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ANO XIII - NUMERO 139


Agosto 2015 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com mosaico@comunitaitaliana.com.br Direttore responsabile Pietro Petraglia

La voce, la memoria, l’attualità: interviste alla letteratura

Editori Andrea Santurbano Fabio Pierangeli Patricia Peterle Revisore Cleo Cirelli Giovanna Vettraino Grafico Wilson Rodrigues COMITATO SCIENTIFICO Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andrea Lombardi (UFRJ); Cecilia Casini (USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Roberto Francavilla (Univ. di Genova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (UFBA); Wander Melo Miranda (UFMG). COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino (in memoriam); Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. SI RINGRAZIANO “Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero” STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 2175-9537

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Interrogare la letteratura e con essa il nostro tempo è il progetto del volume di Aldo Onorati, La voce e la memoria. Interviste a personaggi del Novecento, Edilet, 2015, di cui questo numero di Mosaico riecheggia il titolo. Una quarantina di interviste a grandi scrittori (Rea, Pasolini, Saviane, Dario Fo, Diego Fabbri, Mario Pomilio), a personalità della critica letteraria e della cultura, anche scientifica (Piero Angela, Roberto Rossellini, Sergio Quinzio, Goffredo Petrassi, Giuliano Manacorda), dagli anni Sessanta al Duemila, sviscerando i temi caldi della contemporaneità: del resto, interrogare la letteratura vuol dire sollecitare le domande sul senso della vita, sulle dinamiche sociali e individuali, sull’amore e sull’amicizia, come emerge dalle due belle interviste, tratte dal libro di Onorati, a Pier Paolo Pasolini (1960) e a Giorgio Saviane (1972), dall’articolo ancora su Pasolini e il suo autentico gioiello cinematografico Che cosa sono le nuvole?, nonché dall’intervista, spostandoci all’oggi, su problematiche di scottante attualità, a Pompeo Onesti, scrittore salernitano. Preannunziando il numero interamente dedicato a Pasolini, Angela Felice, attivissima e intelligente direttrice del Centro Pasolini di Casarsa, ci offre una visita in Friuli, a Versuta, dove il poeta, barbaramente ucciso quarant’anni orsono, riposa nel paese di temporali e primule. A chiudere, la rubrica “Incontri di carta” propone un’intervista, arricchita da una poesia inedita, con una delle voci più note dell’Italia contemporanea: Valerio Magrelli. Buona lettura! Gli editori


Indice La voce e la memoria: la cultura italiana dal 1960 al Duemila nelle interviste di Aldo Onorati Marco Onofrio

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La voce e la memoria Aldo Onorati

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Un «villaggio di dieci case». Pasolini a Versuta Angela Felice

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Figli del Sud, romanzo di formazione, romanzo sociale: conversazione con Pompeo Onesti Stefano Pignataro

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Dal grido della morte al sorriso estatico della rivelazione. Dall’Otello shakespeariano a Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini Mariacristina Faraglia “Incontri di carta”: Valerio Magrelli a cura di Patricia Peterle e Elena Santi

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RUBRICA Francesco Alberoni PIL e trasformazioni

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PASSATEMPO

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La voce e la memoria: la cultura italiana dal 1960 al Duemila nelle interviste di Aldo Onorati Marco Onofrio1

Con questo libro di interviste (La voce e la memoria. Interviste a personaggi del ‘900, Edilet, 2015), Aldo Onorati mette finalmente a disposizione di tutti il suo ricco bagaglio di esperienza, umanità, cultura viva. Ha sempre parlato, per rapidi accenni – nelle conferenze pubbliche, quando il discorso gli porgeva il destro, o nelle occasioni informali, con gli amici, magari davanti a un buon bicchiere di vino –, degli incontri giganteschi (Petrocchi, Pasolini, Levi, Rea, Armando, Rossellini, Fo, et alii) che ha avuto in sorte e da cui, senza cercare vantaggi personali, ha tratto insegnamenti e nutrimenti decisivi per la sua crescita, come uomo e come scrittore. C’è chi, viceversa, si accompagna alle grandi personalità, e soprattutto ai personaggi di potere, per bieco opportunismo temporaneo: l’ossequio dura finché non si è incassato il tornaconto, o finché non appare qualcuno più influente o più utile cui destinare le genuflessioni. La “resistibile ascesa” di molti cinici procede zigzagando in questo modo: a forza di leccare, fiore dopo fiore, riescono a ottenere privilegi – o almeno tali appaiono al momento – … e però, attenzione, la vita fa lunghi giri, obbedisce a una profonda legge di equità co-

1 Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo la prima parte della prefazione a Aldo Onorati, La voce della memoria, Interviste a personaggi del ‘900, Edilet, Roma, 2015. A Marco Onofrio, poeta, narratore, saggista il più cordiale ringraziamento da parte della direzione di Mosaico.

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smica, si esprime attraverso trionfi “ingiusti” che preludono a cadute terrificanti, a nemesi feroci. Feliciano Onorati, il saggio padre di Aldo, gli ricordava sempre, fin da bambino, che “i cavalli buoni si vedono alla fine della corsa”. La Storia non fa sconti a nessuno. Quando cade la polvere delle chiacchiere, spesso sollevata ad arte, resta l’evidenza vera delle cose: a quel punto guarentigie e prebende contano ben poco. La storia della letteratura, per restare in tema, è piena di nomi “altisonanti” che, in vita, facevano incetta di premi e vendevano migliaia di copie, riscuotendo un successo di cartapesta, pompato dalle trombe del potere; ma che poi, appena morti, sono stati completamente e giustamente dimenticati. Onorati ha dedicato un suo recente libro alla meditazione sul “senso della gloria” nelle vicende umane, inquadrate sub specie aeternitatis con lo sguardo umile e supremo di chi “sa” che, dopotutto, il premio agli sforzi profusi è tanto più grande quanto più tarda a giungere, ostacolato dai mille lacci dell’invidia e spesso costretto a ricompense postume, poiché – come scrive Foscolo nei Sepolcri (vv. 220–221) «’a generosi / giusta di gloria dispensiera è morte». Oggi invece si confonde il valore col potere, la gloria con il successo, la fama con la notorietà. Viviamo nel pieno marasma di quella effimera “società dello spettacolo” che Guy Debord tanto acutamente analizzava, alla soglia degli anni ’70. Questo volume di interviste e conversazioni è, per certi versi, la risposta e la continuazione pratica del libro sulla gloria. Onorati, dopo aver saggiato (dialogando con alcuni grandi pensatori del passato: Dante, Foscolo, Schopenhauer, Leopardi) i pesi e i contrappesi del grande sfacelo umanistico in cui oggi tanti furbi ingrassano allegramente, a spese di ignare moltitudini, e di cui rari spiriti eletti patiscono i miasmi in silenzio, avendone danni e innumerevoli amarezze, riporta le cose nell’alveo della loro essenza e all’origine della loro aberrazione: gli articoli partono dal 1960 (Pasolini), e dun-

que ci riconducono agli anni in cui, parallelamente al boom economico, cominciava a diffondersi la percezione reale, attraverso una coscienza critica acquisita, degli scenari già preconizzati dalla Scuola di Francoforte negli anni ‘30, ovvero il prezzo che la gente avrebbe pagato, in termini sociali e culturali, per la via intrapresa dalla politica, improvvida sostenitrice di uno “sviluppo” che in realtà mistificava logiche particolaristiche di profitto economico, appannaggio delle solite oligarchie. Pasolini, poco prima di morire, inquadrerà il grande traviamento consumistico in termini di “genocidio” e “mutazione antropologica”; ma già nel 1963 Italo Calvino invocava la “sfida al labirinto” in cui si era trasformata la realtà dopo la grande cesura che aveva spezzato, per sempre, il filo con i mondi precedenti: «Dalla rivoluzione industriale» notava Calvino «filosofia letteratura arte hanno avuto un trauma dal quale non si sono ancora riavute. Dopo secoli passati a stabilire le relazioni dell’uomo con se stesso, le cose, i luoghi, il tempo, ecco che tutte le relazioni cambiano: non più cose ma merci, prodotti in serie, le macchine prendono il posto degli animali, la città è un dormitorio annesso all’officina, il tempo è orario, l’uomo un ingranaggio». Così riassume il fenomeno Elsa Morante, in un inserto conclusivo del romanzo La Storia (1974): «Nelle nazioni avanzate, si estende lo sviluppo progressivo e mastodontico delle industrie, che vanno succhiando le migliori energie e accentrando in sé tutti i poteri. In luogo di servire all’uomo, le macchine lo asserviscono. Lavorare per le industrie e comperarne i prodotti diventano le funzioni essenziali della comunità umana. Alla proliferazione delle armi si accompagna una proliferazione di beni di consumo irrisori e subito scaduti per le necessità del mercato (consumismo). I prodotti artificiali (plastiche) estranei al ciclo biologico trasformano la terra e il mare in un deposito di rifiuti indistruttibili. Sempre più si allarga, sui territori del mondo, il cancro industriale che avvelena

l’aria, le acque e gli organismi e assedia e devasta i centri abitati, così come snatura e distrugge gli uomini condannati alle catene nell’interno delle sue fabbriche. Per l’allevamento sistematico di masse di manovra al servizio dei poteri industriali, i mezzi di comunicazione popolari (giornali, riviste, radio, televisione) vengono usati per la diffusione e la propaganda di una “cultura” deteriore, servile e degradante, che corrompe il giudizio e la creatività umana, occlude ogni reale motivazione dell’esistenza, e scatena morbosi fenomeni collettivi (violenza, malattie mentali, droghe)». È proprio questa, in buona sostanza, la filiera di problematiche su cui Onorati sollecita gli intellettuali a confrontarsi; e lo fa con la visione ampia e olistica di un dibattito “aperto”, chiamando a interloquire persone distanti fra loro sia nelle idee sia nella prassi della vita, per cui la risultanza dei colloqui dipinge un quadro complesso, a 360°, degli scenari evocati nel vivo addipanarsi dei pensieri. Sono interviste di particolare importanza testimoniale, poiché raccolte

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dall’interno stesso di una prospettiva di cambiamento, nello snodo nevralgico che articola la frattura tra il “non più” e il “non ancora”, tra un mondo che si allontana irrevocabilmente e un altro che comincia a manifestarsi. Dalla cartina di tornasole delle domande porte da Onorati, catalizzatrici di risposte rivelatorie e talvolta profetiche, si coglie il passaggio decisivo che porta alla luce della coscienza intellettuale italiana il primo apparire dell’età “postmoderna”. Il mondo stava cambiando per sempre: dopo secoli di continuità, nulla sarebbe stato più come prima. «Il filo della trasmissione si è spezzato», ha scritto Benedetta Centovalli nel 2006, guardando alla globalità del disastro ormai compiuto. Il tramonto dei valori ha partorito la notte artificiale di un mondo plastificato, compulsivo e nevrotico oltre i limiti dell’in–differenza, che procede ciecamente alla deriva, come avvitato e incartato su se stesso. Le conversazioni qui raccolte sono preziose per ricostruire lo Zeitgeist di questa grande trasformazione epocale, nella misura in cui

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riescono a catturare il clima ideologico e morale di alcuni decenni cruciali per la storia del nostro Paese, inquadrata nel più vasto ambito dell’Occidente: soprattutto gli anni ’70. I dibattiti suscitati dal confronto generatore delle idee si muovono dunque come sipari trasparenti e sovrapposti, sul palcoscenico dove la cronaca inscena la commedia (tragica) della Storia umana: è un libro che occorre leggere tra le righe, nei suoi intrecci, nei suoi sviluppi, nelle sue pieghe nascoste, tra le spinte delle sue mille istanze propulsive. E che sia un libro di storia viva, storia di idee a confronto – nel gioco infinito che le plasma, sospese sull’equilibrio dei loro aggiustamenti – sta a dimostrarlo la “grana” delle voci originarie che Onorati ha saputo interiorizzare, ciascuna diversa e unica, nel discorso scritto. Ricordo un passo di Alfredo Panzini dove lo scrittore romagnolo si dice contento che «nessun disco sonoro ci ripeterà la voce di Giulio Cesare» perché essa è già udibile nello stile dei suoi libri, cioè nell’impronta biologica della sua scrittura. Ogni voce “svela l’uomo”: rivela la personalità e anche la fisionomia di chi la porta, e si riverbera nel suo modo precipuo di comporre la “musica delle parole”, che si può percepire fin dalla eventuale trascrizione di un suo discorso orale; soprattutto se chi lo mette su carta è abile a inglobare il contesto pragmatico della comunicazione, con tutte le sfumature psicologiche ed emotive legate al momento. Onorati conosce appunto l’arte difficile dell’intervistatore, che sa non soltanto porre le giuste domande, ma anche e soprattutto riprodurre la complessità “in fieri” della conversazione, senza ridurla o banalizzarla. I discorsi, infatti, mantengono la flagranza “aurale” del parlato e si irradiano nella densità polisemantica dello scambio intercorso, se i due interlocutori, arricchendosi reciprocamente dallo “strofinio” dei rispettivi pensieri, si sono inoltrati e incontrati nella “radura luminosa” di un luogo invisibile dove – con ogni probabilità – non sarebbero arrivati in solitaria. Quante idee nascono da idee? Quante parole chiamano parole, o

le contengono a “scatola cinese”? Molte di queste conversazioni non sono semplici interviste, asettiche o freddamente professionali, ma “eventi” che vogliono accadere tra due intelligenze disponibili a pensare, a contaminarsi, a trasformarsi, a cercare insieme “una” verità. Eventi aperti al divenire, dove nulla è programmato o dato per buono in anticipo: niente “piatti pronti”. Onorati aborre anche i cibi “precotti”; la sua intenzione è di “cucinare” gli ingredienti del pensiero a quattro mani con la persona che intervista, assecondando gli sviluppi che può prendere il discorso, anche quelli fortuiti o meno felici. Naturalmente la disponibilità dell’intervistato può essere maggiore o minore, a seconda dei casi. In genere è l’autenticità profonda dell’intervistatore a stimolare la creatività negli intervistati, inducendoli a mettersi in gioco. Spesso l’intervista riesce come l’incontro paritario di due spiriti liberi (accade ad esempio con Rossellini, Dom Franzoni, Dario Fo) che rinnova i fasti perduti della civile conversazione di impronta umanistica. Non sempre, com’è normale, scocca dall’incontro la “scintilla”: Onorati comunque non fa filtro, non cambia le carte in tavola, non edulcora il colloquio a posteriori. È con questo rigore sincero e onesto, profuso al momento di “imbottigliare” i discorsi, che si conserva il sapore caldo della vita, e il suono irripetibile delle parole che furono dette quel giorno, a quell’ora, in quel luogo particolare, con quella certa luce, etc. – così che il lettore è in grado di riviverle, come se fosse presente. Che cosa resta di una voce dopo che il silenzio la divora? Quali tracce può lasciare nella memoria degli uomini e del mondo? Quale potere ha, una volta registrata e trascritta, di rievocare la memoria di un uomo, dei suoi pensieri, delle sue opere? Per questo il libro si intitola La voce e la memoria, ma non solo: anche perché cultura, letteratura e arte sono chiamate a convergere, oltre che per il loro “specifico estetico”, come banchi di prova dell’evoluzione storica e sociale; luoghi privilegiati dove si forma e sedimenta, appunto, la memoria.


