ANO XIII - NUMERO 137
Gli itinerari stupendi Giugno 2015 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com mosaico@comunitaitaliana.com.br
di Elsa Morante
Direttore responsabile Pietro Petraglia Editori Andrea Santurbano Fabio Pierangeli Patricia Peterle Revisore Cleo Cirelli Giovanna Vettraino Grafico Wilson Rodrigues COMITATO SCIENTIFICO Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andrea Lombardi (UFRJ); Cecilia Casini (USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Roberto Francavilla (Univ. di Genova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (UFBA); Wander Melo Miranda (UFMG). COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino (in memoriam); Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione.
I direttori di Mosaico ringraziano cordialmente la curatrice del numero di giugno, la dott.Cecilia Oliva, dottoranda in Italianistica all’università di Roma-Tor Vergata, dopo aver conseguito la laurea magistrale con una tesi su Aracoeli di Elsa Morante a Roma-Tre. Attualmente svolge attività di ricerca presso il Fondo Elsa Morante della Biblioteca Nazionale di Roma. All’eccellente lavoro sulla Morante guidato dalla dott.Oliva, si aggiunge, come ormai consuetudine, l’intervista sulla poesia, con protagonista Enrico Testa, poeta , saggista, linguista, docente universitario tra le personalità di spicco della cultura italiana odierna. «Un vero romanzo, dunque, è sempre realista: anche il più favoloso!»: così scriveva Elsa Morante nel saggio Sul Romanzo pubblicato nel 1959, a soli due anni dall’uscita dell’Isola di Arturo. Un tema controverso, quello del realismo, ed estremamente attuale negli anni ‘50, quando le voci più autorevoli della narrativa e del cinema in Italia perseguivano con impegno l’obiettivo di una rappresentazione fedele della realtà della guerra e della Resistenza. La posizione di Elsa Morante, eccentrica e originale, che si riflette in particolare nei suoi primi romanzi, offre ancora oggi spunti di riflessione. Quali sono i contorni del realismo morantiano? Che rapporto intercorre nelle sue opere tra oggettività e affabulazione? I diversi contributi qui presentati intendono approfondire questo complesso snodo della poetica della scrittrice ripercorrendo i luoghi dei suoi quattro romanzi: dalla Sicilia favolosa e tetra di Menzogna e sortilegio al paesaggio edenico dell’isola di Procida, dalla città di Roma ritratta con precisione quasi fotografica nella Storia alla desolata sassaia spagnola dell’ultima opera. In particolare, il saggio di Francesca Tomassini guida negli spazi angusti di Menzogna e sortilegio che sono teatro e proiezione della ambigua psicologia dei personaggi. Silvia Ceracchini offre un’analisi dei luoghi e delle modalità descrittive dell’Isola di Arturo su cui si riverbera la soggettività del protagonista, colto nel momento critico del passaggio dall’età infantile all’età della coscienza. Monica Zanardo mette in luce lo scrupolo documentario con cui l’autrice ha curato l’ambientazione della Storia e instaura un paragone con la narrativa neorealista. Cecilia Oliva segue le tracce dell’ultimo personaggio morantiano, evidenziando la distanza tra sublimazione fantastica ed esperienza reale che, in Aracoeli, sancisce il fallimento di un viaggio e di una parabola esistenziale.
SI RINGRAZIANO
Chiude il numero il contributo di Davi Pessoa Carneiro nel quale sono tematizzate alcune fondamentali questioni critiche relative alla narrazione della Storia, a partire dai suggerimenti offerti dal giudizio pasoliniano sul romanzo.
“Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero”
In rotta, dunque, «su itinerari stupendi»: una espressione affascinante di Elsa Morante che indicherà la strada.
STAMPATORE
Buona lettura,
Editora Comunità Ltda. ISSN 2175-9537
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Cecilia Oliva
Indice I luoghi della verità tra Menzogne e sortilegi Francesca Tomassini
pag. 04
Un percorso di luoghi e misteri: L’isola di Arturo e la sua «ragnatela iridescente» Silvia Ceracchini
pag. 09
Roma: 1941-1947 Nel cuore della Storia Monica Zanardo
pag. 14
Aracoeli: il viaggio impossibile di «un ϐinto Ulisse» Cecilia Oliva
pag. 19
Elsa Morante: tra l’allegria della vita e la violenza della Storia Davi Pessoa Carneiro
pag. 24
INTERVISTA La poesia di Enrico Testa Rossano Pestarino
pag. 28
Il ϐilo delle relazioni umane Intervista a Enrico Testa - Patricia Peterle e Elena Santi
pag. 31
inedito di Enrico Testa
pag. 37
RUBRICA Francesco Alberoni Autocontrollo
pag. 38
PASSATEMPO
pag. 39
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I luoghi della verità tra
Menzogne e sortilegi Francesca Tomassini
Mentre il Paese si trova a fare i conti con la ricostruzione post bellica e con le traumatiche cicatrici che il conflitto mondiale ha lasciato, nel 1944 Elsa Morante torna in un’irriconoscibile Roma liberata dagli alleati e si cimenta nella scrittura del romanzo che aveva iniziato ad abbozzare nel 1943, prima di dover fuggire insieme a suo marito, Alberto Moravia, accusato di antifascismo. Dal momento in cui riprende questo spunto narrativo, Morante impiega quattro anni per scrivere quello che sarebbe diventato il suo primo romanzo, dal titolo Menzogna e sortilegio. La narrativa italiana degli anni tra le due guerre era stata caratterizzata da una grande varietà di esperienze, producendo opere di carattere diverso. Dopo lo strazio del secondo conflitto mondiale la letteratura e il cinema italiani puntano a rappresentare il reale, sviluppando la corrente del realismo e del neorealismo, particolarmente concentrata sulle esperienze legate al fascismo, alla Resistenza o alla vita quotidiana delle classi più disagiate della società. Lo sguardo di Morante si distraeva da questo panorama contemporaneo per volgersi verso uno scenario dai contorni sfuocati, vagamente definito nello spazio e nel tempo. Menzogna e sortilegio, romanzo fondamentale per la narrativa novecentesca italiana, infatti, «sembra nato fuori dalla Storia, nato e ideato nella più completa ignoranza della tragedia che si era appena compiuta e ancora si consumava nel nostro paese»1. Si tratta di un’opera lontanissima dagli schemi narrativi del neorealismo, che rivela una scrittrice attenta soprattutto alla dimensione interiore e allo spessore psicologico dei suoi personaggi, attraverso cui intende ricostruire un grande affresco epocale. Con Menzogna e sortilegio Elsa Morante traccia, con delicata raffinatezza e con incredibile maestria, personaggi dalla psicologia complessa, nevrotici spiriti inafferrabili e imprevedibili, drammaticamente destinati alla solitudine e alla ricerca di una 1 C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Menzogna e sortilegio, Einaudi, Torino 1994, p. VI.
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felicità che tuttavia non sanno né vogliono raggiungere. A raccontarci la vita, i dolori, le passioni e soprattutto i segreti di questa epopea famigliare è Elisa: giovane donna piccoloborghese meridionale che, rimasta in una condizione di solitudine assoluta, rievoca «la commedia degli spiriti» dei suoi avi, facendo rivivere la storia sepolta di tre generazioni di donne e di uomini che, nello scontro con la realtà, perdono ogni splendore e si rassegnano ognuno al proprio destino bugiardo. Saranno i racconti e i ricordi di Elisa, sempre intrisi di fascinosa enigmaticità, a guidarci in questo labirinto di anime dannate che si muovono in luoghi dai confini sfuocati ma reali. Morante gioca, per tutto il romanzo, con l’ambiguità dell’ambientazione storica e geografica nella quale collocare le vicende narrate, dando pochi e sporadici segnali al lettore per ricostruire luoghi e coordinate spaziali nel tentativo di orientarsi nello spazio e nel tempo. Il referente storico è il periodo della belle époque, a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento, ambientazione storica che rintracciamo soprattutto da alcuni indizi di tipo culturale e sociale che l’autrice ci offre: il risuonare delle carrozze, la moda e le abitudini dei protagonisti. Geograficamente, invece, la città che fa da sfondo alla storia è Palermo, collocata in una Sicilia inverosimile, città meridionale per eccellenza, simbolo di un Mezzogiorno triste, decaduto e barbaro e origine comune delle tre generazioni di donne che si susseguono nel romanzo. La Palermo morantiana è una città che mantiene una sua fedeltà alla realtà, anche se, il più delle volte, viene solo suggerita ed evocata più che scrupolosamente descritta: è un luogo claustrofobico, non confortato dal mare, ma dominato dallo sviluppo dell’urbanesimo capitalistico, ed è al tempo stesso una città ancora provinciale, il cui massiccio grigiore è interrotto e illuminato solo dalla luce delle Chiese, dai marmi e dai mosaici colorati.
Nei vicoli di questo spazio cittadino è possibile rintracciare echi e sfumature dei quartieri romani cari alla scrittrice: Testaccio, Monteverde, Trastevere e le vie limitrofe alla stazione Termini2 e proprio Roma sarà l’unica città nominata alla fine del romanzo quando Elisa riuscirà a raggiungerla lasciando dietro di sé la città dell’infanzia. I luoghi indefiniti descritti nel romanzo sono identificabili non tanto grazie alla loro attestata presenza su una carta geografica, ma soprattutto attraverso le connessioni interne alla narrazione e alla ricostruzione memoriale di Elisa tesa a riordinare le disordinate esistenze della sua famiglia. Una topografia poco chiara fa quindi da sfondo ad ambienti e luoghi casalinghi e cittadini che presentano invece un’articolata e attenta descrizione, soprattutto nel momento in cui vanno a definire lo stato d’animo e la condizione emotiva di uno dei personaggi. Una volta schizzati i contorni d’epoca e di luogo, la Morante rifugge liberamente da ogni indicazione precisa per lasciare spazio alla cronaca emotiva che affiora nella memoria onirica della narratrice. Il romanzo si apre nella stanza di Elisa, luogo sacro e allo stesso tempo tetro, in cui la protagonista, rimasta sola dopo la morte di Rosaria (la madre adottiva), si aggira come fosse un fantasma in gabbia, perduta, sepolta viva. «Attraverso un vuoto spaziale e temporale la narratrice potrà scavare nel profondo di sé stessa per comprendere il significato della propria esistenza»3. L’appartamento e, in particolare, la camera da cui la narratrice ricostruisce e racconta tutto il romanzo del suo passato, ci viene descritta come luogo angusto e asfissiante, in cui non ci sono finestre e dove l’unica via d’uscita è ostruita da oggetti impolverati come ricordi logoranti: Le poche stanze che compongono il nostro appartamento dànno tutte meno una, su un lungo corridoio: il quale da ul-
timo piega ad angolo retto e finisce in un piccolo vano celato da una tenda di velluto e contenente valige accatastate, vecchi lumi inservibili e altri oggetti di scarto. Da un lato di questo ripostiglio s’apre l’uscio d’una cameretta […]. Questa fu e rimase la mia camera, e lo è tuttora. La congerie d’oggetti che ingombra il ripostiglio ostruisce quasi, a somiglianza d’una barricata, l’accesso alla cameretta, di cui l’uscio può aprirsi soltanto a mezzo. […] L’unica finestra della cameretta dà sul cortile; non, però, sul cortile principale del casamento, vasto e chiassoso, ma su una stretta corte secondaria, per dove non passa quasi nessuno4. Uno spazio isolato, lontano dai rumori, ovattato, senza aria, come fosse un baule pieno di antiche cianfrusaglie dimenticate, a cui nessuno bada più. Questo lo spazio in cui si muove Elisa, questa la sua stanza della scrittura, luogo in cui la realtà e il mondo metafisico della protagonista arrivano a incontrarsi, punto di contatto fra esperienza quotidiana e flusso di immagini, di fantasmi e di ricordi
2 Sulla concordanza dei luoghi descritti nel romanzo con quelli romani si veda F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L’ultimo romanzo possibile, Napoli, Liguori, 2008, pp. 165-195: «L’immaginaria città di Elisa viene infatti plasmata mediante la continua mescolanza di materiali geograficamente compositi, tutti di matrice storica e fantastica al tempo stesso: così sullo sfondo di una Roma reale (sebbene parzialmente deformata dal ricordo e completamente ribaltata nelle coordinate orientative) emerge quasi in controluce lo spettro di una Sicilia leggendaria e incorporea, in cui elementi (comunque concreti e riconoscibili) risultano inevitabilmente trasfigurati in chiave mitica», p. 188. 3 D. Ravanello, Scrittura e follia nei romanzi di Elsa Morante, Marsilio, Venezia 1980, p. 26. 4 E. Morante, Menzogna e sortilegio, Einaudi, Torino 1994, p. 16.
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di comprendere tutto e nel contempo tutto giudicare con spietatezza implacabile»6. Ma sempre in questa stessa camera, vuota e solitaria, via via che la narrazione prosegue, avverrà il cambiamento di Elisa che passerà dal raccontare la storia di Cesira, Anna e Francesco a narrare la vita di sua nonna, sua madre e suo padre, decretando il coinvolgimento dell’io narrante. Uscire da questo spazio per Elisa non rappresenta una liberazione, non coincide con il distacco dai fantasmi del passato ma significa piuttosto «scoprire gli strumenti più opportuni per affermare la propria identità, anche e soprattutto come scrittrice, rendendo automaticamente espressiva la memoria riposta nell’io»7. Il romanzo prosegue con la descrizione della città nativa di Elisa, Palermo, che fa da sfondo a tutta l’epopea familiare del romanzo. Gli aggettivi scelti per descrivere il luogo urbano in cui si sono verificati i fatti narrati sono emblematici per interpretare l’atmosfera dell’intera opera: che appartengono ad un’altra dimensione, ambiente in cui Elisa riesce a dare corpo letterale ai fantasmi della sua fantasia. La camera descritta in Menzogna e sortilegio ricalca, in parte, il topos letterario della stanza della scrittura, nella quale la narratrice può riscattarsi dall’alienazione di un’identità sfigurata per riappropriarsi della sua creatività, e con essa, del suo Io profondo. La scrittura di Elisa però non va intesa come atto liberatorio ma piuttosto come «momento di autoriflessività e riassorbimento del sé: solo oggettivando il proprio patrimonio memoriale si può continuare a preservarlo come materia prima per ogni futuro possibile senza mai sentirsene sopraffatti»5. Elisa rappresenta il punto di equilibro dell’intricato romanzo, nel suo ruolo di narratrice profondamente coinvolta nelle vicende che rievoca. Giovanna Rosa ha parlato di un duplice punto di vista da parte di Elisa che si articola in «una vicinanza lontana, una simpatia dissonante che le consente
La mia città nativa, in cui si svolse tutta, o quasi, la vicenda del presente libro, giace in mezzo a una pianura interrotta da scarse colline, sterposa, e povera d’acque. […] La città ch’io dico, malgrado la sua vasta superficie e la popolazione numerosa, serva il costume e l’aspetto d’una città di provincia8. Nonostante si sviluppi in un ampio spazio, la città descritta da Elisa è un ambiente chiuso, ristretto, arido, secco che restituisce al lettore una sensazione di claustrofobia dovuta però non da un spazio oggettivo ma definita da una cultura retriva (per usare un aggettivo morantiano) e dalla mentalità della popolazione che abita il luogo, incapace di guardare avanti, in una perpetua opposizione ad ogni forma di progresso. La città, intesa come ambiente circostante composto da una moltitudine di persone che opprime il singolo individuo e non, quindi, come spazio urbano, diventa sin
5 G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 23. 6 Ivi, p. 30. 7 Ivi, p. 21. 8 E. Morante, Menzogna e sortilegio, p. 35. 9 C. Garboli, Introduzione, p. XI.
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dall’inizio il teatro in cui può andare in scena lo spettacolo della menzogna, motore che muove le azioni dei protagonisti. Come fosse uno zoom che va piano piano ad ingrandire l’obiettivo sul luogo d’osservazione, le parole di Elisa ci conducono dalla città al quartiere, dal quartiere alla «via ferrata» in cui si «ammassano numerosi casamenti […] nella loro squallida architettura», popolata da una numerosa folla eterogenea. Tra queste stradine anguste sorgono le «malfatte» case in cui sono nate tutte le donne protagoniste del romanzo: Cesira, Anna, Rosaria e, infine, Elisa. I vicoli stretti costringono e custodiscono le vite dannate dei personaggi morantiani che stabiliscono con questi luoghi un rapporto intimo e funzionale a comprendere l’ambigua contestualizzazione temporale. Morante ci garantisce alcuni elementi essenziali, alcune coordinate chiave spazio-temporali funzionali a descrivere gli stati d’animo e la condizione emotiva dei personaggi. Spesso non si registra, tra gli spazi interni e le vie esterne, una rilevante differenza: sono tutti luoghi stretti e angusti che restituiscono al lettore una stessa sensazione di soffocamento che spesso domina l’animo dei personaggi. Una significativa variazione di atmosfera e di clima si registra, però, in quello che è probabilmente il momento culminante dell’intera opera: la scoperta da parte di Anna della morte di Edoardo Cerentano, l’amato e inafferrabile cugino, definito da Cesare Garboli uno «spiritello indemoniato, burattinaio, capriccioso eroe», su cui Morante «ha riversato tutto il carico indistinto di profondità e di futilità che si nasconde nell’immaginario femminile»9. Il primo mutamento che prelude al vero e proprio cambiamento dell’intera struttura narrativa è di tipo atmosferico: il cambio di stagione, il passaggio dall’inverno, rigido e immobile, ad una precoce primavera, ancor più calda
del solito, stagione che equivale ad una rinnovata speranza, ad una nuova apertura. La nuova stagione muove Anna ad uscire dall’angusta e fredda casa ammassata negli stretti vicoli ai confini della città, luogo in cui non c’è nemmeno una stufa a riscaldare l’ambiente nelle infinite giornate invernali, per spingersi fino alle piazze più ampie del centro urbano. La discesa in strada, l’andare per le vie non si rivelerà tuttavia un evento liberatorio ma fonte di nuove e sconvolgenti scoperte. Questo desiderio di evasione di Anna è però motivato anche da un oscuro presentimento non ben definito ma fortemente avvertito dal personaggio, sensazione negativa che stride con la bella stagione che bussa alle finestre. Anna, la lucente, superba, altezzosa Anna che non ha avuto il coraggio di sfidare il mondo, abbandona la sua clausura, esce di casa per la sua passeggiata pomeridiana e lascia quell’odiato focolare familiare così lontano dalla vita che avrebbe voluto vivere. All’interno delle mura casalinghe dei de Salvi, in cui «non entravano feste né celebrazioni a rallegrare i giorni d’inverno»10 il nome dei cugini Cerentano non viene neanche nominato, il luogo famigliare non deve essere macchiato dalla vergogna e dal dolore che quel cognome porta con sé, tanto che rimane l’unico luogo della città in cui la notizia della malattia di Edoardo non è ancora giunta. Durante le sue passeggiate, Anna porta con sé il suo scudo, Elisa, che rievoca, con lucidità, la frenesia della madre non appena oltrepassata la soglia di casa:
torno, secondo il suo costume. Nella città vecchia, poi sceglieva sempre uno stesso percorso: ma, simile ad insetto alato che giri intorno a una fiamma, ogni volta si addentrava un poco di più negli antichi quartieri. L’episodio destinato a cambiare la vita dei protagonisti si verifica in uno spazio altro, diverso, rispetto a quello avverso ma sicuro in cui si trova la casa dei coniugi Anna e Francesco. La città vecchia diventa quindi un labirinto in cui Anna insegue, con imbarazzo ma anche con audacia, la sua chimera Edoardo e la passeggiata quotidiana per queste strade simboleggia il cammino circolare che Anna ha percorso per tutta la sua vita inseguendo un amore menzognero e logorante, che non smette di ardere ma che non porta da nessuna altra parte se non al punto di partenza. Nel romanzo infatti «la linearità del tempo è solo illusione: esso è immutabile nella propria circolarità; è una sfera immobile, conchiusa “fin dal principio; eterna e perfetta»11. E così ogni giorno si replica questo rituale secondo cui Anna, piano piano, si spinge sempre più dentro le mura cittadine, nella spaventata speranza di incontrare il suo amato, per poi fuggire non appena sembra risvegliarsi dal torpore provocato dal suo amore capriccioso. Nei momenti in
cui si trova all’interno della città vecchia, Anna non è la stessa che abita nell’angusta dimora con il marito Francesco: circondata dalla mura urbane, la donna torna a sentirsi la giovane ragazza innamorata, paralizzata dal batticuore, riluttante ma nello stesso tempo affascinata dal cugino. Non appena però la sua fuga la riporta fuori dalla cinta muraria cittadina, ecco che di nuovo ritroviamo Anna, la mamma di Elisa, la moglie infelice del Butterato che, con «un passo lento di sonnambula e con un’espressione smemorata, piena di disgusto», rientra nel suo quartiere adottivo, abitato da ragazzini chiassosi, buoni a nulla e da malvestite signore piccolo-borghesi. In realtà, Anna conosce la meta delle sue passeggiate, gira e rigira intorno al palazzetto antico della famiglia Cerentano che affaccia in fondo a una tonda piazzetta da cui si diramano stretti vicoli. La decisione di Anna di spingersi fino a casa di Edoardo e scoprire finalmente cosa ne è stato di lui, la sua irrefrenabile voglia di avere notizie del cugino, il suo coraggio nel prendere questa decisone vengono raccontati attraverso la narrazione di Elisa che descrive una passeggiata insolita che presagisce lo schianto a cui stanno andando incontro: l’andatura di Anna non rallenta nemmeno quando fa ingresso nella città vecchia, l’itinerario consueto
Uscito appena mio padre, ella si vestiva in fretta e mi conduceva fuori […]. Ciò non avveniva in altri tempi […]. Al contrario di quel che soleva in passato, mia madre non preferiva, adesso, i sobborghi solitari o i giardini spogli e poco frequentati della periferia; ma, attraversate velocemente le strade larghe e sudice dei quartieri nuovi, entrava nella città vecchia, e qui rallentava il passo, pur camminando silenziosa e senza guardarsi in10 E. Morante, Menzogna e sortilegio, p. 459. 11 F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L’ultimo romanzo possibile, p. 103.
