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Aeromensile di prospezione sul futuro

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EU - ROPA

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PRIMO PIANO: DESTRA E SINISTRA DI PENNANERA IL TEMPO DELLE SCELTE DI CRISTOFARO SOLA

Nuova serie - Numero 23 Aprile 2014 - Anno XVI

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Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 23 - Aprile 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Glauco Berrettoni Francesco Diacceto Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Pierre Kadosh Pennanera Gustavo Peri Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

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confiniorg@gmail.com

RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

VIAGGIO IN EUROPA Viaggio in auto da Napoli a Barcellona, apprezzo l'assenza di frontiere e non rimpiango le lunghe file per il controllo dei documenti, la mancanza dei chioschi dei cambiavalute e la smodata "cresta" che ti imponevano per darti in cambio di lire. franchi o pesetas, come non rimpiango la mancanza dei chioschi delle compagnie di assicurazione pronti a venderti, a caro prezzo, la carta verde dimenticata a casa.

Il viaggio mi concilia con l'idea di un'Europa senza frontiere e mi fa sentire quasi un cittadino europeo.

Anche se i pesanti pedaggi autostradali - pari al costo di 4 biglietti aerei low-cost - mi lasciano sempre un po' d'amaro in bocca, dal sapore di medioevo e mi chiedo perché mai, l'uso di infrastrutture costruite con soldi pubblici ed ampiamente ammortizzate in lunghi decenni di esercizio, debba costare agli utenti molto più del loro semplice costo di manutenzione ed ammodernamento. E invidio i tedeschi che non pagano pedaggio e persino gli svizzeri che si fanno pagare un modico ed equo diritto di transito annuale e con i ricavi gestiscono e manutengono perfettamente una rete largamente "montana". Che gli italiani siano sempre e solo pecore da tosare?

Anche il costo del carburante, quasi unificato e caro dappertutto, mi fa sentire - con una punta di masochismo - più europeo. Tuttavia rimpiango i tempi in cui un pieno spagnolo costava un terzo meno di quello fatto in Italia e quasi la metà di quanto costava in Francia e per questo sognavo di possedere un carrello cisterna.

Con la moneta unica anche i pagamenti sono diventati più semplici. Niente più complicati calcoli mentali per confrontare prezzi espressi in divise diverse, sparita ogni diffidenza sulla sempre possibile fregatura sul cambio. Anche questo mi fa sentire più europeo. Pur se ho dovuto rinunciare al piacere ed al vantaggio, non da poco per un fumatore impenitente, di pagare in Spagna le mie sigarette preferite la metà che in Italia. E mentre fino a qualche anno or sono, anche con l'Euro, facevo lietamente il pieno di tabacco spagnolo , oggi quel pieno lo faccio in Italia perché ormai, in Spagna, mi costerebbe un po' di più.

Un altro piacevole vantaggio a cui ho dovuto rinunciare è quel trenta per cento di risparmio medio che prima ottenevo, rispetto all'Italia, acquistando beni e servizi iberici. Riempire il carrello della spesa in un supermercato spagnolo, a quei tempi, era un piacere, con poche pesetas compravi l'inverosimile, poi con pochi euro, oggi i prezzi si sono livellati alla media europea.

EDITORIALE

E' il bello del mercato unico: nel medio periodo tutti i prezzi tendono a livellarsi sulla media.

Difatti, se ai tempi della lira un chilo di pane costava a Napoli 800 lire a Milano 1500, a Parigi 2000 e a Berlino 3000 oggi, dopo 12 anni di Euro, il pane costa, mediamente, 1,20 euro. E così è accaduto per gli altri beni, dalle auto al salmone affumicato. Tuttavia salta agli occhi il fatto che per un napoletano il prezzo del pane è triplicato e quasi lo stesso vale per uno spagnolo, un francese ci ha rimesso poco e un tedesco ha avuto un vantaggio.