La voce e la memoria Aldo Onorati

Dal libro edito da Edilet, La voce e la memoria di Aldo Onorati pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, le interviste a Pasolini e Saviane. Ho l’ambizione di scrivere romanzi veramente oggettivi: Pier Paolo Pasolini (1960) Tra gli autori recentemente assurti alle mete maggiori di successo e di critica, il nome di Pasolini è certamente uno di quelli più noti e più discussi. Di lui si può affermare che, piaccia o non piaccia la sua produzione letteraria, successo e critica vanno di pari passo, rappresentando la viva discussione delle sue opere nei più disparati ambienti, una garanzia certa di personale originalità. Non è tuttavia nostro compito tratteggiare qui la dimensione artistica dello scrittore Pasolini e siamo certi che ai nostri lettori assai più interesserà conoscere quel poco del suo pensiero e della sua esistenza che abbiamo avuto la fortuna, nel rapido incontro con lui, di ascoltare e conoscere. Pier Paolo Pasolini non è stato contagiato da alcuna forma di snobismo e rimane legato all’ambiente crudo e realistico nel quale si muovono e vivono i suoi personaggi. Ci sentimmo, nell’iniziare la breve conversazione con lui, subito liberati da quel senso di emozione che incute l’anticamera degli uomini già assurti agli onori delle cronache. Il nostro incontro fu quindi improntato allo stile di una semplice ed amichevole conversazione, della quale riportiamo qui alcuni passi, certi di far cosa gradita ai nostri lettori. − Professore, lei ha cominciato subito a scrivere per l’editore Garzanti o esistono altri suoi scritti a cura di altri editori? − Sì, esistono, pubblicate da Sansone, le “Poesie Friulane”, usci7


te in edizioncine fuori commercio; a cura di Guanda è stato poi pubblicato anche un volume di critica. − Da giovane si è dedicato di più alla poesia? Quali sono stati nei primi anni i suoi autori preferiti? − Mi sono dedicato molto alla poesia, da giovane. La prima che scrissi fu all’età di sette anni e mezzo. Da ragazzo, parlo di autori extrascolastici, ho letto Carducci, un po’ meno Pascoli. A quindici anni Shakespeare e Dostoevskij. − Non rammenta nessun particolare spiacevole, in gioventù, relativo alla sua attività di scrittore? − Mi lasci un po’ ricordare… Sui diciassette anni, una poesia rifiutata dal giornale del Guf di Bologna perché considerata troppo personalistica. − E uno piacevole? − La cartolina del critico Franco Cantini: «Il suo libro mi è piaciuto tanto. Lo recensirò». Si tratta delle poesie in friulano pubblicate a venti anni. Abbiamo atteso che terminasse di dare un’occhiata al numero di marzo del nostro periodico, poi abbiamo continuato. − Quale autore di musica classica predilige? E che pensa degli indiavolati ritmi moderni? − Fra tutti, Bach, per il suo estremo rigore mentale, per la sua mancanza di facilità. Niente da ridire sulla musica moderna. Ai cantanti italiani però preferisco quelli americani. Gli italiani mi sembrano dei dilettanti. E poiché volevamo entrare in

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un argomento molto delicato, siamo andati per le lunghe. Quindi abbiamo cominciato a parlare di “Una vita violenta”. − Le è costato quattro anni di lavoro, professore. A differenza della Sagan che sforna due libri l’anno… − Affronta problemi difficili… − Un semianalfabeta – abbiamo incalzato – in un paio d’ore legge la Sagan. A nostro modesto parere non esistono personaggi che s’impongono, né problemi, né originalità di trama in questi romanzi. Ma con un sorrisetto diplomatico, Pasolini è passato ad altro argomento. E noi non abbiamo insistito. − Leggemmo sul «Reporter» la polemica con Marotta. Riuscire a fare una bella fusione tra dialetto e lingua è senz’altro molto difficile. Potrebbe dirci, per favore, quali motivi l’hanno spinta a scrivere così? − Sono motivi troppo lunghi per riassumerli in una risposta… Ho usato il dialetto soltanto nei due romanzi. Ho l’ambizione di scrivere romanzi veramente oggettivi, non soltanto nella sostanza ma anche nella superficie; voglio cioè raggiungere un’oggettività integrale e non posso prescindere dal fatto che nell’ambiente nel quale creo i miei personaggi si usa esprimersi in dialetto. Quando abbiamo parlato di una recensione. apparsa sul «Quotidiano», di “Una vita violenta”, nella quale si diceva: «Lessi dieci anni fa una bellissima poesia di Pasolini… Cosa può ora in un fervido

ingegno un’anima malata!», Pasolini ci ha spiegato che il recensore si riferiva alle prime poesie, a quelle decadentistiche e misticheggianti. Le altre del secondo periodo (“Le ceneri di Gramsci”, “La meglio gioventù”) erano già di ‘un’anima malata’. Diciamolo tra noi: quel critico ha fatto meticolosamente il suo dovere di recensore del “Quotidiano”. − Ha qualche altro lavoro in preparazione? − Sto scrivendo delle poesie che raccoglierò in due volumi. Sto mettendo a posto un libro di saggi. È in preparazione un nuovo lavoro, “La mortaccia”, che descrive la discesa di una prostituta all’inferno secondo la falsariga dell’Inferno dantesco. I personaggi che vi si trovano sono contemporanei. − Quando avremo il piacere di leggerlo? − Fra due o tre anni. Qui non possiamo che esprimere i nostri auguri più fervidi: è chiaro il perché Pasolini prediliga Bach. − Per concludere. La nostra Rivista nega che esista un problema dei giovani. Esistono i teddy-boys? E se esistono, quali pensa ne siano le cause? − I teddy-boys esistono nelle città che somigliano alle metropoli americane: Milano, Torino, Bologna, e sono frutto della scontentezza ideologica; in questa nazione dominata dal capitalismo. Da Roma in giù, nelle zone agricole sono pochissimi e per questi ultimi la causa è da attribuirsi alla disoccupazione e alla mancanza di scuole. − Certo. In Italia c’è ancora una buona percentuale di uomini che sono costretti a mendicare il lavoro alle grandi ditte come gli schiavi al tempo dei faraoni. Questo è un segno di inciviltà. Il lavoro è la massima dignità umana che però non tutti riescono a perseguire nel nostro Paese. Ci intrattenemmo ancora a lungo con Pier Paolo Pasolini, in una conversazione veramente interessante che ci diede modo di conoscere meglio e più da vicino l’animo sensibile di un artista che ha conquistato l’attenzione e le simpatie di un foltissimo pubblico e particolarmente quelle della nuova generazione. «Virgola», luglio 1960


La libertà dello scrittore secondo Giorgio Saviane (1976) Firenze è la città in cui vive e lavora Giorgio Saviane, autore del romanzo Il mare verticale e di altri stimolanti libri quali Il papa e Il passo lungo. A Saviane, che seguiamo da tempo con la simpatia che merita, abbiamo chiesto: − Rivolgiamo questa domanda proprio a un autore di successo: uno scrittore può vivere solo col suo lavoro letterario? − Dipende da come vive: se applica la retorica della povertà non soltanto a parole, penso che possa. Io non ce la farei proprio anche se non fumo, non bevo, non mangio: ho tuttavia la retorica opposta, di spenderli tutti. Tutti possono essere anche pochi, ma per chi si è abituato a spender tutto, è difficile anche se siano pochi. Se però si considera lavoro dello scrittore quello giornalistico e quello radiotelevisivo o del cinematografo, allora uno scrittore di successo può discretamente campare. Certo, se penso a quanto lavoro richiede un romanzo, lavoro di architettura oltre che di scrittura, dovremmo dire che i peggiori pagati sono proprio gli scrittori. − La generale convinzione secondo la quale lo scrivere non è un lavoro vero e proprio, ma un hobby da tenersi per ultimo nei ritagli di tempo, obbliga un autore a svolgere una professione per vivere. Le migliori energie se ne vanno per un impegno che, il più delle volte, non interessa, o non coincide con quello vocazionale. Fino a che punto tutto ciò incide negativamente sull’opera? − Io ho un altro lavoro, oltre quello dello scrittore, ma le mie migliori energie le colloco proprio a scrivere, la mattina quando mi sveglio (possono essere le cinque come le nove) fino alle due le tre del pomeriggio. D’altra parte ritengo che la mia professione di avvocato ci guadagni enormemente dalla riflessione che io compio sulla pagina, tant’è vero che i miei clienti se si sentono trascurati nel tempo che io dedico a loro, non lo sono altrettanto per i risultati, risultati per lo più dovuti alla diligenza delle idee che ho imparato a disciplinare nella mia opera di romanziere. Che è veramente un lavoro massacrante, per usare una parola consue-

ta, ma io direi meglio macerante, perché nella fatica sgorga intanto felicità e poi maturità che dà i suoi frutti quasi ora per ora. Sempre che per maturità non si intenda quella dei benpensanti, o della saggezza stereotipa che è solo un consentire ai pragmatismi e ai tabù del momento opportunistico. Il coraggio di contraddire, ad esempio, è la maggiore maturità, quando si contraddica il sacro di moda. La nostra infatti è ancora una civiltà tutta sacra, anche e soprattutto per certo dogmatismo che si è consacrato ad una dissacrazione conveniente. Il compito dello scrittore è capire queste cose, e capire non è un merito ma un compito: attendere però con le antenne tese la rivelazione del conoscere distrae dal fare, e fare conta: bisognerebbe che chi fa attuasse ciò che lo scrittore ha colto, perché capire è appunto un compito al quale bisogna dedicarsi professionalmente: questo è lo scrittore. Non buttar le storiette che compiacciono, ma inventare storie per comunicare nuova conoscenza. − In Italia, uno scrittore è veramente libero di scrivere quello che vuole senza correre rischi di emarginazione e di congiure del silenzio? − Molte volte mi sono sentito fare questa domanda con un certo scetticismo. Dirò che talvolta mi sento anch’io coartare a non dire, ma sulla cronaca, su certa politica. Quando scrivo, invece, dispiego interamente le mie idee, per lo più

rivoluzionarie, e se ho trovato anche molta incomprensione, devo dire che ho trovato anche molti lettori: certamente più di quanti mi aspettassi. Non più di quanti desidererei: sinceramente io vorrei che i miei libri fossero letti da tutti, non ho nessuna vergogna a confessare questa mia ambizione, che poi ritengo sia l’ambizione dello scrittore, anche se non sempre confessata. Le idee sono l’unica cosa di cui non si sia gelosi. L’idea infatti è avulsa da ogni rigore animale di proprietà, primo atto umano scevro dai tabù anche se ha contribuito a crearli tutti. Certo se io avessi esercitato il mio scrivere sulle idee conformistiche, probabilmente il successo mi avrebbe arriso prima che fossi costretto a intraprendere un’altra professione per campare. Però sono più contento così, ritengo che uno scrittore non possa essere veramente libero se mangiare dipenda da quello che scrive, se viene indirettamente coartato senza che se ne accorga: perciò la posizione dello scrittore, o è quella dell’indipendente o è quella del servo del conformismo, e non importa la buona fede. Anzi la buona fede rende crudeli i vessilli conformistici, togliendogli anche quel po’ di dubbio che dà la cattiva coscienza: meglio, in altre parole, un ladro che sappia di rubare, piuttosto che un ladro che creda di compiere il furto in nome di Cristo o di altri profeti. − Come mai escono sempre di meno opere impegnate politica-

