sole. Cinetiche di maturazione praticamente opposte sono state riscontrate nel caso delle metossipirazine: i tenori più importanti sono stati rilevati nelle uve non mature, con una progressiva diminuzione nel corso della maturazione, aggravata dall’esposizione al sole, a causa della sensibilità di questi composti alla luce. Oltre alle condizioni climatiche anche la natura del terreno e la sua influenza sul vigore della vite sembrano influenzare la concentrazione di metossipirazine: terreni calcarei e argillo-terrosi producono Cabernet Sauvignon e Merlot con più spiccate note vegetali di peperone verde di cui le metossipirazine sono responsabili. In un recente studio condotto sulle tre uve bianche non aromatiche autoctone della Campania, Fiano, Greco e Falanghina, è stata seguita l’evoluzione di terpenoli liberi e legati, carotenoidi e norisoprenoidi durante la maturazione: il tenore in terpenoli liberi e legati tende a un aumento graduale in modo particolare tra il sessantesimo e l’ottantesimo giorno dopo la fioritura raggiungendo una certa stabilità nella fase successiva, fatta eccezione per i terpenoli legati dell’uva Falanghina che mostrano un incremento lungo tutto il corso della maturazione; per quanto riguarda la degradazione dei carotenoidi e la conseguente formazione di norisoprenoidi le tre varietà mostrano comportamenti simili, con il Fiano che raggiunge il più alto tenore di norisoprenoidi. Un ulteriore fattore che influenza l’espressione dell’aroma varietale dell’uva è certamente il suo stato sanitario. Eventi climatici estremi, minando l’integrità delle bacche, favoriscono lo sviluppo di flora microbica indesiderata e quindi l’insorgere di malattie del grappolo. Botrytis cinerea, così come altre muffe, determinano alterazioni fisiologiche che si traducono in una diminuzione della superficie fogliare e quindi in una minore attività fotosintetica che, ritardando la maturazione, determina una minore sintesi di aromi con una conseguente modifica del quadro aromatico della materia prima e del vino da essa ottenuto. Inoltre, le alterazioni del metabolismo provocate dall’insorgere di malattie, favoriscono la produzione di molecole responsabili di difetti di odore, con un conseguente mascheramento delle note aromatiche varietali. Le molecole riportate in letteratura come responsabili delle note odorose di funghi, sottobosco, muffa, terra, nelle uve o in vino sono: 1-octen 3-olo, 1-octen-3-one, 2-octen-2-olo, 2eptanolo, fencolo, fencone, 2-metil-isoborneolo e trans-1,10dimetil-trans-9-decanolo. Tuttavia, è stato dimostrato che è proprio quest’ultimo composto, noto con il nome di geosmina, il principale responsabile del difetto di odore di terra delle uve attaccate da muffe e dei corrispondenti vini. La Botrytis cinerea
Carotenoidi/C-13 norisoprenoidi
Invaiatura
Maturazione Surmaturazione
C-13 norisoprenoidi
Carotenoidi
Elevata esposizione al sole Marais et al., 1993; Razungles e Bayonove, 1996
Metossipirazine
Invaiatura
Maturazione Surmaturazione
Elevata esposizione al sole Alen e Lacey, 1993
Metossipirazine
Zona a clima freddo
Zona a clima caldo
Lacey, 1991
Andamento della concentrazione di alcune molecole responsabili dell’aroma varietale di diversi vini nel corso della maturazione delle uve
512
aromi e polifenoli Influenza del difetto di odore di terra (geosmina) sull’aroma del vino bianco (Falanghina) di diverse annate
Influenza della geosmina sull’aroma del vino bianco
Frequenza di citazione
Annata 2004 100 80 60 40 20 0
Fruttato Floreale Erbaceo Vegetale Sottobosco- Odori cotto terra dolci
• Per valutare l’influenza della geosmina
sull’aroma del vino bianco, due vini Falanghina di annate diverse (2004 e 2005) sono stati addizionati con 300 ng/L di geosmina. I profili sensoriali così ottenuti sono stati confrontati con quelli relativi agli stessi vini privi di difetto
Frutta secca
• Il difetto di odore di terra dovuto
all’aggiunta di geosmina ha avuto una forte influenza sul profilo d’aroma dei vini esaminati: il vino meno giovane ha una forte dominanza dell’odore di terra-sottobosco, accompagnata da significativa diminuzione dei descrittori fruttati e dolci e un totale appiattimento delle note floreali ed erbacee. Nel vino più giovane, dominato dalle note fruttate dovute alle alte concentrazioni di esteri, l’aggiunta di geosmina ha avuto un impatto meno drastico, con comparsa delle note di terra-sottobosco e vegetale cotto e abbattimento delle note di frutta secca
Frequenza di citazione
Annata 2005 100 80 60 40 20 0
Fruttato Floreale Erbaceo Vegetale Sottobosco- Odori cotto terra dolci
Vino privo di difetto
Frutta secca
Vino addizionato con geosmina
Foto R. Angelini
(muffa nobile) e il Penicilliun expansum esercitano una azione complementare sulla sintesi di geosmina, la cui presenza non è mai stata rilevata in uve sane, ma sistematicamente associata alla presenza di muffe. I risultati di prove sperimentali suggeriscono che, a parità di concentrazione, la comparsa del difetto di odore di terra dovuto alla geosmina ha un diverso impatto olfattivo su vini dalla diversa complessità aromatica. Gli aromi di fermentazione di cui sono ricchi i vini giovani riescono a mascherare parzialmente e ad attutire l’intensità del difetto di odore di terra, pertanto non è consigliabile sottoporre a invecchiamento i vini affetti da questo off-flavour. Poiché l’invecchiamento influisce fortemente sull’espressione del potenziale aromatico varietale dei vini ottenuti da uve neutre, è possibile concludere che l’impiego di uve sane costituisce un presupposto fondamentale per l’ottenimento di vini dal forte
La presenza di marciumi sui grappoli influisce sull’espressione delle note aromatiche varietali
513
utilizzazione carattere varietale. Come favorire l’espressione delle caratteristiche aromatiche varietali e modulare il potenziale di invecchiamento dei vini Sulla scorta di quanto detto, l’ottenimento di vini con elevate caratteristiche di tipicità e complessità aromatiche è legato all’impiego di tecniche di vinificazione attraverso le quali sia possibile ottimizzare il contributo delle componenti aromatiche di fermentazione e varietale, in funzione della tipologia di prodotto che si desidera ottenere. Bisogna inoltre considerare che lo sviluppo di una tecnologia di vinificazione specifica per una determinata varietà di uva presenta problematiche diverse a seconda che si tratti di uve aromatiche o uve neutre. Nel primo caso, fattori viticoli quali sanità e grado di maturazione della materia prima, restano importanti, ma difficilmente compromettono la riconoscibilità del prodotto finale; nel secondo caso invece, gli stessi fattori viticoli (buono stato sanitario e buon grado di maturazione) rappresentano requisiti fondamentali per consentire da un lato la massima sintesi possibile di aromi legati al corredo genetico e quindi alla varietà di uva, e dall’altro lato per prevenire la produzione di molecole responsabili di difetti di odore che, oltretutto, in un vino neutro avrebbero un maggior impatto sensoriale rispetto a un vino ottenuto da uve aromatiche. A questo punto, nella produzione di vini ottenuti da uve neutre, se da un punto di vista viticolo, l’obiettivo deve essere quello del controllo della qualità della materia prima al fine di avere la massima sintesi di aromi sotto controllo genetico, da un punto di vista tecnologico, tutto deve essere concepito in modo da preservare al massimo queste molecole, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, cercando di ottenere la massima estrazione dalle uve ed evitando e prevenendo qualsiasi fenomeno degradativo. Dopo la fermentazione il vino continua a subire importanti variazioni di composizione che ne influenzano il carattere sensoriale. Nuovi composti d’aroma possono formarsi e la concentrazione di altri può aumentare o diminuire con conseguenti effetti sulle caratteristiche aromatiche del prodotto, migliorandolo o anche peggiorandolo. I principali cambiamenti che i composti aromatici presenti in un vino subiscono durante la conservazione in bottiglia possono essere riassunti nei seguenti punti: variazione del contenuto in esteri, diminuzione di acetati, aumento di esteri etilici di acidi mono- e di-carbossilici, formazione di molecole derivanti dalla degradazione dei carboidrati (principalmente furani), reazioni acido catalizzate dei composti monoterpenici con formazione di altri prodotti di natura terpenica (terpenoli, terpeni ed ossidi terpenici), formazione di norisoprenoidi dalla degradazione dei carotenoidi. In particolare, le molecole volatili prodotte durante gli ultimi tre fenomeni degradativi appena riportati, sono coinvolte nell’espressione del potenziale aromatico varietale
Degustazione del vino
• La degustazione di un vino è un
esercizio complesso reso ancora più difficile dal continuo evolvere della percezione gustativa e aromatica durante la degustazione. La temporalità della percezione degli attributi sensoriali è stata sempre ritenuta dagli esperti di fondamentale importanza nella formulazione di un giudizio di qualità del vino
Antiche bottiglie di vino datate dal 1874 al 1912
Dominanza temporale delle sensazioni (DTS)
• La DTS è una metodologia di analisi
sensoriale che permette di elaborare simultaneamente, per un dato prodotto, curve temporali di circa 10 attributi sensoriali differenti consentendo una valutazione multipla dello stesso descrittore sensoriale durante una singola degustazione
514
aromi e polifenoli
Frequenza della dominanza
d’invecchiamento del vino. Poiché le cinetiche di queste reazioni sono fortemente condizionate dalla temperatura, la temperatura di conservazione del vino è un parametro molto importante per la modulazione dell’espressione dell’aroma varietale di un vino durante l’invecchiamento, e quindi per l’allungamento della sua shelf-life aromatica.
Frequenza della dominanza
Frequenza della dominanza
Quando vengono percepite le note aromatiche varietali di un vino durante la sua degustazione La DTS (dominanza temporale delle sensazioni) è una tecnica che consente di seguire l’evoluzione temporale della percezione di stimoli gustativi e olfattivi durante l’assaggio di alimenti e bevande. A partire dal momento in cui il giudice introduce nella cavità orale il prodotto, gli viene chiesto di selezionare, tra una lista di diversi descrittori quello che ritiene dominante, di valutarne l’intensità e ripetere l’operazione finché dura la percezione. Un attributo è considerato dominante, rispetto agli altri descrittori della lista, quando attira maggiormente l’attenzione del degustatore, a un certo tempo. Il degustatore è libero di selezionare diverse volte, durante la degustazione, lo stesso descrittore. I dati forniti dai diversi degustatori, per un certo prodotto, vengono elaborati in una sovrapposizione di curve di dominanza che descrivono l’evoluzione della frequenza della dominanza degli attributi sensoriali. Con questa metodologia è possibile conoscere, per un dato prodotto alimentare, il momento in corrispondenza del quale la percezione di un attributo sensoriale diventa dominante, la sua durata e il valore della sua intensità media. Allo scopo di analizzare la dominanza temporale degli odori del vino, percepiti per via retronasale e valutare l’influenza della temporalità delle sensazioni sulla preferenza del vino, è stata condotta, con l’impiego della DTS, una sperimentazione su campioni di vini bianchi sperimentali ottenuti da uve Falanghina. I risultati di questa sperimentazione hanno consentito di individuare una fase della degustazione in cui è dominante la percezione delle note aromatiche varietali. I vini sono stati realizzati in modo da ottenere campioni differenti per la dominanza sensoriale di uno dei seguenti attributi d’aroma: floreale, fruttato, frutta secca e legno. A una giuria di 15 degustatori è stato chiesto di valutare, per ciascun campione di vino, la dominanza temporale dei seguenti attributi d’aroma: frutta a polpa bianca, frutta esotica, frutta secca, floreale, miele e legnoso. L’aroma di mela e banana (frutta a polpa bianca) è essenzialmente legato a molecole di origine fermentativa e costituisce la “nota di testa” di un vino bianco. Essa viene percepita immediatamente nel momento in cui il vino viene introdotto nella cavità orale. Nel giro di una ventina di secondi tende ad attenuarsi svolgendo, tuttavia, un ruolo fondamentale nell’apprezzamento della qualità aromatica di un vino, in quanto
0,55 0,50 0,45 0,40 0,35 0,30 0,25 0,20 0,15 0,10 0,05 0,00
0,55 0,50 0,45 0,40 0,35 0,30 0,25 0,20 0,15 0,10 0,05 0,00
0,55 0,50 0,45 0,40 0,35 0,30 0,25 0,20 0,15 0,10 0,05 0,00
A - Dominanza fruttato
0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 Tempo (s) B - Dominanza floreale
0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 Tempo (s) C - Dominanza frutta secca e legno
0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 Tempo (s)
Frutta a polpa bianca Floreale Miele Frutta secca Frutta esotica
Significatività
Legnoso
Livello di probabilità
Curve di dominanza temporale delle sensazioni d’aroma relative a campioni con specifici attributi sensoriali amplificati
515
utilizzazione “cattura” l’attenzione del degustatore. Gli aromi di frutta esotica e floreale risultano dominanti nella parte centrale del diagramma temporale della percezione. In particolare, la nota floreale, con la sua dominanza netta e prolungata, compresa tra 20 e 40 secondi, esercita il ruolo di “nota di cuore”, importante in quanto le molecole responsabili di tali note olfattive sono quelle maggiormente coinvolte nel riconoscimento sensoriale della varietà di uva di origine del vino bianco. Gli aromi di frutta secca e legno risultano caratterizzati da un’elevata durata della dominanza temporale che si prolunga, in modo particolare, nella parte finale del diagramma di percezione. Tale comportamento tende a inserire questi due aromi nella “nota di fondo” del vino, costituita dagli aromi più tenaci che conferiscono “profondità” alla qualità aromatica globale del vino.