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subisce una variazione. Morante ci conduce all’interno di queste strade cittadine, tra piazze e tavoli all’aperto, chiese e quartieri, che fanno da sfondo e da contenitore dell’angoscia vissuta dalla protagonista: Ella oltrepassa le straducce popolari prossime alle mura; e la piazza del mercato, invasa a quell’ora da frotte di ragazzi; e l’angusta via dell’Università, dove la bottega dei libri usati aveva ancora i battenti chiusi per il riposo pomeridiano. Di qui si usciva sul Corso, poco frequentato in quelle prime ore del dopopranzo; e dopo una piazza alberata, di belle proporzioni, sulla quale un Caffè esponeva all’aperto i suoi tavolini fra piante di limoni fiorite, si entrava nell’intricato quartiere Sant’Agata. […] Era la prima volta ch’io vedevo questa parte della città vecchia; ma dovevo ritornarvi, in seguito, abbastanza spesso perché ognuna delle sue straducce mi rimanesse segnata nella memoria12. Un tortuoso percorso lungo una vita che porta Anna alla verità, alla rivelazione, alla realtà tenuta celata, all’incontro con Donna Concetta, madre di Edoardo, nella piazza circolare e vuota, da cui le poche vie di fuga sembrano troppo strette.
È una strada, luogo letterario degli incontri casuali o voluti, a condurre Anna al suo scontro con il destino. In Menzogna e sortilegio la strada assume così una valenza metaforica e simbolica: «non solo è il punto in cui il tempo sfocia nello spazio e vi scorre materialmente, rendendo concreta l’incarnazione dell’evento raffigurato; la strada è contemporaneamente l’immagine del “cammino della vita”, del “cammino storico”, del fluire del tempo»13. Da questo momento in poi, infatti, niente sarà più lo stesso. La frenesia claustrofobica e capricciosa che contraddistingueva le passeggiate di Anna, il suo passo lento e funereo nelle vie del suo quartiere, i suoi movimenti automatici all’interno delle mura casalinghe spariscono. Qui, in uno spazio aperto, i cui confini si allargano, il suo sguardo è immobile, paralizzato e riesce a fissare solo il palazzo Cerentano, chiuso e immutato nel tempo e nello spazio, da cui non si ode un suono, né alcuna altra forma di vita ma in cui si possono percepire presagi funerei. Dopo averci condotto nel labirinto emotivo della vita di Anna, Morante ci conduce alla fine in questa piazza, in questo spazio aperto, per raccontarci la verità attraverso i ricordi “reali” di Elisa che qui sembrano ben nitidi e non si confondo con l’immaginazione
12 E. Morante, Menzogna e sortilegio, p. 536. 13 N. Billi, Strada, in G.M. Anselmi, G. Ruozzi (a cura di), I luoghi delle letteratura, Mondadori, Milano 2003, pp. 362-374, p. 363. 14 F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L’ultimo romanzo possibile, p. 197.
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onirica con cui è solita recuperare le vicende familiari. La memoria dei luoghi in cui sono realmente accaduti i fatti che hanno determinato la storia della sua famiglia aiuta Elisa a ricostruire anche le tappe interiori della sua coscienza. Il torpore di Anna è destato dal suono di un campanello che proviene proprio dal palazzo dei Cerentano: tre signore, vestite e a lutto, escono dal portone. Tra di loro c’è anche donna Concetta, madre di Edoardo. Anna capisce ma non lo vuole ammette subito: Edoardo è morto. L’incontro con le donne in nero e il momento dello svelamento, dell’epifania, viene raccontato da Morante in poche righe mentre tutto il percorso che porta Anna a quel momento è descritto nei minimi dettagli e con minuziosa attenzione, proprio per evidenziare la funzionalità reciproca tra i luoghi, rimasti invariati nel tempo, e l’amore di Anna per Edoardo, anch’esso immutato e duraturo. Ciò che accade sul piano temporale si riflette su quello spaziale: infatti, come il lungo passare degli anni si riduce ad un istante catartico, così i diversi luoghi, attraverso cui scorrono le vite dei protagonisti, possono essere ricondotti ai pochi elementi che definiscono, sin dalle prime pagine del romanzo, la stanza-universo di Elisa. Nonostante la narratrice definisca “teatro” l’intera città, «quella città dell’infanzia che nella fantasia si dilata fino a ricoprire la superficie del mondo intero, il luogo da cui tutti gli ambienti prendono forma e ricevono spunto si riduce in ultimo a proporzioni veramente ristrette»14 e così ritorniamo agli stretti vicoli del quartiere natale relegato ai confini della città, al corridoio senza luce di casa de Salvi e, infine, alla camera di Elisa che diventa così luogo archetipico per eccellenza. Esplorare i luoghi e gli spazi in cui accadono eventi determinanti nell’intera struttura narrativa dell’opera significa, quindi, capire anche in quale modo essi siano causa di azioni e di riflessioni e come essi possano stridere o conciliarsi con lo stato d’animo dei protagonisti.
Un percorso di luoghi e misteri:
L’isola di Arturo e la sua « ragnatela iridescente » Silvia Ceracchini
A quasi dieci anni di distanza dall’imponente e faticosa uscita di Menzogna e sortilegio, vincitore del Premio Viareggio nel 1948, Elsa Morante si aggiudica, nel 1957, il Premio Strega con un romanzo meno corposo del precedente ma altrettanto lavorato e ricco, destinato a imporsi come grande classico della letteratura italiana del Novecento, L’isola di Arturo. Il protagonista del romanzo è un ragazzo di quattordici anni che ha preso il nome dalla stella più luminosa della costellazione di Boote e dal leggendario re di Bretagna, nato e cresciuto a Procida. Nella sua isola napoletana, bolla in cui la Storia, quella della seconda guerra mondiale alle porte, non entra, Arturo è costretto a scontare la tragedia dello sviluppo della coscienza, come spiega la stessa scrittrice nella quarta di copertina dell’edizione del 1969 del romanzo per Mondadori: Nella bellissima isola napoletana di Procida (che, nei tempi antichi, fu preda di orde straniere e di corsari, e, presentemente, ospita un Penitenziario sulla rocca) un ragazzo, Arturo, orfano di madre, cresce libero e selvatico, fuori da ogni educazione formale e da ogni convenzione, come un Robinson Crusoe o un Adamo bambino nel paradiso terrestre. In ostinata adorazione del suo giovane e ambiguo padre, spesso lontano, giorno per giorno Arturo va scoprendo i segreti della vita, e s’inventa un’idea
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infantile del mondo e delle sue leggi, trasformando in un mito eroico e favoloso tutto quanto gli succede intorno. Come agli eroi leggendari nelle loro iniziazioni, gli tocca passare attraverso i più rischiosi misteri dell’esistenza umana: il mistero del male, la perdita dell’innocenza, e le prove dell’amore, del sesso e della morte. Fino alla tragica conquista della coscienza virile, e al distacco dall’isola della sua fanciullezza. Il percorso di Arturo, dall’infanzia alla maturità, è esemplare: la narrazione termina drasticamente nel momento in cui Procida, fulcro vivo del romanzo come anche suggerito dal titolo, corrispettivo geografico dell’incoscienza libera, non è più visibile, mentre il giovane procidano, che ha rinunciato all’infanzia e alle sue chimere pronto per arruolarsi, è in viaggio sul piroscafo che lo porterà dentro la bufera infernale della Storia (che sarà protagonista del roman-
zo del 1974)1. Prima di incontrare di nuovo il suo balio Silvestro, ormai alla fine del percorso, Arturo è completamente ignaro riguardo agli avvenimenti storici recenti, e la sua totale estraneità è paragonata significativamente alla favola della bella addormentata: «E adesso, all’udire le notizie mondiali che mi dava Silvestro, mi pareva d’aver dormito per sedici anni, uguale alla ragazza della favola: in un cortile d’erbe selvagge e ragnatele, fra civette e gufi, con uno spillone fatato confitto nella fronte!»2. Proprio la guerra è il simbolo della Storia fuori dall’isola, della quale Arturo non ha alcuna notizia fino all’epifania di Silvestro. Procida viene appunto descritta, già dalle prime pagine del romanzo, come un «paradiso terrestre» incontaminato e protetto, nel quale «Arturo, orfano di madre, cresce libero e selvatico, fuori da ogni educazione formale e da ogni convenzione, come un Ro-
binson Crusoe o un Adamo bambino». E infatti Arturo nota particolari apparentemente minimi, si meraviglia dell’isola come di un luogo scoperto nuovo ogni giorno, con i suoi «fiori spontanei», con le sue «straducce solitarie chiuse fra muri antichi», e le «spiagge dalla sabbia chiara e delicata» e quelle «più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere»3, con i suoi animali, dai più comuni ad altri unici nel loro genere, come il «piccolo animale molto grazioso, di una specie fra il gatto e lo scoiattolo» o il «quadrupede bianchissimo, grosso all’incirca come un tonno mezzano, col capo armato di corna ricurve»4, scrutati con la curiosità di Adamo di fronte agli esseri della terra; il suo sguardo verso «le creature fantastiche» dell’isola, nella cui luce «anche le cose torbide prendono un colore fantastico, da paradiso terrestre, prima dell’inferno»5, è attento e incantato: Come una foresta toccata dall’incanto, l’isola nascondeva sepolte in letargo le creature fantastiche dell’estate. In tane introvabili sottoterra, o negli anfratti delle mura e delle rocce, riposavano le serpi e le tartarughe e le famiglie delle talpe e le lucertole azzurre. I corpi delicati dei grilli e delle cicale si sfacevano in polvere, per rinascere poi a migliaia, cantando e saltando. E gli uccelli migratori, spersi nelle zone dei Tropici, rimpiangevano questi bei giardini. Noi eravamo i signori della foresta: e questa cucina accesa nella notte era la nostra tana meravigliosa6. L’ambientazione isolana è chiaramente studiata e funzionale. È la Morante stessa a sottolinearlo nella quarta di copertina dell’edizione Struzzi di Einaudi del 1975, dove scrive: Nelle figurazioni dei miti eroici, l’isola nativa rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle terre ignote. L’isola, dunque, è il punto di una scelta: e a tale scelta finale, attraverso
1 Diventare adulto significa per Arturo «uscire dal mito, abbandonare l’isola ed entrare nel tempo e nella storia» (G. Leonelli, “Il mondo salvato dai ragazzini”, in W. De Nunzio-Schilardi, A. Neiger, G. Pagliano (a cura di), Tracce d’infanzia nella letteratura italiana fra Ottocento e Novecento, Liguori, Napoli 2000, p. 126). «Che cos’altro può essere la Storia, per la Morante, se non tutto ciò che si trova fuori dall’Isola di Arturo?» (C. Garboli, “La Storia”, in Id., Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Adelphi, Milano 1995, p. 182). 2 E. Morante, L’isola di Arturo, in Ead., Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Mondadori, Milano 1988, vol. I, p. 1356. Tutte le citazioni dal romanzo sono tratte da questa edizione. 3 Ivi, p. 954. 4 Ivi, p. 967. 5 Da un appunto autografo per il risvolto di copertina della prima edizione, riportato in C. Cecchi, C. Garboli, Cronologia, in E. Morante, Opere, vol. I, p. LXVI. 6 E. Morante, L’isola di Arturo, p. 1086.
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le varie prove necessarie, si prepara qui nella sua isola, l’eroe-ragazzo Arturo. È una scelta rischiosa, perché non si dà uscita dall’isola senza la traversata del mare materno: come dire il passaggio dalla preistoria infantile verso la storia e la coscienza. Arturo, tentato continuamente da «terre ignote», considera «l’isola, e quella [sua] primitiva felicità», una «imperfetta notte» e aspetta vanamente di trovare «la bellezza perfetta» del «giorno»7 oltremare. Non è un caso che la scelta della «felice reclusione originaria» sia caduta proprio su Procida, spesso identificata per sineddoche con il suo grande penitenziario: «per molta gente, che vive lontano, il nome della mia isola significa il nome d’un carcere»8. In questa smania difettosa, nell’amara scoperta che «fuori del limbo non v’è eliso», come sentenzia la poesia proemiale del romanzo, sta il senso ultimo del libro, come spiegato da Elsa Morante in una lettera dattiloscritta dell’11 gennaio 1959 riguardo alla traduzione inglese del romanzo: La poesia, infatti, vuol esprimere il seguente concetto: che la felicità perfetta (l’eliso) immaginata dagli uomini nella loro età fanciullesca precedente all’esperienza (nel limbo) non esiste in realtà; e che la sola felicità reale è in quel limbo, appunto. Questo concetto è espresso chiaramente nell’ultimo verso della poesia stessa, che nel testo dice: fuori del limbo non v’è eliso, e cioè: outside limbo there is not elysium. Ora, la traduzione di Elizabeth Jennings: The one road to Elysium is the grave, non esprime affatto lo stesso concetto, e viene a falsare il senso, non solo della poesia, ma dell’intero romanzo (giacché, come già ebbi a scrivere in un’altra mia lettera, la chiave dell’intero romanzo sta appunto in questa frase: outside limbo there is not elysium) 9.
Passando «attraverso i più rischiosi misteri dell’esistenza umana», Arturo scopre l’amore con Nunziata, la sessualità con Assunta, la morte con Immacolatella e con il fantasma di sua madre, la vita con Carmine. Il romanzo non è che un lungo svelamento del mistero che avvolge il mondo infantile di Arturo e che ingloba ogni sua rappresentazione condizionandone la natura, svanito il quale Procida sembra dissolversi con esso. Il mistero più grande che Arturo è costretto ad affrontare e che racchiude tutte le sue chimere giovanili è il «cavallo grifone»10 Wilhelm Gerace, «il più misterioso di tutti»11. Arturo è protetto da un «fatato velo»12 di Maya che si identifica fisicamente di fatto con Procida, e che si nutre, più di tutto, della favola paterna. Per chiarire il significato di questo termine nella poetica di Elsa Morante è utile rifarsi a un’intervista di Giulia Massari, in cui è dichiarato: «Se ogni scrittore ha un mito […] il mio è qualcosa che così, tanto per dargli un nome, io chiamo il velo di Maya: cioè il velo delle apparenze, che sono meravigliose e splendide per chi nasce alla vita e ancora non conosce la realtà»13. Importante è il ricordo di Arthur Schopenhauer, riletto proprio in questo periodo da Elsa Morante, come sottolinea Marco Bardini: Ancora una volta torna alla ribalta, e prepotentemente, Schopenhauer, il quale peraltro si chiama, per chi non se lo ricordasse, proprio Arthur. E Arturo è davvero uno Schopenhauer intrentaduesimo, o, meglio ancora, è l’edizione ridotta dello Schopenhauer nietzscheano della Nascita della tragedia, che vive (lui, Achille apollineo) sulla sua pelle di carta l’esperienza del primo squarciarsi del “velo di Maia”, del suo “annientamento”. […] Il destino di Arturo […] è quello di partire dall’isola (secondo una modalità che […] inscena allegoricamente
l’essere-per-la-morte autentico); e per possibilizzare tale destino egli deve riuscire a squarciare, annientare (in un certo senso, addirittura, sconfiggere) il “velo di Maia”14. L’intera narrazione risente di questo particolare e trasfigurato punto di vista, così come le descrizioni dei personaggi e degli ambienti, dei luoghi dell’isola e fuori dall’isola. Effettivamente questo aspetto è tipico dei lavori di Elsa Morante, e si può riscontrare anche in Menzogna e sortilegio e in Aracoeli (un caso a parte è invece La Storia)15, dove pure il racconto, con annessi luoghi e personaggi, viene presentato soggettivamente attraverso lo sguardo del protagonista. L’isola di Procida e Wilhelm, venerato oltre ogni misura, appaiono quasi coincidenti nell’infanzia del giovane Arturo, indivisibili, complici nel tramare la «ragnatela iridescente» che lo imprigiona:
7 Ivi, p. 1155. 8 Ivi, p. 957. 9 Ringrazio gli eredi della scrittrice, Carlo Cecchi e Daniele Morante. Le lettere di Elsa Morante, donate dagli eredi alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, sono in corso di catalogazione nel Fondo A.R.C. Ringrazio Giuliana Zagra ed Eleonora Cardinale per il sostegno e i preziosi consigli. 10 E. Morante, L’isola di Arturo, p. 1016. 11 Ivi, p. 1079. 12 Ivi, p. 1159. 13 G. Massari, L’isola di Elsa, in Il Mondo, 19 marzo 1957, p. 15. 14 M. Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta, Nistri-Lischi, Pisa 1999, pp. 533-534. 15 Su questo punto cfr. G. Contini, Useppe, in Vent’anni dopo “La Storia” – omaggio a Elsa Morante, a cura di C. D’Angeli e di G. Magrini, in Studi Novecenteschi, XXI, nn. 47-48, giu.-dic. 1994, pp. 185-213, M. Zanardo, Strategie narrative e comunicative nella “Storia” di Elsa Morante, in G. Leonelli (a cura di), Elsa Morante. Nel centenario della nascita, Studium, nov.-dic. 2012, anno 108, pp. 857-876, G. Bernabò, Come Leggere “La Storia” di Elsa Morante, Mursia, Milano 1991, pp. 45-47.