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mente, in un senso o nell’altro (salvo, poi, a considerare impegnati anche quei romanzi e quelle sillogi di versi che parlano, magari per caso, di fabbriche o di pastori)? − Probabilmente perché non ci sono falsi scrittori: un’opera impegnata sulla prassi della politica quotidiana è infatti solo un commento, per dirla eufemisticamente, di idee altrui. Lo scrittore non può compiere la sua opera che a monte della prassi, la sua opera non può che essere strettamente teorica, solo così è originalmente creativa e su di essa dovrebbe formarsi la prassi politica e non diversamente. − In molti paesi dell’Oriente e dell’Occidente ci sono vere e proprie sagre della poesia e la gente fa la fila davanti alle librerie o fuori i teatri quando ci sono incontri con gli autori. In Italia, nemmeno gratis la gente va a una conferenza o a una lettura di versi, ecc. Le cause? − Quando l’Italia era uno dei maggiori paesi del mondo avevamo Dante Alighieri appunto, interprete di un’idea al colmo della sua maturità, e poi Petrarca e l’Ariosto che, in modi diversi, ci hanno dato della grande poesia popolare, sia pure sofisticatissima. Adesso in Italia manca il lettore della poesia, perché non c’è più un’idea impor10

tante che la regga. Oppure, se c’è, è destinata come la grande poesia di Dante Alighieri, a prorompere quando l’idea dispieghi la sua prassi, magari come recupero, come forza già condannata. − Recentemente sono accadute due cose importanti: il Nobel a Montale e la morte di Pasolini. Raramente si assiste a una concordia di pareri come per il premio all’autore di “Ossi di seppia”: e questo si deve tanto all’universale riconoscimento della grandezza di Montale quanto al mito che si è formato intorno al poeta. Ma la domanda di conclusione della nostra intervista scivola prepotente su Pasolini: al di là del personaggio “scandalistico”, contraddittorio, ossessionato dalla sua “diversità”, che ha cercato di difendere accusando la società morale, cosa resterà di Pasolini? − Credo che ciò che rimarrà soprattutto di Pasolini sarà l’essere stato il personaggio capace di dare all’omosessualità la sua dignità originaria, e cioè, in senso strettamente biologico, precedente alla eterosessualità. Infatti persino la psicologia ci insegna che la pulsione sessuale è, storicamente, prima narcisisitica e poi omosessuale, essendo la disparità dei sessi un fatto

posteriore all’organismo monocellulare e monosessuale. E che tale dignità sia una sua vittoria lo dimostra il fatto che, se chiunque fosse morto in caccia di un minorenne, probabilmente la vergogna conformistica avrebbe sopraffatto l’avvenimento, mentre la morte di Pasolini rimane giustamente una morte eroica ad affermare il diritto del sesso a desiderare ciò che desidera e non ciò che il costume gli impone. La Bibbia insegna che l’anziano sente il fascino della giovinezza e viceversa: però se una professoressa osa amare un suo allievo deve poi uccidersi sull’ondata dell’invidiosa riprovazione. Pasolini finalmente no. Però ha dovuto affermare morendo: anche lui, probabilmente sopraffatto da una reazione che ha dato al giovinetto la forza mostruosa del perbenismo pronto a strangolare ogni iniziativa di autentica libertà. Ecco, io per esempio confesso che mi piacciono le eterosessuali giovani, e se dovessi morire per affermare che questo non è peccato credo che ciò varrebbe quanto i miei romanzi. «La Tribuna», 30 gennaio 1976


Un «villaggio di dieci case».

Pasolini a Versuta Angela Felice1

Adesso mi sembra impossibile, mentre sono immerso nell’abbagliante fulgore di un teatro, che al mondo ci sia qualcuno che governa delle mucche, che sta a cucire, la sera, presso il focolare, che innesta le piante … Eppure la vera vita dell’uomo è quest’ultima. Lettera di Pier Paolo Pasolini a Tonuti Spagnol da Roma, 3 aprile 1946.2 Si arriva alla stazione di Casarsa e da lì, percorsa la curva sopraelevata di un cavalcavia sospeso su traversine e binari, si imbocca in fondo la prima strada a destra di un piccolo incrocio. Da quel punto il percorso si snoda in mezzo alle case che, dapprima isolate, si appoggiano poi le une accanto alle altre e si infittiscono ai lati come cortine di muri o, per le dimore più antiche, come pareti di sassi intervallati da strisce ordinate di mattoni. Quel paese di strada, affine per tipologia ai tanti borghi della pianura friulana eretti lungo le vie di comunicazione, si chiama San Giovanni ed è una frazione del capoluogo comunale, la Casarsa a cui nel 1867, subito dopo l’unione al Regno d’Italia, si volle aggiungere l’appendice distintiva di ‘della Delizia’.3 Una frazione orgogliosa di sé, peraltro, come reclama con la concretezza dei fatti la ragguardevole chiesa parrocchiale che incombe nel cuore del centro abitato con tutta la monumentalità di uno sfoggio neogotico di fine ’800, voluto su un preesistente edificio religioso -dicono le cronache- da un prete particolarmente attivo, Monsignor Francesco Franchi, impegnato a elevare il paese affidato alle sue cure a posizioni di rango, anche edilizio.4 1 Direttrice del Centro Studi Pasolini di Casarsa. 2 Pasolini 1986, p. 245. 3 La denominazione di Casarsa della Delizia venne assunta per delibera del commissario distrettuale di San Vito al Tagliamento del 19 marzo 1867. Cfr. Bortotto 1995, p. 144. 4 Per notizie su Monsignor Francesco Franchi cfr. Spagnol 1995, pp. 253-255.

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A un passo da quel vistoso manufatto di culto e quasi sotto la sua ombra si stacca una piccola loggia che dal 1400, epoca a cui risale la sua costruzione discreta, fu usata per i ritrovi laici e civili della comunità. Ma per il nostro itinerario ideale essa vale ora solo come punto di orientamento, dato che a pochi metri si diparte sulla sinistra una via ristretta che sbocca apertamente nella campagna. Anche qui sfilano ai lati le case a uso civile, ma ora sono isolate, non si sorreggono a vicenda, evidenziano una sorta di individualismo abitativo e, nel caso di costruzioni recenti, paiono volersi differenziare, con l’effetto di una qualche incoerenza tutta moderna nella volontà di personalizzare stili , ubicazioni e scelte di colori, talora anche accesi. Man mano che si procede nel breve tragitto, tuttavia, il paesaggio non delude. Apre allo sguardo squarci di filari di viti e di granoturco, infilate di alberi e boschetti, viottoli in terra battuta, luccichii di acque di roggia, come la Viersa, appunto, che deve il suo nome alla curva del percorso e che lo dà a sua volta a Versuta, ultima propaggine di San Giovanni e ora capolinea del nostro piccolo viaggio. Versuta5 è lì, infatti: un grappolo di poche case per fortuna di

foggia ancora antica, un’appartata isola contadina in mezzo a una geografia di campagna, coltivata o spontanea, ancora preservata e delimitata sullo sfondo dalla cerchia dei monti, che da quel punto, nei giorni di luce trasparente, si possono percorrere con lo sguardo in tutto il loro arco. Ne costituisce il cuore e quasi la ragione d’essere un piccolo e antico oratorio che si eleva di poco su un breve rialzo erboso, oggi arredato anche da gelsi, dopo la riorganizzazione del sito progettata da Paolo De Rocco. È la chiesetta dedicata a Sant’Antonio abate, il santo protettore degli animali domestici, che, come dichiara un discreto profilo visibile anche sulla facciata, fu ampliata nel 1400 rispetto al nucleo originario di un’aula di dimensioni molto più contenute, risalente al secolo XII. È all’interno che poi questo scrigno di colore rosa, ora sbiadito dal tempo, sciorina i suoi tesori, con il ciclo tardo-gotico dei pregevolissimi affreschi degli Evangelisti che fioriscono nell’abside, rivelando l’intervento di una bottega d’arte di rilievo, memore della scuola di Masolino da Panicale. E ancora, sulla parete meridionale, si stagliano le figure affrescate di un Daniele Profeta, di un ‘trittico’ con Sante (si riconosce Santa Cateri-

na), di una teoria di vergini del ciclo di Sant’Orsola e di un’Ascensione (o di un Cristo in gloria tra Santi), che rinviano a più mani di una stessa scuola della metà del 1300, forse locale, ma influenzata e aggiornata dai modi post-giotteschi di Vitale da Bologna e di Tomaso da Modena.6 La chiesetta è una sorpresa inaspettata e un gioiello raro, ma da sé sola non sarebbe stata sufficiente a far uscire dall’anonimato e dall’oscurità né i propri pregi d’arte, peraltro valorizzati solo a partire dal secondo ’900, né tanto meno il microcosmo di Versuta che le fa corona con le sue poche case e i suoi tanti fontanili. Perché ciò avvenisse e perché quei luoghi si elevassero a topografia sentimentale di eco universale ci voleva un poeta, capace, come tutti i poeti veri, di decantare in parola e in metafora gli spunti offerti dalla realtà, anche la più insospettabile, di trovare corrispondenze di sé nel paesaggio e di trasfigurarlo in equivalente “romantico” della propria vicenda interiore. Per Versuta quel poeta fu Pasolini, che a quel minuscolo «villaggio di dieci case», come scrisse,7 legò molta parte della sua leggenda giovanile di scrittore dalla precoce, tormentata sensibilità. I nudi fatti della biografia ci raccontano che vi si trasferì il 16 ottobre 1944 con la madre Susanna Colussi, di cui vinse le non poche resistenze a quel trasferimento solo di fronte alle minacce crescenti delle rappresaglie tedeschi e dei pericoli di guerra, mentre intanto il fratello Guido Alberto si era unito ai partigiani già dagli ultimi giorni del maggio 19448 e il padre Carlo Alberto era prigioniero degli inglesi in Kenia. Nella casa di Ernesta Bazzana – la schiettissima e colorita Ilde di Atti impuri –, dove già nell’ottobre dell’anno precedente lo studente Pier Paolo aveva messo al riparo parte dei suoi libri e talora anche se stesso, fu dunque affittata una stanza per quella che doveva essere una breve parentesi: «uno stato

5 Per Versuta preferisco ricorrere alla toponomastica locale, adottata anche da Pasolini, invece di quella italianizzata in ‘Versutta’. 6 Cfr. Cozzi 1995, pp. 481-500. 7 La definizione si trova in Atti impuri, un progetto di romanzo concepito da Pasolini negli anni friulani, ma lasciato incompiuto e pubblicato postumo nel 1982 insieme ad Amado mio (vd. Pasolini 1982). È ora pubblicato in Pasolini 1988, pp. 3-128; Versuta come «villaggio di dieci case» compare a p.117. Nell’edizione mondadoriana, di riferimento per le citazioni presenti in questo saggio, è edita alle pp. 131-157 anche un’Appendice con stralci dai “Quaderni rossi”, i cinque quaderni autografi stesi da Pasolini in Friuli tra l’estate del 1946 e l’autunno del 1947 e ora conservati nel fondo archivistico del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia. 8 Fu lo stesso Pasolini a ricostruire la cronologia del periodo partigiano del fratello Guido in una lettera all’amico bolognese Luciano Serra del 21 agosto 1945, ora Pasolini 1986, pp.197-201.

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provvisorio – scrisse Pasolini –, una svista del nostro millenario dio famigliare». Quell’«esilio»,9 anzi, ebbe all’inizio quasi il sapore dell’avventura e della novità festose: lui trasportò su una carriola il resto della sua libreria lungo l’unico sentiero di campagna che allora univa Versuta a Casarsa e la coppia fece il suo ingresso nel villaggio come se si trattasse di «due giovani fratelli (o due fidanzati)»,10 resi complici da un segreto lessico familiare di affetti e confidenze ed esaltati, anche, da una qualche supponenza da “cittadini” verso quell’ambiente così diverso dal proprio. E così, con quei due ospiti distinti e dalle «abitudini di gente agiata», la casa che li aveva accolti si innalzò a «centro di tutta la vita vilutese».11 La realtà della guerra, incrudelita particolarmente tra il 1944 e il 1945, spazzò via ben presto queste supposte prospettive d’arcadia. Anche a Versuta si sentì l’ala nera della morte, con il suono delle sirene d’allarme, il coprifuoco notturno, il passaggio dei bombardieri alleati, che si scatenarono con «una pioggia di fuoco» su Casarsa soprattutto il 4 marzo 1945, colpendo uomini e case, tra cui quella del clan Colussi, che ne uscì gravemente compromessa. E anche il rifugio nella piccola Versuta finì per perdere il suo idillio e essere collocato «proprio nel centro di quella spaventosa luminaria».12 Ma poi, nel maggio 1945, la tragedia personale si abbatté direttamente su Pier Paolo e Susanna, quando giunse la notizia definitiva della morte dolorosa di Guido, ucciso brutalmente per i fatti di Porzûs. «La disgrazia – confessò Pasolini all’amico Luciano Serra il 21 agosto 1945 – che ha colpito mia madre e me, è come un’immensa, spaventosa montagna, che abbiamo dovuto valicare, e quanto più ora ce ne allontaniamo tanto più ci appare alta e terribile contro l’orizzonte».13 Con la morte di Guido, il «martire ai vivi»,14 se ne andò via anche una metà di Pier Paolo:

Me fradi muart al ten na part di me cun lui ta chel trist Infinit ch’al mi scrussia ogni dì. Un sofli al mi divit da lui, e un scur misteri; quan ch’a brilin li stelis, mi lu figuri dongia. I sint il so respir tai me ciavej, e il nuja, na lus infinida a è dut un cu’l so vuli.15 In questa atmosfera di dolore privato, in cui «tutto si è colorato […] di un colore squallido e pauroso» (così, in una lettera da Versuta a Franco Farolfi del 12 gennaio 1946),16 nel 1945 rientrò dalla prigionia il padre di Pier Paolo. Ora però l’orgoglioso ufficiale Pasolini era un uomo sconfitto, provato, incattivito, isolato anche in famiglia dall’impenetrabile simbiosi della coppia madre-figlio, in discesa verso la progressione di un essere «paranoico», come Pasolini confidò da Casarsa, il 7 luglio 1949, perfino a Gianfranco Contini, al culmine di una parabola personale di malessere che intorno sé vedeva solo l’oriz-

zonte della «bruttezza estrema ».17 Per sentire accenti di così forte sofferenza non è tuttavia necessario arrivare a questi finali limiti di tempo, che già sono vicini all’imminente congedo di Pasolini dal Friuli e lasciano trasparire una crescente insoddisfazione e un’ansia di evasione. Ancora nel 1946, nel mezzo della residenza a Versuta che si concluse nel 1947 con il rientro nella casa di Casarsa finalmente ristrutturata, Pasolini confessava all’amica Silvana Mauri che il periodo della guerra da poco conclusa aveva esasperato e assottigliato il suo spirito fino a ridurlo al solo istinto della sopravvivenza. Allora erano nate in lui un’«aberrazione» e una patologia malata dei sentimenti a seguito di una sofferta condizione di «solitudine» e di un «continuo pericolo di morire». Condizioni oggettive e di spietata necessità che, nel mobile palinsesto dell’officina letteraria di Pasolini incline ai travasi e alle contaminazioni tra testi diversi, compaiono anche nelle pagine confessionali dei Quaderni rossi, con espressioni che anzi rincarano il doloroso realismo della condizione di guerra: «per vari mesi […] parve certo che

9 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), pp.146-147). 10 Ibidem, p.147. 11 Atti impuri, (in Pasolini 1982), pp. 65-66. 12 Ibidem, pp. 77-78. 13 Pasolini 1986, p. 197. 14 Questa definizione di Guido comparve su «Il Stroligut» dell’agosto 1945, ora in Pasolini 1994, p. IV della riproduzione anastatica. 15 Si tratta della poesia Ressuretion, quarta parte della lirica A me fradi, ora in Appendici a «La meglio gioventù», Pasolini 2003, pp. 331-332. 16 Pasolini 1986, p.228. 17 Ibidem, p. 361.