Azione antiossidante dei fenoli
• I composti fenolici, presenti in
abbondanza nel vino rosso, presentano molti gruppi ossidrilici (OH) su strutture ad anello che li rendono capaci di catturare i radicali liberi (specie ossigenate altamente reattive) non rendendo l’ossigeno disponibile per altre reazioni. Essi, quando coinvolti in tali reazioni, si ossidano a chinoni donando gli idrogeni dei gruppi idrossilici sull’anello fenolico. In tale modo esercitano una naturale azione antiossidante
o -difenolo
o -chinone
OH
O OH
Polifenoli del vino e problematiche varietali Importanza enologica dei polifenoli I composti polifenolici sono responsabili di importanti caratteristiche sensoriali del vino quali il colore, l’astringenza e l’amaro. Essi vengono estratti dalle diverse parti dell’acino d’uva durante la vinificazione e, poiché sono substrati di un gran numero di reazioni chimiche, subiscono diverse variazioni di struttura nel corso dell’affinamento e dell’invecchiamento del vino modificandone le caratteristiche organolettiche. Pertanto, la stima della quantità e della qualità dei polifenoli dell’uva che possono essere estratti durante la vinificazione, e anche la conoscenza della ripartizione di questi composti tra bucce e vinaccioli possono aiutare l’enologo a impostare in maniera ottimale la vinifi-
O
– 2H + 2H
Tutti i composti fenolici sottraggono ossigeno al vino ed esercitano una naturale azione antiossidante
Localizzazione dei principali composti fenolici dell’uva
Gli antociani della buccia sono responsabili del colore rosso del vino
I tannini condensati e i flavanoli delle bucce e dei vinaccioli sono responsabili della struttura del vino e, in taluni casi, della sensazione di astringenza e amaro
Gli acidi fenolici della polpa sono responsabili delle reazioni di ossidazione e imbrunimento dei vini bianchi
516
aromi e polifenoli cazione in rosso. Lo studio dei composti fenolici dell’uva e del vino si presenta alquanto complesso e articolato per l’ampia diversità di strutture che ne fanno parte e del diverso contributo sensoriale da queste fornite. Il colore dei vini rossi dipende principalmente dal contenuto di antociani, dalla loro composizione, dal pH, dall’anidride solforosa e dai fenomeni di copigmentazione in cui tali molecole sono coinvolte. In un vino rosso invecchiato la stabilità del colore dipende dalla formazione di pigmenti polimerici ottenuti principalmente dalla condensazione tra antociani e proantocianidine condensate e da tutte quelle reazioni che conducono alla formazione di strutture molecolari in grado di preservare la carica positiva degli antociani e stabilizzare così il colore del vino. La struttura e il corpo del vino rosso, ma anche il gusto amaro e la sensazione di astringenza sono dovuti a una importante classe di composti fenolici, le proantocianidine o tannini condensati. Tali composti sono una miscela di oligomeri, costituiti da catene di monomeri di flavan-3-oli, legati principalmente attraverso legami tra il carbonio C4 di una unità e il carbonio C8 (o C6) di un’altra unità. Le proprietà delle proantocianidine dipendono dalla loro struttura e, in particolare, dal loro grado di polimerizzazione. I monomeri sono più amari che astringenti, all’aumentare del peso molecolare aumentano le proprietà astringenti. La sensazione di astringenza (dovuta all’interazione tra i polifenoli e le proteine e glicoproteine della saliva, con conseguente perdita delle proprietà lubrificanti di quest’ultima) è strettamente correlata alla natura molecolare dei tannini. Per avere alta affinità con le proteine, i tannini devono avere: dimensioni opportune per legare tra loro molecole proteiche adiacenti; un numero di gruppi fenolici sufficienti a permettere la formazione di legami con le catene proteiche in più di un punto. Se le molecole tanniche sono troppo grandi, esse non riescono a penetrare nella regione interfibrillare della molecola proteica; se, invece, sono troppo piccole, possono entrare nella struttura proteica ma non sono in grado di formare legami stabili con la proteina. I composti polifenolici più importanti per i vini bianchi sono gli acidi cinnamici. Una delle proprietà più importanti dei polifenoli del vino è la loro capacità di ossidarsi a chinoni in presenza di ossigeno. Tale reattività è molto importante per gli esteri degli acidi cinnamici ed è alla base dei fenomeni di imbrunimento dei mosti e dei vini bianchi a seguito dell’azione di enzimi ossidasici.
L’invecchiamento in botte o in bottiglia modifica le strutture dei polifenoli e le caratteristiche sensoriali dei vini rossi
Estraibilità dei polifenoli
• Le proprietà strutturali della parete
cellulare della buccia costituiscono un elemento determinante l’estraibilità dei composti polifenolici, in particolare degli antociani, dalle bucce di diverse varietà di uva
• Le differenze nel contenuto di
polisaccaridi della buccia e il grado di metilazione delle pectine, caratteristica specifica di ogni cultivar, sarebbero le principali responsabili della diversa estraibilità degli antociani tra le diverse varietà
Estraibilità dei polifenoli dalla bacca come carattere varietale L’estrazione dei polifenoli dall’uva al vino è essenzialmente un processo di diffusione, e la quantità estratta dipende dalla concentrazione di polifenoli nell’uva, dalla composizione della parete cellulare della bacca e dai metodi di vinificazione. Per quanto concerne gli antociani è noto che uve molto colorate non necessaria517
utilizzazione
Estraibilità Estraibilità
Antociani Antociani Polifenoli Polifenoli totali totali
mente producono vini molto colorati, in quanto l’intero processo è determinato dalla facilità con cui gli antociani vengono estratti dalle bucce d’uva nel mosto. L’estrazione dei tannini dai vinaccioli, molecole reattive nei confronti delle proteine (pertanto più astringenti), dipende dalla composizione della cuticola dei semi e dalla loro solubilità nel mezzo. Uno degli aspetti più studiati è stato l’estraibilità degli antociani. Essi si trovano nei vacuoli delle cellule della buccia, in forma libera, e diffondono nel mosto e nel vino durante la fase di macerazione. Evidentemente, la barriera per questi composti è proprio la parete cellulare della buccia, che è costituita da polisaccaridi, composti fenolici e proteine, ed è stabilizzata da legami ionici e covalenti. I componenti principali della parete cellulare della buccia sono la cellulosa e le pectine che rappresentano circa il 30-40% dei polisaccaridi totali. Le pectine sono concentrate nelle pareti della lamella centrale tra le cellule, e l’estrazione degli antociani richiede proprio che questa lamella centrale ricca di pectine sia degradata in modo che le pareti cellulari siano rotte e il loro contenuto vacuolare sia estratto o diffonda nel vino.
0 5 10 0 5 10 Cabernet Sauvignon Cabernet Sauvignon Syrah Syrah Tannat Tannat
15 15
20 25 20 25 Merlot Merlot Aglianico Aglianico Monastrell Monastrell
Potenziale polifenolico delle uve e qualità del vino rosso: l’esigenza di un’enologia varietale La biosintesi dei polifenoli, così come la loro estraibilità dalla bac-
Distribuzione delle uve a bacca nera in base al contenuto di antociani e tannini delle bacche Tannat
Aglianico 0 5 10 0 5 10 Cabernet Sauvignon Cabernet Sauvignon Syrah Syrah Tannat Tannat
15 15
Nero d’Avola Uva di Troia
Tannini
Tannini Tannini vinaccioli vinaccioliTannini Tannini bucce bucce
Polifenoli totali, antociani e loro estraibilità di diverse uve (le concentrazioni relative di polifenoli e antociani sono state normalizzate rispetto a quelle del Cabernet Sauvignon e calcolate in base ai valori riportati in letteratura)
20 25 25 20 Merlot Merlot Aglianico Aglianico Monastrell Monastrell
Pinot noir
Tannini delle bucce e dei vinaccioli di uve diverse (le concentrazioni di tannini sono state normalizzate rispetto a quelle del Cabernet Sauvignon e calcolate in base ai valori riportati in letteratura)
Merlot Cabernet Sauvignon Cabernet Franc Syrah Primitivo Tintilla
Antociani
518
Cabernet Sauvignon
Stabilità del colore
Intensità colorante
aromi e polifenoli
Merlot
Qualità dei tannini
Estratto secco netto
ca, è geneticamente determinata, pertanto la cultivar di uva impiegata per la produzione del vino è il principale fattore da cui dipendono le caratteristiche cromatiche e la percettibilità dei composti fenolici del vino rosso. Alcune cultivar, come il Cabernet Sauvignon e il Merlot, oltre a essere caratterizzate da una naturale ricchezza polifenolica, presentano un buon equilibrio tra le classi fenoliche e una notevole estraibilità della frazione antocianica; ciò le rende idonee alla produzione di vini rossi di pregio da destinare a lunghi invecchiamenti. L’Aglianico invece, si presenta meno ricco in antociani estraibili e più ricco in tannini e da tale uva si ottengono vini più sbilanciati verso la componente tannica e meno stabili al colore. Altre varietà possono risultare povere in tutti i composti polifenolici considerati (è il caso della varietà Monastrell) o squilibrate per un elevato contenuto di antociani (Syrah) o tannini (Tannat). Un esempio particolare è dato dal Pinot noir, tale cultivar non solo è caratterizzata da una bassa concentrazione di antociani e polifenoli totali, ma la sua frazione antocianica, mancando completamente delle forme acilate, è causa di una minore longevità del vino da essa prodotto. Diverso ancora è il caso dell’uva Primitivo le cui bucce, sebbene presentino livelli di antociani totali comparabili a quelli del Cabernet Sauvignon, sono caratterizzate da una minore percentuale di antocianine più stabili (malvidina glicosilata e relative forme acilate) ed è pertanto più facilmente sensibile a fenomeni di imbrunimento ed evoluzione della tinta verso il giallo. In tutti questi casi è più difficile ottenere un prodotto di qualità e diventano di fondamentale importanza tutte le pratiche viticole ed enologiche in grado di influenzare la composizione fenolica della bacca, l’estrazione dei composti fenolici dall’acino al mosto e l’evoluzione di questi ultimi durante l’affinamento del
0
2
4
6
8
10 12 14 16
Cabernet Sauvignon
Merlot
Syrah
Aglianico
Tannat
Monastrell
Qualità sensoriale dei vini ottenuti, mediante l’applicazione dello stesso processo di vinificazione, dalle uve: Cabernet Sauvignon Merlot Aglianico Syrah Tannat Monastrell
519
utilizzazione vino. Fattori in grado di modulare la frazione polifenolica del vino Grado di maturazione dell’uva. Lo stadio di maturazione, incidendo profondamente sulla composizione polifenolica della bacca, influenza in modo significativo la qualità del vino. Nel corso del processo di maturazione, i costituenti polifenolici dell’uva subiscono numerose modificazioni. Da un punto di vista generale, dal periodo dell’invaiatura fino alla maturazione tecnologica, definita in base al rapporto zuccheri/acidità totale, la buccia si arricchisce di composti fenolici. Gli antociani, che compaiono all’invaiatura, si accumulano durante tutta la maturazione raggiungendo la massima concentrazione in corrispondenza della maturità tecnologica. L’evoluzione dei tannini della buccia è molto simile all’andamento degli antociani, anche se, a differenza di questi ultimi, la concentrazione di tannini è già elevata al momento dell’invaiatura. I tannini presenti nei vinaccioli tendono generalmente a diminuire con il progredire della maturazione dell’uva. In particolare, dopo l’allegagione e fino all’invaiatura si osserva una rapida diminuzione di tali composti, la cui concentrazione rimane poi costante dall’invaiatura alla maturazione. I tannini possono essere distinti in base ad alcune caratteristiche chimiche che ne determinano l’astringenza. Quelli presenti nei vinaccioli sono proantocianidine il cui grado di polimerizzazione è poco elevato all’invaiatura e aumenta nel corso della maturazione, infatti la quantità di dimeri e di trimeri, molecole in grado di determinare una forte astringenza durante l’assaggio del vino, diminuisce del 90%. I tannini delle bucce hanno strutture più complesse. Il loro grado di polimerizzazione è poco variabile, la quantità di dimeri e di trimeri è molto bassa all’invaiatura e diminuisce poco nel corso della maturazione. Inoltre, sembra che durante la maturazione i tannini delle bucce siano progressivamente inattivati e di conseguenza perdano la loro astringenza. Sulla base di quanto riportato nel precedente paragrafo, a seconda delle condizioni di maturazione e della cultivar, ciascuna uva possiede un potenziale di estrazione o di estraibilità che condiziona fortemente la concentrazione e la composizione dei costituenti polifenolici presenti nel vino al termine della vinificazione. La maturità antocianica si realizza nel periodo della maturazione dell’uva corrispondente a un contenuto totale in pigmenti elevato e a una loro massima capacità di diffusione nel mosto. La maturità tannica, invece, corrisponde al momento della maturazione dell’uva in cui è minima la reattività nei confronti di sostanze di natura proteica. È pertanto evidente che da una stessa cultivar è possibile ottenere vini molto diversi a seconda del momento della vendemmia. Va inoltre sottolineato che, sebbene le evoluzioni dei composti polifenolici definite precedentemente siano comuni a tutte le cultivar, esse si differenziano notevolmente per quantità, qualità dei com-
200 150 100 50 0 S18
Polifenoli totali (IFC) S20
S22
S25
200 150 100 50 0 S18
Antociani (mg/L) S20
S22
S25
3000 2500 2000 1500 1000 500 0 S18
Tannini mg/L S20
S22
S25
Influenza dell’epoca di maturazione sui polifenoli del vino Aglianico. Le epoche di maturazione sono state individuate in 4 livelli differenti di concentrazione zuccherina: 18, 20, 22, 25 °Brix (S18, S20, S22, S25)
520
aromi e polifenoli Evoluzione delle sostanze fenoliche durante la maturazione dell’uva Aglianico Conc.