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E intanto, io, di giorno in giorno, meditavo di andarmene subito, senza aspettare l’anno prossimo. Così, avrei fatto vedere senza indugio se ero un guaglione o se sapevo partire solo, e di che cosa ero capace! Sul punto, però, di lasciare l’isola, come sempre m’avveniva fino dalla fanciullezza, un incanto disperato mi tratteneva là. Le diversità meravigliose dei continenti e degli oceani, che ogni sera, sull’atlante, la mia fantasia adorava, d’un tratto sembravano aspettarmi, di là dal mare di Procida, come un immenso paesaggio d’indifferenza agghiacciante. Lo stesso che, allo scendere della sera, mi scacciava dai luoghi estranei: dal porto, dalle strade, richiamandomi alla Casa dei guaglioni. E m’era insopportabile il pensiero di andar via senza prima rivedere mio padre, almeno ancora una volta. Pure, in certi momenti, mi pareva quasi di odiare Wilhelm Gerace; ma appena prendevo la risoluzione di fuggire da Procida, subito il ricordo di lui invadeva tutta l’isola come una moltitudine insidiosa, affascinante. Lo riconoscevo nel sapore dell’acqua di mare, della frutta; passava lo strido di un gufo, di un gabbiano, e mi pareva lui che chiamasse: - Ehi, moro! - Il vento autunnale mi buttava addosso degli spruzzi, o delle folate di sabbia; e mi pareva lui che mi provocasse scherzando. […] Poi, in mezzo a queste illusioni strane, mi accadeva
più che mai di odiarlo, perché, come un invasore, s’impadroniva a questo modo della mia isola; ma pure sapevo che l’isola non mi sarebbe piaciuta tanto se non fosse stata sua, indivisibile dalla sua persona. I nuovi misteri che intravedevo, gli annunci inquietanti, indecifrabili, e i miraggi, gli addii dell’infanzia e della mia piccola madre morta e ripudiata, tornavano a ricomporsi nell’antica chimera multiforme che m’incantava. Questa chimera adesso mi rideva con altri occhi, tendeva altre braccia, e aveva diverse preghiere, voci, sospiri; ma non mutava il suo fatato velo: l’ambiguità, che m’imprigionava nell’isola come una ragnatela iridescente16. Allo stesso modo la Casa dei guaglioni è a sua volta una grande ragnatela d’oro avvolgente, «malefica e meravigliosa»: «La mia casa non dista molto da una piazzetta quasi cittadina […] e dalle fitte abitazioni del paese. Ma, nella mia memoria, è divenuta un luogo isolato, intorno a cui la solitudine fa uno spazio enorme. Essa è là, malefica e meravigliosa, come un ragno d’oro che ha tessuto la sua tela iridescente sopra tutta l’isola»17. Cromaticamente è importante la preponderanza dell’oro, altro segno del legame tra la soleggiata terra di Procida e il nordico Wilhelm, i cui capelli, «morbidi e lisci, erano di un colore biondo opaco, che si accendeva, a certe luci, di riflessi preziosi; e sulla nuca, dov’erano più corti, quasi rasi, erano proprio d’oro»18. Per Arturo, che da sua madre ha preso i capelli e la pelle scura, su ispirazione di suo padre, il biondo diventa il colore del mistero e dell’eroismo19: S’io fossi stato un pittore, e avessi dovuto illustrare i poemi epici, i libri di storia ecc., credo che, nelle vesti dei loro eroi principali, avrei sempre dipinto il ritratto di mio padre, mille volte. E per cominciare l’opera, avrei dovuto sciogliere sulla mia tavolozza una quantità di polvere d’oro, in modo da colorare degnamente le chiome di quei protagonisti. Come le ragazzine si figurano le fate bionde, le sante bionde e le regine bionde, io mi figuravo i grandi capitani e guerrieri tutti biondi, e so-
miglianti, come fratelli, a mio padre. Se in un libro un eroe che mi piaceva risultava, dalle descrizioni, un tipo moro, di statura mezzana, io preferivo credere a uno sbaglio dello storico. Ma se la descrizione era documentata, e proprio indubbia, quell’eroe mi piaceva meno, e non poteva essere più il mio campione ideale20. Tutti i più ammirati eroi e conquistatori sono plasmati sull’immagine di Wilhelm, come pure Alessandro il Macedone, con i suoi «capelli biondi, fatti a ricci, che parevano un bell’elmo d’oro!»21. L’alterazione del punto di vista di Arturo, che sembra filtrare con una lente i luoghi, è palese nella figurazione dei viaggi di suo padre, condizionati evidentemente dalla sua mitizzazione, e del mondo fuori da Procida, riassunto epicamente con il nome di «Estero»: Quando Wilhelm Gerace si rimetteva in viaggio, ero convinto che partisse verso azioni avventurose ed eroiche: gli avrei creduto senz’altro se m’avesse raccontato che muoveva alla conquista dei Poli, o della Persia come Alessandro il Macedone; che aveva ad attenderlo, di là dal mare, compagnie di prodi al suo comando; che era uno sgominatore di corsari o di banditi, oppure, al contrario, che lui stesso era un grande Corsaro, o un Bandito. Lui non faceva mai parola sulla sua vita fuori dell’isola; e la mia immaginazione si struggeva intorno a quell’esistenza misteriosa, affascinante, a cui, naturalmente, lui mi stimava indegno di partecipare. Il mio rispetto della sua volontà era tale che non mi permettevo, neanche in pensiero, l’intenzione di spiarlo, o seguirlo, di nascosto; e non osavo neppure d’interrogarlo. Volevo conquistare la sua stima, e magari la sua ammirazione, sperando che un giorno, finalmente, lui m’avrebbe scelto per suo compagno nei viaggi22. […] Così, egli lasciava la Casa dei guaglioni a passo veloce, tenendo la valigia afferrata per un capo della corda, le guance animate, gli occhi incupiti dall’impazienza: ormai già per me
16 E. Morante, L’isola di Arturo, pp. 1158-1160. 17 Ivi, p. 958. 18 Ivi, p. 975. 19 Il medesimo conflitto cromatico, simbolo della diversità tra i personaggi, si riverbera in Carmine Arturo, biondo come suo padre: «E per me, io sono contento che sull’isola vi sia un altro Arturo Gerace, biondino, che a quest’ora, forse, corre libero e beato per le spiagge…» (ivi, p. 1367). 20 Ivi, p. 984. 21 Ivi, p. 1072. 22 Ivi, p. 984.
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fiabesco e irraggiungibile, come se, gaucho, attraversasse la pampa argentina, con un toro preso al laccio; oppure, Capitano delle armate greche, trascinasse volando sul cocchio, per il campo di Troia, la spoglia del troiano vinto; o come se, domatore di cavalli nella steppa, corresse a fianco del suo puledro, pronto a saltargli in groppa nella corsa23. Allo stesso modo agli occhi di Arturo la rara presenza e padronanza di Wilhelm rivitalizza la Casa dei guaglioni, che «pareva una grande nave piena di vento oceanico, in rotta su itinerari stupendi»24. Un esempio eloquente del processo di cambiamento del protagonista, del suo lento svelamento del mistero paterno che, come si è visto, è la parte vitale della sua infanzia e della permanenza a Procida, si incontra quando Arturo, si dirige sulle orme di suo padre, eloquentemente «ormai disarmato»25, verso il Penitenziario dell’isola. L’episodio è essenziale, non solo perché per la prima volta Arturo sente riferire fatalmente verso suo padre il termine chiave finora ignoto «Parodia»26, ma perché il ragazzo, in cerca di «malìe più severe»27, è consapevole di trovarsi sulle «tracce del suo mistero»28. Il percorso, fisico e formativo, avviene proprio nel luogo che più risente della trasfigurazione del punto di vista, il più misterioso e ambiguo di Procida, dal quale Arturo è affascinato e contestualmente respinto. Il Penitenziario è descritto dapprima come «la triste dimora delle tenebre»29, un «funebre Olimpo»30, e dopo la scoperta del carcerato Tonino Stella, attribuito a torto della «qualità di ergastolano»31, con il fascino di una sirena e con sfumature di nuovo dorate, «come nelle metamorfosi dell’alchimia, dove dal nero si passa all’oro»32. Per scoprire il mistero di suo padre, Arturo varca le soglie di
un «feudo lugubre e sacro»33, e fino a quel momento vietato: «non so più da quanto tempo io non passavo per questa via, che oramai, per me, era come scancellata dall’isola. Ma, quel giorno, la scelsi d’istinto, senza molta esitazione né meraviglia: avvertendo solo un rapido batticuore, come se, con l’infrangere il mio divieto, compiessi un atto temerario, pieno di solennità»34. Già il ricordo dello sbarco di Stella sull’isola, nel momento in cui Arturo, dotato di una «sensibilità vicina alla veggenza»35, aveva notato una prima rara debolezza in suo padre, appare consapevolmente alterato; i carcerati del penitenziario, «Castello dei Cavalieri di Siria», come guidati dall’irraggiungibile conquistatore del feudo paterno, sono «fiabeschi avventurieri araldici»: E fra questo orrore confuso, ecco riaccendersi, peggiore di ogni altra cosa, quella fiamma di grazia perentoria e senza rivali, che tornava a trasfigurare, dentro di me, l’apparizione del molo. Era come se il giovane Carcerato mi gettasse un saluto ironico, nel cambiarsi di nuovo, da mostro deforme, in un grazioso personaggio araldico, che gridava: impostura al mio disprezzo. Spietatamente, di nuovo, i miei famosi pregiudizi infantili ritornavano ad adornarlo... E in un attimo la Casa di Pena mi si mostrava simile al Castello dei Cavalieri di Siria; fiabeschi avventurieri araldici, consacrati a un voto sanguinario, affollavano quel palazzo murato, nel quale solo mio padre veniva accolto. Costoro dominavano l’isola col loro tragico incantesimo: sui loro visi emaciati, i diversi delitti e la schiavitù diventavano un artificio di seduzione, come il bistro sulla faccia delle donne. E tutti accerchiavano, proteggendolo con la loro omertà, quel punto nebuloso, sotterraneo, dove mio padre s’incontrava con l’apparizione del molo36.
23 Ivi, pp. 990-991. 24 Ivi, p. 1105. 25 Ivi, p. 1290. 26 Cfr. ivi, p. 1299. 27 Ivi, p. 1287. 28 Ivi, p. 1288. 29 Ivi, p. 1279. 30 Ivi, p. 1284. 31 Ivi, p. 1283. 32 Ivi, p. 1279. 33 Ivi, p. 983. 34 Ivi, p. 1287. 35 Ivi, p. 1252. 36 Ivi, p. 1284. 37 Ivi, pp. 1299-1300. 38 Ivi, p. 1368. 39 A. Todisco, Che cosa può nascondere un nuovo scialle andaluso, in Corriere della sera, 5 gennaio 1964, p. 9.
Al termine del percorso la malìa di Wilhelm su suo figlio è mutata. Nutrita di un affetto tenero e patetico, il suo fascino ambiguo ha ora i connotati di un paradiso perduto: Così, Wilhelm Gerace mi aveva giocato l’ultima insidia. Veramente, se con piena consapevolezza e intenzione, egli avesse studiato il modo più malizioso di riprendermi sotto la sua malìa, non avrebbe potuto inventare un gioco perfido al pari di questo, nel quale mi aveva attratto a sua insaputa! Adesso, cioè, mi appariva chiaro che nei suoi pellegrinaggi alla Terra Murata non lo aspettava se non una solitudine vergognosa; che lassù, egli veniva mortificato e ripudiato come l’ultimo servo. E a simile scoperta, non so perché, il mio affetto per lui, che credevo soffocato e quasi spento, si riaccese in me più amaro, struggente, quasi terribile!37 Una volta sfatato il mistero paterno, Arturo sente «tutta la stranezza della [sua] tramontata infanzia»38 di fronte al piroscafo in attesa, «una povera navicella di linea» che prima era «una larva scostante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti». La bolla di Procida è scoppiata, e anche Elsa Morante penserà a lei con nostalgia e rimpianto: «Più precisamente, che cos’è per la mia interlocutrice questo stato di giovinezza, quasi assonanza di stato di grazia? “È la possibilità di morire per amore”, mi risponde. E aggiunge: “È l’essere disinteressati, eroici, disperati. È l’appartenere al mondo dell’Isola di Arturo”»39. 13
Roma: 1941-1947 Nel cuore della Storia Monica Zanardo
«Nella città di Roma – dal quartiere Tiburtino al Testaccio» «Questo romanzo di massimo impegno, al quale Elsa Morante ha dedicato tutto il suo lavoro degli ultimi tre anni (dal 1971 al 1974) si svolge prevalentemente nella città di Roma – dal quartiere Tiburtino al Testaccio – durante il periodo della guerra e dell’immediato dopoguerra»1: con queste parole il 16 giugno 1974 Elsa Morante presenta un estratto del suo romanzo La Storia (1974)2 per il lancio editoriale, avvenuto dalle pagine del «Messaggero». Una presentazione che si limita alle indicazioni spazio-temporali per la collocazione delle vicende narrate: dall’estrema sintesi di questo approccio emerge chiaramente l’importanza attribuita dall’autrice all’ambientazione romana di questo romanzo. Possiamo infatti dire che la città di Roma vada annoverata tra i protagonisti principali della Storia, e contribuisca alla dimensione corale e collettiva della narrazione. Nella Storia la topografia della capitale è descritta con grande accuratezza, al punto che è possibile ripercorrere gli itinerari dei personaggi, e collocare con precisione gli scenari dei loro incontri e i luoghi da loro vissuti. Come testimoniano i manoscritti del romanzo3, Elsa Morante curò con molta attenzione l’aspetto topografico della Storia: tra i volumi da lei posseduti e consultati per la compilazione del romanzo, troviamo non solo un saggio di urbanistica sulla capitale4, ma anche diverse testimonianze documentarie coeve (o immediatamente prossime) al periodo storico di ambientazione del romanzo, come ad esempio l’Agendina di guerra di Leonetta Cecchi Pieraccini, o Quasi una vita di Corrado Alvaro. Testi in cui l’autrice ricerca informazioni di carattere pra-
1 Il 19 luglio 1943, in Il Messaggero, 16 giugno 1974, p. 3. 2 E. Morante, La Storia. Romanzo, Einaudi, Torino 1974. Cito dalla prima edizione, d’ora in avanti LS. 3 I manoscritti di Elsa Morante sono conservati, su sua indicazione e per gentile donazione degli eredi Carlo Cecchi e Daniele Morante, alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, tra il fondo Vittorio Emanuele (V.E.) e il fondo A.R.C. (Autografi, Raccolte e Carteggi). Per una presentazione dei due fondi, rimando rispettivamente e S. Buttò, G. Zagra (a cura di), Le stanze di Elsa: dentro la scrittura di Elsa Morante, Colombo, Roma 2006 e a G. Zagra (a cura di), “Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia”. Inediti e ritrovati dell’Archivio di Elsa Morante, BNCR, Roma 2012. Per una panoramica sui manoscritti della Storia in particolare, rimando a M. Zanardo, Appunti sui manoscritti di Elsa Morante (con appendice di inediti), in Filologia e Critica, 2012, n. 3, pp. 431-463. 4 I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Einaudi, Torino 1971.
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tico (i prezzi degli alimenti, le condizioni climatiche, ecc.) ma anche topografico5. Black Sabbath dello storico Robert Katz, in particolare, viene consultato dall’autrice per ritrovarvi informazioni dettagliate sulle caratteristiche dello scalo Tiburtino al momento della partenza dei treni piombati su cui furono caricati gli ebrei di Roma a seguito del rastrellamento del Ghetto6. Che l’autrice fosse interessata alla verosimiglianza delle ambientazioni risulta evidente peraltro, dalla presenza – tra i suoi autografi – di una piantina della città di Roma7, e dal tenore di alcuni tra i numerosi appunti e promemoria che puntellano le carte autografe del romanzo. In una rubrica utilizzata in fase di revisione del romanzo, ad esempio, Elsa Morante si ripropone di «N.B. Cfr. sul posto tutte le distanze e i percorsi di Ida. (Quartiere Testaccio – Ghetto – ponti – strade – e così via)»8 e ancora «Stazione Tiburtina | Verificare sul posto e nel 1942-43 esisteva il cavalcavia e la sistemazione attuale delle strade. | Si direbbe di no, secondo The black sabbath di R. Katz (cfr. pag. 230 sgg)»9. Nessuno degli spostamenti dei personaggi è lasciato al caso: nel romanzo sono descritti con precisione (indicando itinerari e ambientazioni con l’esplicita indicazione delle vie e delle piazze), e a questa precisione corrisponde una meticolosa verifica sul posto, o una ragionata strutturazione della topografia delle vicende10. La “tenda d’alberi” di Useppe e Bella, ad esempio, non è un locus amoenus di pura fantasia: «il luogo preciso del fiume [S.Paolo] è oltre la Basilica di S.Paolo [attualmente da strada privata di là da Ponte Marconi a destra»11 e «N.B.! S. Paolo è troppo lontana. Ved. un giardinetto possibile nel quartiere [s. Maria Liberatrice?]»12.
Sicuramente l’intento di verosimiglianza e realismo ha un ruolo non indifferente nella precisione di dettaglio con cui l’autrice cura la scenografia del romanzo; ma accanto a questa, ci sono probabilmente altre ragioni da considerare, che si legano alla genesi del romanzo e che affondano le loro radici in istanze autobiografiche e in ragioni artistiche. «È un libro sulla guerra» Il romanzo La Storia nasce dalle macerie di un altro romanzo, a lungo annunciato e mai portato a termine, che avrebbe dovuto intitolarsi Senza i conforti della religione. Anche questo romanzo avrebbe avuto un’ambientazione romana, ma le vicende dei protagonisti si sarebbero svolte principalmente nel secondo dopoguerra, limitando gli eventi bellici a parentetici ricordi di Giuseppe, voce narrante del romanzo13. Iniziato già nel 1957, il romanzo viene rivisto e rimaneggiato a più riprese nel corso degli anni Sessanta, per essere poi definitivamente abbandonato e fornire spunti narrativi per i romanzi successivi: La Storia, soprattutto, ma anche Aracoeli. Elsa Morante, intervistata da Enzo Siciliano nel 1972, rilascia una dichiarazione molto preziosa sulle motivazioni che l’hanno spinta ad accantonare Senza i conforti della religione: La storia di “Senza i conforti della religione” cominciava nel ‘53. Questa nuova si conclude nel ‘47. È un libro sulla guerra. Ho capito che non potevo raccontare quello che credevo di dover raccontare in “Senza i conforti della religione” se non avessi parlato di quello che era
successo prima: appunto durante il tempo della guerra14. Questo libro, ambientato «a Roma – dal quartiere Tiburtino al Testaccio – durante il periodo della guerra e dell’immediato dopoguerra»15 si configura, per la scrittrice, come un atto dovuto, un libro necessario, le cui ragioni profonde vanno indagate tanto nel clima contemporaneo alla sua stesura, quanto nella biografia (personale e letteraria) della scrittrice. Come è noto, infatti, Elsa Morante non visse personalmente gli anni della guerra a Roma: assieme a Moravia, trovò rifugio a Fondi, nel paesino di Sant’Agata. E tuttavia il cronotopo “Roma – Seconda guerra mondiale” è presente e decisivo nella sua formazione letteraria: il suo primo romanzo, Menzogna e Sortilegio, si
5 Per uno studio più approfondito sui volumi consultati in fase di stesura della Storia rimando a M. Zanardo, Nella biblioteca della “Storia” di Elsa Morante, in Strumenti Critici, 2015, n. 2, i.c.s. 6 Si veda l’episodio narrato in LS, alle pp. 243-247. 7 V.E. 1618/5.B, c. 302. 8 A.R.C. 52 IV 3/6, c. Ir. Qui e in seguito, il sottolineato è d’autore, come pure le parentesi quadre. Gli a-capo non meramente tipografici sono indicati da sbarrette verticali [ | ] e la trascrizione non tiene conto di cassature e mende, riportando l’ultima lezione ricostruibile del testo. 9 A.R.C. 52 IV 3/6, c. 159r. 10 Per citare, a campione, altri esempi tratti dai manoscritti, pensiamo alla collocazione delle scuole dove Ida insegna: «mettere che da principio Ida andava a una scuola quasi di campagna [verso la Garbatella o sim.] dalla quale poi [per demolizioni o sim] fu trasferita al Testaccio» (A.R.C. 52 IV 3/6, c. 151) e ancora «Nell’interregno (1944) la scuola di Ida al Testaccio viene portata al Gianicolense. Al Portuense invece è abitazione di Santina» (A.R.C. 52 IV 3/6, c. 151). 11 V.E. 1618/1.XI, c. 68v. 12 V.E. 1618/1.XII, c. 20v. 13 Per un’idea di Senza i conforti della religione e il rapporto di interdipendenza con La Storia rimando a C. Cazalé-Bérard, Il romanzo in-finito, in Testo & Senso, 2012, n. 13, pp. 1-32 e Ead., Il manoscritto incompiuto di Elsa Morante “Senza i conforti della religione”, in A. Dolfi (a cura di), Non finito. Opera interrotta e modernità, Firenze University Press, Firenze 2015, pp. 523563; si vedano inoltre G. Zagra, La genesi della Storia nei manoscritti e nelle carte dell’archivio di Elsa Morante, in S. Sgavicchia (a cura di), “La Storia” di Elsa Morante, ETS, Pisa 2012, pp. 123-143) e M. Zanardo, Appunti sui manoscritti della storia. Una ricostruzione della trama e un nutrito numero di trascrizioni delle carte manoscritte si hanno in M. Bardini, Elsa Morante e il cinema, ETS, Pisa 2014 (cfr. in particolare il cap. 10, Bikini, pp. 195-218). 14 E. Siciliano, La guerra di Elsa, in Il mondo, 17 agosto 1972, p. 21. 15 Il 19 luglio 1943, p. 3.