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uscire vivi da quell’inferno non era che un’assurda speranza. Questo mi dava un continuo senso del mio cadavere, cosa che certo non agiva beneficamente nello svolgersi della mia vita interiore, che vi si era quasi paralizzata».18 E tuttavia a questa cronaca, che parrebbe sottrarre all’eremo di Versuta ogni suggestione di fascino, scorre in parallelo un’altra, che, affidata alle parole della scrittura, porta invece in una diversa e opposta direzione. «Mi alzo ancora ubriaco. La mattina è stupenda, vivere è stupendo – esclama Pasolini il 27 febbraio 1947 – […]. Non c’è poro della mia carne che non tremi questa gratitudine alla vita, questa nostalgia ancora troppo recente per dolere. Amo Viluta [è Versuta, naturalmente, mimetizzata dietro questa parola-schermo in Atti impuri], amo i miei compagni, amo tutta la gioventù di questi borghi».19 È un inno alla vita, parola, quest’ultima, che già in Friuli è voce-chiave che sa di mito e di sacro, ed è un grido di gioia che introduce a una prospettiva alternativa sul tempo dell’esilio nel villaggio contadino. E ancora, in un altro passo – un ricordo «volontario» del 22 novembre 1947, in Atti impuri –, quel tempo brilla come il «periodo più felice della mia vita», confuso «con lo splendore innocente

della luna che imbeveva i campi tra San Giovanni e Versuta».20 In questo senso pare così che siano state proprio le condizioni oggettive di un necessario isolamento e di una permanente emergenza a mobilitare a contraggenio nel ragazzo «ipersensitivo e malato»21 (così, in un’autodescrizione a Farolfi dei primi mesi del 1941) uno straordinario dispiego di energie: tanto sul piano dell’azione concreta quanto su quello di una infaticabile scrittura, volta a cercare di penetrare fuori e dentro di sé il «mistero», che in Pasolini, e particolarmente in quello friulano, è altra parola-chiave, tutta intrecciata alla semantica ineffabile del bios. Versuta diventò innanzitutto la stazione di partenza e di arrivo di una fitta corrispondenza epistolare, ora intima ora strategicamente autopromozionale, in un andirivieni di lettere tra tanti destinatari, anche illustri come Gianfranco Contini, e il giovane scrittore ossesso nelle «ore più disumane», quando solo la sua «lampada è accesa in tutta la campagna».22 Ma soprattutto fin dal suo arrivo a Versuta, nella casa che lo ospitava, e col tempo anche in un minuscolo «casello» perso nei campi e allora ombreggiato da due pini, Pasolini accolse ed educò alla poesia un piccolo drappello di adolescenti, cui la guerra impediva

di frequentare le lezioni regolari. Dopo un precedente impegno didattico avviato nell’autunno del 1943 a San Giovanni e poi a Casarsa, nelle case private degli insegnanti, quello di Versuta fu il secondo esperimento in cui si dirottò la generosa vocazione pedagogica del giovane maestro, quasi un Socrate di campagna che, con «dedizione» e in un clima di «reciproco entusiasmo»,23 mise in atto le strategie anticonvenzionali e spregiudicate di una sua educazione originale, tesa a invogliare negli allievi lo spirito dell’avventura conoscitiva e il piacere della scoperta di sentimenti e parole autentiche. I metodi e gli scopi di quella pedagogia del rischio e dello «scandalo» furono organizzati poi in una sorta di sistema in quattro articoli apparsi su «Il Mattino del Popolo» tra il 1947 e il 1948, quando Pasolini fu assunto come docente statale alla Scuola media di Valvasone, ma – va detto – senza il «candido entusiasmo» del laboratorio di Versuta.24 Più che in quella sede giornalistica se ne trova semmai un’eco più trasparente nelle pagine di Romans, il romanzo breve progettato nei tardi anni friulani e edito postumo nel 1994. Nella figura del prete protagonista, un Don Paolo alter ego che a San Giovanni apre una scuola, Pasolini convogliò molte delle riflessioni già maturate a Versuta: sul «puro vivente» presente anche nei ragazzi, che non sono affatto una tabula rasa di candore, ma semmai un groviglio misterioso di contraddizioni, impulsi, turbamenti e irrazionalità; o anche, e perciò, sul valore positivo dell’eros pedagogico, della relazione affettivo-pulsionale tra discente e docente. «Può educare – scrisse in quelle pagine – solo chi sa che cosa significa amare, chi tiene sempre presente la Divinità».25 Quell’amore con l’effetto di una «reciproca tenerezza»26 fu dispiegato a piene mani a Versuta sugli scolari contadini a piedi scalzi di quella «poetica scuola» che anche

18 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), p.144. 19 Atti impuri (in Pasolini 1982), pp. 113-114. 20 Ibidem, p. 124. 21 Pasolini 1986, p. 34 22 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), p.143. 23 Atti impuri (in Pasolini 1982), pp. 24-25. 24 I quattro articoli apparsi su «Il Mattino del Popolo» sono leggibili, in una sezione intitolata Dal diario di un insegnante, in Pasolini 1993, pp.267-283. In uno di essi, Dal diario di un insegnante uscito il 29 febbraio 1948, compaiono le espressioni qui citate. 25 Romans (in Pasolini 1998), p. 219. Sul valore dell’eros nella pratica pedagogica cfr. Mantegazza 1997 e Recalcati 2014. 26 Atti impuri (in Pasolini 1982), p. 24.

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nel ricordo retrospettivo continuò a brillare come un’isola di resistenza gioiosa alla paura. «Ora, – e qui siamo alle parole autobiografiche di Atti impuri – di quella stagione, mi sembra tutto perfetto: anche i bombardamenti. Protetti dalla mia presenza, i ragazzi guardavano divertiti i paurosi caroselli di caccia, eccitandosi alle “picchiate” che scuotevano la campagna alle radici. […] Mi pare che quei giorni fossero sempre sereni, dolcemente celesti».27 La poesia, l’uso lirico e antivernacolare della lingua friulana e la conoscenza, come antidoti alla violenza della storia e come riscatto individuale e di tutta una piccola comunità, fornirono del resto il lievito da cui sorse il mitico cenacolo dell’‘Academiuta di lenga furlana’. Fondata a Versuta il 18 febbraio 1945 nella direzione di una «estetica del cuore, non del cervello»,28 fu affiancata ben presto anche dal chiarimento programmatico sui suoi intenti che apparve sullo «Stroligut» dell’agosto di quell’anno, con titolo mutato rispetto ai due precedenti «Stroligut di cà da l’aga» del 1944. Non è questa la sede per addentrarci sulle caratteristiche di eccezionale rottura antidialettale operata da quel félibrige di gruppo rispetto alla stanca tradizione vernacolare della poesia friulana. Conta rimarcare semmai che in quella svolta Pasolini, «guida accettata»,29 accanto agli amici e artisti adulti coinvolse anche i suoi giovanissimi scolari, di cui aveva intravvisto e valorizzato la vena d’oro. In seguito, in un interessante articolo di consuntivo personale, apparso nel 1949 su «La Panarie», egli avrebbe visto nell’esperienza di Versuta anche il superamento positivo del suo stesso precoce esordio del 1942 con Poesie a Casarsa: un «libretto» di liriche narcissiche – scrisse allora – ancora aduggiate da un estetismo troppo candido e insieme troppo squisitamente raffinato, ma appunto corrette in seguito dalla poetica consapevolmente simbolista del dialetto, come «regresso linguistico» alla radice e al suono segreto

delle cose, che tanto l’immersione nell’«utero linguistico» del casarsese quanto anche l’esperienza collettiva dell’Academiuta avevano contribuito a corroborare.30 Del resto appaiono descritti con i colori della gioia e della giovinezza i «meriggi domenicali» in cui si tenevano le riunioni versutesi del sodalizio, rievocate a distanza con nostalgia dal Pasolini memorialista di sé nel diario intimo dei Quaderni rossi. Quello – racconta – era «il nostro Decamerone o, più concretamente, il temporalizzarsi di quell’eremo interiore dove sapevamo rifugiarci, e dove non giungeva neppure l’eco di quei tremendi scoppi che notte e giorno scuotevano la terra». Era una «specie di Arcadia o, con più gioia, […] una specie, molto rustica invero, di salotto letterario»,31 il quale toto corde dimostrò in più occasioni un compatto spirito di clan e con il suo maestro riconosciuto, già iscritto dal marzo 1943 alla Società Filologica Friulana, aderì nel dopoguerra, il 16 dicembre 1945, anche all’Associazione per l’Autonomia Friulana di Tiziano Tessitori. Certamente fu anche la bellezza della natura – fondale di colori, suoni e odori sensualmente inebrianti – a sollecitare poi il mito e la nostalgia dell’ambiente contadino incontaminato, riverbero di idillio poetico. Di quel paesaggio Pasolini restituì pagine impeccabili di luminosità descrittiva o, meglio, contemplativa, in cui la campagna si fa metonimia dell’incantesimo versutese, cangiante secondo l’ora e la stagione, così come in precedenza l’acqua lo era stata per il locus casarsese. Ed ecco, nel declinare sospeso di un giorno d’inverno, «la facciata rosa della chiesetta che a quell’ora pareva spezzarsi nella tensione luminosa sopra il prato verdecupo, quasi nero – la campagna intorno che pareva di ferro battuto – l’odore pesante e bruciante dello strame e delle concimaie – i voli delle cince e degli scriccioli contro la siepe […] – la lampadina gialletta che si accendeva sul palo quando ancora la luce del giorno non era dileguata – la Vila ricamata di ghiaccio sotto i rami

secchi di venchi – l’orizzonte lunare dove i crinali dei monti trovavano ancora una luce blu e rosa».32 Lontano da ogni artificiosità letteraria da locus amoenus, questo paesaggio si sublima in dimensione metafisica, è l’arcano spazio naturale del ritmo arcaico del mito, scandito dal ciclo perenne che fa ruotare la luce e il buio, l’alba e il tramonto, la primavera e l’inverno. Ed è nella solitudine obbligata di Versuta che Pasolini fece queste scoperte decisive, entrando in contatto diretto e fisico anche con la vita dei contadini che quei ritmi naturali rispettano, con rituale e fatalistica adesione al “mistero” dell’eterno ritorno. In quel caso Pasolini mise in campo – e registrò sulla pagina – un acuto sguardo da antropologo istintivo, che poi, nel dopoguerra friulano, si sarebbe ispessito di impegno sociologico e di sensibilità morale, prima ancora che di ortodossia ideologica, alle ingiustizie di classe. Per il giovane Pier Paolo, studente di città e ospite temporaneo, Versuta fu anche la scoperta di uno sconosciuto mondo ‘altro’, così lontano dall’educazione borghese, tutto chiuso nel cerchio di uno stretto giro di abitudini –focolare, chiesa e campi – e offerto a uno sguardo diviso tra l’incuriosita diffidenza e l’insospettata empatia. «Difficilissima» e tutto sommato impenetrabile – così descrive Pasolini – era l’anima del contadino, «prodotto di una civiltà diversa dalla nostra, che ci vive accanto

27 Ibidem, p.25. 28 L’espressione compare nello scritto Academiuta di lenga furlana che apre programmaticamente «Il Stroligut»dell’agosto 1945, ora in Pasolini 1994, p. I. 29 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), p.152. 30 L’articolo dal titolo Poesia d’oggi comparve su «La Panarie» (cfr. Pasolini 1949), ora in Pasolini 1999, pp. 322-336. 31 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), pp.151-152. 32 Atti impuri (in Pasolini 1982), pp.103-104.