Tannini dei vinaccioli
Antociani Estraibilità
Invaiatura
Foto Vivai Cooperativi Rauscedo
Tannini delle bucce
Maturazione Surmaturazione
posti polifenolici accumulati nella bacca e per loro estraibilità. Gestione della macerazione. Durante la lavorazione la fase critica e decisiva per la qualità del vino rosso è la macerazione. Questo complesso meccanismo è il risultato del contatto tra parti solide dell’uva e mosto durante la fermentazione e dei fenomeni di estrazione solido-liquido che l’accompagnano. Le condizioni che influenzano l’estrazione dei composti fenolici sono molto variabili e regolate essenzialmente dai seguenti fattori: la concentrazione dei composti nel frutto; la solubilità specifica nei solventi (acqua cellulare ed etanolo); l’entità della plasmolisi dovuta a effetti meccanici prodotti durante l’ammostatura e a effetti chimici (macerazione vera e propria); le interazioni fra i polifenoli e gli altri costituenti cellulari, quali le proteine, la cellulosa e altri poli-
Aglianico: su questo vitigno sono stati realizzati diversi studi sul profilo polifenolico
Foto P. Romano
Fattori che condizionano l’estrazione dei composti fenolici
• Concentrazione dei composti nella bacca
• Solubilità specifica nei solventi • Entità della rottura cellulare • Interazione tra polifenoli e altri costituenti cellulari
Macerazione delle vinacce
521
utilizzazione saccaridi, e con la parete cellulare del lievito. Risultano pertanto decisivi per l’entità della solubilizzazione delle sostanze fenoliche nel succo la temperatura, il numero e entità dei contatti tra fase solida e liquida (rimontaggi, follature, delestages ecc.), il pH, il tenore in etanolo, il tenore in SO2 e l’uso di enzimi pectolitici. La durata della macerazione e la temperatura di macerazione sono due tra i più importanti fattori in grado di regolare la diffusione dei costituenti fenolici dalle parti solide dell’uva alla fase liquida e, di conseguenza, influenzano notevolmente la qualità polifenolica del vino. Numerosi studi sono stati condotti al fine di valutare l’influenza di tali fattori sull’estrazione dei composti fenolici dalle bucce al mosto. I risultati di tali studi hanno messo in evidenza che l’intensità colorante e gli antociani sono risultati aumentati nei primi giorni, per poi diminuire col procedere della macerazione, mentre i tannini delle bucce vengono estratti durante l’intero periodo di macerazione. Solo quando il contenuto alcolico è sufficiente, vengono estratti i tannini dei semi. Elevate temperature di macerazione favoriscono l’estrazione delle sostanze fenoliche dalle bucce e dai vinaccioli, in quanto influenzano la permeabilità cellulare e la plasmolisi delle cellule. Ovviamente i risultati ottenuti, in termini di colore e composizione polifenolica del vino variano notevolmente in funzione della varietà di uva.
Foto P. Bacchiocchi
Vinificatori
Processi tecnologici post-fermentativi Mentre la conduzione della vinificazione è di fondamentale importanza ai fini dell’arricchimento del vino di sostanze estraibili, la gestione dei processi tecnologici post-fermentativi può determinare cambiamenti del contenuto di queste ultime. In tal senso la degradazione malolattica, il periodo di affinamento in legno e le operazioni di chiarifica intervengono nella stabilizzazione, nell’impoverimento e nella trasformazione delle sostanze estratte. Degradazione malolattica. La fermentazione malolattica costituisce un processo di particolare interesse biochimico in ambito enologico in quanto determina profondi cambiamenti delle caratteristiche chimiche del vino. Tra questi, il più importante è rappresentato dalla trasformazione dell’acido malico in acido lattico, attraverso un processo di decarbossilazione operato da batteri lattici comportando una riduzione dell’acidità del vino, con conseguente modifica dell’equilibrio gustativo. Per quanto concerne la frazione polifenolica del vino, bisogna considerare che il colore manifestato dagli antociani è una espressione del pH del mezzo in cui sono solubilizzati. Essi sono rossi in ambiente acido, blu in ambiente neutro o alcalino e gialli in ambiente fortemente alcalino. Il passaggio da una colorazione all’altra si realizza perché nei diversi ambienti intervengono delle modificazioni nella struttura 522
aromi e polifenoli delle molecole. La massima intensità di colore rosso si riscontra in ambiente fortemente acido (con pH minore di 3). A pH di poco superiore a 3, come può essere quello di un vino (pH compreso tra 3,2 e 3,8) si manifesta una certa attenuazione del colore rosso perché compaiono molte molecole di antociani dette pseudobasi, che sono incolori. Risulta pertanto evidente che varietà come il Pinot noir già poco dotate di antociani stabili, a differenza di varietà come l’Aglianico, ricco in antociani, è preferibile che non siano sottoposte a fermentazione malolattica al fine di non impoverire eccessivamente il colore e la relativa stabilità all’ossidazione di tale vino.
Affinamento in legno di Merlot e Sangiovese
• In letteratura sono riportati risultati
contrastanti riguardo l’influenza dell’affinamento in legno sulla densità ottica di vini Merlot e Sangiovese
• Essa risulta aumentata dopo
affinamento del vino Merlot in barriques di rovere, mentre secondo alcuni autori nel caso dell’affinamento in rovere del vino Sangiovese tutti i parametri del colore tenderebbero a diminuire
Affinamento in legno. L’invecchiamento del vino è un processo complesso, nel corso del quale oltre a modifiche del quadro aromatico, si verifica una diminuzione degli antociani liberi e un aumento dei pigmenti polimerici. Tali trasformazioni sono dovute a reazioni di condensazione tra antociani e flavanoli (o flavonoli). Il contatto del vino con il legno influenza tali reazioni per effetto di due fenomeni principali: la lenta dissoluzione dell’ossigeno che si verifica attraverso le doghe del legno e la cessione di ellagitannini dal legno al vino. La presenza di ossigeno porta alla formazione di perossidi, specie ossidanti altamente reattive, per cui vengono accelerate le reazioni di ossidazione che avvengono nel vino naturalmente, determinando una più rapida evoluzione del colore del vino verso una tinta più gialla. L’azione dell’ossigeno viene però contrastata dagli ellagitannini che il legno cede al vino. Tali molecole sono più facilmente ossidabili dei composti fenolici del vino e i loro derivati ossidati non determinano la produzione di componenti dal colore aranciato, per cui ossidandosi preferenzialmente rispetto ai composti fenolici del vino, prevengono l’evoluzione della tinta del vino verso il giallo. Tali reazioni dipendono fortemente dalla composizione polifenolica del vino.
• Tale differenza è da correlare alla
notevole ricchezza in polifenoli del Merlot rispetto al Sangiovese. Gli ellagitannini del legno hanno favorito, in un substrato ricco in polifenoli come il Merlot, la formazione di prodotti di condensazione antociani-tannini mediate dall’acetaldeide responsabili del colore blu-violetto del vino rosso. Nel caso del Sangiovese la minore concentrazione di polifenoli ha fatto si che le reazioni di ossidazione dominassero rispetto a quelle di formazione di pigmenti stabili
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la vite e il vino
utilizzazione Tecniche di vinificazione Mario Castino
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utilizzazione Tecniche di vinificazione Introduzione Contrariamente a quanto pensano i profani, la produzione del vino è un fenomeno molto complicato. Il fatto che sia stato sfruttato fin da tempi antichissimi, in modo in gran parte inconsapevole, nulla toglie alla sua complessità. Vediamo innanzi tutto cosa possiamo intendere per vinificazione: è il processo biotecnologico attraverso il quale la materia prima, cioè l’uva, viene trasformata in vino. Quando abbiamo parlato di processo biotecnologico, è stato proprio per attirare l’attenzione sul fatto che avvengono contemporaneamente sia interventi di organismi viventi, sia interventi umani, più propriamente tecnologici, che tendono a guidare, incanalare ed eventualmente a interrompere al momento opportuno, oppure a impedire del tutto i primi, al fine di conseguire il prodotto desiderato. Infatti il vino non può considerarsi un prodotto naturale, nel senso stretto del termine. È ancora da sottolineare che mentre lo scopo perseguito dall’intervento umano è ben chiaro ed evidente (fare del vino), gli scopi degli organismi che nel mosto o nel vino si sviluppano (lieviti e batteri) sono completamente diversi. Per essi tali mezzi sono solo una sorgente di energia per conseguire le finalità, del tutto inconsapevoli si intende, di ogni organismo vivente, vale a dire mantenere le proprie funzioni vitali, cioè sopravvivere, e appena possibile, moltiplicarsi, cioè aumentare la biomassa col proprio patrimonio genetico. Dall’accavallarsi di queste due serie di fattori sorge la difficoltà di una vinificazione razionale. In particolare, ogni modificazione della materia prima, dovuta sia al tipo di uva, sia all’andamento stagionale, comporta di riflesso la necessità di varianti più o meno notevoli negli interventi tecnici, per conseguire lo scopo di ottenere la bevanda con i requisiti richiesti. Nell’esporre poi i fenomeni che avvengono in vinificazione, è opportuno chiarire subito che, mentre le trasformazioni di ordine biologico rappresentano, pur nella loro complessità e nelle oscillazioni dovute alle condizioni esterne, una sorta di costante, dovuta all’invariabilità dei processi biochimici che le caratterizzano, i processi tecnologici mostrano una grandissima varietà.