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ristampato per i tipi del Saggiatore solo nel 1958, dopo una prima edizione passata praticamente inosservata (OET 1945). Ma sono soprattutto alcuni fatti storici significativi a indurre una rinnovata attenzione nei confronti del periodo bellico e dell’universo concentrazionario: nel 1961 si tenne, in Israele, il processo ad Adolf Eichmann (giustiziato nel 1962), a partire dal quale Hannah Arendt scrisse La banalità del male (1963); tra il 1963 e il 1965 si tenne il processo di Francoforte, che ispirò L’istruttoria (1965) di Peter Weiss. Si tratta di eventi la cui risonanza mediatica fu enorme, e che non potevano lasciare indifferente Elsa Morante. Nel frattempo, sul fronte delle vicende private, la scrittrice deve affrontare la morte dell’adorato Bill Morrow, e quella della madre Irma Poggibonsi. Un evento, quest’ultimo, che mette Elsa Morante di fronte alla necessità di fare definitivamente i conti con le proprie origini. Secondo le testimonianze del fratello Marcello Morante, la madre:
chiude sull’arrivo a Roma di Elisa; L’isola di Arturo termina con la partenza di Arturo verso la guerra. Una parabola narrativa che lascia sulla soglia il suddetto cronotopo. Anche Senza i conforti della religione avrebbe dovuto ignorare questo periodo cruciale nella vita della scrittrice, spostandosi stavolta in avanti rispetto agli eventi bellici. Eppure, per ammissione della scrittrice stessa: Le mie immaginazioni giovanili – riconoscibili nei racconti del Gioco segreto – furono stravolte dalla guerra, sopravvenuta in quel tempo. Il passaggio dalla fantasia alla coscienza (dalla giovinezza alla maturità) significa per tutti un’esperienza tragica e fondamentale. Per me, tale esperienza è stata anticipata e rappresentata dalla guerra: è lì che, precocemente e con violenza rovinosa, io
ho incontrato la maturità. Tutto questo, io l’ho detto nel mio romanzo Menzogna e sortilegio anche se della guerra, nel romanzo, non si parla affatto16. Devono passare però trent’anni perché la scrittrice decida finalmente di fare i conti con questa esperienza «tragica e fondamentale», e non è un caso che la decisione venga progressivamente maturata proprio nel corso degli anni Sessanta. Si tratta di un periodo storico, infatti, in cui la memorialistica sulla guerra e, segnatamente, la riflessione sulla Shoah, tornano in primo piano: nel 1958 vengono dati alle stampe due testi – entrambi scritti nell’immediato dopoguerra – fondamentali per la narrativa sugli ebrei italiani: Se questo è un uomo di Primo Levi (precedentemente rifiutato da Einaudi) e 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti,
non certo credente neppure come ebrea ma molto attaccata alla razza ebraica, era ossessionata dal timore (che poi risultò profetico) di una ripresa violenta della persecuzione antisemita e voleva ad ogni costo proteggere i figli dal rischio. Per questo tenne segreto anche prima del fascismo il suo ebraismo e impose anche ai figli di essere fedeli al segreto17. Un vissuto biografico che Elsa Morante rifrange nel personaggio di Nora Almagià (originaria, come Irma, del nord Italia) e nei timori di Ida18: «si trattava di sciogliere questioni legate all’ebraismo per parte di madre, d’altronde l’unico vero e conforme alle regole, e da cui questa stessa l’aveva attentamente tenuta lontana»19. È da ricondursi agli anni Sessanta pure l’incontro, intellettualmente imprescindibile per Elsa Morante, con la pensatrice Simone Weil, che deve aver incentivato Elsa
16 C. Cecchi, C. Garboli, Cronologia, in E. Morante, Opere, Milano, Mondadori, 1988, vol. I, p. XLIV. 17 M. Morante, Maledetta benedetta. Elsa Morante e sua madre, Garzanti, Milano 1986, p. 34. 18 Personaggio nel quale, infatti, Pier Paolo Pasolini riconosce istanze autobiografiche morantiane: «tutta la prima parte […] è dominata dall’elemento autobiografico del terrore della mezza ebrea all’inizio delle persecuzioni razziali. Tale atroce esperienza autobiografica è dalla Morante imparzialmente suddivisa tra la madre di Ida e Ida» (P. P. Pasolini, Un’idea troppo Rocco Auciello - Estate 1987 fragile nel mare sconfinato della storia, in Il Tempo, XXXVI, n. 31, 2 agosto 1974, pp. 75-76, p. 75). 19 S. Lucamante, Quella difficile identità. Ebraismo e rappresentazioni letterarie della Shoah, Iacobelli, Roma 2012, p. 268.
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Morante ad affrontare questo tema, nell’analogo vissuto di un pericolo evitato, ma che non esclude il senso di colpa20. Un nodo emotivo, fatto di ebraismo e guerra, che doveva essere affrontato con il filtro dell’arte: «in quel grido soffocato di Ida “Anch’io sono ebrea”, in effetti, può essere lecito pensare che si celi anche un dire morantiano, un tentativo di comprensione della propria identità»21. Un senso di colpa che non si limita alle origini ebraiche, ma che include anche “l’infedeltà” alla propria città: la fuga da Roma in quegli anni imprescindibili, scelta obbligata, che pure privò la Morante di un evento storico con il quale sentiva di dover fare i conti. Nella finzione narrativa, l’autrice racconta una Realtà diversa, trasfigurando anche i propri sogni, e “l’esilio” a Sant’Agata nei personaggi della Storia. Lo confermano alcuni appunti manoscritti disseminati nei quaderni per la stesura del romanzo; ad esempio i sogni di Ida, durante la guerra, riconfigurano una memoria onirica personale: «descrivere sogni / Appare il padre Alfio. suo mantello ecc. ricord. bei sogni a S. Agata»22 e ancora, nel descrivere l’abbigliamento ciociaro di Annita Marrocco: «ricordare Maria di S. Agata»23 o, infine, in merito all’atteggiamento dell’oste Remo nei confronti di Ida: «ormai l’oste Remo in previsione dell’arrivo degli alleati, si mostrerà anzi gentile [ric. contegno dei contadini di S.Agata]»24. «Io sono tutta intera nei miei libri» Nelle proprie opere artistiche Elsa Morante era solita rifrangere e ripensare la propria realtà biografica. Tasselli di realtà vengono, di prassi, da lei ricomposti e rielaborati in forme narrative originali, che non ne snaturino tuttavia la verità psicologica, punto di forza del suo concetto di Realtà: «Romanzo sarebbe ogni opera poetica, nella quale
l’autore – attraverso la narrazione inventata di vicende esemplari (da lui scelte come pretesto, o simbolo delle “relazioni” umane nel mondo) – dà intera una propria immagine dell’universo reale (e cioè dell’uomo, nella sua realtà)»25. Tali considerazioni vanno tenute saldamente presenti se ci si vuole approcciare agli scritti morantiani senza scadere in semplicistici biografismi, ma riconoscendo tuttavia gli esiti artistici di questa contaminazione tra Arte e Vita, eredità romantica di una concezione etica della scrittura che caratterizza la produzione morantiana. La “finzionalizzazione” di eventi reali, e segnatamente biografici, è un Leitmotiv della sua scrittura: ricalcando il Flaubertiano Madame Bovary c’est moi, Elsa è Elisa, ed è Arturo, ed è Manuele; ma Elsa è anche e soprattutto Ida, e Davide, e Useppe. Se in Ida si rifrange il terrore di mezzaebrea alla promulgazione delle leggi razziali, e in Davide l’autocondanna per un volontaristico e sterile tentativo di giustificare razionalmente l’irrazionale26, per il tramite di Useppe la scrittrice riprende alcune memorie
infantili, distillate e decantate nell’ingenuità del piccolo protagonista della Storia. Cresciuta in via Amerigo Vespucci 41, a Testaccio, Elsa Morante ha trascorso la propria infanzia e adolescenza nei luoghi in cui, nella Storia, sono ambientate le scorribande di Useppe e Bella: tra via Mastro Giorgio (la stanza in affitto presso i Marrocco) e via Bodoni, lontane poche centinaia di metri dai luoghi in cui dovette aggirarsi Elsa Morante bambina. Decide di ambientare vicino alla sua residenza familiare le vicende di quel «bambino piccolo, con un cane grosso»27 che, come lei, fa amicizia con gli sbandati del riformatorio Gabelli, dove lavorava Augusto Morante, padre anagrafico della scrittrice. Il personaggio di Scimò, infatti, è la trasfigurazione romanzata di una chiara memoria autobiografica: Figlia di un istitutore presso il riformatorio Aristide Gabelli per l’infanzia traviata, i suoi primi compagni di gioco furono questi bambini («il mio primo amore, a sei anni, fu uno di quelli, mi pareva un angelo, lo chiamavo Sci-
20 «la vistosa introduzione del tema dell’ebraismo nella scrittura morantiana mi pare mediato dalla Weil […] per quanto riguarda l’attitudine psichica e emozionale che la Weil ha assunto verso la tragedia del suo popolo durante la Seconda guerra mondiale: quel suo ostinato porsi in condizione di capro espiatorio per colpe che non le appartenevano, ma che ha voluto prendere su di sé» (C. D’Angeli, Leggere Elsa Morante: La Storia, Aracoeli e Il mondo salvato dai ragazzini, Carocci, Roma 2003, p. 83). 21 S. Lucamante, Quella difficile identità, p. 322. 22 V.E. 1618/1.II-V, c.74v. Che i sogni descritti nel romanzo siano spesso da ricondursi a memorie oniriche personali, o narrate da altri, lo confermano anche altri luoghi del manoscritto. Ad esempio: «In una occasione (qui o in seguito) Carlo (Davide) dice del proprio passato disprezzo per i genitori, perché borghesi (ora sono morti in un lager) (ricordare mio sogno)» (V.E. 1618/5.A, c. 172r) o ancora, nel descrivere uno degli incubi di Useppe: «N.B. [Nel sogno di B. qui c’era | anche tanto sangue]» (V.E. 1618/1.IX, c. 83v), dove “B.” potrebbe forse essere Bill Morrow. 23 V.E. 1618/1.IX, c. 16v. 24 V.E. 1618/1.IX, c. 56v. 25 E. Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, Milano 1987, p. 44. 26 Sull’argomento rimando a G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Il Saggiatore, Milano 1995 (cfr. in particolare il sottocapitolo dedicato a L’antipatico Davide) e a M. Zanardo, Davide Segre nelle carte manoscritte della Storia di Elsa Morante, in B. Alfonzetti, G. Baldassarri, F. Tomasi (a cura di), I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Adi editore, Roma 2014, i.c.s. 27 LS, p. 495.
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Venezia; e infine Testaccio: via Mastro Giorgio, dai Marrocco, e via Bodoni, ultima dimora di Useppe, con la tenda d’alberi a San Paolo, attraverso via Marmorata, via Ostiense; il ponte Sublicio, e da ultimo San Giovanni, per il riconoscimento del cadavere di Nino, e Monte Mario30, dove Ida concluderà i suoi giorni... Roma non fa semplicemente da sfondo, alle vicende: ne è il centro propulsore.
mo; m’insegnava giochi difficilissimi, da ragazzo. Del mio amore non se ne accorse nemmeno»)28. Negli stessi luoghi abitati da Elsa Morante bambina, Useppe frequenta gli stessi amici, e in particolare Scimò, personaggio prelevato di peso da Senza i conforti della religione. Ma è l’intera città di Roma a essere percorsa nel romanzo: se in Senza i conforti della religione ritroviamo principalmente i quartieri di San Lorenzo (anche nel precedente progetto narrativo sede della prima abitazione della famiglia, poi distrutta nel bombardamento del 1943) e i Quartieri Alti29, nella Storia la topografia della capitale si estende: la prima abitazione in via dei Volsci, l’osteria di Remo in via degli Equi, e poi, da San Lorenzo attraverso via Tiburtina, lo stanzone degli sfollati a Pietralata; nel frattempo, le incursioni di Ida nel Ghetto (il Portico d’Ottavia, Via Sant’Ambrogio), e allo Scalo Merci di Tiburtina; e le bravate di Nino tra Piazza Vittorio Emanuele e Piazza
«Un campione estremo e sanguinoso dell’intero corpo storico millenario» Il cronotopo centrale della Storia è, con evidenza, “Roma – dal 1941 al 1947”. Esso, tuttavia, va letto nel dialogo con l’impulso centrifugo impresso al romanzo dalle cronistorie che aprono i singoli capitoli, e che chiudono il romanzo: l’intento della Storia non è quello di produrre un testo documentario-memorialistico, quanto, all’opposto, quello di rappresentare un assoluto esistenziale attraverso un racconto esemplare. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza, soprattutto in quanto costituisce lo scarto principale tra il romanzo di Elsa Morante e il Neorealismo. Quando fu pubblicata La Storia il romanzo parve un’opera di impianto anacronisticamente neorealista: contribuì a questa impressione, non da ultima, la precisione topografica delle ambientazioni. Tra tutti i fraintendimenti a cui il romanzo di Elsa Morante andò incontro nel corso delle aspre polemiche di cui fu oggetto nel corso dell’estate del 1974, questo è forse il più banale, e il più mistificatorio. Basta leggere la prefazione che l’autrice scrisse per l’edizione americana del suo romanzo (First. Ed. Society, 1977) per rendersi conto che il romanzo si proponeva come un vero e proprio atto di accusa, rivendicando una forte carica di attualità, e un intento provocatorio: Col presente libro, io, nata in un punto di orrore definitivo (ossia nel nostro Secolo Ventesimo),
ho voluto lasciare una testimonianza documentata della mia esperienza diretta, la Seconda Guerra Mondiale, esponendola come un campione estremo e sanguinoso dell’intero corpo storico millenario. Eccovi dunque la Storia, così come è fatta e come noi stessi abbiamo contribuito a farla31. Ne era ben consapevole Comencini che, mettendo in scena la riduzione cinematografica del romanzo32, ebbe a notare che: Il periodo e i fatti narrati corrispondono al periodo così ampiamente illustrato dai più bei film neorealisti e quindi il pericolo di citazioni è sempre dietro l’angolo, ed è un pericolo da evitare perché oltretutto il libro non ha la stoffa per trarne un film neorealista. Ida, la protagonista, sogna e i suoi sogni, che dovrò rappresentare, hanno una parte importante nel racconto. Ma quando mai i personaggi dei film neorealisti si sono sognati di sognare!33 Il concetto di realismo di Elsa Morante va al di là dei canoni classici del realismo: le vicende inventate di Ida e Useppe (con il corredo di premonizioni, di melodie di lucherini, e di cani parlanti) sono realistiche in virtù della loro verità umana e psicologica, e del loro valore esemplare. La contestualizzazione cronologica e topografica delle vicende, in questi termini, non risponde a una volontà documentaristica di mera rappresentazione, quanto piuttosto al desiderio di trasfigurare attraverso la finzionalizzazione narrativa un tragico vissuto collettivo che, come ha stravolto le immaginazioni giovanili dell’autrice, sradicando da lei l’infanzia, così ha salutato il breve e festoso passaggio del pischelluccio Useppe in una città dove non restano che le macerie e le rovine di una felicità impossibile.
28 P. Monelli, Elsa Morante, in Successo, IV, n. 2, febbraio 1962, pp. 118-120, p. 118. 29 Luoghi che – assieme a Monte Sacro – torneranno ad essere centrali in Aracoeli, e che invece, nella Storia, destano in Ida oscuri timori: «In seguito anche il quartiere di San Giovanni, come il quartiere di San Lorenzo e i Quartieri Alti intorno a Via Veneto, le era divenuto un luogo di paura» (LS, p. 641). 30 Così suggeriscono i manoscritti: «Fui due volte a visitarla, su nel grande ospedale romano di Monte Mario» (V.E. 1618/1.XVI, c. 71r). 31 A.R.C. 52 I 7/6, c. 59. 32 Per un’accurata descrizione della riduzione cinematografica di Comencini, e il suo rapporto con La Storia, rimando al sottocapitolo Luigi Comencini in M. Bardini, Elsa Morante e il cinema, pp. 224-239. 33 La citazione, riportata da Marco Bardini, si trova in: Luigi Comencini, Il cinema secondo me. Scritti e interviste (1974-1992), Il Castoro, Milano 2008, p. 252.