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senza possibilità di fusione».33 Nelle vite individuali di quell’ambiente, le promesse giovanili di vivacità, grazia e timidezza si spengono presto e gli uomini, già a ventidue anni, declinano nella monotonia di esistenze disilluse, ciniche e indifferenti, in cui soltanto la chiesa e il vino paiono aprire qualche breccia di novità passeggera. E in una memorabile pagina narrativa, con un «batticuore» di «pietà» per l’«atavica soggezione» contadina a un destino prefigurato e mai messo in discussione, Pasolini ascoltò le parole del ragazzino di cui a Versuta era diventato il padrino e che, alla vista di un possidente locale, lo indicava come il suo «padrone».34 Ma su un altro versante, che è poi quello decisivo, quel popolo immobile da secoli stupì, implicò e coinvolse il suo osservatore, che ne contemplava i riti. Nell’arco della giornata, ritmata dalla campanella della chiesetta rosa, c’erano le scansioni delle ore, spartite tra il tempo del lavoro agricolo e i ritrovi chiassosi del cibo serale in comune di Casa Bazzana, una «olimpiade»,35 racconta Pasolini, così diversa da quella borghese, silenziosa e solo funzionale che lui e sua madre consumavano in solitudine a poca distanza. E, ancora, c’erano le litanie del Rosario, già registrato a Casarsa, anche all’uscita dalla chiesa, come «lo spettacolo più dolce e patetico»36 cui egli avesse mai assistito e al quale a Versuta si aggiungeva

d’inverno la cornice del ritrovo familiare nella stalla, dove «le donne facevano fila»,37 tra chiacchiere, lavori di cucito e, intorno, rumori di mucche ruminanti, sbuffi di pipa degli uomini e grappoli di bambini assonnati. E poi c’era la Domenica, preceduta il Sabato sera da accurate pulizie casalinghe, inaugurata al mattino dall’atmosfera di «una inconcepibile felicità»38 e infine consacrata dal rito irrinunciabile della Messa nella chiesa di San Giovanni, dove recarsi con gli abiti puliti della festa. Era, quello, il tempo della sospensione, ritualizzata da un’arcaica religiosità di originario paganesimo e di cristianesimo paesano, che scandiva e ribadiva il tempo del lavoro, secondo un ritmo circolare che a Versuta non era interrotto nemmeno dalla guerra, ripetendosi sempre uguale dalla notte di secoli senza storia e lungo filiere di generazioni che di padre in figlio portavano impresse nel corpo lo stampo di inalterate fisionomie. Da questo «mistero contadino»39 Pasolini fu attratto, intravvedendovi in prospettiva romantica il segreto del vivere incorrotto, aderente alla natura e fuso con il cuore delle cose, così come era reale la lingua organica dei «parlanti»40 di quel mondo, per i quali la parola non assomigliava alla cosa, ma era la cosa, senza scorie e mediazioni. Mito edenico e utopia di felicità, è certo che nell’altro da sé Pasolini

33 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), p.148. 34 Pasolini 1947, ora in Pasolini 1993, p. 148. 35 Atti impuri (in Pasolini 1982), p.62. 36 Ibidem, p.37. 37 Ibidem, p.74. 38 Ibidem, p.37. 39 L’espressione compare nei versi de La religione del mio tempo (1957-1959), in Pasolini 2003, p. 967. 40 Un insieme di testi scritti in Friuli tra il 1947 e il 1948 comparve con il significativo titolo I parlanti nel 1951 su «Botteghe oscure», ora in Pasolini 1998, pp. 163-196. 41 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), p. 157. 42 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), p. 15.

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proiettò anche un suo desiderio e una sua tensione all’armonia senza scissioni, da cui egli si credeva e si sentiva irrimediabilmente lontano. Così il piccolissimo borgo si fece anche teatro e fondale di lancinanti auscultazioni introspettive e quasi persecutorie, mobilitando una scrittura della confessione impietosa che caratterizzò in particolare la prosa pasoliniana del periodo friulano e che toccò allora i vertici di un sincero e tormentato disvelamento dell’io più inconfessabile, ora accampato a piena pagina, ora filtrato dalla copertura prudente delle maschere, come è il caso del Don Paolo di cui si è detto o del Desiderio romanzesco di Amado mio. È, questo, un ulteriore strato che arricchisce di significati l’esperienza di Versuta e la eleva a ideale parabola di formazione, in questo caso come dolorosa presa di coscienza della curva nel passaggio dalle illusioni al disincanto, dal mito della giovinezza al presentimento del suo sfiorire. E infatti, proprio al crocevia dell’incontro tra la propria solitudine di escluso e la comunità contadina dei puri, o presunti tali, si situa il tema dell’innocenza. Pasolini lo proiettò fuori di sé, perché in sé lo avvertiva e pativa come bene perduto, irrimediabilmente compromesso dalla conoscenza della sessualità, da una prepotente pulsione di eros che, tanto più se ‘diverso’ e stigmatizzato dalla censura sociale e dal pregiudizio cattolico, non poteva essere sentito e patito se non come colpa, peccato, malattia e morte dello spirito. Nei molti autoritratti, in cui Pasolini fissò in parole la via crucis dei suoi affondi interiori, il ritmo è dato perciò dall’altalena costante tra l’ossessione della sete d’amore e il ripiegamento nel rimorso e nei propositi di redenzione, tra «l’orto dell’infamia», come scrisse nel 1947, e «il giardino di Alcina».41 Ma fu su questo terreno di contraddizioni che fiorì il mito incantato della giovinezza, misteriosa, fuggevole e perciò subito oggetto di nostalgia, un mito che per Pasolini incarnò il desiderio, che si sa impossibile, di fermare il tempo al candore di un’«eterna adolescenza»42 e di impedire che il presente sia vissuto già con il presagio della sua morte. Ma di quella giovinezza, intanto, è intrisa la campagna dell’isola contadina da «infanzia


della società»,43 come diceva l’amato Shelley. Ne sono baciati i ‘soranei’ cinguettanti che la percorrono come «una folata di vento» e che, per i loro giochi senza ombre, hanno a disposizione pochissime cose, palline, figurine o «una palla di stracci»44 da scalciare sul prato verdissimo della chiesetta rosa. Non per nulla, nelle «pagine involontarie» del suo journal intime, nella fase più proustiana di una scrittura già debordante, Pasolini s’impegnò a riacciuffare anche dal buio della propria preistoria personale i frammenti di un sé infantile e originario, quando si credeva «un’eccezione», era attraversato dall’Infinito in cui i contrari si annullano, immaginava mondi avventurosi con capacità di fantasia e inventava parole nuove, come «teta veleta»,45 per dire oscuri turbamenti e violenti desideri di possesso delle cose. Per tradizione, gli itinerari di formazione approdano alla saggezza e alla consapevolezza della maturità adulta, ma per Pasolini questo capolinea non evitabile trascolorò, si direbbe leopardianamente, nella fine degli incantesimi e della passione eccitata, compensata da un’acquisizione di coscienza patita come aridità e indifferenza. A Versuta, per paradosso, questo punto di arrivo pare coincidere con la conclusione della guerra e della tesa, ma vitale situazione di paura e di dolore che ne era stata la conseguenza. In seguito, negli ultimi scorci di quella residenza e nei successivi due anni casarsesi che precedettero il congedo definitivo, vennero tante altre cose: la militanza politica del «sogno di una cosa»,46 l’organizzazione delle tante pagine scritte anche in vista di progetti editoriali, l’impegno critico sulla stampa, la sistemazione ufficiale nella scuola, lo studio. Ma il fulgore non pare scintillare più e la noia è una nuova parola di sapore tutto leopardiano che occhieggia tra le parole del 1947, in cui scoccano i 25 anni, l’età – scrisse, ci-

tando Gozzano – dell’«addio alla giovinezza».47 Anche la natura parve vanificare allora «il suo valore» e la sua seduzione, e i suoni domenicali delle campane che echeggiavano «quasi atterriti nell’immenso vuoto del greto» del Tagliamento non provocavano che un «turbamento» di fredda constatazione. «Io ora – concludeva lo scrittore con marmorea sentenziosità – sono come un viaggiatore che, perdutosi in mezzo al deserto, abbia dato fondo alle sue provviste».48 Per nostra fortuna, sappiamo che non sarà così e che la scorta sarà ben più provvista di quanto il viaggiatore pensasse nel 1947. Ma certo la parentesi di Versuta, «una specie di vita»49 a sé incastonata dentro la vita, consuma con il suo esaurirsi una parte decisiva della leggenda giovanile di Pasolini. E uscirne fu per lui quasi un presagio e una metafora di partenza, come quella immaginata per l’alter ego Don Paolo di Romans che alla fine «non aspettava altro che essere cacciato da San Pietro».50 Piace allora chiudere questa perlustrazione divagante con le stupende parole di un altro addio al Friuli, che Pasolini mise in chiusa al racconto lungo Aspreno e Marcellina, risalente ai tardi anni friulani e, come tanti altri scritti di quel periodo, rimasto allo stato di progetto. Il protagonista Aspreno è un giovane viaggiatore in treno che si lascia alle spalle un paese del casarsese, anche in questo caso dopo una breve permanenza passeggera, e vede scorrere fuori dal finestrino fotogrammi in corsa di paesaggi indifferenti. Allora il confronto va in filigrana alla campagna adorata della Versuta di guerra e ai tanti strati di senso che in Pasolini l’avevano elevata a mito screziato di topografia sentimentale, esistenziale e letteraria, salvo la constatazione del suo necessario sbiadire e finire. Per Aspreno è lo stesso. È la fuoriuscita-espulsione da una geografia amata e ora silenziosa, ed è il precipizio verso l’incognito del vuoto italiano, oltre un immaginario confine.

La geografia era scomparsa, e con essa tutte le buone ragioni per tenerne conto; i deputati cattolici, il personale ferroviario, i pochi passeggeri di prima e quelli stipati e così italiani della terza, si precipitavano verso il vuoto che tagliava l’Italia lungo il Po […]. Per Aspreno era ignoto ciò che finiva davanti al treno: il colore neutro e agghiacciante in cui si era cancellata l’Italia, là dove era più Italia, nei grandi itinerari di San Francesco, di Piero della Francesca, di Michelangelo, di Caravaggio, di Manzoni. Non c’era più nessun interesse per nulla: il vuoto era un disgusto freddo e fisico, un’allucinazione della fantasia. Dietro a Venezia, a Padova, al Po, ai primi colli emiliani nudi di calanchi, tutto ciò che poteva richiamare ad antichi valori, corrispondenti ad affetti e ricordi, pareva essere sprofondato in una incolore tenebra che annullava ogni atto umano. Il treno correva verso Dio.51

Bibliografia: Bortotto 1995 = Bortotto C., Casarsa e le ferrovie sulla riva occidentale del Tagliamento, in Ellero 1995. Cozzi 1995 = Cozzi E., Gli affreschi medioevali nella Chiesa di Sant’Antonio abate di Versutta, in Ellero 1995, pp. 481-500 Ellero 1995 = Ellero G. (a cura di), Ciasarsa. 72n Congres 24 setembar 1995, Udine 1995 Mantegazza 1997 = Mantegazza R., Con pura passione: l’eros pedagogico di P. P. Pasolini, Milano 1997 Pasolini 1947 = Pasolini P.P., Quello lì è il mio padrone, in «La Stretta di mano», numero unico della S.O.M.S.I, San Vito al Tagliamento, 31 agosto 1947 Pasolini 1949 = Pasolini P.P., Poesia d’oggi, «La Panarie», XVII, 97, maggio-dicembre 1949 Pasolini 1982= Pasolini P.P., Amado mio preceduto da Atti impuri, con uno scritto di Bertolucci A., Milano 1982 Pasolini 1986 = Pasolini P.P., Lettere 1940-1954, a cura di Naldini N., Torino 1986 Pasolini 1988 = Pasolini P.P., Romanzi e racconti (19461961), a cura di Siti W. e De Laude S., Milano 1988 Pasolini 1993 = Pasolini P.P., Un paese di temporali e di primule, a cura di Naldini N., Parma 1993 Pasolini 1994 = Pasolini P.P., L’Academiuta friulana e le sue riviste, a cura di Naldini N., Vicenza 1994 Pasolini 1998 = Pasolini P.P., Romanzi e racconti (1962-1975), a cura di Siti W. e De Laude S., Milano 1998 Pasolini 1999 = Pasolini P.P., Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. I, a cura di Siti W. e De Laude S., Milano 1999 Pasolini 2003 = Pasolini P.P., Tutte le poesie, vol. I, a cura di Siti W., Milano 2003 Recalcati 2014 = Recalcati M., L’ora di lezione, Torino 2014 Spagnol 1995 = Spagnol A., Il quadro ovvero la barba d’oro, in Ellero 1995, pp. 253-255.

43 Non a caso in esergo allo scritto programmatico Dialet, lenga e stil, nel «Stroligut di cà da l‘aga» dell’aprile 1944, premise una riflessione di Shelley da Difesa della poesia. Questo il testo: «Nell’infanzia della società ogni autore è necessariamente un poeta, perché il linguaggio stesso è poesia», ora in Pasolini 1994, p. 5. 44 Atti impuri (in Pasolini 1982), p.68. 45 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), p. 131 e p. 137. 46 L’espressione, naturalmente, fa riferimento al romanzo omonimo, che, concepito e steso in Friuli tra il 1948 e il 1949, uscì poi per Garzanti nel 1962. 47 Atti impuri (in Pasolini 1982), p.112. 48 Dai Quaderni rossi (in Pasolini 1988), pp. 154-155. 49 Atti impuri (in Pasolini 1982), p.104. 50 Romans (in Pasolini 1998), p. 263. San Pietro, naturalmente, vale per San Giovanni. 51 Aspreno e Marcellina è un racconto lungo concepito in Friuli e non più edito. Ora in Pasolini 1998, pp. 308-309.