Vinificazione
• È il processo biotecnologico attraverso il quale l’uva si trasforma in vino
Antico torchio su basamento di granito
Piccole cantine e grandi enopoli Nell’industria enologica sussistono, l’una accanto all’altra, unità di trasformazione delle dimensioni più svariate. Si passa dalla piccola cantina del privato che lavora poche decine di quintali di uva secondo i dettami della tradizione famigliare e quasi solo per l’autoconsumo, all’enopolio che riceve e vinifica in vendemmia decine o centinaia di migliaia di quintali con attrezzature imponenti. Benché apparentemente questi due tipi di aziende poco o nulla abbiano in comune, pure sono unite da un sostanziale sottofondo che è la costanza dei fenomeni biologici della trasformazione dei componenti dell’uva in quelli del vino. Pertanto, non bisogna mai
Botte di rovere nelle millenarie cantine dell’Abbazia di Fiastra, presso Macerata
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tecniche di vinificazione dimenticare che nella grande maggioranza dei casi, la complessa organizzazione e la spinta meccanizzazione di una grande industria enologica non è dovuta all’impiego di procedimenti differenti, ma solo alla necessità economica di potere fare fronte, con spese e rendimenti accettabili, alla trasformazione, conservazione e commercializzazione del prodotto, costituito da grandi volumi o con caratteristiche particolari. Da ciò ne consegue che la qualità del vino ottenuto non è funzione solo della tecnologia messa in opera, ma della comprensione e della razionale utilizzazione dei fenomeni che sono inerenti alla trasformazione dell’uva in vino. Si può benissimo vinificare razionalmente con pochi mezzi o condurre male una vinificazione disponendo di attrezzature complesse e costose. È però da osservare una cosa fondamentale: chi dispone di scarse possibilità tecniche e si lascia guidare dall’empirismo, dispone di un procedimento poco flessibile che non si adatta facilmente alla variabilità inevitabile sia della materia prima, sia delle richieste mutevoli del mercato, anche se, in alcuni casi, per il concorso di circostanze un poco fortuite, ottiene un buon prodotto. È evidente invece che un tecnico ben preparato, con a disposizione un’attrezzatura adeguata, può far fronte molto meglio alle differenti situazioni e agli imprevisti, intervenendo tempestivamente con mezzi opportuni per evitare evoluzioni sfavorevoli del processo di vinificazione o per indirizzarlo verso esiti più soddisfacenti.
Vendemmie diverse da un anno all’altro
• È sufficiente osservare la costituzione
di un acino di uva per renderci conto che, a seconda delle parti che utilizzeremo, ben diverso sarà il prodotto ottenuto. Per la vinificazione si può impiegare il solo mosto, o anche le bucce e i vinaccioli o ancora, in determinate circostanze, anche i raspi. Inoltre l’uva, prima ancora di essere ammostata, può essere sottoposta a trattamenti per disporla meglio alle trasformazioni che seguiranno, aumentando così il ventaglio dei processi possibili
Tipologie dei vini Vediamo ora nei particolari, anche se per necessità in modo sommario, i principali procedimenti di vinificazione. Poiché ogni tecnologia è funzione di uno o più scopi principali (nel nostro caso il tipo di vino da elaborare), pensiamo ragionevole raggruppare tali tecnologie secondo la tipologia dei vini ottenuti. Vinificazione in bianco Di norma, la prima operazione di una vinificazione in bianco è la separazione della fase liquida, cioè del mosto, dalle parti solide dell’uva (bucce, raspi, vinaccioli), Per conseguire questo scopo è necessario un intervento meccanico preliminare, detto ammostatura, che rompa la struttura dell’acino e predisponga l’uva così trattata all’intervento successivo, cioè la pressatura, che operando su di essa un’adeguata pressione, consenta di estrarre il più possibile della fase liquida, danneggiando il meno possibile i tessuti delle parti solide. Infatti in queste, accanto a sostanze che hanno un impatto positivo, ne sono presenti altre, fra quelle contenute nelle bucce, nei vinaccioli e nei raspi, che possono, se passano nel mosto a causa di azioni meccaniche troppo intense, compromettere seriamente la qualità del futuro vino. Proprio per salvaguardare al massimo le caratteristiche del mosto ottenuto, è consigliabile, per produzioni che si propongono di essere di qualità particolarmente elevata, la pres-
Vinificazione in bianco
• La tecnologia per la preparazione
dei vini bianchi di qualità, così come la conservazione di questa qualità durante un ragionevole spazio di tempo, risulta assai più delicata di quella dei vini rossi
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utilizzazione satura delle uve intere. In tal modo si riesce non solo a preservare al massimo l’integrità delle parti solide, ma si ottiene una migliore separazione fra il mosto che è contenuto nelle varie parti dell’acino, e che si distingue per differenti contenuti in acidità, zuccheri, sostanze minerali. Questo processo è tradizionale, per esempio, nello Champagne e nelle zone di produzione degli spumanti spagnoli Cava e si va diffondendo anche in Italia per gli eccellenti risultati che permette di ottenere. Le presse utilizzate possono essere, da un punto di vista meccanico, di tipi molto diversi; possiamo tuttavia distinguere in modo molto generale le presse cosiddette continue, da quelle discontinue. Molto schematicamente, nelle prime, l’uva previamente ammostata attraversa una sola volta un meccanismo che a mezzo di una vite elicoidale la sottopone a pressioni crescenti. Anche se molto migliorate rispetto a quelle in uso qualche decennio addietro, inevitabilmente, la combinazione del moto rotatorio e della pressione sottopone il pigiato a un’azione meccanica piuttosto energica e il mosto ottenuto non è di caratteristiche tali da poterlo considerare adatto a produzioni di qualità superiore. Peraltro, la lavorazione in continuo e la buona resa rendono queste presse assai economiche e quindi adatte per cantine che devono lavorare grandi quantitativi di vendemmiato di media qualità. Nelle presse discontinue, invece, il pigiato (o l’uva intera) viene introdotta in una gabbia cilindrica forellata, all’interno della quale agiscono dei piatti calettati su un vitone e che si avvicinano fra loro mentre la gabbia ruota, oppure delle tasche di gomma o di plastica speciale gonfiate dalla pressione di aria o di acqua. Terminato il processo, le parti pressanti vengono allontanate (o sgonfiate), la vinaccia sgretolata con opportuni interventi e il processo di pressatura viene ripetuto più volte, fino a ottenere la voluta percentuale di mosto. Il poter separare il liquido delle diverse pressate, operate a pressioni crescenti, consente di separare fra loro frazioni di composizione via via meno adatta per ottenere prodotti di eccellenti qualità e quindi il tecnico ha una maggiore elasticità nello scegliere a quale finalità avviare le varie aliquote. Il mosto così ottenuto non viene di norma avviato alla fermentazione nello stato in cui di trova, per i motivi che vedremo subito, ma sottoposto a un processo di illimpidimento, detto sfecciatura. Come abbiamo appena illustrato, per separare la fase liquida, costituita dal mosto, dal complesso del grappolo, è necessario disgregarne la struttura a mezzo di interventi meccanici. Inevitabilmente, a seguito di essi, nel liquido ottenuto si troveranno in sospensione numerosissime particelle di diversa origine e grandezza. Esse comprendono sia frammenti dei tessuti vegetali della buccia e della polpa, sia particelle di origine estranea all’uva, quali residui terrosi, di anticrittogamici e così via. L’esperienza ha dimostrato che questo insieme di impurezze di composizione chimica svariata incide negativamente sulla composizione del vino ottenuto, per cui è consigliabile allontanarlo in gran parte. Questo può
Vino bianco
• Nella maggior parte dei casi per
produrre i vini bianchi si utilizzano uve bianche, ma è del tutto possibile, adottando una tecnologia opportuna, produrre vini bianchi da uve rosse. Questo perché i coloranti delle uve si trovano (salvo rarissime eccezioni) soltanto nelle bucce e quindi estraendo con procedimenti meccanici delicati il solo succo, che è incolore, il prodotto finale è appunto un vino bianco
• Le dimensioni sensoriali di un vino bianco sono principalmente due: profumo e freschezza
Foto R. Angelini
Pigiatrice
Sfecciatura
• Consiste in un’operazione di
illimpidimento del mosto prima che esso venga avviato alla vinificazione
• La sfecciatura del mosto rappresenta una premessa indispensabile per la qualità di un vino bianco
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tecniche di vinificazione avvenire con diversi procedimenti, classificabili in due gruppi principali: la sfecciatura statica, che prevede semplicemente il depositarsi delle particelle in sospensione nel mosto lasciato a riposo, eventualmente addizionato di coadiuvanti che hanno lo scopo di rendere più sollecita e completa tale operazione, oppure processi di sfecciatura cosiddetta dinamica, quali la centrifugazione, la filtrazione o la flottazione. In ogni caso è necessario ritardare l’inizio dei fenomeni fermentativi a opera dei lieviti, sia con l’aggiunta di dosi opportune dell’unico antisettico legalmente permesso (diossido di zolfo) o abbassando la temperatura a livelli di sicurezza. Il mosto sufficientemente illimpidito viene aggiunto di lieviti selezionati che sono gli organismi che condurranno la fermentazione, cioè la trasformazione degli zuccheri in alcol e anidride carbonica, più una numerosissima serie di cosiddetti prodotti secondari, che contribuiscono notevolmente alle proprietà sensoriali del vino. Il processo fermentativo è costituito da un susseguirsi di reazioni biochimiche estremamente complicato e la cui esaustiva comprensione ha richiesto molto tempo e l’impegno di grandi scienziati. La sua stessa complessità apre un ventaglio di possibilità per modificarlo e incanalarlo in vario modo, in funzione delle necessità e delle finalità che si desiderano ottenere. Tuttavia, alcuni interventi sono giudicati indispensabili per ottenere un prodotto qualitativamente ottimale, tenendo presente che, col procedere della fermentazione, i lieviti si trovano in condizioni sempre più difficili, per l’aumento della gradazione alcolica, per il venire meno dei fattori nutritivi indispensabili, per la produzione di sostanze inibenti da parte dei lieviti stessi. In particolare, l’addizione di nutrienti in dose opportuna e il controllo della temperatura, mantenendola a livelli ottimali e quindi non superiori ai 20 °C con impianti di refrigerazione, sono le premesse per ottenere, a parità di materia prima, i migliori risultati. In particolare, in queste condizioni aumenta da parte dei lieviti la produzione di esteri, sostanze profumate che contribuiscono ai profumi floreali e fruttati del vino giovane. Peraltro, tali esteri non hanno una lunga persistenza nel tempo, ed è questa circostanza che rende, di norma, consigliabile consumare i bianchi piuttosto presto. Al termine della fermentazione, cioè quando tutti gli zuccheri contenuti nel mosto sono stati trasformati dalla popolazione dei lieviti, il vino ottenuto viene separato dalle fecce di fermentazione, costituite dai lieviti ormai morti e dalle numerose sostanze che si sono insolubilizzate nel corso della fermentazione stessa. Infatti, in tale deposito, se lasciato a contatto col vino, potrebbero innescarsi reazioni indesiderate e fonte di gravi difetti sensoriali. Il vino grezzo così ottenuto inizia il suo ancora lungo percorso di stabilizzazione sia chimico fisica, sia biologica, per acquisire quelle caratteristiche di aspetto e di proprietà organolettiche richieste dal mercato e per esprimere compiutamente tutte le potenzialità che la materia prima è in grado di produrre.