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Aracoeli: il viaggio impossibile di
«un finto Ulisse» Cecilia Oliva
Nel 1982 Elsa Morante pubblica Aracoeli1, l’opera con cui, dopo sette anni di intenso lavoro scrittorio, si congeda definitivamente dal pubblico dei suoi lettori. Il romanzo ha come protagonista e voce narrante Manuele, intellettuale fallito di quarantatré anni che vive con frustrazione la propria omosessualità e che ha perso ogni legame affettivo. L’uomo, giunto alla piena consapevolezza del proprio fallimento esistenziale, decide di mettersi in viaggio da Milano per raggiungere El Almendral, piccolo paese andaluso originario della madre Aracoeli. Il viaggio è l’occasione per ripensare la propria vicenda personale, ricercando nel terreno dell’infanzia le radici della presente condizione infelice: andando in Spagna egli tenta innanzitutto di riconciliarsi con la memoria di sua madre, per anni fulcro della propria vita affettiva e poi, dopo la malattia e la morte prematura, divenuta oggetto di una dolorosa rimozione. Lo schema del viaggio, che funge da ossatura del romanzo2, è però paradossalmente svuotato delle sue principali caratteristiche: la dimensione spaziale è posta in secondo piano rispetto a una dimensione temporale, scomposta e frantumata, che pervade la scrittura. Il monologo di Manuele si muove infatti liberamente nello spazio virtuale della memoria alternando passato e presente in blocchi narrativi indipendenti, accostati tra loro senza una evidente connessione logica e separati sulla carta unicamente da anonimi spazi bianchi. La priorità quasi esclusiva assegnata al piano temporale anziché a quello spaziale è dovuta innanzitutto all’atteggiamento del viaggiatore che attraversa i luoghi mantenendosi sempre in una condizione di estraneità e isolamento. Manuele evita infatti deliberatamente qualsiasi contatto umano: E adesso, qui nell’Andalusia, come a Milano e dovunque altrove, sarebbe tardivo e demenzia-
1 Per le citazioni dal romanzo si fa sempre riferimento all’edizione completa delle opere: E. Morante, Aracoeli in Ead., Opere, Mondadori, Milano 1990, vol. II. 2 L’importanza dello schema del viaggio in Aracoeli è stata già ampiamente illustrata dalla critica. In merito a questo tema si vedano almeno S. Ceracchini, Oltre le Colonne d’Ercole: il viaggio nei romanzi “L’isola di Arturo” e “Aracoeli” di Elsa Morante, in Andrea Gimbo, Mattea Claudia Paolicelli, Alessandro Ricci (a cura di), Viaggi, itinerari, flussi umani. Il Mondo attraverso narrazioni, rappresentazioni, popoli, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2014, pp. 683-695; C. D’Angeli, Leggere Elsa Morante. Aracoeli, La Storia e Il mondo salvato dai ragazzini, Carocci, Roma 2003, pp. 26-32; G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, il Saggiatore, Milano 1995, pp. 297-301; F. SIDDEL, “Aracoeli”: A journey through Map Space in Quest of the Garden, in Spunti e ricerche, IX (1993), pp. 69-96.
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le a Sesto San Giovanni4. L’immagine di Milano, con il suo squallido grigiore e la sua asettica modernità, si riflette immutata nella descrizione degli altri centri visitati. Anche le stanze d’albergo in cui Manuele passa le notti richiamano nei miseri dettagli dell’arredamento la stanza dell’«alberghetto nei paraggi di Porta Ticinese»5 che l’uomo aveva scelto come propria dimora nell’ultimo periodo trascorso a Milano:
le aspettarsi altro che indifferenza, per me, da parte dei vivi; né io voglio altro. Anzi, sono grato ai vivi di questa indifferenza, che mi permette di passare io stesso, fra loro, come un’ombra insensibile3. Il viaggiatore mostra inoltre scarso interesse nei confronti dei luoghi, muovendosi tra i vari scenari senza riportare impressioni di novità o suggestioni particolari. Il paesaggio è infatti caratterizzato da una piatta monotonia che investe indifferentemente le diverse tappe tra Italia e Spagna: lasciata alle spalle Milano, le città iberiche mostrano inspiegabilmente le stesse caratteristiche della metropoli lombarda, tanto da generare in Manuele una grottesca sensazione di déja vu: Dovunque io vada, invero, mi ritrovo sempre in una Milano feriale e irreparabile. E me ne viene il dubbio che in El Almendral (seppure esiste) al posto della cuccia materna mi aspetti presentemente un sobborgo industriale di frastuono catene e fumo, simi3 E. Morante, Aracoeli, pp. 1101-1102. 4 Ivi, p. 1197. 5 Ivi, p. 1052. 6 Ivi, p. 1160. 7 Ivi, p. 1170. 8 Ivi, p. 1115. 9 Ivi, p. 1046. 10 Ivi, pp. 1105-1106.
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La stanza è quale potevo aspettarmela: una stanza d’albergo di penultima classe, poco diversa da quella che ho lasciato stamane a Milano. Sul muro una carta a losanghe e fiorellini intristiti; un lavandino con acqua corrente, che subito – secondo l’abitudine – ho usato come orinatoio; un armadio a specchio traballante, che certo, al suo interno, trasuda odori sporchi; e un lettuccio affagottato nella sua coperta bruno-rossiccia, con un logoro scendiletto ai piedi6. L’impressione che emerge è quella, assolutamente paradossale, di una immobilità del protagonista che riconosce di aver intrapreso «questo assurdo viaggio da una brutta camera d’albergo milanese a una brutta camera d’albergo forestiera»7, compiendo dunque un percorso circolare inconcludente. Il valore conoscitivo del viaggio sembra smentito già dal principio, tanto che Manuele prende in considerazione l’ipotesi surreale di non essersi in realtà mai mosso da Milano: E anche questo viaggio assurdo in Andalusia – al pari dello specchio falotico, ora dileguato nella sua ghirlanda barocca – non è forse altro che un fantasma onirico della mia accidia: mentre in realtà il mio corpo dorme istupidito dagli ipnotici, in una qualche cameraccia d’affitto a Milano. La presente Avenida – ora svuotata e semispenta – è la proiezione o la copia di altre note arterie cittadine, dove la sera uno corre da un capo all’altro, urtando sempre contro il medesimo se stesso. Tutte le città sono una serie uguale, quando mi ci ritrovo io, solo col
medesimo me stesso di Milano e di Roma e di ogni dove8. Nonostante i sospetti adombrati circa l’inutilità dell’impresa, l’uomo prosegue il suo tragitto in quanto guidato da un «enthusiasmòs» cui egli stesso attribuisce origine divina e che prorompe in lui, solitamente «senza nessuna curiosità del mondo», come «sentimento estremo di rischio e follia»9. Nella cronaca del viaggio l’elemento naturale ha uno spazio ridotto, mentre prevalgono sordide ambientazioni metropolitane. Negli spazi aperti Manuele nota quasi esclusivamente palazzi, insegne di locali illuminate dal neon, macchine in fila, spezzoni di slogan pubblicitari. Si legga a titolo di esempio la descrizione di uno scorcio di Almeria: Sulle vetrine dei bar, a un passo dai miei occhi, posso leggere le scritte invitanti: pescados, mariscos, bocadillos; ma non ho fame. Ho solo sete di un qualche alcol forte, ma questi bar, con le loro musiche invasate, mi respingono. Scantonando mi affaccio su una grande Avenida, dove il misterioso traffico delle macchine è ancora più fitto che sul Paseo del Porto. Gli ingressi alti e vistosi dei prossimi palazzi si aprono su grandiosi atrii illuminati: forse teatri, cinema di lusso, ricchi alberghi da quattro o cinque stelle. E pronto io mi ritraggo verso certe straducole dell’interno, in cerca di qualche piccolo bar tranquillo dove ripararmi a bere; ma anche qui, dagli scarsi localucci gli uguali clamori di musiche meccaniche e televisioni vociferanti mi prorompono contro in uno scoppio al mio primo affacciarmi sulle entrate: come un’unica, piccola orda ostile che mi nega ogni ingresso, ricacciandomi sulla via10. Come si può notare, quello descritto è un paesaggio urbano moderno determinato in ogni suo aspetto dall’intervento dell’uomo, ma in cui la concreta presenza umana risulta paradossalmente assente o intangibile. Quando poi Manuele si avvicina, sebbene riluttante, a luoghi pubblici come i locali di Almeria, questa presenza assume i con-
torni indistinti di una folla vociante e ostile che sembra respingerlo. Nelle descrizioni degli ambienti urbani si possono evidenziare due elementi ricorrenti. In primo luogo la totale assenza di luce naturale: in una continuità di buio e di pioggia che accompagna tutto il percorso dell’uomo, balenano di tanto in tanto «rade fiammelle elettriche»11 che, recepite dai suoi occhi miopi e dalla coscienza alterata per via dell’assunzione di alcol, possono divenire «luci stralunate»12, «enormi bolle infiammate»13, «lampeggi irosi»14. Il buio, che genera in Manuele una sensazione di paura e che amplifica l’impressione di isolamento, è dunque interrotto unicamente dalle luci artificiali dei locali o delle lampade d’albergo che hanno però una caratterizzazione inquietante, deformata, tale da risultare addirittura minacciosa. L’altra caratteristica comune alle varie descrizioni è la presenza pervasiva di suoni che colpiscono particolarmente Manuele, forse per compensazione rispetto alla sua menomazione visiva. Anche l’elemento sonoro, così come quello visivo, è sempre un prodotto artificiale, che genera sensazioni spiacevoli, dal semplice fastidio fino al turbamento angoscioso15. Dai locali, dalle automobili per strada o dalla televisione si spandono infatti «spezzoni di musiche da strapazzo»16, «strombettii di rimprovero»17, «avvisi rabbiosi»18, «scomposti urlati»19. Ad accrescere l’impressione di esclusione contribuisce poi la lingua spagnola che, onnipresente, balza continuamente agli occhi e alle orecchie di Manuele, incapace però di comprenderla. La percezione distorta dei suoni culmina poi nella terri-
ficante rappresentazione dell’«ALTOPARLANTE» che, sulla corriera che conduce a Gergal, diffonde «la sua voce lacerante»20 assumendo i tratti di una mostruosa personificazione divina: ALTOPARLANTE, del resto, vale per un sinonimo di Dio. L’Altoparlante! Presente in ogni luogo. Si direbbe che gli umani rifiutano, oggi, il Dio che parlava il linguaggio del silenzio. […] dovunque e sempre, individui e masse; vivono soggetti a questa Maestà elettrica, rimbambita e sinistra, infuriante nelle sue casse di plastica da cui escono «lampi e voci e tuoni». È un ultimo Dio del pianeta industriale, forse teso a vendicare la furia assordante delle fabbriche imitandone la degradazione e lo strazio21. L’immagine dell’altoparlante, divinità maligna di un desolante mondo meccanizzato, rende esplicita la visione apocalittica di Manuele, sottolineata anche dalla citazione posta tra virgolette - «lampi e voci e tuoni» - tratta dall’Apocalisse22. Tale visione era già emersa in modo latente nel corso della narrazione attraverso la rappresentazione grottesca di aspetti degradati della società contemporanea, osservati attraverso il punto di vista estraniato dell’uomo: dalla mercificazione della cultura messa in atto dalla casa editrice in cui lavora alla mistificazione della verità compiuta dai politici, dall’uso manipolatorio della televisione all’atteggiamento ottuso e conformistico delle folle. D’altra parte, a ben vedere, la descrizione spregiativa di questa realtà artificiale e massificata rivela il particolare sentimento di esclusione vissuto da Manuele, che avverte in
ogni contesto la propria drammatica estraneità. Si può riconoscere allora quanto influisca, nella considerazione del mondo esterno, la condizione personale dell’uomo che tende a proiettare al di fuori di sé, su luoghi e persone, le proprie nevrosi. In questo nodo specifico della narrazione vengono a sovrapporsi piano temporale e piano spaziale: la percezione della bruttezza dei luoghi e dell’ostilità delle folle è frutto dell’azione proiettiva di Manuele, il quale detesta in realtà il suo presente e, di conseguenza, tutto ciò che lo costituisce. Il viaggio si muove sul doppio binario dello spazio e del tempo; vuole essere un percorso di recupero della dimensione passata ma anche della possibilità di vedere la bellezza nel mondo esterno. L’uomo è pienamente consapevole della doppia valenza del viaggio: E così, adesso (l’ora è circa le undici di mattina) mi sono messo sulla strada, in partenza da Milano, per andare alla ricerca di mia madre Aracoeli nella doppia direzione del passato e dello spazio23. L’importanza assegnata all’idea della bidimensionalità del percorso emerge con chiarezza anche dall’intento dell’autrice di farvi riferimento già nel titolo del romanzo: in una fase redazionale intermedia infatti, Elsa Morante prende in considerazione il titolo «Aracoeli [Diario Cronaca] Resoconto di un viaggio spazio temporale», come testimonia un appunto autografo leggibile alla c. 1v del quaderno XIII conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma24.
11 Ivi, p. 1105. 12 Ivi, p. 1064. 13 Ibidem. 14 Ivi, p. 1105. 15 Sul tema delle alterazioni visive e uditive in Aracoeli cfr. G. Rosa, Cattedrali di carta, cit., pp. 313-321. 16 E. Morante, Aracoeli, p. 1105. 17 Ibidem. 18 Ivi, p. 1060. 19 Ibidem. 20 Ivi, p. 1197. 21 Ivi, pp. 1197-1198. 22 Ap. 4:5; 16:18. 23 E. Morante, Aracoeli, p. 1046. 24 I manoscritti di Aracoeli (dodici quaderni e tre cartelle di fogli sciolti) sono conservati nel fondo Vittorio Emanuele (V.E.) presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Per una descrizione sintetica dei materiali autografi della scrittrice cfr. S. Cives, Elsa Morante «senza i conforti della religione», in G. Zagra e S. Buttò (a cura di) Le stanze di Elsa. Dentro la scrittura di Elsa Morante, BNCR, 27 aprile-3 giugno 2006, Colombo, Roma 2006, pp. 49-65.
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Per me, Valencia era una vecchia canzonetta, che la zia Monda cantarellava con voce nostalgica (e alquanto stonata): Valencia dolce terra che ci afferra con le mille seduzion! Sul tuo suolo profumato dai più vaghi fior ho trovato nell’amore la pace del cuor!27 Allo stesso modo Manuele, prima di partire, conosce Almeria unicamente attraverso le preziose illustrazioni delle cartoline inviate un tempo dallo zio spagnolo, dalle quali affiora il ritratto di una città favolosa, esotica, in cui sontuose architetture si stagliano su paesaggi di eccezionale bellezza:
In questa prospettiva, la scelta della meta del viaggio non è affatto casuale. El Almendral, il cui nome parlante suggerisce l’immagine edenica di un mandorleto, è il luogo fortemente idealizzato da Manuele in cui può avvenire il ricongiungimento con il passato. Il piccolo paese andaluso, «ignorato dalla geografia»25 e dalle mappe, vive nella memoria dell’uomo attraverso i racconti fantasiosi che sua madre gli faceva da ragazza e assume pertanto nella sua mente adulta i tratti meravigliosi di «un giardino arboreo, dai fruttini cerulei con dolci semi candidi» che lo accoglierà al termine del percorso «nel suo grembo luminoso»26. Anche delle altre città della Spagna Manuele conserva, pur non avendole mai visitate, un’immagine idealizzata suggeritagli in passato dalle allusioni dei suoi familiari o dai rari contatti epistolari con i parenti spagnoli di sua madre. Si pensi a questo proposito alla rappresentazione della città di Valencia, quasi stucchevole nella sua convenzionalità, offerta da una canzone rievocata dal Manuele adulto:
25 E. Morante, Aracoeli, p. 1047. 26 Ivi, p. 1086. 27 Ivi, p. 1108. 28 Ivi, pp. 1087-1088. 29 Ivi, p. 1087. 30 Ibidem. 31 Sul tema dello specchio in Aracoeli cfr. C.D’Angeli, Leggere Elsa Morante, pp. 62-67. 32 E. Morante, Aracoeli, p. 1104. 33 Ivi, p. 1087.
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Di questa città io so poco o niente. Anche l’opuscolo, che ho qua sotto gli occhi, me ne dà scarse notizie. Chiamata in antico il Grande Porto… Già covo di pirati… Già capitale di splendore moresco… Le sole immagini sue, che tuttora porto fisse nella mente, sono un paio di cartoline illustrate, giunte in passato a Roma, col timbro di Gergal, e conservate per anni in casa nostra. La prima è un’antica veduta della porta di Almeria (la puerta de oro) disegno da Mille e una notte, stampato in un colore ocra solare (l’oro) con qualche macchia d’azzurro e di vermiglio. Simile a un’altissima nave, questa Porta si erge a specchio di un approdo popolato di vele e di minuscoli personaggi d’oriente. E la seconda cartolina è un interno di cattedrale (la CatedralFortaleza de Almeria) dai molti cieli a volta intrecciati di nervature; e scolpito di emblemi e simulacri in ogni suo lato, da parer tutto coperto di una vegetazione uranica.28 L’immagine di Almeria offerta dalle cartoline è caratterizzata da una calda luce naturale che dà vita a colori intensi, così come l’immagine interiorizzata di El Almendral. Anche in questo caso il nome parlante, poiché infatti Almeria «in arabo significa specchio»29, amplifica ed esplicita l’idealizzazione compiuta da Manuele: lo specchio evocato dal toponimo spagnolo è interpretato in un primo momento come «nuovo segno del destino, chiaro simbolo della specchiera da cui sempre mi riaffiora, viva e
presente, Aracoeli»30; allo stesso tempo lo specchio è strumento di visione, oggetto che riproduce fedelmente la realtà e che dunque offre a Manuele una concreta possibilità di auto-riflessione31. Giunto finalmente ad Almeria, ogni aspettativa viene però amaramente delusa. L’esperienza diretta della città si sovrappone all’ideale che ha accompagnato Manuele fin dall’infanzia e lo dissolve: Certo non somigliano a questa le serate andaluse quali se le aspetta la gente del nord (forse avevo anch’io creduto che l’unica stagione dell’Andalusia fosse l’estate?) Ma per me è meglio così. Terribile sarebbe stato sbarcare all’approdo famoso della cartolina, dentro la baia turchino-perla guardata dalla Porta d’oro, quando tutti loro ne sono assenti. In realtà questo, per essi, è un luogo straniero, come, per me, è un deserto32. Ancora una volta si può notare come la dimensione temporale influisca sulla percezione dello spazio: sembra infatti che sia proprio la perdita delle persone amate nel tempo presente a rendere il luogo sconfortante, privo di attrattiva. L’immagine che «Almeria espejo mirror specchio»33 restituisce al viaggiatore che vi scruta se stesso è quella di un uomo solo, senza ormai alcuna speranza di riscatto. Secondo una costruzione narrativa perfetta, nella stanza d’albergo dove Manuele passa la notte ad Almeria si compie infatti questa tragica agnizione. L’uomo, guardando la propria figura riflessa, riconosce definitivamente se stesso e il proprio destino: Con un brivido, ho messo i piedi in terra, decidendomi a spogliarmi, per poi sprofondarmi nel buio. Ma quando i panni, che mi scollavo di dosso meccanicamente, sono caduti sparsi in terra d’intorno a me, d’un tratto mi ha sorpreso, nello specchio, l’apparizione del mio corpo nudo. […] E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi – con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono – si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l’ultimo Al-
tro, anzi l’unico e vero Sestesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d’amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all’indecenza34. Ciononostante, l’uomo decide di proseguire il suo pellegrinaggio, desideroso di «lasciarsi indietro questa città, come un oscuro transito» e spinto «dall’ansia di consumare in fretta, nel movimento, l’attesa snervante per l’ultima stazione promessa: El Almendral» 35. Manuele si mostra, già prima di giungere a destinazione, estremamente lucido circa la distanza che separa l’aspetto reale del paesino andaluso dall’immagine ideale, simulacro del grembo materno creato in età adulta per sopperire ad una mancanza insanabile. L’uomo, che si avvia a compiere l’ultimo tratto del suo percorso, afferma infatti esplicitamente: Da lei stessa – attraverso i suoi accenni avari, malinconici e pudichi – io fin da ragazzino udii che El Almendral non era un mandorleto (come pretende il suo nome) bensì una sassaia bruciata dal vento. Però quella sassaia mi nasconde – invisibile ad occhi estranei – il mio giardino d’amore. Come un’area fatata, difesa da guardiani aerei contro il passaggio successivo dei casi e delle sorti, essa deve contenere ancora, per me, i passi e i respiri di un’Aracoeli bambina. Tutti i momenti di quell’infanzia, vivi e incolumi nella fioritura, ne fanno un giardino di là dai sensi esterni, non meno ricco e colorato degli orti di Shiraz o dell’Alhambra36.