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Figli del Sud, romanzo di formazione, romanzo sociale: conversazione

con Pompeo

Onesti

Stefano Pignataro

Alberto Asor Rosa, nel suo riuscitissimo Scrittori e popolo, del 1965, aveva già lucidamente delineato gli elementi che caratterizzano il romanzo sociale e la letteratura popolare, ma è tornato sull’argomento in un’intervista su Repubblica nella quale ha espresso, amaramente, la sua delusione per parte della produzione letteraria odierna. Ha infatti dichiarato che, oggi, fatte le dovute ed immancabili eccezioni, non vi sono le condizioni storico-politiche adatte per la riuscita di un romanzo a sfondo sociale.1 Non è possibile perché oggi quello che manca agli scrittori, più che il coraggio (termine errato secondo Asor Rosa, poiché questa formula è stata spesso usata per chiedere agli scrittori cose sbagliate), sono le condizioni adatte per l’atmosfera del romanzo stesso, condizioni che fino a poco tempo addietro erano presenti nel panorama letterario nazionale. Una di queste eccezioni è il romanzo Figli del Sud (Mursia, 2009) di Pompeo Onesti, noto avvocato e scrittore salernitano, autore di molti altri fortunati romanzi. E’ una storia autobiografica2, ma la si può interpretare sia come una storia autobiografica, sia come un romanzo sociale. Come tutti i romanzi autobiografici a sfondo sociale e popolare, però, occorre tener conto e distinguere ciò che c’è di vero di autobiografico e ciò che appartiene a modelli letterari,suggestioni interiori e varie interpretazioni di cui il romanzo è molto denso. Avvocato Onesti, si potrebbe interpretare Figli del Sud come un romanzo di formazione. In esso troviamo tutti gli elementi. Il protagonista del romanzo di for1 Quel tipo di romanzo nasce quando si ha alle spalle una realtà psicologica e intellettuale in cui la questione sociale ha un rilievo straordinario, che va al di là dei confini della letteratura. È stato così per Verga ma anche più recentemente per i neorealisti. Non è più così oggi. (…). Il romanziere non può provocare qualcosa che non c’è. Come fa ad occuparsi del conflitto sociale e delle sue prospettive quando questi temi, soprattutto in Italia, non sono centrali, anzi sono marginalizzati? I teorici e gli analisti che se ne occupano si contano sulle dita di una mano e non sfondano il muro dell’indifferenza. (…). Non parlerei di coraggio, perché in passato questa formula è stata spesso usata per chiedere agli scrittori cose sbagliate. In realtà i processi creativi sono più spontanei e naturali che indotti. Altrimenti si rischia di cadere in una posizione ideologica. (…). Negli scrittori del neorealismo, in Vasco Pratolini, Carlo Bernari, Elio Vittorini, un’idea di popolo c’era, anche se riduttiva o sopraffatta dall’istanza ideologica. Era sanzionabile l’idea populista, ma questi scrittori contribuivano a far conoscere la realtà, la documentavano. Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri è un grande testo di testimonianza sul mondo operaio. Ragazzi di vita e Una vita violenta di Pasolini hanno un marchio ideologico discutibile ma in quei libri c’è un’impronta reale. Il silenzio attuale di scrittori e intellettuali nasce dalla cecità rispetto alla questione sociale (Alberto Asor Rosa, Siamo rimasti senza il popolo. R.De Santis, La Repubblica, 29 dcembre 2014). 2 “Tornato al paese dopo quarant’anni di assenza, Roberto si trova a fare i conti con i ricordi di un’infanzia difficile, fatta di miseria, ignoranza, illegalità e violenza. Il passato di uno dei tanti figli del Sud nato durante la guerra e cresciuto negli anni dell’illusione del dopoguerra. Frammento dopo frammento tornano a galla i ricordi e, con essi, le storie degli amici d’infanzia, Bruno e Fiore. Uno diventato un militante comunista, l’altro un delinquente. Entrambi finiti male. Con lo sguardo del sopravvissuto al destino, Roberto ripercorre volti e storie: il padre segnato irrimediabilmente dalla guerra, la madre dura e pronta a tutto, i braccianti, le lotte contadine, le mille illegalità per sopravvivere e poi l’opportunità di vita diversa. In questo romanzo, il percorso formativo di un uomo finalmente consapevole di essere figlio del Sud, nonostante tutto. (dalla descrizione del libro).

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mazione, di solito, è sconvolto dalla messa in discussione di certe regole e di certi modi comportamentali che avevano costruito la sua identità più profonda e comincia a farsi delle domande sul suo passato, sulla sua stessa esistenza. In genere si trova a dover superare alcuni ostacoli, che a volte si costruisce stesso lui . Di solito sono proprio quei fattori a farlo maturare ed a fargli trovare le risposte a molti interrogativi. Il finale spesso è di due tipi: tragico, se il protagonista non solo non si riconosce più nella sua identità ma questi ostacoli che dovevano servire ad una propria maturazione hanno portato ulteriori fallimenti portandolo al suicidio, o positivo-catartico; il protagonista ritrova la sua identità, arricchita da queste nuove esperienze

e ne esce profondamente rinnovato. Al protagonista Bruno accade la stessa cosa; ritorna al paese che aveva lasciato anni addietro, deve fare i conti con un passato denso di ricordi incresciosi e comincia un lento, ma incalzante processo di maturazione e di esplorazione della sua vita. Dunque Figli del Sud può essere considerato, oltre che un romanzo sociale, un romanzo di formazione? - Figli del Sud è una storia autobiografica, una storia a sfondo sociale, anche un romanzo di formazione. Quando ci si appresta a scrivere un romanzo ispirato alla propria vita, il contenuto lo si ha dentro. Figli del Sud rappresenta il mio passato. Rivisitare il passato significa affrontare una nuova realtà; esprimere giudizi.

Una buona parte del romanzo è ispirata a fatti realmente accaduti, altre storie o racconti ho cercato di inserirli per completare il quadro storico. Quello che ne viene fuori, il risultato di questo mettere insieme, di questa ricostruzione è il difficile rapporto che c’è tra l’io e lo scrittore, specie se, come in questo caso, lo scrittore è auctor-agens, o meglio, “auctor-egit”. Ho sempre preferito, poi, quei romanzi che non esprimono giudizi e lasciano l’interpretazione al lettore, che non lo indirizzano verso una morale ben precisa. Ad esempio, in uno degli ultimi miei romanzi, Notturno, è completamente il lettore a trarre le sue personali riflessioni sulla storia, mentre, altri romanzi, come Il Fascista, il Kamikaze, esprimono un preciso giudizio storico-politico e lanciano chiare denunce3. Che cosa ha maggiormente analizzato del suo passato? Quali aneddoti, racconti, episodi della vita di paese, che poi ha sapientemente analizzato confrontandola con la vita non più di paese di Roberto (una tematica che è sempre stata estremamente interessante è il binomio città-paese nella Letteratura, soprattutto nell’ottonovecento) Le hanno maggiormente colpito? - La morale comune di Figli del Sud è che, alla fine, la classe meno abbiente, questo in tutti i casi ed in tutte le situazioni, è sempre destinata a soccombere ed a subire continue vessazioni. Va in galera chi ruba una mela, non va in galera chi ruba quattro miliardi. Nei paesi, poi, le differenze di ceto e di censo sono maggiormente evidenti perché, almeno molti anni fa, non esisteva la classe intermedia (a parte gli artigiani che lavoravano in proprio). Ho sempre notato e mi ha sempre dato fastidio l’arroganza delle famiglie ricche rispetto a quelle povere, anche perché venivo da una famiglia povera. Vivevamo tutta la famiglia in una grande stanza e mia madre, per arrotondare, aveva fittato due stanze ad altre persone; la confusione che c’era mi costringeva a cominciare a studiare alle sette di sera ed a finire alle due di notte. Frequentavo il Liceo Ginnasio “Torquato Tasso” di

3 P.Onesti. Il Fascista. Controcorrente, 2002. P.Onesti, Il Kamikaze. Amore e guerriglia in Palestina. Controcorrente, 2005. P.Onesti. Notturno. La Fenice Editore, 2014.

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Salerno non perché ero portato per gli studi umanistici, ma perché era il Liceo più vicino casa. Figli del Sud è nato in quel periodo. L’avevo già scritto, ma era rimasto in un cassetto perché io, e questo sempre, scrivevo e non pubblicavo. Avevo, ed ho ancora, la convinzione di non saper scrivere. Anche quando mi comunicarono che avevo vinto un primo premio Ex Aequo al Piccolo di Milano, non ci credevo. Una nostra cameriera, trovando per caso l’inizio di un romanzo che poi sarebbe stato Figli del Sud, si congratulò con me e mi disse che voleva essere tra le prime lettrici ed estimatrici quando il romanzo sarebbe stato pubblicato. Per il contesto storico ho estrapolato ed analizzato la famiglia più 20

ricca del paese e vari personaggi che alimentavano i racconti di guerra e del dopoguerra in paese, come per Bruno e Fiore, nel romanzo gli amici di Roberto, il protagonista, ispirati, almeno uno (che divenne un mafioso), a dei veri delinquenti. Ha avuto dei modelli letterari o precisi quadri storici per delineare la figura del protagonista Roberto Campione ed il contesto in cui Egli si muove? - Di certo il protagonista sono io. Anche il quadro storico l’ho estrapolato dalla mia esperienza personale, soprattutto il tema del viaggio. All’epoca viaggiavo spesso da Campagna a Napoli. Quel periodo della mia vita l’ho chiamato periodo napoletano. Ricordo che Napoli era violenta, ma più che la

criminalità organizzata, a Napoli imperversava il contrabbando, perché gli americani, che avevano occupato la città,commerciavano comunque”. Esiste un filo conduttore che unisce tutti i suoi libri o sono figli di storie diverse e di contesti socio-politici differenti? - Il lettore approfondisce quello che legge. Non è l’unione degli elementi, ma i particolari che compongono e spiegano un romanzo. Figli del Sud è un’opera più complessa rispetto agli altri romanzi. Un’analisi più ampia dei temi che avevo trattato nelle precedenti opere. - Io considero Figli del Sud un lago a cui affluiscono tanti fiumi ma che portano la stessa acqua.


Dal grido della morte al sorriso estatico della rivelazione.

Dall’Otello shakespeariano a Che cosa sono le nuvole di

Pier Paolo Pasolini

Mariacristina Faraglia

Un teatrino scalcinato di provincia, dove manifesti strappati dal vento annunciano la messa in scena della pièce Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini. L’opera ci pone subito davanti ad un assunto metateatrale osservato dalla lente cinematografica: la macchina da presa cattura la messa in scena dell’opera teatrale di Pasolini, liberamente ispirata al dramma shakespeariano dell’Otello. Una trama di incastri e rimandi che fanno pensare ad una matrioska cinese.

Entrando nel teatro scopriamo che gli attori sono marionette viventi, manovrate da un capocomico narratore, che di tanto in tanto interviene nella messa in scena. Due suonatori di mandolino ai piedi del palco, dall’aspetto grottesco e favolistico, fanno da sottofondo alla vicenda che si presenta agli occhi di un pubblico popolare. Quest’ultimo è costituito da quel sottoproletariato che Pasolini ha

cantato con lirismo sacrale nei suoi romanzi, da Ragazzi di vita a Una vita violenta e nei suoi film da Accattone, a Mamma Roma, alla Ricotta, tanto per citarne alcuni. Espressione della forza vitale del presente, di un’attualità del vivere che la borghesia omologata dal progresso ha dimenticato, spetterà a questo pubblico ignorante, semplice, umile, ma con un primitivo e innato senso della giustizia, evitare il com-

piersi della tragedia grazie ad una spontanea rivoluzione. Intanto la storia si compie di fronte allo sguardo duplice del pubblico teatrale e dello spettatore cinematografico e i primi ad entrare in scena sono proprio Iago e Roderigo, gli ideatori del male. Quest’ultimo, innamorato anch’egli di Desdemona, in cambio della promessa di giacere presto al fianco della donna, viene istigato da

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Iago, servitore di Otello, ad aiutarlo nell’intento di strappare Desdemona al Moro. Il diabolico piano consiste nell’instillare nella mente di Otello la serpe della gelosia, che si insinua tanto più facilmente quanto più i mondi dei due innamorati sono lontani tra loro. L’Otello si sofferma infatti sull’indagine di due identità, che tentano invano di comprendersi e di incontrarsi, finendo per autodistruggersi. Troppo uomo, incapace di comprendere il mondo femminile, reso inerme ed insicuro da una condizione di alienazione sociale, il protagonista Otello si illude inizialmente di poter riscattare la propria posizione in una società intrisa di razzismo, come quella veneta del 1500. Grazie ai suoi trionfi militari conquista l’amore della donna più bella e desiderabile di Venezia, la ricca ed ammirata Desdemona, oggetto del desiderio di molti altri pretendenti, visti come più meritevoli di Otello già soltanto per la loro autoctonia, di fronte all’umile origine del Moro. Eppure Desdemona si innamorerà del suo coraggio, della sua forza virile, preferendo lui ad ogni altro pretendente. L’amore sboccia rigoglioso e felice e tutto farebbe presupporre l’inizio di un idillio, quando il male generato dall’invidioso Iago si impadronisce della loro fragile esistenza. Iago è mosso dall’amor proprio, dal livore e dall’odio che prova verso il suo concorrente Cassio e verso lo 22

stesso Otello. Quest’ultimo infatti possiede tutto ciò che lui vorrebbe, ma il razzismo culturale di Iago non può accettare che ad un Moro sia concessa una sorte tanto felice. Vero demiurgo dell’azione scenica, con l’incanto stregato della sua parola riuscirà a far cadere Otello nella sua diabolica trama, costruendo nella mente di lui una realtà illusoria che lo condurrà alla distruzione della sua vita. Ripercorrendo per antifrasi il ruolo del servo nella commedia antica, che raccoglie nelle sue mani la costruzione della vicenda, invece di condurre gli eventi fino al raggiungimento del lieto fine, Iago stravolge l’idillio iniziale, ponendo fine alla felicità così effimera dei protagonisti. Inoltre, a confermare il rovesciamento del modello plautino, il fatto che il servo della commedia classica sia mosso da istinti primordiali, volti al soddisfacimento dei suoi piaceri, quali innanzitutto cibo, sesso e denaro. È privo di una cosciente inclinazione al male. È, per così dire, puro nella sua maliziosa ingegnosità, animalesco, primordiale nella sua eteronomia sensuale. Roderigo, in tal senso, ricalca esattamente questo stereotipo, desiderando unicamente avere nel suo letto Desdemona. In Iago invece alberga l’ontologia del male, il male per il male, il godimento per la sofferenza altrui, che si manifesta nel sentimento più vile dell’uomo: l’invidia, come incapacità di gioire