Foto E. Marmiroli
Foto E. Marmiroli
Apparecchiatura per l’illimpidimento dei vini
Lieviti della vinificazione
• Un lievito selezionato deve possedere qualità enologiche ben precise per sfruttare al meglio le condizioni predisposte dall’enologo
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utilizzazione Vinificazione in rosso Tale tipo di vinificazione è quella adottata per la produzione dei vini rossi, nel qual caso è necessario trasferire nel prodotto ottenuto, almeno in parte, i coloranti contenuti nella bucce dell’uva, coloranti detti antociani. Schematizzando all’eccesso, ciò si ottiene facendo restare in contatto per un tempo più o meno lungo col mosto in fermentazione le parti solide dell’uva e sfruttando l’aumento di temperatura che si sviluppa spontaneamente dalla fermentazione degli zuccheri (la cosiddetta macerazione). Prima però di iniziare a illustrare la tecnologia vera e propria della vinificazione in rosso, è opportuno inquadrare i problemi generali che questa tecnologia comporta, per comprenderne meglio le linee evolutive e le sue difficoltà caratteristiche. I vini ottenuti per fermentazione in presenza delle bucce e, eventualmente, dei raspi, cioè i vini rossi, sono considerati di elaborazione più facile e meno delicata dei bianchi. Questa convinzione, anche se presenta qualche aspetto di indubbia fondatezza, è d’altra parte ingannevole. È verissimo che, a meno di errori o trascuratezze grossolane, è difficile compromettere del tutto le caratteristiche positive dell’uva di partenza. Anche gli effetti di modeste oscillazioni nei tempi e nelle temperature di macerazione tendono col tempo a livellarsi verso una qualità media, tipica del prodotto impiegato. Ma, rovesciando i termini della questione, data una certa materia prima, non è cosa facile ottenere il migliore prodotto possibile. L’accennata maggiore robustezza del processo di vinificazione non deve infatti farci dimenticare l’altra faccia del problema e cioè l’estrema complessità del prodotto di partenza. Pur tralasciando i raspi, che di norma vengono allontanati con apposite attrezzature dette pigiadiraspatrici, basta riflettere su tutte le sostanze apportate dalle bucce per rendersi conto che abbiamo a che fare con un patrimonio ricchissimo non solo dal lato quantitativo, ma anche qualitativo, numerico, di composti che, dalle parti solide, passano nel mosto in fermentazione in percentuali variabili in funzione dei tempi, delle temperature e delle agitazioni meccaniche, cui tali parti solide sono sottoposte. Ne rammentiamo i principali: gli antociani, fondamentali non solo per il colore del vino, ma anche per la sua evoluzione nel tempo; i tannini, responsabili dell’astringenza, ma anche della struttura, del corpo del vino; i colloidi, soprattutto le pectine, destinate in gran parte a scindersi nei loro componenti, i quali però restano nel vino, arricchendolo della loro presenza; le sostanze minerali, di cui le bucce sono assai più ricche del succo, che salificano e quindi smorzano l’eventuale eccesso di acidità. Infine, pur presenti in piccola quantità, tutti quei componenti detti precursori di aroma, in gran parte ancora sconosciuti, che caratterizzano il tipo di prodotto. Precursori dei profumi caratteristici che se presenti in misura adeguata, come nelle uve ben mature per esempio, ci fanno riconoscere immediatamente un determinato tipo di vino, identificandolo fra molti altri. Si può quindi affermare, semplificando un poco la realtà e trascurando alcuni aspetti comunque importanti,
Vinificazione in rosso
• Per la produzione del vino rosso è estremamente importante la caratterizzazione delle uve
• Pigiati di vitigni neutri diversi sono indistinguibili all’olfatto, ma i vini ottenuti sono ben differenziabili
Foto C. Cangero
Fase iniziale del processo di vinificazione dopo la pigiatura
Colore e tannini
• La colorazione
e il contenuto in tannini rappresentano un importante patrimonio dei vini rossi che spesso richiede tempo per fruttare gli interessi attesi
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tecniche di vinificazione che se il vino bianco è figlio della tecnologia, al contrario il vino rosso è figlio innanzi tutto del vigneto, nel senso che prevalgono due fattori principali a esso attinenti: la resa di produzione (che se eccessiva mortifica la tipicità e le potenzialità di espressione del prodotto) e il grado di maturazione delle uve. Venendo ora alla tecnologia vera e propria, in molte cantine domina ancora la cosiddetta vinificazione tradizionale: il pigiato viene introdotto in un recipiente di dimensioni variabili da pochi a centinaia di ettolitri o più, e quando ha inizio la fermentazione il gas carbonico che comincia a svilupparsi porta e compatta verso l’alto le parti solide presenti, formando il cosiddetto cappello. Questo cappello, in cui più elevati sono la temperatura e gli scambi col mosto in fermentazione, a opportuni intervalli va rotto e rimescolato con la massa liquida, per rendere più efficaci ed omogenei i fenomeni di cessione delle sostanze caratteristiche delle bucce, con operazioni dette follature. Queste possono essere eseguite manualmente, pur con fatica, solo in vasche di piccole dimensioni; se il volume della vasca è maggiore occorrono mezzi meccanici opportuni o l’impiego di pompe che prelevano la fase liquida dal basso e la irrorano sul cappello. Quando è trascorso il tempo giudicato opportuno dal tecnico in funzione del prodotto che desidera ottenere, che può variare da pochi giorni ad alcune settimane, si procede alla svinatura, cioè alla separazione del vino ormai pronto dalle parti solide esaurite o vinacce, che saranno poi opportunamente pressate per estrarne gran parte del liquido che le impregna. Quello che ora ci preme sottolineare di questa semplice tecnologia e che costituisce il suo difetto principale, è la sua rigidità. Idoneo per un tipo medio di vendemmia, non si adatta facilmente alle svariate tipologie, che si richiedono oggi a una cantina, e alle oscillazioni stagionali di composizione inevitabili da un’annata all’altra. Ne consegue che l’ottenimento della migliore qualità possibile è spesso opera del caso, più che di una adeguata programmazione per sfruttare al meglio l’uva a disposizione. Quindi, una moderna attrezzatura per vinificazione con macerazione deve tendere a due scopi prioritari. Il primo è una spinta meccanizzazione di tutte le operazioni di trasporto e di trattamento delle uve, del pigiato e delle vinacce. Il secondo scopo è l’eliminazione di quella rigidità di processo cui abbiamo prima accennato, sforzandosi di sostituirla con una maggiore elasticità, particolarmente per quanto riguarda il controllo del tipo e dei tempi di contatto fra mosto in fermentazione e parti solide e della temperatura di macerazione. Sono questi, infatti, i due fattori fondamentali per padroneggiare l’estrazione degli antociani e dei tannini dalle bucce, in funzione della materia prima. È questo un contesto in cui anche il profano può essere affascinato dalla complessità dei problemi da affrontare. In tale campo, la fantasia e l’inventiva dei costruttori si è sbizzarrita nel concepire le attrezzature più svariate, ma questo rende difficile la scelta da parte del tecnico, che va
Principali composti trasferiti dalle bucce al mosto
• Antociani • Tannini • Colloidi • Sostanze minerali • Precursori di aroma Foto A. Scienza
Foto R. Angelini
Esempi di vasche per la vinificazione
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utilizzazione fatta riflettendo bene sugli scopi da conseguire, senza sacrificarli alla comodità o a economie apparenti: una scelta errata all’inizio può compromettere la commercializzazione di molte vendemmie, questo tanto più vero quanto più elevato è lo standard qualitativo a cui la cantina deve adeguarsi. Traducendo quanto sopra in gergo economico, l’innovazione di processo ha rischi temporali elevati, essendo lungo il ciclo di eventi economici cui si applica, quindi più dilazionata la verifica del successo dell’innovazione. Come nel caso dei vini bianchi, il vino rosso grezzo ottenuto, quale che sia il procedimento adottato, andrà incontro a un periodo ancora piuttosto lungo di stabilizzazione e di ulteriori trasformazioni molto importanti, che vanno attentamente seguite e padroneggiate. Particolarmente importante è la trasformazione, a opera di particolari batteri, dell’acido malico in acido lattico, con sostanziale miglioramento di molte sue caratteristiche. Per i vini di consumo corrente, dopo questa fermentazione malolattica, può iniziare quell’insieme di operazioni di illimpidimento e stabilizzazione finali per presentare il vino sul mercato. Per i prodotti di più elevato standard qualitativo la strada è ancora lunga. Va infatti tenuto presente che il complesso dei coloranti e delle sostanze tanniche presenti nel vino rosso necessita di molti mesi per compiere tutta una serie di lente reazioni chimiche assai complesse di condensazione e di evoluzione che porteranno infine il prodotto a una relativa stabilità sia del colore, sia delle sue caratteristiche gustative e olfattive. Per conseguire questo risultato, per i rossi che si prestano per la loro composizione e per le caratteristiche dell’uva di partenza a un prolungato invecchiamento, occorrono spesso anni di affinamento in condizioni particolari, quali per esempio il soggiorno in botti di legno di rovere, dove una lenta ossidazione a opera dell’aria che permea attraverso le doghe si coniuga con la cessione di sostanze aromatiche particolari che, se in tenori non eccessivi e ben amalgamate, contribuiscono a rendere più complesso e gradevole il suo profumo.
Foto C. Cangero
Lavorazioni in cantina
Foto R. Angelini
Foto R. Angelini
Antico torchio in legno Piccole botti di invecchiamento
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tecniche di vinificazione Vini rosati Esaminando i vini rosati attualmente in commercio si può osservare come in pratica esista un ampia gamma di vini definiti rosati, che spazia dai vini bianchi appena macchiati, ai rosati propriamente detti, ai cerasuoli, ai chiaretti, mano a mano che la sfumatura rosso-rosata si manifesta in maniera più evidente. Questa varietà è favorita anche dal fatto che, dal punto di vista delle caratteristiche cromatiche, non esiste una definizione legale di tali vini. Nondimeno, i rosati rappresentano una categoria che, nonostante l’apparenza, è più affine ai bianchi, per il corpo modesto, la freschezza acida, il profumo fruttato. Necessitando l’elaborazione di rosati di qualità un particolare rapporto fra le sostanze coloranti e quelle tanniche, ne consegue che non tutte le uve consentono di ottenere rosati di buone caratteristiche. I fattori caratterizzanti della tecnologia dei rosati sono quelli correlati alla diffusione e alla solubilizzazione di alcuni componenti delle parti solide, in particolare antociani e componenti del profumo, se presenti, evitando un arricchimento eccessivo in frazioni tanniche facilmente ossidabili. Esaminiamo ora le tecniche più diffuse per condurre in modo razionale queste operazioni. Vinificazione per semplice pressatura: se si dispone di uve ben mature e sufficientemente colorate, è possibile una vinificazione senza contatto con le parti solide. In questo caso le uve vengono pigiate, quindi si separa il mosto per semplice sgrondo e successiva pressatura soffice. Poiché il patrimonio antocianico delle uve è spesso variabile da una vendemmia all’altra, è difficile con questo procedimento ottenere un prodotto con sufficiente costanza nel corso degli anni. Vinificazione con breve macerazione: qualora le uve si presentino non eccessivamente colorate, in relazione alla caratteristiche proprie del vitigno, è necessario far avvenire, prima della pressatura, una breve macerazione con le parti solide. In queste condizioni, il passaggio degli antociani nel mosto può essere più o meno sensibile, in funzione di numerosi fattori, ma quelli su cui più agevolmente può operare il tecnico sono essenzialmente tre: l’entità della solfitazione, il tempo di contatto e la temperatura. In particolare operando a temperatura inferiore ai 10 °C sarebbe possibile arricchire selettivamente il mosto in sostanze coloranti e in aromi varietali senza un’eccessiva solubilizzazione di tannini. Questo comporta però la necessità di disporre di un’adeguata capacità frigorifera in funzione della massa da trattare e l’inevitabile aggravio economico rende conveniente questa tecnologia solo nel caso le prospettive di commercializzazione la giustifichino. Il mosto colorato ottenuto viene poi vinificato fondamentalmente secondo le modalità già illustrate per i vini bianchi, per cui non ci ripetiamo. Anche per i rosati, un consumo in tempi brevi è consigliabile, soprattutto per la rapida evoluzione del colore verso tonalità aranciate poco gradite dai consumatori.