La natura edenica di El Almendral è frutto di una costruzione mentale, che si colloca «al di là dei sensi esterni» e su cui agisce la proiezione di una dimensione passata trasfigurata attraverso una lente fantastica. Nonostante questa consapevolezza, egli affronta l’ultima tappa con un entusiasmo rinnovato dall’incontro con alcuni segnali favorevoli lungo il cammino che lo fanno ben sperare circa l’esito positivo dell’impresa. Ma a El Almendral Manuele trova infine ad attenderlo una distesa arida di pietre e polvere, paesaggio infernale37 su cui viene proiettato l’ultimo impossibile incontro con Aracoeli. L’incoerenza tra ideale e realtà delude le aspettative e destituisce l’idea del viaggio come esperienza formativa che accresce la conoscenza. Lo stesso Manuele riconosce la risibilità delle sue pretese eroiche attribuendosi con amara ironia il titolo di turista più che di viaggiatore: «Questo tale son io, dunque, sbarcato alla prima tappa del mio leggendario ESTERO materno: nient’altro che un turista spaesato fuori stagione»38. Anche in questo suo ruolo ridimensionato e meno nobile, Manuele infierisce su se stesso sminuendo qualsiasi slancio di curiosità verso i luoghi caratteristici dell’Andalusia: «Ma una ripugnanza mentale mi scosta dal porto non meno che dai luoghi turistici, castelli, cattedrali o Porte d’oro. Queste sono tutte larve incantatrici […]»39. L’idea di visitare il castello di Gergal, ad esempio, resa impossibile dalla debolezza fisica dell’uomo, è canzonata dal fantasma di Aracoeli che «ride alle [sue] spalle di tale proposta turistica»40. La grottesca condizione di Manuele, turista dalle pretese ridicole in una regione arida e spoglia che non presenta alcuna attrattiva, si concretizza nel gesto, da lui ripetuto quasi ossessivamente, del togliersi gli occhiali. Il senso della vista41, strumento primo di chi si accosta all’ignoto e conosce il mondo esterno attraverso l’esperienza diretta, è fatto oggetto nel corso del romanzo di una continua mortificazione che
culmina nelle parole che Manuele fa pronunciare ad Aracoeli: Mi vedo qui, a correre su una pista tracciata in un deserto, fra miraggi assurdi, segnali falsi e scenari vuoti; e ancora una volta mi ripeto che le chiamate di Aracoeli sono state, esse pure, un falso segnale; e il mio povero, ultimo romanzo andaluso una fabbrica di ombre equivoche, per trastullo dei miei giorni vani. Dal mondo, in cui pretendo d’incontrare Aracoeli, a me sale la consueta, unica risposta: «Che cosa cerchi, e chi?! non c’è nessuno. E tanto vale che tu ti tolga gli occhiali. Da vedere non c’è niente.»42 La risposta definitiva della madre, incontrata per l’ultima volta nella «pietraia onirica»43 di El Almendral, segna l’ultimo approdo di Manuele, il fallimento della ragione che pretende di asservire alle sue logiche la realtà: «Ma niño mio chiquito, non c’è niente da capire»44. Il passato resta dunque incompreso, confinato in una regione irraggiungibile; il presente si riflette nella desolazione della sassaia di El Almedral e nella solitudine di Manuele, «un finto Ulisse di terra, viaggiante fra finti vivi incantati da finte musiche verso colonne d’Ercole anch’esse finte, poiché immancabilmente se ne tornerà indietro»45.
34 Ivi, pp. 1170-1171. 35 Ivi, p. 1192. 36 Ivi, pp. 1192-1193. 37 Sulla caratterizzazione infernale di matrice dantesca di El Almendral si veda A.M. Di Pascale, Senza i conforti di alcuna religione, in Studi novecenteschi, XXI, nn. 47-48, giu.- dic. 1994, pp. 287-302. 38 E. Morante, Aracoeli, p. 1063. 39 Ivi, p. 1194. 40 Ivi, p. 1280. 41 Sul tema della vista in Aracoeli cfr. C. D’Angeli, Leggere Elsa Morante, pp. 62-67. 42 E. Morante, Aracoeli, pp. 1200-1201. 43 Ivi, p. 1427. 44 Ivi, p. 1428. 45 Ivi, p. 1201.
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Elsa Morante: tra l’allegria della vita e la violenza della Storia Davi Pessoa Carneiro
Il libro La Storia1, di Elsa Morante, è stato pubblicato in Italia nel 1974, tuttavia, iniziò ad essere scritto già nel 1960. Nell’archivio della Biblioteca Nazionale di Roma si trova un manoscritto, redatto probabilmente nel 1958, e riferito al testo Senza i conforti della religione, in cui la scrittrice anticipa alcuni temi che poi verranno sviluppati ne La Storia. Inoltre, nei manoscritti del libro, composto da 19 quaderni, Elsa Morante manifesta indecisione e titubanza rispetto al titolo che avrebbe dato al romanzo2. Questo, inizialmente, si sarebbe dovuto intitolare «T.U.S» (acronimo di Tutto Uno Scherzo), successivamente, «Il Grande Male» e, infine, «La Storia», con “S” maiuscola. (fig. 1):
Fig. 1: Elsa Morante, manoscritto di La Storia, Biblioteca Nazionale, Roma.
In ogni caso, come si potrebbe trovare una possibile origine per una narrazione che si chiama La Storia? Se il tempo irrompe senza tregua dentro e fuori la Storia, ossia, se questo è pre e post-storico allo stesso tempo, quale sarebbe, dunque, la nostra sfida davanti a questo racconto? Pier Paolo Pasolini pubblica nel giornale Il Tempo, l’articolo La gioia della vita – la violenza della storia, in cui analizza il libro di Elsa Morante secondo vari aspetti, dando infine l’opinione che «l’ultimo romanzo di Elsa
Morante è un poderoso volume di 661 pagine e il suo “soggetto” è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia»3. Cerchiamo di seguire le orme de La Storia, in primis, il libro è stato concepito in capitoli di cui il primo
inizia con l’indicazione: «.... 19**». I puntini di sospensione prima del numero colpiscono ancor di più degli asterischi che lo seguono. Nella stessa pagina viene indicato l’anno esatto, 1900, tuttavia, sempre preceduto dai puntini: «....1900».
1 In Brasile: E. Morante, A História. Tradução Wilma Freitas Ronald de Carvalho. São Paulo, Círculo do Livro, 1981. La prima edizione brasiliana è stata pubblicata dalla casa editrice Record, nel 1974, con la traduzione della stessa Wilma Freitas Ronald de Carvalho. 2 Occorre ricordare il caso della traduzione spagnola di La Storia. Nel 2004, la ricercatrice Gloria Guidotti ha pubblicato, nei Cuadernos de Filologia Italiana, vol. 11, pp. 167-176, Universidad Complutense de Madrid, l’articolo L’intraducibile della Storia di Elsa Morante nella Spagna del 1976, in cui discute le alterazioni e i tagli apportati al romanzo durante la sua traduzione in spagnolo. Il motivo dei cambiamenti sarebbe che certi passaggi avrebbero potuto rappresentare un’offesa per l’allora vigente regime, vale a dire, la Dittatura di Franco. Nel 1976 al Congresso La Cultura spagnola fra ieri e domani, Elsa Morante critica la traduzione del suo romanzo e, soprattutto, il titolo datogli - Algo en la Historia - o dal traduttore Juan Moreno o dagli stessi editori della Plaza y Janés. Morante sostiene: «Considero mio dovere prendere occasione da questo convegno per dare notizia agli amici e compagni spagnoli qui presenti della vertenza che mi ha portato in questi giorni a rompere definitivamente ogni intesa con gli editori Plaza e Janés di Barcellona, in seguito a una loro pubblicazione in lingua spagnola del mio ultimo romanzo La Storia». L’articolo della scrittrice è stato pubblicato nel 1976 nei giornali italiani Corriere della Sera e L’Unità e anche nel volume: M. Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta, Nistri-Lischi, Pisa 1999. 3 P.P. Pasolini, La gioia della vita: la violenza della storia, in Tempo, Roma, 26 luglio 1974, p. 77.
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A partire da questa data sono fornite nozioni storiche obiettive dal 1900 fino al 1940. Il secondo capitolo, pertanto, inizia con l’anno 1941 ed è interessante vedere che fino al 1947, ogni capitolo allega una sorta di supplemento con le informazioni sugli accadimenti storici accaduti nei mesi dell’anno in questione, proseguendo così fino alla fine del libro. Pasolini sostiene che questa rappresenta una strategia del confronto, infatti: L’insieme del romanzo si configura come un confronto tra la vita e la Storia: tra un capitolo e l’altro del romanzo (concepito ad annali) ci sono infatti brevi inserti che riassumono gli avvenimenti storici oggettivi – con stile da manuale – dal 1941 al 1967. Nel “primo libro” questa è una trovata, diciamo “strutturale” straordinaria. Perché? Perché la vita che si oppone alla Storia è una vita di morti, e quindi una vita non esaltata in quanto tale. C’è una reale incompatibilità tra essa e la Storia. L’opposizione non può essere dialettica: e quindi non rischia di essere ideologica e velleitaria. Le cose stanno così e basta: il confronto tra la vita dei morti e la Storia produce stupendi effetti allucinatori (come il grande “adagio” della morte della madre Ida)4. Per Pasolini, il confronto con la vita, o meglio, tra la vita dei morti e la Storia non si può ridurre a una dialettica conciliatoria; al contrario, dove si ha un discorso sulla guerra, si ha una strumentalizzazione e una cinica esaltazione della vita. Ciò che leggiamo nelle prime pagine della narrativa sono fatti che eleggono la morte come loro protagonista, infatti Pasolini divide La Storia in tre libri e afferma che il primo e l’ultimo sono i più belli, poiché è la morte l’elemento principale e tutti i personaggi muoiono. Così, indica l’impossibilità di narrare la Storia, anche se
le sue storie sono raccontate da un narratore che conosce tutti i dettagli delle loro vite. A volte, il narratore si nasconde dietro un discorso in terza persona e, in altre occasioni, si mostra attraverso un “io” molto discreto in ogni sua manifestazione. Ne I personaggi di Elsa, pubblicato nel quaderno Corriere Letterario, del quotidiano Corriere della sera, Natalia Ginzburg mette in luce la coesistenza di queste due voci narranti: La Storia è un romanzo scritto in terza persona. Un romanziere oggi, della terza persona, ha paura come di una tigre. Egli sa che nella terza persona, nell’egli, si nasconde ogni specie di pericolo. Scrivendo “io” si sente assai più sicuro, perché tutti i suoi limiti sono subito denunciati. Nella Storia, l’io narrante esiste, ma si affaccia solo ogni tanto, e nello spazio di poche righe. L’io narrante è però, nella Storia, importantissimo, e non denuncia dei limiti, ma è invece il punto da cui viene contemplato il mondo. È un punto insieme altissimo e sotterraneo, dotato di uno sguardo che vede l’infinita estensione degli orizzonti e le infime e minime rughe e crepe del suolo. Tale sguardo non conosce limiti, né in estensione, né in profondità. Sceglie e raggiunge alcune fra le più sperdute creature della terra, segue il corso del loro destino e ne illumina la qualità misteriosa5. Tuttavia, si presenta una forza contraria che si scontra tanto con la concezione di Natalia Ginzburg, quanto con quella di Pasolini rispetto alla persona del soggetto ne La Storia. Cesare Garboli, in Il gioco segreto: nove immagini di Elsa Morante6, nel saggio omonimo al libro La Storia7, discorda dalla posizione di coloro che affermano che la storia è raccontata in terza persona da un narratore onnisciente. Secondo Garboli: La Storia è il solo romanzo della
Morante a essere raccontato da Elsa Morante ipse, proprio da lei, con l’intonazione e il timbro della sua voce e non con una voce imprestata ad altri, in evidente armonia col proposito di abbassare il più possibile il tasso dell’immaginario e di dare al romanzo la forma di una cronaca8. Pertanto, si percepisce che è una discussione che promuove il dibattito e che, esattamente per questa ragione, risulta necessario riportarne tutte le voci eterogenee, pensando alla condizione polivalente che si crea davanti alla rapsodia narrativa de La Storia. Cesare Garboli riconosce l’aspetto eterogeneo nella narrativa della sua amica scrittrice, ma si contraddice, forse in difesa del gesto politico che Elsa avrebbe adottato con più veemenza a partire dagli anni ’60. La difesa di Garboli postula una voce legata alla physis, ossia, alla voce della scrittrice, nonostante riconosca che ci sono molte voci in costante processo di mimetismo. Secondo Garboli: «La Storia è un romanzo con tante voci (corale, si usa dire) che accumula energia raggomitolandosi su se stesso, come in un processo di metamorfosi»9. Le voci ne La Storia sono, così, l’alo-
4 Ibidem. 5 N. Ginzburg, I personaggi di Elsa, in Corriere Letterario, Corriere della Sera, 21 luglio 1974, p. 12. 6 C. Garboli, Il gioco segreto: nove immagini di Elsa Morante, Adelphi, Milano 1995. 7 Prefazione pubblicata nell’edizione de La Storia, Einaudi, Torino 1995. 8 C. Garboli, Il gioco segreto: nove immagini di Elsa Morante, p. 188. 9 Ibidem. 10 G. Agamben, Il linguaggio e la morte: un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 2008, p. 104. 11 R. Barthes, Le discours de l’histoire, in Id. Le bruissement de la langue. Essais critiques, IV, Le Seuil, Paris 1984, p. 173. 12 E. Morante, La Storia, Einaudi, Torino 1995, pp. 364-65.
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zionata del Giappone, si conclude la Seconda Guerra Mondiale. [...] Nel corso della disputa, incomincia a calare fra le due sfere opposte d’Europa la cortina di ferro, intesa a salvaguardare l’oriente dal contagio occidentale e viceversa, come un off-limits fra due lazzaretti contigui12. E nel primo capitolo di questo stesso anno: «Frattanto, nel mese di Agosto, in seguito al lancio della bomba atomica sulle città di Hiroscima e di Nagasaki, anche il Giappone aveva firmato la resa totale»13. E più avanti:
ne di un’assenza, o potremmo affermare, concordando con Giorgio Agamben: la dialettica linguaggio / la lingua è un’ambivalenza poiché un’«articolazione originaria del linguaggio possa aver luogo solo in una doppia negatività, ciò significa che il linguaggio è e non è la voce dell’uomo»10. Postulare un’unitá è, dunque, annullare l’apparenza e celebrare l’origine in termini di un’unica e irremovibile fonte. Non a caso, nel saggio Le discours de l’histoire, Roland Barthes ci mette in allarme riguardo l’insensatezza del discorso storico, che leggiamo abitualmente nelle cronologie e negli annali: «pour que l’Histoire ne signifie pas, il faut que le discours se borne à une pure série instructurée de notations : c’est le cas des chronologies et des annales»11. Ne La Storia, gli annali inseriti all’inizio di ogni capitolo indicano un gesto politico violento, quando compresi come strumento che realizza non una dialettica tra la vita e la Storia, ma che mette in relazione una vita uccidibile e la fine della Storia. Pasolini, nell’articolo già citato, sembra infastidito dalla ripetizione di certe informazioni che, anche se presenti nel sottotitolo dei capitoli, venivano riproposte all’interno degli stessi. Nel mese di agosto del 1945, per esempio, leggiamo nel trafiletto la seguente informazione:
Pasolini vede in questo gesto ciò che sminuisce l’atto più radicale tra la separazione del discorso della Storia, senza significato, e quello della vita già sacrificata15: «Tecnicamente la Morante non si è accorta che nei capitoli di questa parte del libro non doveva ripetere, quasi meccanicamente, ciò che viene esposto nei trafiletti informativi tra un capitolo e l’altro. L’incomunicabilità tra capitoli e trafiletti, per essere poetica, doveva essere radicale»16. Sempre nell’articolo La gioia della vita – la violenza della Storia, secondo quanto già riferito, Pasolini divide La Storia in tre libri ed è importante leggere il passaggio in cui egli esplicita la sua posizione:
Nessuna risposta del Giappone all’ultimatum degli Stati Uniti. Il giorno 6 del mese gli Stati Uniti sganciano sul Giappone (città di Hiroscima) una prima bomba atomica. [...] Con la resa incondi-
Infatti non c’è dubbio che il grosso libro si divide almeno in tre libri magmaticamente fusi tra loro: il primo di questi libri è bellissimo – è straordinariamente bello – basti dire che mi
Così, la Seconda Guerra Mondiale era conclusa. Nello stesso mese d’agosto i Tre Grandi (Signori Churchill e Truman, e Compagno Stalin) si ritrovavano a Potsdam per definire la pace, ossia per segnare i confini reciproci dei loro Imperi. L’Asse Roma-Berlino e il Tripartito erano scomparsi. Appariva la Cortina di Ferro14.
è capitato di leggerlo nel bel mezzo di una rilettura dei “Fratelli Karamazov” e che reggeva mirabilmente il confronto. Il secondo libro invece è completamente mancato, non è altro che un ammasso di informazioni sovrapposte disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci sopra; il terzo libro è bello, benché molto discontinuo e con molte ricadute nella confusione un po’ presuntuosa del libro di mezzo17. Il primo e l’ultimo libro sono considerati da Pasolini rispettivamente «bellissimo» e «bello», infatti, narrano gli avvenimenti in cui la morte rappresenta la protagonista. Nonostante lo scrittore chiami l’ultimo «il libro delle morti», poiché è proprio in questa sede che muoiono Ninnarieddu, Davide Segre, Useppe e Ida, i personaggi principali, potremmo dire che questo stesso nome potrebbe essere esteso tanto al primo quanto al resto del libro. Secondo Cesare Garboli, la strategia politica della scrittrice è ridurre la tensione a zero: «Molto più interessante mi sembra il rigoroso proposito della Morante di allentare la loro tensione emotiva nei confronti delle vicende storiche fino a ridurla, a livello intellettuale e morale, a zero»18. In un altro passaggio, Garboli evidenzia la relazione tra le persone e gli animali, che si propone continuamente lungo la narrazione, con il proposito di enfatizzare il destino insignificante di entrambi: «I destini delle persone non sono diversi da quelli degli animali, sono come i sogni e gli ebrei deportati: si perdono, finiscono nel niente»19. Ambedue i significanti, «zero» e «niente» sono fondamentali. La potenza di questa storia risiede nella possibilità di sperimentare la dimensionsione negativa: la Storia è un vuoto. È in questa tenue linea tra la vita e la morte, o tra la finzione e il linguaggio, che la scrittura di Elsa
13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Giorgio Agamben discute la coesistenza delle forze nello stato di eccezione: «Di pari passo all’affermarsi della biopolitica, si assiste, infatti, a uno spostamento e a un progressivo allargarsi al di là dei limiti dello stato di eccezione della decisione sulla nuda vita in cui consisteva la sovranità. Se, in ogni stato moderno, vi è una linea che segna il punto in cui la decisione sulla vita diventa decisione sulla morte e la biopolitica può, così, rovesciarsi in tanatopolitica, questa linea non si presenta più oggi come un confine fisso che divide due zone chiaramente distinte”. G. Agamben, Homo Sacer: Il potere sovrano e la nuda vita I, Einaudi, Torino 2005, p. 135. 16 P.P. Pasolini, La gioia della vita: la violenza della storia, p. 77. 17 Ibidem. 18 C. Garboli, Il gioco segreto: nove immagini di Elsa Morante, p. 185.