della felicità dell’altro e quindi di provare sentimenti di umanitarismo. Ricordiamo a proposito le illuminanti parole di Terenzio nel Heutontimerumenos “Homo sum: humani nihil me alienum puto. “Iago è l’esatta antitesi di tale impulso umanitaristico e all’istintualità ferina del servo sostituisce la premeditata e cosciente edificazione del male. Egli non risolve il male, ma crea il male laddove non c’era. Con la stregoneria della sua parola ingannevole, Iago crea una nuova realtà nella mente di Otello, riuscendo con attenta analisi psicologica ad enfatizzare le insicurezze e le paure del suo padrone. Desdemona ama Cassio e con lui tradisce il marito, come dimostra il fazzoletto donato alla donna e ritrovato nelle mani dell’amante. Iago riesce ad insinuare nella mente di Otello il fantasma della gelosia e del sospetto, trasformando ai suoi occhi la bella ed innocente Desdemona in una sgualdrina, uguale a tutte le altre donne. Le sue parole infatti si preoccuperanno di demistificare l’intero genere femminile, ritratto come ingannevole e lascivo, decostruendo lentamente, con diabolica e falsa compassione, tutte le certezze che Otello era riuscito a creare nella sua vita. La stessa trama viene presentata nell’opera pasoliniana sul palco dell’umile teatro, con toni di grottesca tragicità, resa dalla straordinaria interpretazione degli


attori. La loro recitazione parossistica, i loro movimenti meccanici, che riproducono quelli delle marionette, il tono espressionistico di una messa in scena affidata più ai silenzi, ai gesti, che alle parole, restituiscono un’atmosfera di raro incanto e lirismo, propria di un assoluto capolavoro. In scena dunque si compiono le macchinazioni di Iago, fino a quando siamo messi di fronte al primo dei fondamentali fuori scena della pièce. Otello, da dietro le quinte, ha ascoltato il malvagio piano di Iago. Subito dopo anche quest’ultimo esce di scena e la macchina da presa riprende in primo piano il dialogo tra i due. “Ammazza Iago, te credevo così bono, così bravo, così generoso, un pezzo de pane e invece quanto sei cattivo! Ma perché? (...) Ma perché dobbiamo esse’ così diversi da come se credemo?” “Eh figlio mio, noi siamo in un sogno dentro a un sogno” risponde Iago. È proprio a fuori scena come questi che viene affidato il significato più profondo dell’opera. Fuori dalla scena i personaggi smettono di essere marionette, evidenti metafore della condizione umana soggiogata dal potere, incarnato dal burattinaio capocomico. Laddove il potere per Pasolini non si incarna in questo caso in una dimensione geopolitica definita, ma assume il significato di potere annichilente della società di massa, del progresso capitalistico che annulla le differenze, mercifica i corpi, allontana dalla parte più vera e profonda di noi stessi, in nome del dio del falso benessere. È infatti fuori da quella condizione che Otello, magnificamente interpretato da Ninetto Davoli, a cui Pasolini affida spesso ruoli di personaggi semplici, ingenui e sommamente buoni (come ne La terra vista dalla luna, Uccellacci uccellini, Teorema), diviene cosciente del male, scopre la vera essenza della realtà all’interno del “gioco” e si domanda in modo infantile perché l’umanità debba essere tanto crudele. “Figlio mio, noi siamo in un sogno dentro a un sogno” risponde Totò-Iago, parafrasando. Ancora l’inconsistenza, l’inganno della vita, l’illusione di credere reale ciò che non lo è, l’incapacità di distinguere il vero dai sogni, la condizione di smarri-

mento dell’uomo a confronto con il mistero dell’esistenza umana. Forse a significare che è proprio lo sgomento, l’ impotente tentativo di comprendere la verità, che getta l’uomo nell’errore del male, che altri non è che l’incapacità di riconoscere se stessi, riducendosi ad essere una fragile marionetta del potere. L’illuminante dialogo, interrotto dalla ripresa dell’azione scenica, sembra essere poi continuato nel secondo fuori scena. Presa la terribile risoluzione di uccidere Desdemona, Otello si dispera, prendendo coscienza di essere un assassino. Stavolta il dialogo è a tre, perché a Iago si aggiunge come interlocutore anche Sor Me’, il burattinaio. Otello domanda: “Perché devo crede’ alle cose che me dice Iago, perché devo esse’ così stupido”. Ancora la capacità di leggere se stessi, la visione del vero aspetto delle cose è riservata ad Otello al momento in cui esce di scena. “Forse perché sei tu che vuoi ammazzare Desdemona” e poi ancora “Forse perché a Desdemona piace essere ammazzata” risponde il Capocomico. L’avverbio dubitativo assume una valenza centrale nelle due affermazioni. Non è questa che una delle possibili verità. Ecco che allora Otello, in questa grande metafora del percorso del viaggio della vita, si domanda pirandellianamente quale sia la verità. Se ognuno ha il suo punto di vista, qual è quello giusto? come i curiosi che in Così è se vi pare chiedono lo scioglimento del mistero alla Signora Frola.

Ma la risoluzione è tutt’altro che pirandelliana. La verità è quella voce che sussurra dentro di noi, ma “non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più” afferma Iago, nei panni di un tenero e saggio maestro. Come nel primo fuori scena appellava Otello “figlio mio” così ora egli rappresenta per il Moro un maestro di vita. Si ricompone la coppia maestro- allievo di Uccellacci uccellini con questo invito del saggio al suo allievo ad ascoltare se stesso, come a dire che la fratellanza è al di fuori della scena manovrata dal potere. Recede in te ipse, scriveva Seneca al suo Lucilio, spingendolo ad allontanarsi dal caos nebuloso della città, per ritrovare in se stesso la sua verità più profonda. La verità è così una dimensione intima, personale, che si può trovare solo al di fuori del ruolo sociale che rende l’uomo un corpo manovrato. Nominarla, oggettivizzarla, gridarla coram populi, significa vederla svanire. Ci prepariamo alla scena finale, che nella pièce shakespeariana vede la morte di Desdemona. Con un geniale colpo di scena in Che cosa sono le nuvole la tragedia non si compie, perché il pubblico popolare insorge contro Iago e Otello, invadendo il palco e uccidendo le due marionette. Solo il popolo sa smascherare il male ed opporsi ad esso. Abbandonato per sempre il loro ruolo di marionette, i due nuovi eroi si preparano così al viaggio che li condurrà verso il loro Paradiso. Di fronte allo sgomento delle altre marionette, che nelle parole di Cassio assumono la terribile

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coscienza dell’ineluttabilità della morte, Iago e Otello vengono caricati sul camion dal cantante netturbino interpretato da Modugno. “Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso (...) Tutto il mio folle amore, lo soffia il cielo...” recita il meraviglioso testo di Modugno. È infatti proprio nella condizione di derubati della vita che Otello e Iago troveranno il sorriso. Rinati in una dimensione umana e libera, essi scoprono nella desolazione di una discarica lo spettacolo più bello che abbiano mai contemplato: le nuvole. È ancora il saggio Iago a rivelare allo sguardo ignaro e incantato di Otello il nome di quel prodigio e a darne una definizione più che mai pasoliniana: “Straziante e meravigliosa bellezza del creato”. Iago non sa cosa siano le nuvole, che sfuggono alla comprensione umana come la Verità nominata, sente soltanto la sua verità ovvero la percezione della dolorosa meraviglia del creato. Forse è vicino al subli-

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me romantico lo sgomento straziante dell’uomo di fronte all’immensa meraviglia che lo circonda, quando egli recupera la capacità di vedere. Un’epifania nel quotidiano che ripropone, in una straordinaria atmosfera lirica, l’amore pasoliniano per le coppie antinomiche. Ricordiamo come descriveva Roma: “Vedessi com’è Roma, tutta vizio e sole, croste e luce”. La bellezza si incarna nella coincidenza degli opposti, capaci di ritrarre una realtà complessa, vitale, policroma, lontana dall’omologazione sociale e in cui le contraddizioni sono il presupposto dell’incanto e della bellezza. Così nell’Inferno di una discarica i personaggi fatti uomini scoprono il Paradiso, che è per loro la contemplazione delle nuvole. Dunque Che cosa sono le nuvole si presenta come un percorso di liberazione dell’io, che sottrattosi al giogo del potere, negli abissi della condizione umana scopre se stesso, ascolta la voce interiore della verità di fronte alla “straziante e meravigliosa bellezza del

creato”. In questo senso l’Otello shakespeariano è stato capovolto e allo smarrimento di sé, generato dall’omicidio di Desdemona, si sostituisce il lieto fine di una rivelazione sacrale. Perché allora scegliere proprio l’Otello?Forse perché metafora del trionfo del male nella società, dove non c’è la capacità di ascoltarsi e comprendersi e dove non si riesce ad ascoltare la voce della verità. Desdemona e Otello infatti non si comprendono, parlano due lingue diverse, come testimonia il sagace dialogo che Pasolini mette in bocca agli amanti nel momento dell’idillio “Signore mio diletto” lo appella Desdemona, “Ah già, diletto, andiamo a letto” chiosa Otello. Ora invece i personaggi ritrovano una lingua comune, nella condivisa estasi per la natura. Al grido di morte con cui si chiude l’Otello, Pasolini sostituisce così il commovente candore di un sorriso, il sorriso estatico della rivelazione, quello di Iago e di Otello per la prima volta adagiati al cospetto delle nuvole.


Incontri di Carta

Valerio Magrelli a cura di Patricia Peterle e Elena Santi Un flusso intenso tra realtà, pensiero e scrittura è forse ciò che caratterizza le pagine di Valerio Magrelli, nato a Roma nel 1957, professore ordinario di Letteratura Francese all’Università di Cassino. La pagina in bianco viene lavorata e sperimentata in vari modi, sia con la scrittura in proprio sia per mezzo della scrittura altrui (che diventa anche un po’ sua), con l’attività di traduttore dal francese. Mallarmé, Valéry, Debussy e Verlaine sono solo alcuni nomi tradotti da Magrelli, che nel 1993 ha assunto la direzione della serie trilingue della collana Einaudi “Scrittori che traducono scrittori” e nel 1996 è stato insignito dal presidente della Repubblica del Premio nazionale per la traduzione. Magrelli esordisce nel 1980 con la raccolta Ora serrata retinae (Feltrinelli), con la quale si presenta al pubblico come poeta erudito, riflessivo, estremamente ironico. In questa prima esperienza ci sono già alcuni segni importanti della sua scrittura, come per esempio l’idea della frantumazione della lingua e della stessa poesia. Seguiranno poi Nature e venature (Mondadori 1987), Esercizi di tipologia (Mondadori 1992) – queste prime tre opere verranno poi raccolte nel volume Poesie (1980-1992) e altre poesie (Einaudi 1996) –, Didascalie per la lettura del giornale (Einaudi 1999), Disturbi del sistema binario (Einaudi 2006). A proposito dello sfilacciarsi della poesia, in Esercizi di tipologia si può vedere il movimento della poesia che tende verso la prosa, la disarticolazione e l’interscambio tra di esse. Nel 2014 esce Il sangue amaro, raccolta dal tono più disincantato, che risente anche dell’atmosfera disillusa che travolge il paese in questi anni. Inevitabilmente, come è consuetudine in Magrelli, il corpo, in particolare la vista, rimane il senso principale con il quale si passa in rassegna la realtà. L’osservazione è protagonista della raccolta. E se da un lato questo volume si caratterizza per un’analisi disincantata di una verità apparentemente senza scampo, di un mondo corrotto, di un tempo che fugge, di una materia che si corrompe e invecchia, emerge con forza anche la limpidezza del linguaggio poetico, che affronta certi argomenti con ironia e una buona dose di serenità. L’opera infatti si distingue per la sua varietà e innovazione stilistico-retorica. Del 2014 sono altri due libri, il che conferma la sua intensa attività: Geologia di un padre (Einaudi) e La lingua restaurata e una polemica. Otto sonetti a Londra (Manni). Il primo è una scrittura in prosa, esperienza già intrapresa dall’autore in Nel condominio di carne (Einaudi 2003) e proseguita con La vice-vita (Laterza 2009) e Addio al calcio (Einaudi 2010), in cui emerge la scelta per una molteplicità di registri, fitti di incursioni e sperimentazioni metaletterarie e ricordi personali. Nel caso della Geologia, si tocca un tema fondamentale che è quello del rapporto padre-figlio. Nel secondo, si torna alla poesia ma soprattutto al desiderio di voler sperimentare; infatti il titolo, La lingua restaurata…, già di per sé indica degli interventi che pare vengano dal di fuori verso l’interno e viceversa. Una scrittura ibrida e sperimentale è quella che il lettore troverà in queste pagine; l’italiano e l’inglese, con le loro particolarità e singolarità, si mescolano nella complessa trama poetica proposta da Magrelli, che si chiude con la traduzione da Adam Elgar. Arriva dal suo laboratorio, infine, la recentissima 12 volte la carta. Con ex-voto in ceramica (2015).

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“La poesia ha la funzione di portare la comunicazione al suo limite ultimo”: intervista a Valerio Magrelli Patricia Peterle e Elena Santi

Cosa significa essere poeta oggi? Che cosa è un poeta per lei? Il poeta è un nostalgico cantore dalla parola un po’ consunta e desueta? È necessariamente un oppositore del mondo? Ieri c’è stato l’eccidio dei giornalisti di “Charlie Hebdo”. Malgrado l’orrore del gesto, c’è stato chi ha sostenuto che gli scrittori devono badare solo alla loro scrittura. Demenza. Mai come adesso uno scrittore deve parlare. Deve farlo per difendere quel che è più suo: la libertà di parola. Chi altro dovrebbe farlo, se non lui? Un manager, un politico, deve difendere soltanto la libertà dei numeri – e come dimostra la Casta italiana, sa difenderla molto bene. L’elemento essenziale per un poeta è la parola, la materia prima che va cercata, lavorata e poi “fissata” sulla pagina bianca. Che rapporti ha con la parola? Se si vuole anche con la lingua? Infine, come si può definire la sua lingua? Si tratta innanzitutto di prendere atto della natura fondamentalmente antagonista del linguaggio poetico. Antagonista però non in diretto, meccanico rapporto con il potere, bensì in relazione all’impiego quotidiano, strumentale, “prosaico” del linguaggio. Anche quando ogni cosa sembra ormai decretare la sua fine, la poesia non si spegne, anzi, trae forza proprio da tale incombente minaccia. Un anticorpo verbale. La cosa si può presentare in altri termini. Se la scrittura è il legame che unisce autore e lettore,

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se ogni società si fonda sulla condivisione di un linguaggio, la poesia ha la funzione di portare la comunicazione al suo limite ultimo. Come è stato affermato, essa mette il linguaggio in uno stato di allerta. Essa coincide insomma con il massimo di libertà e di allarme, poiché la sua libertà risiede appunto in un continuo allarme della parola.