Vini rosati
• I vini rosati rappresentano una realtà
giovane, variegata e in continua espansione e hanno recentemente ampliato notevolmente il loro mercato, così da meritare particolare attenzione da parte di molti produttori
• Secondo la definizione legale,
i vini rosati sono vini ottenuti per vinificazione di uve rosse, o di una miscela di uve rosse e bianche, senza o con breve contatto con le parti solide. È quindi vietato il taglio fra vini rossi e bianchi
Foto C. Cangero
Cisterne in acciaio
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utilizzazione Vini spumanti I procedimenti per l’elaborazione dei vini spumanti sono numerosi; tuttavia, semplificando, si possono suddividere in due gruppi principali: – rifermentazione di zucchero aggiunto a un vino base secco. Rifermentazione che può avvenire sia in bottiglia (metodo classico), sia in grandi recipienti, resistenti ovviamente alla pressione, detti autoclavi; – rifermentazione di parte dello zucchero naturale presente in un mosto o in un semifermentato. Questo procedimento, eseguito sempre in autoclavi, è particolarmente utilizzato per la preparazione di spumanti aromatici e dolci. La legge consente però di addizionare saccarosio anche in questi casi, per motivi pratici su cui non ci soffermiamo. Illustreremo con qualche maggiore particolarità il processo di rifermentazione in bottiglia, che è anche quello di più antica tradizione e che presenta il maggiore interesse per il profano, dal momento che tutti gli altri ne sono derivati o adattamenti. La qualità dell’uva impiegata, importante per tutte le vinificazioni, assume, nel caso degli spumanti, un’importanza del tutto particolare per la qualità del prodotto finito e in particolare per: la capacità di fornire una schiuma fine e persistente, proprietà olfattive e gustative fresche, fruttate ed equilibrate, assenza di caratteri erbacei e amari e propensione a evolvere favorevolmente per un buon arco di tempo. La preparazione del vino base nell’industria spumantistica è di fondamentale importanza e, pur non discostandosi da una razionale vinificazione in bianco, richiede cure minuziose per ottenere un
Spumanti
• Sotto la definizione di spumanti si
riuniscono numerosi prodotti di cui quasi ogni regione viticola possiede uno o più esempi, che presentano un’effervescenza più o meno intensa dovuta allo sviluppo di anidride carbonica e la cui sovrapressione all’atto della commercializzazione deve essere almeno di 3,5 bar a 20 °C
• Gli spumanti, per distinguersi
immediatamente dagli altri vini, devono essere confezionati in bottiglie munite di un capsulone di stagnola e con tappo comunque ancorato
• Per uno spumante, la qualità della
materia prima è discriminante: nessuna tecnologia può apportare ciò che non c’è
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tecniche di vinificazione prodotto irreprensibile, che servirà da premessa, di base appunto, per costruire un delicato equilibrio successivo. Nella tecnologia spumantistica è di uso corrente una terminologia francese, che si è ormai imposta universalmente ed è, in pratica, insostituibile. Il volume di vino destinato alla preparazione di una partita di spumante è tradizionalmente definito cuvée. Presa di spuma: la prima operazione è il cosiddetto tirage, che consiste nel mettere nelle bottiglie il vino della cuvée, aggiunto della opportuna quantità di zuccheri e dei lieviti necessari alla rifermentazione che produrrà l’anidride carbonica. Tali lieviti devono avere delle caratteristiche particolari, dovendo operare in un mezzo già ricco di alcol, a bassa temperatura e a pressioni crescenti. Si addizionano di solito anche dei coadiuvanti che hanno lo scopo sia di facilitare la fermentazione, sia la riunione e il compattamento del deposito, prima del suo allontanamento. Le bottiglie tappate vengono poste orizzontalmente in gabbioni da 500 bottiglie e qui restano per tutto il tempo della fermentazione, cioè per 4-6 settimane. Una temperatura piuttosto bassa (da 10 a 15 °C) è favorevole a una migliore qualità e a una spuma più fine. Terminata la fermentazione le bottiglie vengono poste in cataste e lasciate affinare per un tempo variabile, talvolta per alcuni anni in cantine a temperatura bassa e costante. Rémuage e sboccamento: si tratta di operazioni meccaniche che hanno lo scopo di compattare ed estrarre il deposito formato dai lieviti e dai coadiuvanti, riducendo al minimo la perdita di
Bottiglie in diverse fasi del processo di spumantizzazione
Foto A. Scienza
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utilizzazione Foto E. Marmiroli
pressione. Il rémuage era praticato un tempo a mano da operai specializzati. Con movimenti ripetuti e riposizionando la bottiglia col collo in basso, a inclinazioni via via crescenti si riusciva a portare sul tappo tutto il deposito. Questa operazione viene ora eseguita quasi universalmente con procedimenti automatici programmati da computer, che ottengono il medesimo risultato molto più rapidamente e in modo altrettanto efficace. Quando tutto il deposito è riunito vicino al tappo, si procede al suo allontanamento. Innanzi tutto il collo della bottiglia è immerso in una miscela frigorifera che provoca il congelamento della porzione di vino che contiene il deposito. Togliendo il tappo la pressione interna provoca l’eiezione del blocco di ghiaccio. Si livella quindi il contenuto, si introduce la liqueur d’expédition e si ritappa col tappo di sughero a fungo caratteristico. Questa liqueur è una soluzione di zucchero in vino vecchio, aggiunto eventualmente di piccole quantità di acquaviti pregiate, e ha lo scopo di ammorbidire il gusto del prodotto, che se del tutto secco non sarebbe gradito alla maggioranza dei consumatori. Chiariti i passi principali della fabbricazione degli spumanti secondo il metodo classico, non sarà difficile comprendere gli scopi di altri procedimenti che si propongono di semplificare e rendere più economico il processo. In particolare, la rifermentazione in autoclave è applicata a vini che vengono inviati al consumo in tempi assai più brevi che non quelli ottenuti con il metodo precedente. I motivi sono diversi, tecnici e commerciali, spesso correlati fra loro. Innanzi tutto questi spumanti si collocano in una fascia di prezzo molto più contenuto, dal momento che il risparmio ottenuto con la semplificazione del procedimento e la riduzione dell’immobilizzo di capitale è importante. Tecnicamente poi, non vi è la necessità di attendere la stabilizzazione naturale del prodotto, dal momento che il vino, al termine della seconda fermentazione, viene centrifugato o filtrato. Nell’elaborazione di questa tipologia di spumanti si utilizzano vini il cui ciclo di maturazione non è molto prolungato e che conseguono il loro livello sensoriale migliore entro un arco di tempo limitato. Questo vale in particolare per i prodotti dolci e aromatici (Asti, Prosecco, Malvasie). Va infine sottolineato che la spumantizzazione in autoclave consente di ottenere partite anche molto consistenti di prodotto del tutto omogeneo, mentre è inevitabile che ogni bottiglia rifermentata separatamente costituisca un poco un caso a sé, il che non è sempre un vantaggio.
Progressiva inclinazione delle bottiglie: con l’operazione di rémuage la feccia contenuta nella bottiglia si concentra nel tappo
Procedimenti per l’elaborazione dei vini spumanti
• Rifermentazione di zucchero aggiunto a un vino base secco
• Rifermentazione di parte dello zucchero naturale presente in un mosto o in un semifermentato
Foto E. Marmiroli
L’operazione di rémuage può essere eseguita manualmente da personale esperto oppure con l’ausilio di apposite attrezzature
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tecniche di vinificazione Vini dolci I vini dolci propriamente detti possono suddividersi in due categorie. Alla prima appartengono quei vini in cui la fermentazione appena iniziata viene rallentata e poi interrotta allontanando i lieviti con opportuni interventi di filtrazione o di centrifugazione, stabilizzando poi eventualmente il prodotto con un’inattivazione termica. Eredi di prodotti di carattere famigliare o artigianale molto diffusi in certe regioni, sono soprattutto elaborati con mosti da uve aromatiche, per esempio i vari Moscati, Malvasie, Brachetti e così via. Adatti al consumo con i dessert, sono graditi soprattutto dai giovani e dalle signore, per il loro basso contenuto alcolico. Una seconda tipologia riguarda invece i vini dolci liquorosi, ottenuti da mosti di uve più o meno appassite e quindi con un rilevante contenuto zuccherino, la cui fermentazione lenta e difficile o si arresta spontaneamente, oppure viene arrestata con interventi di refrigerazione o filtrazione, seguiti poi da un’opportuna stabilizzazione biologica a mezzo di dosi convenienti di diossido di zolfo, stabilizzazione resa più facile dalla contemporanea presenza di un’elevata gradazione alcolica e di un notevole residuo zuccherino. Attualmente, i processi di filtrazione sterilizzante hanno reso possibile ottenere vini stabili senza aggiunte eccessive di antisettico. Il numero e la varietà di questi vini è veramente notevole; per la loro produzione si utilizzano normalmente uve bianche, ma non di rado anche rosse, sia neutre, sia aromatiche e la loro elaborazione si è ormai diffusa in tutte le zone vitivinicole, anche in quelle in cui è più recente la coltivazione della vite, quali l’Australia e il Sud Africa. È impossibile riassumere l’enorme ventaglio delle tecnologie particolari adottate nei vari casi, ma i prodotti ottenuti rappresentano per l’enofilo spesso una sorpresa gradita e sempre rinnovata.
Vini dolci, vini abboccati e passiti
• Nel caso che non tutti gli zuccheri
presenti nel mosto di partenza subiscano la fermentazione, il prodotto ottenuto può risultare più o meno dolce
• Intermedi fra i vini dolci e i vini secchi,
si può porre la categoria dei vini abboccati, nei quali il tenore zuccherino oscilla fra i 5 e i 10 g/l, categoria che ha i suoi estimatori, ma che di norma viene ottenuta addizionando piccoli volumi di mosto o di mosto concentrato a un vino secco
• I vini dolci liquorosi sono ottenuti da
mosti di uve più o meno appassite, da cui l’indicazione di passiti per questa categoria
Ambiente per l’appassimento di uve per ottenere il passito
Foto A. Scienza
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la vite e il vino
utilizzazione Distillati Roberto Zironi
www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.
utilizzazione Distillati Introduzione La distillazione, per la fisica, è quell’operazione che consente di separare due composti aventi volatilità diversa mediante la trasformazione dei medesimi in vapore e la successiva condensazione. Per i distillatori di prodotti vinosi le cose sono più complicate perché di sostanze a diversa volatilità da separare, nei fermentati, non ne ha solo due, ma alcune centinaia. Per loro la distillazione ha quindi una definizione diversa: è quell’operazione che consente di liberare dal fermentato i componenti volatili, concentrando la frazione alcolica e le sostanze aromatiche di pregio, separandole poi da quelle di cattiva qualità, al fine di ottenere una bevanda organoletticamente gradevole. La distillazione dei prodotti vinici vanta una storia antica che risale all’epoca degli alchimisti. Alcol ci viene dall’arabo al-kuhl che sta a indicare una sostanza impalpabile, spirito di vino. A usare per primo il sostantivo lambicco (da al-anbiq, cioè il recipiente, a sua volta derivato dal greco ambix) fu il medico filosofo arabo Rhases vissuto nel IX secolo d.C. Gli arabi iniziarono la conquista sistematica della Sicilia intorno all’827; combatterono l’uso del vino, ma favorirono la coltivazione dello Zibibbo e, di certo, perfezionarono, se non addirittura introdussero, la pratica della distillazione del vino e della vinaccia per ricavarne lo spirito di vino. Acqua di vita è una tra le tante definizioni dello spirito del vino, forse la più bella: acqua della vita. Questa definizione la dobbiamo ad Arnaldo da Villanova che, nel XIII secolo, nel suo trattato
Distilleria dell’800
Antica distilleria
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distillati De vinis afferma che certi re facevano aggiungere ai loro vini l’acquavite, in varie dosi, per differenziarli nella qualità, segno che dell’acquavite se ne faceva già grande uso. Anche Leonardo da Vinci si occupò della distillazione, lasciandoci il disegno di vari alambicchi e la formula di un suo elisir. Giovanni Battista Della Porta (1535-1615) nel trattato De distilationibus descrive non soltanto gli apparecchi, ma anche le tecniche della distillazione del vino. La storia della distillazione a questo punto diventa quasi cronaca e dobbiamo ricordare il brevetto nel 1801 del distillatore a collo di cigno o charentaise e nel 1831 del primo distillatore a colonna. Abbiamo così davanti i due sistemi classici di distillazione del vino per la produzione dell’acquavite: l’alambicco a collo di cigno (distillazione discontinua) e quello a colonna (distillazione continua). Attualmente, in Italia, la produzione dei distillati vinici è diversificata in diverse tipologie che prevedono particolarità impiantistiche che verranno descritte nelle pagine seguenti. Da un punto di vista prettamente statistico possiamo rilevare che nel quinquennio 20012005 si sono prodotti mediamente, 130.000 ettanidri di acquavite di vino e Brandy, 112.000 ettanidri di Grappa e 5.400 ettanidri di acquavite d’uva.
