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Il lato del prisma

Il mio concetto di società, la mia filosofia di vita: lontano anni luce dall’idea di lavorare per le ferie, per comprarsi una giacca a vento costosa, per arrivare sui gomiti a cena al ristorante.

a noi abbiamo due strade: possiamo prendere un granello di sabbia, un dettaglio, un aspetto, un particolare, e spaccarci la testa e la schiena per farli diventare soldi - e nient’altro; oppure, possiamo decidere di considerare il lavoro come uno strumento per realizzare. Nella fattispecie, realizzare cose e persone. Le due operazioni, manco a dirlo, sono l’acqua e l’olio. Questo articolo non parlerà di soldi, né di efficientamento, o di progettazione: non parlerà di cosa fare o come farlo. O invece, sorprendentemente, sì. La scelta è da quale parte del prisma mettersi, quella della luce o quella della scomposizione in sette lunghezze d’onda diverse che noi chiamiamo

DAVANTI colori, e per di più, in aggiunta, con la consapevolezza che pure così ci perderemo una parte del tutto, dello spettro elettromagnetico, l’infrarosso e quella dell’ultravioletto e degli altri.

Tutti gli articoli presenti in tutti i numeri di questa rivista parlano di lavoro. Questo articolo parla di vita. L’impresa è un purissimo distillato di vita. Altro postulato: l’impresa non si riduce a un progetto economico.

Tra gli elementi fondamentali del fare impresa vi sono utopia, visione, fatica. Poi: rabbia, impegno, intuizione, gioia, gratificazione, sentimenti, delusioni, tradimenti, solidarietà, aiuto. Tutti questi, e molti altri, sono costanti del fare impresa - e sono elementi della vita.

La sostanza esistenziale dell’impresa è un qualcosa di potentissimo: si riverbera su tutti gli esseri umani coinvolti – l’imprenditore, la dirigenza, le maestranze. Con “sostanza esistenziale” parliamo di cosa si fa, ma molto di più del perché lo si fa. Prendiamo le relazioni: nella civiltà moderna abbiamo preso l’infantile abitudine di stabilire le relazioni sul lavoro tramite contratti.

Siamo abituati a considerare il contratto come la più elementare tra le espressioni di volontà nel mondo del lavoro, ed è giusto. Ma è riduttivo: appunto, infantile. Contratti di lavoro, contratti di fornitura, contratti di commessa: decine di forme, articolatissime (tipiche, atipiche...) per esprimere un’unica condizione esistenziale: “Mi metto a fianco a te, al tuo essere persona, e ti dò una mano”.

Eppure, se percorriamo il concetto con... chiamiamola naïveté, è tutto molto più elementare e basico: su quella carta (capacissima di diventare straccia, e lo sappiamo) elenchiamo per trovare sicurezza le cose di cui abbiamo reciprocamente bisogno (tempo, soldi, prodotti, servizi, competenze...) e creiamo una rappresentazione formale per assecondare intenzioni già molto chiare. Per (credere di) renderle vere diamo ad esse un titolo riconosciuto dal sistema.

Abbiamo invece bisogno disperato di riscoprire l’elementarità di queste azioni: l’elementarità di avere un fine (un gusto di avventura; magari suonerà demodé) e della necessità di collaborazione per raggiungerlo. Le operazioni imprenditoriali di maggior senso - roba decisamente più densa del semplice “successo” - miscelano a tutti i livelli contenuto, visione, sensibilità e vita. In altre parole: valore creato, valore trasmesso, valore percepito. Le azioni elementari possono essere riassunte nel termine “progetto”. Le aziende di senso procedono per progetti: i quali hanno una loro evoluzione armonica, sistematica, che permette al progetto stesso di posizionarsi su un orizzonte più ampio, e da cui discendono modellizzazioni utili e pratiche a partire da esso. Astrazione, contestualizzazione, modellizzazione. Il progetto a quel punto non è più un (qualcosa che genera un) problema: un uso sistemico e teleologico dei dati permette di possedere i meccanismi del sistema. Tutto questoche per la maggior parte del pubblico è aria fritta - ha imponenti ricadute concrete. Immaginiamo di sederci, carta e penna in mano: una tabella, tre righe e tre colonne. Sulle colonne mettiamo tre aree di intervento. Potremmo chiamarle “business unit”: Project Management, Gestione Qualità, Innovation management. Queste BU, tutte e tre, afferiscono a standard di riferimento: la Serie ISO 21500 la parte di PM, la Serie ISO 9000 la parte di Qualità, la Serie ISO 56000 la parte di Innovazione.

Problema: seguire gli standard è fine a sé stesso. Ma l’impresa non è forma, è sostanza: non è (solo) seguire procedure; è realizzare cose. Quindi, gli standard servono in quanto orientati al risultato. La tabella non è ancora finita: mancano le righe. La prima è per la consulenza direzionale, la seconda per il servizio gestionale, la terza per il servizio operativo. In pratica: problem solving operativo, qualcosa da assimilare ad un temporary management, delivery specifica. A questo punto, quello che ci troviamo davanti è una modellizzazione applicabile: è uno schema, un modello, un “path”; a cui si aggiunge un lavoro di contestualizzazione. Ovvero, un’analisi, un’indagine, un individuare gli elementi utili, gli output, i regimi di costo, le risorse con cui il modello si confronta. In una parola: tutto.

I servizi sensati vanno progettati secondo questo schema. Inscrivendo il contesto nel modello. Questo - oltre a dare concretezza pratica alle ideepermette una circostanza micidiale: è un modello trasferibile. Prevede, gestisce, dà risultati tangibili, ed è perfettamente ricevibile e assimilabile dentro l’organizzazione. Una volta per tutte.

Amo molto una metafora: quella del salmone. Ho passato (perso?) mesi con una legione di grafici per rappresentarla a dovere: la risalita del ruscello, i massi, l’orso, la deposizione delle uova il ciclo che ricomincia eccetera. Tutto questo mi ricorda le asperità di un percorso (di un progetto) e la sua capacità moltiplicativa. Tutto questo è lontano anni luce dal lavorare per le ferie, per comprarsi una giacca a vento costosa, per arrivare sui gomiti alla cena in un ristorante e finalmente “staccare”: no. Attiene, invece, all’obiettivo di divertirsi nelle 10 ore (malcontate) di lavoro.

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