Pazienza, pensavano gli ottimisti (ed io tra essi), questa disparità verrà sanata dal livellamento del prezzo di un altro bene, ben più importante: il lavoro. Ma questo non è successo. Le frontiere, nel mondo del lavoro, non sono state rimosse. Non è stato istituito nessun contratto di lavoro europeo. I livelli salariali - e quindi il potere d'acquisto del cittadino medio - sono rimasti ancorati alle monete nazionali. Ciò ha determinato e determina l'incremento del potere di acquisto per alcuni ed il decremento, fin oltre il dimezzamento, per altri. Neanche il prezzo dell'energia si è livellato, misteri del mercato.

Questa condizione di disparità, che andrebbe sanata a costo di sbattere le scarpe sui banchi europei come Khrushchev, fa nascere in me qualche perplessità ed incrina la mia, pur solida, fede europeista. Si attenua il mio desiderio di essere finalmente cittadino europeo.

Eppure, osservando la dolcezza del paesaggio francese, l'estrema cura del territorio, la puntuale valorizzazione di ogni dettaglio, il sistematico abbellimento di ogni bene paesaggistico o culturale, la particolare cultura dell'accoglienza, mi calmo. Penso che dallo scambio delle migliori esperienze, dal confronto con le differenze, ci si possa migliorare, anche se mi riesce difficile immaginare la "terra dei fuochi" farsi Provenza.

Attraverso l'Occitania e non posso non pensare alle stragi dei Catari in nome dell'eresia, alla folle crociata contro gli Albigesi, al rogo di Bézier, alla fine dei Templari, la cui ultima roccaforte Montsegur - è poco distante. Un'altra faccia dell'Europa, una faccia oscura, quella delle stragi, dell'odio etnico, del fanatismo religioso, dell'intolleranza, del razzismo, delle eterne guerre di supremazia. Un difetto genetico?

Il castello europeo è davvero l'antidoto agli ottusi particolarismi, alle ambizioni egemoniche, all'homo homini lupus?

Se fosse pulito e luccicante come Camelot e se ci fosse Artù a garantirne la guida unitaria forse, ma è nato sbilenco quel castello, bizantino, pieno di superfetazioni e di labirinti e, soprattutto, di compromessi e lunghe mediazioni tra rappresentazioni politiche di interessi nazionali contrapposti che non trovano sintesi e che, troppo spesso, non trovano fondamento nell'interesse reale dei popoli, dei cittadini europei.

"Necesse consolamentum" mi dico, come dicevano i perfetti dei Catari.

Valico i Pirenei e mi faccio abbracciare dal calore della Spagna che mi fa sentire a casa. Stessa indole mediterranea, ma medie civili migliori rispetto al Mezzogiorno d'Italia. E mi sento di nuovo cittadino europeo.

Costeggio la nuova linea dell'alta velocità, finita a tempo di record, attraverso paesini e borghi e mi colpiscono i tanti cartelli blu con un cerchio di stelle messi a contrassegnare un'opera visibile e

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tangibile realizzata con i fondi europei, da noi, spesso, c'è solo qualche sparuto cartello a guardia del nulla.

Mi colpiscono anche le tante bandiere catalane a strisce rosse e gialle a cui è stata aggiunta una stella bianca in campo blu. Ma sono in Spagna o in Catalogna? Certamente in Catalogna, visto che per poter ambire ad un lavoro decente devi conoscere il catalano e un po' di inglese che non guasta, il castigliano, anche se più dolce, è insufficiente. E poi, da qualche anno, è pure - con altre 22 - una delle lingue ufficiali dell'Unione Europea (che Babele!!!).

Per di più c'è aria di referendum indipendentista, come in Veneto, ma molto più serio.

Stessa aria nel Paese Basco dove si parla la misteriosa lingua Basca che non appartiene a nessun ceppo noto, in Galizia dove si comunica in Galiziano e, forse, nella Comunità Valenziana che pure parla in catalano.

La Catalogna francese, dove pure vige il bilinguismo, per ora resta indenne, a differenza della Scozia.

Mi fermo a Figuéres, la città di Dalì e prendo un treno ad alta velocità che in tre ore mi porterà a Parigi per soli 30 Euro e noto che sullo scontrino è ancora riportata l'equivalenza dell'importo in pesetas, per non dimenticare.