Distillazione a caldaiette
Cognac
• Arzente e Brandy, ma prima si
Acquavite di vino e Brandy Italiano La legislazione europea (Regolamento CEE n. 1576/89) distingue tra Brandy e distillato di vino o acquavite di vino. Il Brandy è il prodotto derivante da “acquaviti di vino in assemblaggio o no con un distillato di vino distillato a meno di 94,8 % vol, a condizioni che tale distillato non superi il limite massimo di 50% in grado alcolico del prodotto finito”. A questa regola deve sottostare anche il Brandy Italiano, che acquisisce la denominazione geografica nel momento in cui le operazioni che inducono i suoi caratteri sensoriali definitivi sono condotte sul territorio nazionale. L’acquavite di vino è ottenuta “esclusivamente dalla distillazione a meno di 86% vol di vino, di vino alcolizzato o dalla ridistillazione a meno di 86% vol di un distillato di vino”. La denominazione “acquavite di vino” può essere utilizzata commercialmente se la durata dell’invecchiamento è pari o superiore a quella prevista per il Brandy. La storia della produzione italiana del distillato di vino ci riporta, secondo i documenti ufficiali, al 15 novembre 1583, quando il duca Carlo Emanuele I di Savoia concesse a Orazio Senese l’esclusiva per la produzione e il commercio dell’acquavite di vino entro i suoi possedimenti. A Venezia, nel 1601, fu costituita la congrega della Università degli Acquavitai. Al sud, nel napoletano in particolare, l’industria dell’acquavite di vino era non meno fiorente. Doveva la sua esistenza e la sua prosperità alle sperimentazioni favorite dalla Scuola Salernitana e ben presto sorsero distillerie in tutto il mezzogiorno, dalla Campania alla Puglia, per non parlare della Sicilia dove l’acquavite di vino era normalmente usata per
chiamava Cognac. Al termine della seconda guerra mondiale fu firmato un accordo tra l’Italia e la Francia (29 maggio 1948) in base al quale l’Italia rinunciava alla denominazione di Cognac, che veniva riservata ai soli distillati di vino della Charente
Mastri distillatori
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utilizzazione alcolizzate, per rafforzare quei vini che dovevano dare origine ai perpetui e poi ai Marsala. Nel 1773 Vittorio Amedeo III di Savoia disciplinava il commercio di “qualunque sorta di acquavite, di acquarzente, di acquaconcia e simili che si vorranno introdurre o vendere in questa città di Torino o nel suo territorio e anche estrarla fuori”. Arzente è un nome che ritroviamo spesso associato a quello dell’acquavite di vino. Arzente dei frati era il nome con il quale nell’alto medioevo i frati di Monticchio (Fondi) chiamavano la loro acquavite di vino. All’inizio del XX secolo, D’Annunzio propose per denominare l’acquavite di vino il termine Acquarzente, abbreviato in Arzente. Nella legge del 1951 n. 1559, all’articolo 4 tra le denominazioni consentite appare quella di Arzente, mentre Brandy appariva, quasi come aggiunta, all’articolo 14. Ma la denominazione di Arzente non ebbe fortuna. Arzente, anche se antico, è un nome nuovo, difficile da pronunciare almeno nel mondo anglosassone; Brandy è un nome accreditato, e i produttori italiani, nel momento della scelta puntarono non soltanto sul mercato nazionale, ma anche su quello estero. Il 26 aprile del 1956 venne data vita all’Istituto Nazionale per la Difesa del Brandy Italiano. Tradizionalmente il Brandy Italiano era prodotto, analogamente al cugino d’oltralpe, il Cognac, utilizzando alambicchi di tipo discontinuo. Oggi il Brandy si ottiene distillando il vino con impianti continui dotati di diverse colonne tra cui la colonna di demetilizzazione, dotata di un numero elevato di piatti, che riduce il tenore in metanolo, ma che elimina anche componenti volatili di interesse dal punto di vista organolettico. La composizione chimica dei Brandy, a causa della materia prima utilizzata e delle modalità di produzione adottate, presenta quindi meno componenti volatili rispetto al Cognac. Il Brandy è il superalcolico nazionale che ha subìto la maggiore distruzione grazie alla volgarizzazione tecnica, produttiva e di immagine voluta dall’industria. Da anni i consumi stanno affievolendosi e non accennano a una ripresa. Nella tradizione italiana il vino da distillare per ottenere un prodotto di qualità deve possedere alcune caratteristiche peculiari. Si richiede una forte acidità totale (superiore agli 8 g/l) e un basso tenore in alcol (inferiore ai 10% vol). Le principali varietà di uva utilizzate sono quindi quelle tipiche della Pianura padana tra cui primeggiano i trebbiani. Nella vinificazione è da evitare l’utilizzo di presse in grado di produrre elevata fecciosità o schiacciamento dei raspi e dei vinaccioli. Il mosto è fermentato senza aggiunta di anidride solforosa. Entro l’inverno successivo alla produzione, il vino viene distillato insieme alle fecce di fermentazione utilizzando l’alambicco Charentaise riscaldato a fuoco diretto. Due successive distillazioni sono necessarie per ottenere un distillato a gradazione alcolica non inferiore a 72% vol. La prima distillazione dura circa 8 ore e produce delle flemme con gradazione alcolica che
Colonne di distillazione e rettificazione per Brandy e Grappa Foto Distilleria Villa Zarri
Alambicco Charentaise per Brandy
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distillati varia dai 27° ai 30°. La seconda distillazione della durata di una decina di ore è molto delicata. Essa infatti è caratterizzata dalla più attenta separazione della frazione di testa ricca di componenti più volatili, e di quella di coda, contenente composti meno volatili, dal cuore, cioè l’acquavite vera. Il processo di maturazione dell’acquavite di vino avviene in botti di quercia. Ogni fase della costruzione della botte è importante: lo spessore della doga, la dimensione della botte, l’intensità e la durata della tostatura. Il distillato è posto in botti nuove per un periodo da 8 a 12 mesi, per essere poi trasferito in botti più vecchie ed evitare la comparsa di note astringenti e amare. Al bouquet del Brandy invecchiato contribuiscono diversi fenomeni quali estrazioni di componenti dal legno, reazioni chimiche di ossidazione e idrolisi, evaporazione e concentrazione di volatili. Un ottimo equilibrio dei costituenti si ottiene quando il distillato è posto in botti a gradazioni alcoliche di 50-55% vol. La fase successiva è quella di blending, o mescolamento, di diverse partite di Brandy, per ottenere il prodotto che sarà poi progressivamente diluito alla gradazione alcolica finale. Come già ricordato, negli ultimi 20 anni il Brandy Italiano ha subito un profondo processo involutivo, in conseguenza di una profonda revisione dei processi produttivi. Sono stati smantellati buona parte degli alambicchi discontinui e la distillazione si realizza quasi esclusivamente in apparecchi continui. È stata pressoché abbandonata la selezione delle materie prime e si distilla e rettifica, con contributi comunitari, tutto il vino in esubero della produzione enologica.
Brandy Italiano
• Secondo l’attuale legislazione
(DM 16 luglio 1997, n. 297) per potere utilizzare la denominazione Brandy Italiano, il distillato di vino deve essere invecchiato in recipienti di quercia per almeno 1 anno o per almeno 6 mesi se la capacità dei fusti di quercia è inferiore a 1000 L
• Nella preparazione del Brandy Italiano è consentita l’aggiunta di zuccheri, caramello, sostanze aromatizzanti naturali e preparazioni aromatiche
Botti di invecchiamento del Brandy
Foto Distilleria Villa Zarri
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utilizzazione Grappa e acquavite di vinaccia Grappa è l’acquavite di vinaccia prodotta esclusivamente in Italia ottenuta da vinacce fermentate e distillate direttamente mediante vapore acqueo oppure dopo l’aggiunta di acqua e con eventuale aggiunta di fecce. Così cita il Regolamento 1576/89 dell’Unione Europea nell’articolo dedicato che riserva all’Italia la denominazione esclusiva del termine “Grappa”. Sulla Gazzetta Ufficiale del 16 settembre 1997 è stato pubblicato il DPR 297 che completa quanto previsto dalla comunità apportando maggiore chiarezza al quadro normativo. La ricchezza alcolica non dovrà essere inferiore al 37,5% in volume se si tratta di Grappa normale, del 40% se la bevanda riporta una denominazione geografica e, per tutta la Grappa, l’aggiunta massima di zucchero è fissata nel 2%. È consentita l’aromatizzazione e, per la sola Grappa elevata in legno, si può ricorrere alla correzione del colore attraverso il caramello. Per le grappe elevate in legno, il decreto inoltre stabilisce che si possano utilizzare i termini di “vecchia “ e “invecchiata” quando il periodo è di almeno 12 mesi, “riserva” e “stravecchia” quando non inferiore a 18 mesi. Inoltre le grappe indicate nell’allegato 2 del Regolamento (CEE) n.1576/89 (Barolo, Piemonte, Lombardia, Trentino, Alto Adige, Veneto e Friuli) possono essere denominate con il riferimento geografico quando: a) sono ottenute da materie prime ricavate da uve prodotte e vinificate nelle aree geografiche cui fa riferimento l’indicazione; b) hanno un titolo alcolometrico non inferiore a 40°; c) tutte le operazioni, tranne l’imbottigliamento e le attività connesse, sono svolte nelle aree geografiche chiamate in causa; d) non sono miscelate con altre grappe prodotte al di fuori della zona geografica. In etichetta si può inoltre fare riferimento al vitigno (con un massimo di 2), a un vino DOCG, DOC e IGT, nonché al tipo di alambicco. Acquavite di vinaccia è sinonimo di Grappa e, in conformità alla legge comunitaria e nazionale, la denominazione può essere utilizzata in sostituzione del sostantivo più conosciuto. La questione sta proprio qui: la Grappa è un’acquavite di vinaccia, ma non tutta l’acquavite di vinaccia può essere Grappa. Mentre questa è esclusivamente italiana e deve essere prodotta con vinacce nazionali in alambicchi ubicati nel territorio della Repubblica Italiana, l’acquavite di vinaccia può essere prodotta ovunque. Ecco che, nel caso di tagli di Grappa con acquaviti estere, viene persa la possibilità di designare il prodotto con il termine “Grappa”. La Grappa, l’abbiamo detto, è prodotta mediante distillazione diretta delle bucce e degli acini di uva che, in quasi tutti i casi, rappresentano la sede privilegiata della vite per accumulare sostanze aromatiche. Va da sé che, se prendiamo una Grappa che
Elenco nazionale dei prodotti italiani
• Nella quinta revisione del 18 luglio 2005
dell’elenco nazionale dei prodotti tradizionali previsto dal Decreto Ministeriale 8 settembre 1999, n. 350 compaiono le seguenti denominazioni: - Acquavite, filu ’e ferru, abba ardente (Regione: Sardegna) -G rappa con alambicco a bagnomaria piemontese (Regione: Piemonte) -G rappa dell’alpino (Provincia autonoma di Bolzano) - T reber (Grappa di vinaccia) (Provincia autonoma di Bolzano) -G rappa giovane Trentina, metodo Tullio Zadra (Provincia autonoma di Trento) -G rappa veneta (Regione: Veneto)
Alambicco
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distillati non abbia subìto alcun invecchiamento in legno o trattamento con sostanze aromatizzanti (appartengono a questa tipologia tre bottiglie su quattro della Grappa che possiamo trovare al supermercato), il suo profilo organolettico e quindi le caratteristiche di tipicità sono direttamente correlate alle caratteristiche della vinaccia e alla tecnologia di distillazione. Materia prima della Grappa sono le vinacce, sottoprodotto dell’industria enologica. A seconda del sistema di vinificazione adottato per le uve, si distinguono vinacce vergini (separate rapidamente dal mosto e quindi non fermentate) e vinacce fermentate insieme al mosto. La vinaccia, data la sua composizione, è difficilmente conservabile in quanto si presta a favorire l’attività di un gran numero di microrganismi e di enzimi. Batteri, lieviti e muffe possono compromettere nel giro di qualche decina di ore la sua vocazione alla produzione di Grappa di qualità. Purtroppo le inderogabili leggi economiche vietano la possibilità di installare impianti capaci di distillare la vinaccia man mano viene separata dal vino e l’incontrovertibile tendenza enologica di un precoce allontanamento delle bucce e degli acini di uva in fase di ammostamento, o comunque prima che sia terminata la fermentazione, impongono un congruo periodo di conservazione (o insilamento, come viene chiamato in gergo tecnico) per permettere agli zuccheri di essere trasformati in alcol. Meno del 30% della vinaccia prodotta nel nostro Paese è distillata per produrre Grappa, quindi le distillerie destinano solamente la materia prima migliore alla fabbricazione dell’acquavite. Le ricerche condotte negli ultimi anni hanno introdotto nuovi metodi di insilamento che consentono di ottenere grappe di buona qualità anche da vinacce vergini. La conservazione della vinaccia per periodi più o meno lunghi in condizioni non ottimali può portare a trasformazioni compositive tali da cancellare ogni fattore di tipicità rendendo, per contro, tipico sotto il profilo organolettico il quadro aromatico dovuto alla cattiva conservazione. In poche parole è più facile riconoscere se una Grappa è fatta con vinaccia insilata o meno rispetto, per esempio, all’identificazione della sua regione di origine. L’insilamento viene comunemente effettuato in vasconi aperti di cemento interrati o sopraelevati. In quelli interrati la vinaccia viene scaricata e poi sistemata e compressa manualmente. Nei silos sopraelevati si utilizzano invece mezzi meccanici sia per la stratificazione che per la compressione. A silos pieno, in entrambi i casi, si copre il tutto con teloni di materiale plastico sui quali viene disposta sabbia o altri pesi per mantenere il film di copertura aderente alla massa della vinaccia e favorire la formazione di un ambiente anaerobico idoneo alla buona conservazione della stessa. In alternativa ai vasconi di cemento, per piccole partite selezionate, sono utilizzati contenitori in materiale plastico o in
Caratteristiche della vinaccia
• Possiamo dire che le caratteristiche
della vinaccia sono strettamente dipendenti dai fattori climatici e pedologici in cui è stata prodotta l’uva, dal vitigno o dai vitigni dai quali deriva, dalle tecnologie utilizzate nell’ammostamento e nella fermentazione, dal periodo e dalle modalità con le quali è stata conservata la massa prima di giungere all’alambicco
Insilamento delle vinacce prima della loro lavorazione
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utilizzazione acciaio inox in cui la vinaccia può essere conservata in condizioni di ossigenazione e temperatura controllate. Infine, da alcuni anni, è possibile utilizzare per lo stoccaggio della vinaccia un sistema originale, denominato Grappa system che prevede l’insilamento anaerobico della vinaccia compressa a più di 100 atm, all’interno di tubi di materiale plastico, distesi sul terreno. Con l’uso di queste gigantesche “salsicce” è possibile una accurata selezione delle vinacce per vitigno e provenienza. La Grappa si può ottenere per distillazione discontinua o continua. La maggior parte degli impianti sono di tipo discontinuo, anche se sono gli impianti continui a coprire più dell’80% della produzione di questo distillato. La distillazione discontinua prevede una prima fase per l’ottenimento delle flemme a 15-20% vol di etanolo e una seconda fase in cui le flemme alimentano l’ebollitore di una colonna di distillazione che opera la concentrazione dell’etanolo a 70-80 gradi alcolici. Gli impianti continui sono più complessi e consistono di un disalcolatore e di una o più colonne di distillazione e rettifica. Nella distillazione discontinua, la rettifica si esegue separando le frazioni iniziali del distillato o “teste” e quelle finali o “code”. Fra le sostanze volatili più difficili da rettificare c’è l’alcol metilico, per il quale esiste un limite di legge. Nella distillazione in discontinuo il metanolo distilla durante l’intero processo e solo utilizzando una colonna di demetilizzazione, di cui anche gli impianti discontinui possono essere dotati, si ha la certezza di operare una buona separazione di questo composto. A differenza di molte altre acquaviti, dove le caratteristiche dell’apparecchio sono accuratamente pianificate e standardizzate, la Grappa può vantare di essere figlia di oltre cento alambicchi d’autore dai quali dipende per larga parte la sua personalità. Diamo quindi un’occhiata ai diversi tipi. Alambicchi a fuoco diretto Escludendo quelli a tassa giornaliera, che lavorano per pochi giorni all’anno e comunque in via di estinzione, gli alambicchi a fuoco diretto funzionanti si contano sulle dita di una mano. Sono ovviamente discontinui e operano a cotte che durano mediamente quattro o cinque ore, hanno una caldaia in rame (eccellente conduttore di calore) di piccola capacità (4-5 quintali di vinaccia) sempre seguita da una corta colonna a piatti. Il motivo dell’abbandono degli alambicchi a fuoco diretto va ricercato nella notevole difficoltà tecnica di conduzione che, specialmente distillando una materia prima solida, qual è la vinaccia, comporta non di rado gusti di cotto e di bruciato nella Grappa.