Lo ha detto molto bene Iosip Brodskij: “La poesia non è una branca dell’arte, ma qualcosa di più. Se ciò che ci distingue dalle altre specie è la parola, la poesia, che è l’operazione linguistica suprema, costituisce la nostra meta antropologica e, di fatto, genetica. Chi considera la poesia un modo per passare il tempo, una lettura,


commette dunque un crimine antropologico, in primo luogo contro se stesso”. Quali poeti o scrittori (italiani o stranieri) operano nella sua scrittura? E in che modo si costruiscono questi rapporti di lettura, poetici e di scrittura? L’attività poetica, questo “fare” per antonomasia, rappresenta una forma di resistenza linguistica contro ogni preteso uso “innocente” del linguaggio. Pertanto, chi si ostina a comporre versi, dovrà cercare di rendere alla parola la lucentezza del conio che le viene quotidianamente offuscata. La poesia esige dunque un approccio reattivo, capace di sottrarre i materiali verbali alla mercificazione quotidiana. E’ appunto questo a renderla così complessa, impegnativa, salutare, “etica”. E’ appunto questo a spiegare perché, come l’Araba Fenice, essa rinasca dalle sue stesse ceneri, ed abbia per culla la fiamma. Altrimenti detto, ricorrendo a un’immagine assai meno sublime, più il linguaggio si deteriora, maggiore è la necessità della sua manutenzione poetica. E di manutenzione, oggi, c’è assai bisogno. Ecco, per riprendere Mallarmé, direi che il poeta è un manutentore dei materiali verbali, come insegnano Se dovesse fare il nome di 5 poeti del secondo Novecento fino ad oggi, quali sarebbero? Caproni, Bertolucci, Luzi, Zanzotto e Amelia Rosselli. Si usa dire oggi che sono più i poeti dei lettori, cosa ne pensa? È come intervengono i nuovi supporti (internet, blog) nel rapporto con il pubblico? I festival letterari sono stati a lungo una buona soluzione alla crisi editoriale. Purtroppo, però, le vendite rimangono molto basse. Per questo, sono sempre più rari i casi di chi si ostina a pubblicare opere in versi, temibili worst-seller, ovvero titoli destinati alle peggiori vendite. Le letture pubbliche non devono trarre in inganno: questi disperati, ingegnosi esempi di economia sommersa non hanno modificato l’andamento del mercato. Come la numismatica, come la filatelìa (il paragone credo fosse di Sanguineti), la poesia resta un’at-

tività seguita solo da un ristretto numero di cultori. D’altronde, se l’esplorazione del particolare, la dilatazione degli spazî, il gioco dei rapporti prospettici, fondano il commento e la critica di un testo in generale, è logico che simili procedimenti appaiano ancora più sofisticati nel caso della poesia, struttura cellulare, microscopica, dove il singolo verso, la sillaba o il semplice segno d’interpunzione, il carattere o la stessa cesura, acquistano valore sostanziale. Rispetto a tutti gli altri, tale genere letterario esige insomma un approccio particolarmente reattivo, capace di sottrarre la parola alla mercificazione quotidiana. E’ proprio questo a renderla così complessa, impegnativa, salutare, “etica”. Ma se la poesia è negazione dell’oggetto di consumo, come ampliare il consumo di poesia? Come ampliare, cioè, il consumo di negazione? Alla base delle scarse vendite nel mercato poetico, probabilmente sta un circolo vizioso: gli editori non investono sulla poesia perché la poesia non rappresenta un buon investimento. Vero. Se non fosse che, in qualche misura, il motivo dipende dal fatto che nessuno ha mai investito seriamente su di essa, malgrado certi riscontri assai più favorevoli in Italia che non in altri paesi quali la ad esempio Francia. A ciò si aggiunge poi un comportamento profondamente radicato nelle abitudini degli acquiren-

ti. Chiunque è libero di comperare i titoli inclusi nelle classifiche delle vendite, ma il problema si pone se lo stesso lettore anela a pubblicare la propria produzione lirica. Perché il mistero è questo: come mai che scrive poesia evita accuratamente di comperarne? Come influisce sulla sua poesia il suo lavoro di traduttore? Il processo traduttivo influenza il momento creativo? “La traduzione non è l’opera, bensì un cammino verso l’opera”. Questa splendida frase di José Ortega y Gasset in realtà non esprime che un aspetto del secolare dibattito sul tema. Eppure, sarebbe difficile spiegare meglio il senso di un’iniziativa come quella relativa alla serie trilingua della collana “Scrittori tradotti da scrittori” di cui fui direttore per una decina d’anni presso Einaudi. L’idea di evidenziare le traduzioni di scrittori e poeti non è certo originale, e attraversa anzi tutta la nostra cultura. Si può dire comunque che solo a partire dal secolo scorso la riflessione sul transito linguistico si sia radicata nel cuore stesso del processo creativo. Basti pensare all’incontro tra Hölderlin e Sofocle, Nerval e Goethe, Baudelaire e Poe. Nel Novecento, poi, questi scambi si intensificano ulteriormente, per culminare in alcuni casi di autentiche migrazioni linguistiche. Ecco allora Conrad abbandonare il polacco per l’inglese, Nabokov lasciare il russo sempre per l’inglese, e l’irlandese

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Beckett passare dal francese all’inglese o viceversa. Questo spasmodico interesse per le lingue spiega come mai Gide affermasse che, se fosse stato dittatore, avrebbe costretto ogni apprendista scrittore a preparare almeno una traduzione. Strenuamente voluta da Giulio Einaudi, la “trilingue” propose l’incontro fra due grandi scrittori stranieri nelle vesti di tradotto e traduttore. Per fare convivere le tre lingue, il testo originale occupava le pagine di sinistra, la traduzione quelle di destra, mentre la versione italiana correva in basso (in corpo piccolo e su entrambe le facciate) consentendo di seguire la rifrazione del testo. Ritorniamo così alla frase iniziale. Quando Artaud volge in francese Lewis Carroll, quando Valéry lavora su Virgilio, quando Pound si consacra alla poesia classica cinese, quando Pessoa versa in portoghese Poe, o quando infine Joyce si autotraduce in italiano, qualcosa di importante sta accadendo. Attraverso il confronto con l’altra lingua, gli scrittori ci parlano del rapporto che essi intrattengono con la propria. Per questo le loro traduzioni rappresentano testimonianze inestimabili, che illuminano la via verso l’opera, e insieme gettano luce sul viandante che la va percorrendo. Nella prefazione a Poesie (1980-1992) e altre poesie (Einaudi 1996) lei scrive : “un libro nuovo aspira al patronimico dell’autore. Non rappresenta la prosecuzione di una pratica, bensì la sua sospensione, o l’apertura di un’altra. È un

atto di sradicamento, una ammissione di incompatibilità, la richiesta inoltrata dal navigante circa la possibilità di conoscere la propria posizione”. Dopo essere passato attraverso tante raccolte poetiche, tra le quali l’ultima è Il sangue amaro (Einaudi 2014), qual è oggi la sua posizione di poeta? Quali le sue prospettive? Risponderei con una serie di citazioni, la prima di Elio Pagliarani: “A una giornalista americana che domandava la mia professione, risposi che faccio un lavoro che non esiste, in una lingua che non esiste”. Con tali parole la questione si complica, perché alla pratica della poesia (un genere, lo si è visto, emarginato per eccellenza), si aggiunge lo stato di emarginazione in cui versa l’italiano, ormai tagliato fuori dai grandi canali di comunicazione. Chi non ricorda al riguardo la battuta di Mario Missiroli ripresa da Eugenio Montale? Eccola: “Non si può essere un grande poeta bulgaro”. Adesso, però, rivolgiamoci a chi della lingua è il padrone, ossia un parlante americano. Si tratta dello scrittore Louis Zukofsky e di una sua disarmata, illuminante considerazione: “Il modo migliore per sapere cos’è la poesia, è leggere la poesia. Così il lettore […] si scopre soggetto alla sua energia”. Occorrerebbe dunque esporsi alle radiazioni dei versi, come davanti a una macchina per le radiazioni, a una TAC o a una lampada... Invece di uscirne esaminati, descritti o abbronzati, ne verremmo fuori con una nuova, accresciuta e sorpren-

dente familiarità nei riguardi del linguaggio poetico. Bella, questa pragmatica della scrittura, che sembra reputare la competenza alla stregua di una lenta, continua assimilazione; bella, ma assai diversa dalla parabola profana a cui un quale Roman Jakobson affidò il senso dei suoi lavori sulla poesia. Ecco il racconto: “In Africa, linguista un missionario rimproverava i suoi fedeli perché andavano nudi. <<E tu?>>, ribatterono indicando il suo volto, <<non sei anche tu nudo in qualche parte?>><<Certo, ma questo è il volto>>, si giustificò il religioso. Al che gli indigeni risposero: <<Ma in noi dappertutto è il volto>>. Nello stesso modo, in poesia, ogni elemento linguistico diviene una figura del linguaggio poetico”. In questa sua ultima raccolta, alla volontà di descrizione delle ferite del nostro presente si accompagna anche l’esigenza dell’enunciazione? Vi è la necessità di chiamare coraggiosamente le miserie del nostro tempo con il proprio nome? Come dicevo, di fronte al vicolo cieco costituito da questo blocco delle vendite (dovuto in parte, sarà bene ribadirlo, alla totale mancanza di un’adeguata politica editoriale), si sono sviluppati per compensazione letture pubbliche, riviste in rete e periodici a bassa tiratura. La loro è una battaglia strenuamente condotta contro la trasformazione della scrittura in prodotto, del testo in confezione, una lotta affidata ad un atto di ammirevole volontariato, oltre che di comprensibile autopromozione. Un’autentica “Caritas” letteraria, anzi, una sorta di obiezione di coscienza nel senso più letterale del termine: forma di resistenza e rieducazione. Nel saggio L’altra voce. Poesia e fine secolo, Octavio Paz sostiene che la poesia si presenta oggi come l’unico antidoto alla tecnica e al mercato. In essa, a differenza della logica consumistica, si esprimerebbe un modello di sopravvivenza fondato sulla fraternità delle forme e delle creature dell’intero l’universo: “A questo si riduce la sua funzione. Niente di più? Niente di meno”. Intervista ricevuta il 12/01/2015

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Mamma 2: la vendetta Come tornai da la Madon-dell’-Orto […] G. G. Belli

Anche a volerti dimenticare, ecco il baleno di un’ombra sulla spiaggia e appare il tuo profilo dentro il mio, che porta il tuo profilo, nascosto teschio, dentro di me. Ognuno porta in testa una testa di morto, ma non una qualsiasi: io nascondo la tua che ovunque vada, avanza. Rimprovero e colpa – matrice. inedito di Valerio Magrelli

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PIL e trasformazioni Dietro lo sviluppo del PIL degli anni ‘50-‘60 c’e stato lo spostamento di sedici milioni di persone dal sud al nord, dalla campagna alla citta, le città morte del meridione, le ragazze che venivano nel settentrione come fanno oggi le rumene e le slave. Anche oggi, dietro l’ 1% di crescita del PIL ci sono trasformazioni impressionanti. La prima è rappresentata dai giovani disoccupati che non hanno la formazione e soprattutto la mentalità necessarie per affermarsi un mercato mondiale dove lo sviluppo tecnologico non avviene solo nei paesi occidentali, ma anche in India, in Cina, in Corea. La seconda è che il lavoro manuale sta passando in mano agli immigrati. Prima le attività più povere come raccogliere i pomodori nel meridione, poi quelle più faticose come il facchino e il manovale, poi l’operaio specializzato, il falegname, idraulico, l’ elettricista il muratore, il camionista. E qui ormai rischiano di restare disoccupati gli operai italiani più anziani Molti immigrati si specializzano: i portieri sono filippini, le badanti slave, i cinesi hanno i loro sistemi esclusivi di produzione e vendita. Nei prossimi anni riusciremo a conservare le competenze e gli standard di eccellenza su cui era basato il made in Italy ? Nelle regioni a più basso grado di sviluppo, Mafia, Ndrangheta e Camorra reclutano eserciti di giovani disoccupati con cui terrorizzano agricoltori, commercianti e imprenditori, li strozzano con l’usura e si impadroniscono dei loro beni. Si impossessano così di grandi territori creando veri e propri feudi. I giganteschi sequestri ci danno una idea di quanto smisurate siano le loro proprietà . Sono tutti problemi affrontabili, ma vi confesso che mi sento male quando, di fronte ai pastori che vendono le loro terre, ai commercianti sfrattati dalle loro case, agli operai di cinquant’annni che non trovano più lavoro, sento i politici che rispondono che l’Italia ha solo il 9% di disoccupazione e che stiamo meglio della Grecia. E vero ma, per favore, voi che siete o state per diventare assessore, sindaco, governatore, ministro, dimenticate le astrazioni, dimenticate le polemiche, ascoltate la gente, studiate i loro problemi , non siate ipocriti, dite la verità, quando non sapete dite che non sapete, risolvete un problema alla volta ma per davvero. Francesco Alberoni

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PASSA TEMPO

DIVERTIMENTO

Il più grosso marsupiale esistente è il canguro rosso dell’Australia centrale, meridionale e orientale. I maschi adulti raggiungono 2,10 metri di altezza, 85 chilogrammi di peso e misurano fino a 2,45 metri dal naso alla coda lungo la curvatura dorsale.

PUZZLE

CURIOSITÀ

SOLUZIONI

CRUCIVERBA

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