Mi risento europeo, pur chiedendomi come mai un Napoli - Roma mi debba costare, in seconda classe, 43 Euro, (ottantaseimila lire, ossia 430 lire al chilometro, più di un taxi) quando una corsa in "Pendolino" me ne costava 24.000 (120 lire a chilometro). L'ora di tempo guadagnato la pago sessantamila lire. Sarebbe bello se il mio lavoro valesse tanto per ogni ora, ma non appartengo ad alcuna casta.

Una breve sosta a Parigi, la città più amabile d'Europa, un passaggio al Louvre, il museo più visitato al mondo grazie anche ai tanti manager italiani che vi lavorano, un'occhiata alla piramide di cristallo che sbuca dal sottosuolo e mi chiedo quando mai avremo il coraggio di fare le stesse ardite contaminazioni col Colosseo o con i nostri musei o di coprire Pompei con una cupola affinché non si liquefi sotto la pioggia.

Poi un altro treno per Bruxelles, la capitale simbolica d'Europa, dove mia figlia ha dovuto (e poi voluto) emigrare, nonostante una laurea, un master e un dottorato di ricerca.

Mia figlia non c'è, è in transumanza a Strasburgo. Per soddisfare la "grandeur" della Francia non era sufficiente che gli organismi europei avessero stabile sede nella capitale francofona, ma in terra fiamminga, del Belgio, occorreva che il Parlamento europeo avesse anche sede e svolgesse i suoi lavori plenari in territorio alsaziano, dove si parla anche il tedesco. Ergo, ogni mese, in occasione delle riunioni plenarie del Parlamento Europeo deputati, funzionari, assistenti e interpreti, si trasferiscono armi e bagagli nella città francese che ne trae indubbio giovamento.

Quanto costi questo pazzesco andirivieni non frega a nessuno, l'importante è che l'orgoglio francese sia soddisfatto. Né frega ad alcuno che oltre metà del budget dell'Unione vada via per traduzioni e interpretariato. E più si allarga, più questa voce incide. Eppure non sono poche le volte che cercando un documento europeo in italiano, non lo trovo o che, volendo seguire i lavori di una Commissione parlamentare, mi capita di guardare una fedele videoripresa dei lavori il cui

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incomprensibile svolgimento è sempre lo stesso per ore: "punto numero tot, favorevoli, contrari, astenuti", mai un solo accenno al contenuto del punto a beneficio dei telespettatori, neanche una didascalia. Ma scegliere una sola lingua per tutti sarebbe un'offesa al legittimo orgoglio di ciascun Paese membro e l'esperanto rimane in soffitta come, man mano che aumentano i membri, più lontano si fa il sogno di un'Europa nazione.

Ma a Bruxelles mi sento incrollabilmente europeo, vi aleggia lo spirito dei Padri fondatori, di coloro che per primi hanno creduto nel sogno europeo e lo hanno realizzato, sia pure negli angusti confini della "realpolitik": Spinelli, Adenauer, Schuman, Monnet, Spaak, De Gasperi, Manscholt, Hallstein, Beyen e persino Churchill. Vincitori e vinti, è questo, forse, il principio incapacitante.

Qui c'è il Parlamento che sono stato chiamato ad eleggere anche se, stranamente, è un Parlamento che non legifera, co-decide. Chi decide, in prima battuta, chi assume le iniziative è il Consiglio (l'assemblea degli Governi) e, per esso, il suo organismo direttivo: la Commissione.

Eppure essere chiamato ad eleggere il Parlamento Europeo mi fa sentire un po' più cittadino europeo. Ma è troppo poco. In realtà non posso scegliere di essere cittadino europeo, né posso optare per la doppia cittadinanza, italiano ed europeo. Se potessi lo farei. Anche questo è solo un sogno.

Cittadino di cosa? Di un'entità senza terra, di una patria di tante patrie, con quali diritti e quali doveri, sulla base di quale contratto sociale?