Fasi della lavorazione delle vinacce per la preparazione della Grappa
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distillati Alambicchi a bagnomaria Coevi di quelli a fuoco diretto, differiscono dai precedenti per avere una caldaia dotata di un’intercapedine nella quale l’acqua, messa in ebolizione dal fuoco di legna o da una fiamma alimentata a gas o, in alternativa, il vapore prodotto da una centrale indipendente, fornisce un manto di calore che evapora i composti volatili della vinaccia i quali confluiscono poi, normalmente, in una colonna a piatti di piccole e medie dimensioni e, concentrati, vengono quindi liquefatti e trasformati in acquavite. Sono naturalmente alambicchi discontinui la cui cotta dura tra le 2 e le 6 ore e difficilmente evidenziano caldaie che superano i 12 hl di capacità. Esistono due varianti regionali di questi alambicchi: bagnomaria di stile trentino e bagnomaria di stile piemontese. La differenza tra le due sottocategorie è data dalla diversa geometria della caldaia e nel modo in cui la vinaccia viene posta in essa: in quelli tradizionali viene messa alla rinfusa insieme a una certa quantità di acqua (sempre che non risulti grondante di vino), mentre negli altri è disposta in cestelli forati, di rame in caldaie troncoconiche di capacità generalmente non superiore ai 300 kg di materia prima. Molte volte i bagnomaria dispongono di un riscaldamento supplementare costituito da un filo di vapore diretto che evita tempi di riscaldamento troppo lunghi (nocivi per certe sostanze aromatiche) garantisce un flusso più regolare dei vapori idroalcolici nella colonna di concentrazione. Sotto il profilo organolettico la Grappa dei bagnomaria si distingue generalmente per l’aroma tondo, equilibrato e privo di asperità, non di rado caratterizzato da una nota di confettura che solo in alcuni casi può sfociare in anomali sentori di cotto. Considerato che la quantità di Grappa prodotta con il metodo bagnomaria rappresenta solamente il 3-5%, anche se è destinata a crescere, questa tipologia è degna di grande attenzione.
Esempi di alambicchi a bagnomaria
Alambicchi a caldaiette a vapore Questi alambicchi sono i più rappresentati all’interno delle grapperie e contribuiscono a più del 15% della produzione totale di Grappa. Tecnologicamente, gli alambicchi a caldaiette sono stati sviluppati nel secolo scorso per mediare al meglio tra la qualità della Grappa prodotta con il bagnomaria e le cresciute esigenze di produttività. Sono formati da una serie di caldaie cilindroconiche contenenti cestelli forati sui quali viene accuratamente disposta la vinaccia. Alla base di queste cucurbite, della capacità variabile dai 300 ai 700 kg di materia prima, viene fatto entrare vapore prodotto con una caldaia indipendente. Questo attraversa la massa da distillare, ne recupera l’alcol e gli aromi che vengono poi concentrati in una colonna a piatti di dimensione mediopiccole.
Alambicchi a caldaiette a vapore
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utilizzazione Disalcolatori continui Producono i quattro quinti dell’acquavite di vinaccia prodotta in Italia. Sono stati introdotti nel nostro Paese oltre 40 anni fa per sopperire a maggiori richieste produttive e a una generale riduzione dei costi. Una parte di distillatori abbracciò senza indugi questa nuova tecnologia, gli altri gridarono allo scandalo, al tradimento della Grappa. E all’epoca forse non avevano tutti i torti, mentre oggi costituirebbe una grave imprecisione tacciarli di essere padri di acquaviti cattive. L’innovazione della tecnica costruttiva, l’aumentata sensibilità dei distillatori verso la qualità e l’esperienza pluriennale della loro conduzione, permettono al momento di ottenere dagli alambicchi continui grappe lineari e gentili anche se non sempre dotate di grande personalità. Si suddividono in due categorie: verticali e orizzontali. Nei primi la vinaccia entra dall’alto in una caldaia in cui viene immesso vapore ed esce, senza soluzione di continuità dalla base, esaurita dei suoi umori. In quelli orizzontali la vinaccia percorre, spinta da una vite di Archimede, una serie di tubi nei quali viaggia vapore in controcorrente. In entrambi i casi i vapori idroalcolici, trasformati o meno in flemme (liquidi a bassa gradazione alcolica) sono poi concentrati in colonne a piatti.
Disalcolatore verticale
Colonna di distillazione È l’elemento posto a valle della caldaia e preposto alla concentrazione dei vapori idroalcolici. La limitata ricchezza alcolica della vinaccia comporterebbe sicuramente almeno due distillazioni consecutive per ottenere un’acquavite sufficientemente ricca di alcol etilico. Per raggiungere lo scopo distillando una sola volta, i vapori alcolici si fanno entrare in colonna, un cilindro verticale intervallato da piatti che provocano liquefazioni ed evaporazioni successive della miscela idroalcolica, consentendo ai soli vapori che evidenziano una maggiore quantità di alcol di giungere al refrigerante. Tradizionalmente la Grappa è un distillato di pronto consumo per cui, a fine distillazione, è stoccata in serbatoi di materiale inerte (acciaio inox o vetroresina) per 5-6 mesi per favorire la stabilizzazione chimico-fisica. Per talune tipologie è previsto un periodo di maturazione in contenitori di legno per tempi variabili. Tutte queste operazioni vengono effettuate sull’acquavite con un tenore alcolico di 70-86°. Successivamente il distillato è ridotto al grado di consumo con aggiunta di acqua distillata, refrigerato, filtrato e infine confezionato.
Disalcolatore continuo orizzontale
Colonna di distillazione
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distillati Acquavite d’uva La produzione di acquavite d’uva ha inizio in Italia in epoca recente a seguito di una richiesta fatta alle autorità competenti, da un noto distillatore italiano, nel 1984. Dopo una autorizzazione provvisoria dello stesso anno, il decreto del Ministro dell’agricoltura del 3 novembre 1988 autorizza in via definitiva la produzione e l’immissione sul mercato dell’acquavite o distillato d’uva così denominato: “Per acquavite o distillato d’uva si intende il prodotto ottenuto dalla distillazione del mosto fermentato di uve fresche in presenza delle parti solide dei grappoli”. L’acquavite d’uva è definita, dal Regolamento (CEE) n.1576/89, nella categoria delle bevande spiritose come un’acquavite di frutta. L’uva, raccolta perfettamente sana e alla massima concentrazione aromatica, è ammostata e in genere sottoposta a diraspatura. La fermentazione avviene a temperatura controllata (18-20°C) per favorire una elevata sintesi di aromi fermentativi che vanno a costituire, con quelli varietali, un complesso aromatico ricco e variegato. La fermentazione è condotta in assenza o con piccole quantità di anidride solforosa per limitare la formazione di acetaldeide che potrebbe dare al distillato una nota aggressiva ed erbacea. Al termine della fermentazione, e per alcuni produttori ancora prima del completo esaurimento degli zuccheri, l’intera massa (liquido, bucce e lievito) passa unita all’alambicco senza alcuna separazione preliminare dei componenti. La nascita dell’acquavite d’uva, nella distilleria da Grappa, ha fatto si che essa abbia adottato gli stessi alambicchi, in particolar modo quelli bagnomaria, ma vi sono produttori che ne hanno costruito di appositi, di foggia particolare a boule o comunque ispirandosi ai lenti bagnomaria. Alcuni hanno addirittura adottato la distillazione sottovuoto che consente una migliore selezione delle sostanze aromatiche durante il processo, ma è da utilizzare con cautela perché può anche causare la perdita di una frazione aromatica di notevole interesse. Siccome per questo distillato non sono necessarie operazioni di rettifica in relazione all’ottima qualità della materia prima che presenta un basso contenuto in solidi (15%) e limitate quantità di metanolo, la procedura di distillazione più idonea è quella che prevede una prima distillazione del pigiato-fermentato a gradazione alcolica compresa fra i 55° e i 60° alcolici, e una successiva fase di esaurimento dell’etanolo residuo ad alta gradazione. È consigliabile lasciare l’acquavite d’uva a riposo in serbatoio di acciaio inox per almeno 30 giorni prima di passare alla fase di diluizione a grado e a tutte le conseguenti operazioni di stabilizzazione. Non mancano sul mercato acquaviti da uve rosse elevate in legno con tecniche e per periodi diversi di almeno 6 mesi. Prima dell’imbottigliamento il prodotto è portato alla gradazione alcolica commerciale (40% v/v) ed è sottoposto a filtrazione a freddo (–2 °C).
Distillati e vitigni
• Il distillato presenta profumo delicato
con prevalenza di aromi fruttati e floreali. Il gusto è morbido, delicato. Nei prodotti di maggiore pregio si evidenzia, dopo la deglutizione, una netta nota di liquirizia
• Le varietà di uva più idonee per
la produzione dell’acquavite d’uva sono quelle provenienti da vitigni semiaromatici (Prosecco, Riesling italico, Pinot bianco, Chardonnay ecc.) o aromatici (Moscati, Traminer aromatico ecc.) più o meno ricche di terpeni o da varietà che presentano note aromatiche particolari quali Cabernet o Sauvignon. Infatti è l’aroma varietale, tipico del frutto, l’obiettivo primario di un’acquavite d’uva di qualità
Alambicco per la produzione di Grappa e acquavite d’uva
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