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Morante effettua una vera e propria parodia della finzione. Agamben, nel saggio Parodia, contenuto in Profanazioni, sostiene: La parodia intrattiene dei rapporti speciali con la finzione, che costituisce da sempre il contrassegno della letteratura. Alla finzione – di cui la Morante si sa maestra – è dedicata una delle poesie più belle di Alibi, che ne enuncia compendiariamente il tema musicale: “di te finzione mi cingo, fatua veste…”. Ed è noto che, secondo Pasolini, la stessa lingua della Morante è una pura finzione (“(Essa) finge che l’italiano ci sia”)20. Così, Agamben riprende ciò che aveva già designato come tema preponderante nella scrittura di Elsa Morante nel saggio Il congedo della tragedia: In Alibi, quella straordinaria raccolta di poesie che, al momento della sua uscita, nel 1958, passò quasi inosservata ed è, invece, uno dei grandi libri della poesia italiana del dopoguerra, c’è una poesia che contiene una chiave preziosa per il mondo fantastico di Elsa. È quella che s’intitola Alla favola […]21. È interessante leggere l’ambivalente strategia sviluppata in questa poesia che, nello stesso momento in cui è dedicata alla favola, fa appello alla finzione:
Un’altra poesia emblematica è Ai Personaggi. I personaggi dei racconti di Elsa Morante non sono solo quelli deformati dalla minaccia sfigurante di una realtà che ha subito gli effetti della bomba atomica, a tutti gli effetti, essi si figurano e si sfigurano continuamente in un movimento che non li lascia ancorati a nessuna realtà specifica. In ultima analisi, questi personaggi scoperchiano un abisso tanto misterioso, quanto familiare, essi rappresentano una sorta di traccia, così come leggiamo nella poesia che segue:
fra voi, fiori straordinari e occulti. Ma sulle effimere mie elitre pur vaga una traccia rimane del vostro polline celeste. E il vostro miele è tutto mio!23
Lo so: io, donna sciocca e barbara, non altro che suddita e ancella a voi sono. Ma pure il nastro d’oro delle vostre imprese, e arroganti amori, orna la mia fronte servile, o Sultani infingardi.
Entrambe le poesie sono contenute nel romanzo Menzogna e sortilegio24 e dal momento che la prima è dedicata ad Anna, uno dei personaggi, si trova all’inizio dell’intera opera, mentre la seconda apre la prima delle sei parti del libro (esclusa l’introduzione). Elsa Morante è estremamente consapevole dell’ambiguo gioco operato dal linguaggio letterario, sta di fatto che, l’atto di collocare nel libro entrambe le poesie, una di seguito all’altra, effettua un trasferimento di significati. Infine, Elsa Morante, dicendo ad Agamben che «il linguaggio è morte», non starebbe affermando nulla di diverso da Maurice Blanchot: «Seule, la mort me permet de saisir ce que je peux atteindre; elle est dans les mots la seule possibitité de leur sens. Sans-la mort, tout s’effondrerait dans l’absurde et dans le néant»25.
Altro io non sono che pronuba ape
(Trad. Giovanna Vettraino)
Ai personaggi Voi, Morti, magnifici ospiti, m’accogliete nelle vostre magioni regali, i vostri miniati volumi sfogliate graziosamente per me.
Alla Favola Di te, Finzione, mi cingo, fatua veste. Ti lavoro con l’auree piume che vestì prima d’esser fuoco la mia grande stagione defunta per mutarmi in fenice lucente! L’ago è rovente, la tela è fumo. Consunta fra i suoi cerchi d’oro giace la vanesia mano pur se al gioco di m’ama non m’ama la risposta celeste mi fingo.22 19 Ivi, p. 186. 20 G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 52. Pier Paolo Pasolini, nell’articolo Nuove questioni linguistiche, pubblicato originariamente su Rinascita, 51 (26 dicembre 1964), e che sarà letto in varie città italiane, sottolinea: «Molto particolare è il rapporto con l’italiano medio di Elsa Morante: per così dire essa occupa tutti i livelli al di sopra della linea media: dal livello che sfiora la lingua media, a quello eccelso occupato dagli scrittori in stile sublimis. Infatti la Morante accetta l’italiano in quanto corpo grammaticale e sintattico mistico, prescindendo dalla letteratura. Essa pone in contatto diretto la grammatica con lo spirito. Non ha interessi stilistici. Finge che l’italiano ci sia, e sia la lingua che lo spirito le ha proposto in questo mondo per esprimersi. Ne ignora tutti gli elementi storici, sia in quanto lingua parlata che in quanto lingua letteraria, e ne coglie solo l’assolutezza. Anche il suo italiano è dunque una pura finzione». P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche, in Id. Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II., Mondadori, Milano 1999, p. 1247. 21 G. Agamben, Congedo della tragedia, in Id. Categorie italiane, Laterza, Bari-Roma 2010, p. 65. 22 E. Morante, Alla Favola, in Ead., Alibi, Longanesi, Milano 1958. 23 E. Morante, Ai personaggi, in Ead., Alibi. 24 E. Morante, Menzogna e sortilegio, Einaudi, Torino 1948. 25 M. Blanchot, La part du feu, Gallimard, Paris 1949, p. 313.
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La poesia di Enrico Testa Rossano Pestarino La poesia di Enrico Testa è da sempre una poesia enunciativamente pacata, di esordi minuscoli e fini senza punto fermo: forse una poesia di continui inizi, che ogni volta cancellano l’avvio precedente? Si potrebbe citare in questo senso la poesia esordiale, dal valore metapoetico, di Pasqua di neve, la terza raccolta einaudiana, del 2008: «puoi cominciare anche | senza un inizio | o, al modo degli indiani, | camminare cancellando | ad ogni passo il principio; | e finire senza chiudere | interrompendo disarmato la parola | quasi non fossi più tu a dirla». Una poesia di “voci”, poi, con intere liriche (o anche prose) virgolettate, voci di fuori, che il poeta trasforma in “voci di dentro”, prove di una coralità, di una umanità, senza barriere di genere (si vedano le voci anche femminili nella sezione Discorso dell’ostaggio, ancora in Pasqua di neve). C’è una novecentesca compassione, asciutta e sottile, per tutto ciò che vive, a cominciare dalle forme più umili (bisce, chiocciole, rane), per continuare con gli alati, anche i più petulanti (si ricordi il bel verso dedicato a «l’invadente nazione dei merli» nella già citata raccolta), senza escludere naturalmente le forme vegetali: basti la magnifica conferma della bouganvillea del binario 20 della stazione Principe, a Genova, che non sarà mai più la stessa per chi sul quel binario arriva o parte, se ha la ventura di averne letto, nel racconto in versi di Testa, il fantastico e misterioso viaggio, dal Sudamerica fino a Genova (questa gloriosa e misteriosa città che con tanta facilità si fa amare e odiare…). Si tratta di una delle poesie più intense di Ablativo, la più recente raccolta (Torino, Einaudi, 2013), nella quale tante fila del lavoro di Testa raggiungono risultati di un valore tale da poterla considerare già ora uno dei libri destinati a rimanere. Il nuovo inizio che per un poeta inevitabilmente rappresenta un nuovo libro è qui per Testa, come per gli indiani di cui sopra, insieme punto d’arrivo e di ripartenza, che in qualche modo ingloba e cancella (ma al contempo ribadisce) tutto il pregresso, per esempio anche nel senso della consumata acquisizione dei modelli letterari più forti: bastino gli ovvi nomi di Montale e Caproni, o quello di Sbarbaro, ma risalendo anche alla fortissima presenza, assai attiva anche in Ablativo, del maestro più grande di tutti, Pascoli; e questo senza contare i tanti poeti stranieri cui Testa raffinatamente allude, talvolta dichiarando i propri “debiti” nelle note che accompagnano i volumi. Rileggere i libri di Testa ora, alla luce di Ablativo, mette in rilievo il ricco intreccio di temi, suggestioni, dubbi, scoraggiamenti e fiducie che il poeta aveva in parte già intensamente tematizzato nelle raccolte precedenti. Ne basterebbero due: il tema della compassione filiale e familiare, fin dai «figli del mezzadro» di In controtempo (Torino, Einaudi, 1994, p. 10) e poi nella indimenticabile figura della figlia del custode del Caos di Girgenti, in Ablativo (p. 11); ma è questo un tema che coinvolge anche, in prima persona, l’io del poeta: si veda la lirica dall’incipit che suona quante volte sono stato / (per qualche istante) tuo padre!, a p. 95 de La sostituzione (Torino, Einaudi, 2001), e poi la poesia dedicata al figlio in Ablativo (p. 115), memorabile per l’intensità del lascito, tanto più perché avviata da un incipit di miracolosa e casuale “normalità”: a mio figlio mi viene da dirgli (è questo il tema che si potrebbe riassumere con un verso folgorante della citata poesia de La sostituzione, «la sfolgorante moneta del passaggio»; e Passaggio è il titolo dell’ultima, toccante sezione di Ablativo). Ancora, un filo rosso che lega le raccolte di Testa è quello della ricerca affannosa e spesso frustrata del senso, e del tutto, un tutto che è continuamente divorato dal niente. Già in La sostituzione si legge una bellissima poesia, tutta virgolettata, che si apre sul volo dei rondoni e lo zampettio di un merlo (forse già lo stesso merlo che in Ablativo verrà a visitare la tomba del poeta Edoardo Firpo?) e che chiude con questi versi: «Ma qui dove il senza | s’è tramutato in tutto, | al patire del suo sguardo, | al suo muto andirivieni senza posa | anche a me manca | – vorrei che lo sapesse – | la risposta, l’unica che possa…» (p. 49). Il tema dell’osmosi difficile e sofferta tra presenza e privazione, tra senza e tutto, tra tutto e niente (che non è detto si allinei sempre alla contrapposizione vita/morte), per questo poeta di sfumature che non accetta però il grigio delle tinte
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intermedie per quanto riguarda il senso (o non senso) profondo dell’esserci, è ricomparso, in una dimensione più ampia di quella strettamente autobiografica, in Ablativo, nella chiusa della lirica di p. 101, memorabile fin dall’incipit (i grandi laghi che ricoprivano l’altopiano), nella sezione Breve escursione in Sudamerica che è tra gli esiti più alti della raccolta: un percorso, forse un confronto, tra l’Europa e un mondo altro, nel senso di una ricerca di autenticità della vita che il soggetto moderno non può trovare nelle “città terribili” dell’Occidente (neppure nella piccola, umana, colorata e affettuosa Genova?): «Qui dove non si dà requie | ma dove trovo pace, | dove il niente fatuamente agghindato dal tutto | tace» (e di una «vasta | orbita saturnale della città» si parlava già in Pasqua di neve, p. 50). È un’altra delle fisionomie della poesia di Testa, che è anche “poesia di viaggio”, a cominciare almeno dalla sezione Baltiche di Pasqua di neve per continuare con Balcaniche e appunto con la quasi metafisica Breve escursione di Ablativo. Testa ci ha ormai abituati a libri lungamente pensati e preparati, di grande ampiezza e articolazione, nei quali le diverse sezioni dialogano a distanza in una progressione ricca di significato. Da questo punto di vista risultano particolarmente produttive due strategie che il poeta ha adottato nei libri più recenti: l’inserzione di sezioni in prosa tra quelle in versi (a partire da L’anniversario e Al Giardino botanico in Pasqua di neve e poi con Molo di Alcantara in Ablativo), e l’inglobamento nel proprio lavoro di un testo tradotto da Philip Larkin (di cui Testa ha come noto tradotto nel 2002, sempre per Einaudi, la raccolta Finestre alte). In Ablativo si legge, di Larkin, quasi a introdurre le tre sezioni finali del libro (tra cui Grammatica, che si apre con la poesia eponima), una dolente poesia autobiografica intitolata La falciatrice, sul tema della morte, anzi dell’uccisione, gratuita, involontaria, perciò tanto più assurda e crudele, anche perché colpisce un animale, che diventa monito tremendo ad essere gentili (kind) gli uni con gli altri, fin che siamo in tempo (ammoniva già Henry James: «Three things in human life are important: the first is to be kind; the second is to be kind; and the third is to be kind»). Ma forse ancora più pregnante risulta, nel libro e nello sviluppo della poetica di Testa, la traduzione di Aubade (Canzone dell’alba), che è il cuore di Pasqua di neve (raccolta che una volta di più pare confermarsi come momento cruciale nel lavoro poetico di Testa): una lirica sul timore angoscioso e sgomento della morte, intesa in termini assolutamente e incontrovertibilmente materialistici, senza alcuna concessione a “illusioni” di qualunque genere (ivi compresa la consolazione filosofica di marca epicurea, e lucreziana, dell’«o lei o noi»), come una «anestesia da cui nessuno fa ritorno» («Non essere qui e da nessun’altra parte e presto. | Nulla di più terribile, nulla di più vero»). Già fin da In controtempo, Testa trovò chiarissima la dimensione stilistica che con progressivi ampliamenti e maturazioni ha condotto all’accento inconfondibile di Ablativo: una “dimessa solennità”, potremmo dire, che ha bruciato e assimilato ogni suggestione apertamente debitrice della lingua dei suoi modelli e ha prodotto un esempio di scrittura poetica che sa dire o suggerire esperienze disparate con un tono e uno sguardo difficilmente equivocabili. Come rivela l’uso un po’ scontroso ma sempre arreso e amoroso della rima, montalianamente difficile da scacciare, che riesce, nel succedersi delle raccolte, a liberarsi da un residuo retrogusto («i fastidi della rima | dallo strano sapore» si legge in una poesia di In controtempo, p. 23), per arrivare agli esiti delle raccolte più mature, dove essa sottolinea di norma, come deve, vaste e vibranti implicazioni (basterebbero certi esempi di rima baciata in chiusa, come la clausola della già citata poesia sul Caos di Girgenti, spezzata anche da un lapidario stacco di strofa: «Senza allontanarsi dalla casa | il custode porta a passeggio tra gli ulivi | – l’uno all’ombra dell’altra – | la povera figlia. || Cartagine è a poche miglia»). Ma in Ablativo arriva a esiti irrefutabili e irreversibili anche la riflessione di Testa sullo statuto dell’io e sul suo rapporto col mondo. È un io che vive non più, con Montale, «al cinque per cento», ma invece «all’ablativo»: un’invenzione arguta, quasi epigrammatica, che dalla declinazione ginnasiale (la «litania dei casi») evince i simboli progressivi dei diversi “stadi sul cammino della vita”, il più recente dei quali è iscritto nel sesto caso e nella cifra della separazione, del distacco, della distanza. L’ablativo è però anche il caso più solerte e produttivo, quello che più si sporca e compromette con le cose, per via dei mille complementi che descrivono, interpretano, e quando è possibile modificano, come fa Testa scrivendo, il reale, cioè la percezione, del mondo e dell’io.
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Enrico Testa Enrico Testa (1956) è una delle voci più singolari della poesia italiana contemporanea. Professore Ordinario di Storia della Lingua Italiana presso l’Università di Genova, coniuga l’attività accademica con quella poetica. Esordisce nel 1988 con Le faticose attese (San Marco dei Giustiniani), che gode della prefazione di Giorgio Caproni, con il quale Testa intraprende un dialogo personale, artistico e saggistico. Successivamente pubblica con Einaudi In controtempo (1994), La sostituzione (2001), Pasqua di neve (2008) e Ablativo (2013) con cui vince importanti premi letterari, tra cui il Viareggio-Répaci per la poesia. Come per altri grandi poeti suoi conterranei, basti pensare a Caproni, a Sbarbaro, a Giudici o a Montale, la sua poesia rivela un forte legame con la terra natale. Allo sguardo obliquo che rasenta cose impercettibili e minute si affianca la sua attenzione verso le cose stanziali che compongono il quotidiano e verso un mondo naturale (gli animali e le piante), ma soprattutto verso i temi dell’altrove e del viaggio, che a volte tingono la sua poesia di toni solo apparentemente esotici. I fili della trama di questo genovese di Nervi vengono disegnati nei campi dell’esperienza vissuta – i luoghi vicini e lontani –, dei paesaggi visti e sentiti, delle persone incontrate – presenti o assenti che siano. Eventi che nei versi si trasfigurano, per un’esperienza che viene offerta e condivisa col lettore, una poesia dunque che comunica e segue un suo percorso, si dispiega nella sua semplicità (in verità, ingannevole e apparente) e nel ritmo di una musica con accordi docili, ma anche taglienti. Una voce “bassa” e intensa che si trasforma in sussurri e immagini poetiche, e etiche, che lasciano delle vestigia nel corpo del lettore; voce che resta come brusio. La sua ultima raccolta, Ablativo, edita da Einaudi e tradotta in portoghese dalla Rafael Copetti Editor, nel 2014, diventa quasi una riunione degli elementi rilevanti nella sua poetica, oltre ad accennare e aprire ad altri sentieri possibili dentro il suo laboratorio poetico. Alcuni di questi segni, forse, c’erano già in Pasqua di neve (2008). Viaggi tra Balcani e Sudamerica, dialoghi con persone conosciute, una costante immersione nel mondo della memoria e del sogno. In queste pagine pian piano trova spazio tutto ciò che è ambivalente, tutto ciò che non è univoco e di facile interpretazione. Ambivalenza di luoghi, solo per fare un esempio, Genova e Lisbona che si confondono, con la prima che viene letta tramite la seconda. Ambivalenza pure di situazioni, azioni e sentimenti. La bipolarità è un altro segno di Ablativo. In questa configurazione, quindi, si assiste al continuo smarrirsi e ricomporsi del soggetto che, attraverso le esperienze raccontate nelle poesie di Ablativo, dimostra quanto l’identità personale non sia un elemento monolitico, ma sia costantemente in costruzione, in movimento, in divenire e in conflitto. L’“esercizio” di Enrico Testa è, dunque, un perdersi per ritrovarsi, per perdersi ancora, un analizzare pungente che restituisce freschezza alla frammentaria visione d’insieme, una volontà di fare i conti con l’assenza e l’abbandono per rivedere la capacità evocativa della memoria.
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Il ϔilo delle relazioni umane Intervista a Enrico Testa Patricia Peterle e Elena Santi
Cosa significa essere poeta oggi? Che cosa è un poeta per lei? Il poeta è un nostalgico cantore dalla parola un po’ consunta e desueta? È necessariamente un oppositore del mondo? Essere poeta oggi significa essere qualcosa meno di niente. Ritengo insopportabili coloro che ‘fanno’ i poeti assumendo atteggiamenti da vati o da guru new age e credono così di collocarsi in una posizione d’eccellenza. Il poeta è in fondo un uomo come tutti, con qualche problema in più e, in contraccambio, con una minima dose d’attenzione e sensibilità che, per sorte e cultura, si declina in versi. Quindi - per favore - no ai cantori nostalgici, no ai canti dispiegati, no al restauro dei tempi andati. Anche perché oggi – considerati il crollo del prestigio della cultura umanistica e la perdita dei suoi valori simbolici e antropologici - della poesia in fondo non importa niente a nessuno. Che poi ogni poeta appena decente debba provare un certo disagio nei confronti del mondo mi sembra quasi un prerequisito essenziale: se guardiamo, anche lasciando da parte problemi metafisici e questioni ontologiche, a come il mondo funziona (molto concretamente: concentrazioni finanziarie, nuove e antiche schiavitù, predominio dei mezzi di comunicazione e persuasione di massa, omologazione planetaria, avidità e povertà in perverso connubio) non ci si può non sentire in ‘esilio’ perenne e provare a dimostrarlo. I modi per farlo non coincidono però – sia chiaro – con quelli 31
dell’obbligo pragmatico, della poesia ‘civile’ a tutti i costi (che è spesso solo un rito onanistico). Si può dire no anche scrivendo quartine d’amore o mettendo in versi le proprie quotidiane esperienze, facendo però percepire che la visione adottata e la lingua usata non pagano pedaggio alla doxa: alle logiche e mode e sistemi di pensiero dominanti. Che, con buo-
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na pace dei liquidatori della critica sociale e materialistica e ideologica, continuano ad esserci: sempre più forti e pervasivi e occulti. Qual è il suo rapporto con la parola e con la lingua? In quanto poeta sente la lingua come strumento adeguato di comunicazione poetica? E come definirebbe il suo proprio linguaggio poetico?