Eppure nel gioco della Storia i poteri si addensano, si coagulano a scala continentale o globale.

Economia, finanza e multinazionali non hanno confini significativi, gli stati invece sono sovrani solo nei loro confini e questo dovrebbe attenuare l'idea di nazione, temperare gli eccessi nazionalistici.

Gli scacchieri si fanno per tutti più vasti e ciò impone di cedere qualcosa. La Cina e i Paesi dell'Asean e la penetrazione in Africa, il Giappone che fa intese con l'India e la Corea, la Russia che cerca di recuperare pezzi del suo ex impero e strizza l'occhio all'Europa, gli Stati Uniti e il Canada che cercano sbocchi in Sudamerica e nei teatri di guerra, gli stati sudamericani che si stringono in un mercato comune continentale, l'Inghilterra - la vera nazione euroscettica - che rinsalda i suoi rapporti con le ex colonie, Australia e Nuova Zelanda in testa, Iran, Turchia e Siria che si contendono la guida del mondo arabo e l'Europa che si allarga ad est.

Su questo scenario di nuove convergenze l'Europa arranca, non è uno stato, non ha territorio, non ha un esercito, non ha un governo, non ha cittadini, ha solo un parziale mercato, una parziale moneta, un parziale Parlamento, una parziale guida ed una tenuta minacciata dai populismi e dai particolarismi dilaganti e rischia la marginalizzazione in un mondo che guarda al Pacifico.

Se ancora tiene lo si deve alle virtù teutoniche, al cipiglio della Merkel, alla determinazione ed alla lungimiranza tedesca.

Ma, come nelle favole di Esopo, l'uva migliore è sempre acerba. E la Merkel diventa "la culona", l'Europa è troppo a guida tedesca, il blocco del nord impone i suoi diktat troppo austeri, l'allargamento ad est è la riproposizione, in salsa democratica, della teoria dello "spazio vitale"…

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Eppure la ricetta, in teoria, sarebbe semplice: modellarsi all'eccellenza. Riconoscere alla Germania ed al suo popolo capacità non comuni e prenderla ad esempio importando le buone prassi, dal capitalismo renano alla precisione commerciale, all'eccellenza produttiva.

Germanizzare quindi l'Europa? Si, nulla di scandaloso o, per lo meno, nulla più di quanto ci siamo "americanizzati", scimmiottando anche le mode più demenziali ed i comportamenti più deleteri made in Usa. Se non ci fosse stato il baluardo tedesco l'Europa già si sarebbe dissolta. Se non ci fosse stato il marco, la sua solidità e la sua area di influenza non ci sarebbe stato l'Euro, se non ci fosse stata la capacità produttiva tedesca non ci sarebbe un mercato europeo. Quindi è giusto che la Germania abbia maggior voce in capitolo di altri, almeno finché gli altri non si mettano all'altezza, senza "galliche" supponenze.

Dato a Cesare quel che è di Cesare diamo ai cittadini quel che è dei cittadini: diritti e doveri chiari ed uguali per tutti, regole certe, condizioni medie di vita decorose, ragionevoli speranze di progredire in benessere e qualità della vita, riconoscimento del merito, fiscalità equa, sicurezza, giustizia rapida e giusta, servizi rispondenti a standard di qualità, solidarietà in caso di necessità, accesso facilitato all'istruzione e alla cultura, ingerenza minima dello stato, minimo carico burocratico, qualità normativa, trasparenza, occasioni e strumenti di partecipazione alle scelte strategiche.

E' questo il patto sociale che sottoscriverei volentieri da cittadino europeo, anche a costo di imparare il tedesco. E se facessimo un referendum dal basso per istituire la cittadinanza europea? audacia temeraria igiene spirituale Lascio Bruxelles, grigia, piovosa e vitale, come sempre. Un treno veloce mi riporta in un'ora e 20 a Parigi. L'aria è pesante, si sono appena concluse le elezioni amministrative. Il Fronte Nazionale ha avuto un successo travolgente. Marine Le Pen ha predicato la riscoperta dell'interesse nazionale francese, sconfessando l'Europa, ha tuonato contro l'immigrazione e i francesi hanno abboccato, come, mutatis mutandis, gli italiani con Grillo. Il mio europeismo è frustrato, ma non solo il mio, si vocifera di un patto di convergenza tra popolari e socialisti europei nel caso gli "euroscettici" diventassero il primo gruppo del prossimo Parlamento europeo.