A proposito della lingua e della lingua della poesia, è necessario fare una premessa. Il secolo scorso è stato indubbiamente il secolo del linguaggio: ha visto la fondazione della linguistica moderna; tanti filosofi si sono dedicati a questo tema; numerose discipline si sono fondate su di esso; poeti e narratori ne hanno fatto un oggetto costante di riflessione. Ed è stato pure il secolo delle sue più torbide e violente manipolazioni. Ma c’è un filo costante in tante analisi del linguaggio: la messa in rilievo dei suoi limiti, della sua impossibilità a dire, del suo carattere ‘funerario’ che, mentre esprime verbalmente un messaggio o ‘chiama’ un oggetto, o falsifica il primo o sopprime, sino ad ucciderlo, il secondo. È insomma il riflesso – sul piano della comunicazione verbale – della vasta impresa demolitrice del nichilismo che ha pervaso il Novecento. Ecco, forse quest’ultima – sia le filosofie del Nulla sia le sue prospezioni linguistiche – va finalmente consegnata agli archivi. Senza restaurare antiche visioni ‘ottimistiche’, del tutto fuori luogo, e magari servendosi della lezione, per me fondamentale, di Lévinas, mi viene da pensare che il linguaggio sia, pur con tutti i suoi limiti, quanto ci tiene insieme: stretti e in lotta, in euforia o in afflizione. Il filo delle relazioni umane. Un’importante possibilità del loro senso. E un cenno (solo un cenno) di trascendenza nell’immanenza. E non penso alle sue forme elaborate, agli stili della letteratura, ma proprio ai discorsi ‘comuni’ che, quando privi di modismi e occasionalismi suggeriti dai media, rivelano un’insospettata profondità di significati e una densa filigrana di affetti e, insieme, concrezioni geologiche dell’italiano, stratificazioni semantiche, visioni del mondo che solo lo snobismo di certi mandarinati molto up to date può guardare con disprezzo. D’altronde se Wittgenstein diceva che in una goccia di grammatica si concentrano oceani di filosofia, Lacan, da parte sua, rimarcava la ricchezza e invitava all’ascolto dei discorsi da strada o da metropolitana. E la poesia? Credo che alla poesia non si debba pensare come ad un genere linguistico a parte, come a un codice con i suoi precostituiti segni d’identificazione; ma che, consapevoli dei
suoi limiti (ci sono temi e questioni che altri tipi testuali affrontano con maggior presa e forza interpretativa), vada appunto interpretata nel quadro, dialogico e generale, dei discorsi umani, sottolineando la sua appartenenza ad essi e ad essa richiedendo quel medesimo grado di responsabilità (per sé e per gli altri) che ci sentiamo di richiedere ad ogni gesto e ad ogni parola degli interpreti dell’esistenza. Il mio linguaggio poetico, da parte sua, mira – almeno mi pare – ad una semplicità grammaticale, percorsa però da segni che fuoriescono dalla lineare ordinarietà della dizione ora per via lessicale (pochi termini estranei all’uso) ora per via testuale (con violazione delle regole della consueta coerenza semantica e presenza di referenti ‘opachi’ non immediatamente recuperabili) ora – e soprattutto – per via armonica (il ‘brio’ anche nelle situazioni più cupe attraverso l’affezione o il vizio della rima nelle sue varie forme e giaciture nel verso).
dialogano tra loro o rimangono disgiunti? Dopo premi importanti per la poesia (l’ultimo il Viareggio 2013), lei ha appena ricevuto il premio Mondello per la critica con L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale. I suoi studi accademici entrano in qualche modo a far parte della sua poesia? Più in generale, quali poeti e scrittori operano nella sua scrittura? Innanzitutto provo a rispondere all’ultima parte della sua domanda. Probabilmente non sono pochi gli autori in questione, anche se mi
è difficile, dopo i maestri riconosciuti di apprendistato ed esordio (primo tra tutti Caproni), individuare nomi precisi. Due cose mi sento di dire: credo che la tradizione non sia un’eredità di cui liberarsi con un semplice gesto di fastidio: si scrive perché altri hanno scritto prima di noi e sperando che altri lo facciano dopo; in secondo luogo, ho la convinzione che operino nella mia scrittura, più che letture di stampo poetico, letture di stampo narrativo (in particolare romanzi dell’Ottocento) e – a dispetto dei fautori
Si usa dire oggi che sono più i poeti dei lettori, cosa ne pensa? E come intervengono i nuovi supporti (internet, blog) nel rapporto con il pubblico? Quali sono le prospettive per il mondo della poesia nei prossimi decenni? Che ci siano più scriventi di poesia che suoi attenti lettori è un dato sociologico di patente evidenza, aggravato dal fatto che i primi non si sentono più in dovere di leggere i grandi autori del passato, remoto e recente. Di internet, blog e fenomeni simili, ho ben poco dire: scorgo solo una nebulosa indistinta, una gran confusione, un eccesso di narcisismo che, come nei social, spinge a dire, sempre e comunque, io… io… io… Non si capisce più chi parla e perché e sulla base di cosa. Del futuro della poesia ne so ancora meno non essendo provvisto di doti profetiche. E poi – le confesso – è il mio ultimo problema: potrei dire, con una frase fatta, che la poesia durerà quanto l’uomo; invece, in uno sbotto di sincerità, mi viene piuttosto da esclamare: “ma che se ne vadano tutti a ramengo!” Come si coniuga la figura del critico letterario e ricercatore con quella del poeta? Sono due aspetti della sua vita professionale che 33
ovvio filo di continuità tra di esse (che almeno momentaneamente mi preserva dalla schizofrenia) e di qualche punto di contatto, in particolare tematico (alcune ossessioni profonde), mi pare che seguano ognuna la loro strada. D’altronde cosa c’è di più insopportabile di un professore che s’atteggia a ‘poeta’? Forse solo un poeta che non si dimentica mai, mentre scrive versi, di essere professore. Per fortuna mi scordo spesso di essere sia l’uno che l’altro.
della purezza del ‘canto’ - perfino saggistico. A proposito delle due figure: l’attività prevalente è – almeno dal punto di vista quotidiano e quantitativo – quella del critico o, meglio (visto che non ho mai esercitato funzioni ‘militanti’), quella dello storico della lingua, letteraria e non letteraria, e del professore: due mestieri, in fondo, e niente più e connessi tra loro. Al di sotto o accanto, la scrittura in versi, che percepisco più vicina al punto centrale della mia scombinata identità e al
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suo quotidiano rimettersi in sesto, tra sbreghi e toppe, per la semplice ragione che è strettamente legata ai fatti della mia esistenza. In fondo scrivo poesie solo per cercare di interpretare quest’ultimi o, semplicemente, per ricordarmeli (sperando, sotto sotto, che il mio ricordo coincida o si avvicini a un ricordo inespresso ma simile, per esperienza o sentimento o valore, del lettore). Quali siano le relazioni (dialogo? separazione radicale?) tra questi due aspetti o attività resta per me un mistero: al di là di un
Cosa rappresenta per lei la sua ultima raccolta Ablativo? Che cosa si intende per “poesia ablativa”? È una poesia legata ad una sorta di pluralismo e alla molteplicità del significato? Quale posizione è riservata al poeta in una poesia che cerca di spingere il soggetto ad abbandonare i propri confini semantici e ontologici? Parlare addirittura di poesia o poetica “ablativa” è forse esagerato. Partiamo dal titolo: esso rimanda (qui sì da professore!) ad un caso latino altamente sincretico in cui si radunano varie funzioni: l’allontanamento da sé, lo spostamento in un altrove, il movimento e la stasi (al punto che le poesie del libro potrebbero essere divise, come certa selvaggina dei cacciatori, in stanziali e migratorie) e, ancora, le funzioni strumentale e comitativa: l’essere per altri e con altri. Insomma il titolo è stato scelto sia per la pluralità – come diceva lei - dei suoi significati (pure in contrasto tra loro) sia perché segna in maniera netta la distanza dal primo caso: il nominativo. Con tutto quanto è in quest’ultimo implicato: pronuncia assoluta, ruolo centrale dell’io, postazione eminente di stampo liricheggiante. I vari passaggi dell’ablativo invece mi sembra che, da un lato, comportino per il soggetto la scoperta di un nuovo destino (al crocevia di voci diverse, stretto tra generazioni non proprie, immerso in relazioni imposte da microcosmi particolari come da mondi stranieri: famiglia, amicizia o luoghi remoti) e, dall’altro lato, suggeriscano una cosa per me molto importante: che la poesia, in fondo, condivide la fragilità della nostra esistenza, i limiti del tempo che ci resta (diceva Marina Cvetaeva che, per chi scrive, l’importante
è «Non farsi un nome – fare in tempo»), e, insieme a tutto questo, i sentimenti che ci agitano e il nostro spartirci la vita. Né statue né monumenti quindi (figure antiche ma sempre ritornanti in certe idee o tendenze sacrali e ‘assolute’ della letteratura), ma tutt’al più una scrittura sottile e a caratteri piccoli – quasi un geroglifico o glossa o nota – al margine di un testo – la vita – che ci affascina e ci distrugge. Quale sia la posizione riservata al poeta in questo tipo di scrittura è, in fondo, molto semplice: stare tra condizioni e situazioni diverse mantenendo la consapevolezza di non avere mai l’’ultima parola’. Il tema del viaggio e dell’altrove si coniuga in modi diversi in questa raccolta. Da un lato abbiamo Lisbona, che, nella lontananza, sembra rispecchiare il proprio punto di partenza, Genova. Dall’altro c’è l’America del Sud, con i suoi colori, i suoi “orizzonti / che hanno in sé il grigio e il giallo / e una trac-
cia sottile di azzurro”. È questo il percorso del nuovo Io ablativo che, dopo aver accettato il proprio dissolvimento, percorre migliaia di chilometri per rincontrarsi? Il viaggio, insieme ai motivi del sogno e della memoria (soprattutto familiare), è una delle strutture fondamentali del libro. Credo che vada inteso, almeno qui, come la dimensione in cui il soggetto, una volta accettato – in una mimesi un po’ parodica della filosofia stoica – serenamente il proprio intimo dissolvimento, si mette di nuovo alla ricerca di un orizzonte in cui ascoltare se stesso e gli altri e, forse, il ritmo originario della vita e il suo attrito con i mutamenti di storia, antropologia e società. Il viaggio è insomma (e poco importa che sia più o meno ‘esotico’) la realtà in cui l’io si perde e si ritrova e in cui percepisce che la sua identità, lungi dall’essere un dato sostanziale e precostituito o – come si vuole oggi – un elemento puramente aleatorio o virtuale, è
invece il frutto di un lavoro: un’identità composta di tessere diverse e attraversata da echi e segni plurimi a cui prestare attenzione e da rimettere assieme. Con pazienza, sobrietà e discrezione. Possiamo pensare alla sua poesia, o forse alla poesia più in generale, come una sorta di dialogo con le cose assenti, in quanto o fisicamente lontane, o appartenenti al mondo della memoria o dei morti, molto presenti in altre raccolte come Pasqua di Neve (Einaudi, 2008)? È possibile una via non poetica per instaurare questo dialogo? Sin dalle origini (ci sono tante prove documentarie al riguardo) la poesia è una forma di dialogo con gli assenti e, in particolare, con i morti. La mia poesia non fa che percorrere, a modo suo, questo sentiero. Il fatto sociologico e antropologico recente è questo: in passato e, soprattutto, sotto altre latitudini, il possibile ‘con-
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tatto’ con gli scomparsi si dava anche attraverso forme rituali, che avevano la funzione di mediare e assorbire gradualmente il lutto, modellando, per così dire, la scomparsa. Poi è intervenuta, invece, una radicale rimozione della morte e della funzione e del rispetto dei morti: espulsi dal circuito sociale e simbolico ancor prima che siano entrati nell’aldilà. In tale situazione – a meno che non ci si voglia affidare a pratiche medianiche o spiritiche, che personalmente sento lontane – la poesia è rimasta l’unica pratica simbolica, insieme alla preghiera per i credenti, di rapporto e dialogo, sia pur paradossale e aporetico, con i morti. In una poesia come la sua, che cerca di liberarsi della sovrabbondanza, della retorica e del narcisismo, e che in un certo senso adotta volontariamente un aspetto più modesto, in cosa risiede il valore estetico? Non lo so proprio e non so neppure se la mia poesia abbia
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un chiaro valore estetico. L’unica cosa che mi sento di affermare – sia pure sottovoce – è che le mie poesie sono mie: fanno parte della mia vita e, soprattutto, delle persone che in essa, di sponda o direttamente, sono comunque entrate. E, belle o brutte che siano, hanno un timbro loro e non confondibile. Non ne farei mai baratto – in una sorta di patto demoniaco – con le poesie di nessun altro, sia pure più autorevole o di maggior successo o, come si dice oggi, di grande ‘visibilità’. Come descriverebbe la sua traiettoria poetica dalla sua prima raccolta Le faticose attese (San Marco dei Giustiniani,1988, con la prefazione firmata da Giorgio Caproni), fino ad Ablativo (2013)? C’è qualcosa da cui, in questo lungo viaggio poetico, non ha mai voluto separarsi? Cosa invece ha abbandonato? Quali le conquiste? Dalle Faticose attese del 1988 ad Ablativo del 2013 molto è cambiato, ma qualcosa è pure soprav-
vissuto. Il primo era il libro di un attardato ragazzo affascinato, in sostanza, da due temi ed esperienze: il rapporto con la natura e l’amore (un “affabile canzoniere amoroso” lo definì Giovanni Giudici). Vi era all’opera un’intenzione – a guardarlo col senno di poi – che si potrebbe definire nippo-ligustica: l’attenzione, quasi ossessiva, ai mutamenti offerti da alberi, animali e fiori in una serie di variazioni tonali (un po’ come avviene, fatte le debite proporzioni, con le forme dell’haiku di certi grandi poeti giapponesi) svolte però sul mio scenario originario: quello, appunto, ligure o, meglio, di una ridottissima porzione di quel mito antropologico che va sotto il nome di Liguria. E, dall’altra parte, vi agivano le ragioni del sentimento, la semplice scoperta di un amore che dura nel tempo, percorso però da brividi sottopelle, dal senso della minaccia. Come una giornata d’estate in cui risuona il borbottio di tuoni lontani. Poi le cose sono inevitabilmente cambiate: l’esperienza del dolore, la scomparsa di tanti volti cari, il biologico mutare dell’io, la varietà delle letture hanno in parte modificato quell’ atteggiamento di partenza. E la scrittura si è fatta, in parte, più sensibile (anche con effetti, forse, di eccessivo spiazzamento del lettore) all’enigmaticità dell’esistenza. Ritrovando poi (ma non posso certo dirlo io) una nuova chiarezza negli ultimi due libri. Ma pur con tutti gli inevitabili mutamenti, determinati dal trascorrere degli anni e da incontri, occasioni diverse, viaggi nella propria stanza e in luoghi remoti, credo – a leggerli di seguito, i miei cinque libretti – che si possano vedere (o, almeno, a me piace vederli così) come una specie di convito a cui partecipano tante persone: ora destinatari di un testo, ora personaggi del testo stesso, ora occasioni della scrittura. Tutti insieme, vivi e morti, sul margine tra quotidianità e mistero. Una comunità impossibile. Come accade nei sogni. E come penso succeda pure nell’esistenza, a cui danno voce e senso sia chi ci sta fisicamente vicino sia chi, pur assente, continua a parlare con noi non esitando a farci domande e a chiamarci in causa.
Appunti di geometria la processione celeste delle cicogne, stanche del viaggio africano, sui monti della Bulgaria e piÚ in alto la scia dell’aereo per Monaco in intersezione con altri bianchi solchi ancora visibili e pulsanti. Becchi scarlatti e remiganti tese e un lontano frullio nel vento. Ed ecco ora, vicina e improvvisa nel silenzio, la linea nera del corvo in volo. Rette angoli secanti croci. Geometria di colori banco di scuola esercizio pieno di errori. Cielo e liceo quasi la stessa parola
inedito di Enrico Testa
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I movimenti Ogni società cambia attraverso nuovi governi, nuove leggi oppure perché viene sfidata dal basso da sommovimenti popolari emotivi ed improvvisi: i movimenti collettivi. Tutti i movimenti collettivi sono il prodotto di una tensione che si accumula lentamente e ad un certo punto esplode in quello che io ho chiamato lo stato nascente, la gente si affolla nelle piazze, si affratella, ed ha una esaltante esperienza di eccitamento, entusiasmo, dedizione, speranza in un rinnovamento radicale, nell’avvento di una nuova epoca felice. È quello che abbiamo visto nelle piazza Tahir del Cairo e recentemente anche nella Puerta del Sol di Madrid. Poi da questo confluire spontaneo talvolta emerge una leadership carismatica. I politologi e i sociologi sanno che esistono i movimenti collettivi ma li capiscono poco e ne sottovalutano l’importanza. Per esempio pochi hanno capito che la fine della prima repubblica fra il 1989 e il 1994 è avvenuta sotto la spinta di movimenti collettivi. Eppure è in quel periodo che sono emersi la Lega, il movimento referendario di Segni, Mani Pulite che poi ha generato il partito IDV, e Forza Italia da cui è sorto il PDL, cioè le formazioni che hanno caratterizzato l’assetto politico fino ad oggi. Ormai tutti sono d’accordo che questo assetto stia tramontando. Molti però pensavano che la transizione sarebbe avvenuta come in Inghilterra o negli USA, col passaggio del partito di governo all’opposizione e viceversa. Ma questo accade nei sistemi bipartitici mentre l’Italia è una repubblica parlamentare, e il bipartitismo è recentissimo e già in crisi. Di conseguenza il cambiamento sta avvenendo ancora una volta attraverso nuovi movimenti. Il processo è iniziato nella sinistra grazie alla istituzione delle primarie che consentono l’accendersi di un movimento attorno ad un candidato che diventa un capo carismatico. E’ successo prima con Vendola, poi a Milano con Pisapia e a Napoli con De Magistris. Il movimento di Vendola ha adottato addirittura un colore simbolico nuovo, l’arancione. Ma il processo di certo non si è concluso. Aggiungiamoci che sono in atto mutamenti anche nel PDL e nella Lega. A destra e nel centro potrebbe crearsi un vuoto politico ed uno stato di incertezza che prelude al formarsi di movimenti. Nessuno di essi ovviamente è prevedibile, però si può immaginare che il sistema politico italiano nel prossimo decennio sarà caratterizzato da formazioni politiche e leaders totalmente nuovi. Francesco Alberoni
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PASSA TEMPO
DIVERTIMENTO
Pierino è stato cattivo e la mamma lo rimprovera severamente: — Eppure ti ho sentito con le mie orecchie, ieri sera, quando hai pregato il Signore di farti diventare più buono, più obbediente... — Se è per questo mamma, gli avevo chiesto a Natale una mountain bike e non l’ho mai ricevuta...
PUZZLE
RISATISSIME
SOLUZIONI
PUZZLE
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