Ritorno a Figuéres. La Spagna è in lutto per la morte di Adolfo Suàrez, il franchista che guidò la transizione democratica spagnola e fu primo ministro. Il suo epitaffio: "La concordia fu possibile".

Il mio cuore si riapre alla speranza.

Gustavo Peri

SCENARI

EU - ROPA Analizzando la realtà dell'Unione Europea ci si accorge che, dal punto di vista dei cittadini, si tratta di un costrutto bizzarro. Essi vengono chiamati ad eleggere un Parlamento Europeo che non ha poteri di iniziativa che invece spettano alla Commissione; se lo desiderassero non potrebbero, a nessuna condizione, essere cittadini europei, meglio di loro solo le cosiddette "società europee" che, in teoria, hanno status continentale; subiscono le scelte dell'Unione in molti settori, pagano con le loro tasse il mantenimento del castello europeo e pure le multe per infrazioni alle direttive, ma non hanno alcuno strumento per orientare quelle scelte, neanche quello di punire nelle urne i propri governanti nazionali, attesa l'avvenuta cessione di quote di sovranità; esiste un trattato costituzionale europeo, ma i suoi effetti possono riguardare il singolo solo per violazione riconosciuta da un tribunale.

L'Unione non è uno stato, non è una federazione, né un confederazione di stati e non è più neanche una tipica organizzazione internazionale perché in parte è sovranazionale ed in parte è intergovernativa. Non ha alcuno dei costituenti tipici di uno stato, non ha popolo ma popolazioni, non ha territorio, non ha sovranità se non quella che le è stata delegata dai suoi membri. Ha una moneta, parzialmente adottata dai Paesi aderenti, e una banca centrale, ma non può emettere propri titoli di debito. Non ha una sua fiscalità pur avendo un autonomo bilancio, non ha una propria politica estera, né forze armate, né presidio alle frontiere.

Esercita una forte attrazione economica nei confronti degli Stati più scalcinati d'Europa, ma non ha appetibilità politica essendo scarso il suo peso d'insieme. Eppure con le sue, a volte occhiute e pignole, regolamentazioni condiziona la vita di ogni cittadino degli Stati che ne fanno parte.

La disparità, dal punto di vista dei cittadini, è palmare ed è forse una delle ragioni non secondarie del dilagare del cosiddetto "euroscetticismo" e la cui reale consistenza si misurerà alle prossime elezioni europee che potrebbero "terremotare" l'impalcatura dell'Unione.

L'Unione rischia lo stallo e questo gli europei non possono permetterselo, i cittadini prima ancora che i governi.

Costruire l'Europa, così com'è: una bizzarra Babele, è stato arduo e complesso, i costi sono stati enormi, i sacrifici altrettanto, le mediazioni perpetue estenuanti quanto bizantine e non si può gettare tutto alle ortiche. Nonostante i suoi limiti, l'Europa ha garantito una stabile pace e l'Unione è la sola speranza per gli europei in un mondo che si riassembla per vasti interessi continentali, che si polarizza verso il Pacifico e l'Oceano Indiano e sui due terzi di umanità "emergente" che vi si affaccia.

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SCENARI

Occorre trovare una via d'uscita e questa non passa per gli esercizi di sovranità, per la dialettica intergovernativa, passa per le popolazioni che ambiscono a diventare popolo, per i cittadini che desiderano partecipare e contare, che vogliono essere protagonisti dell'Europa che verrà.

Ciò rende centrale il tema della cittadinanza europea. L'Europa dall'alto non è stato possibile realizzarla se non negli stretti limiti della realpolitik e della mediazione tra interessi nazionali contrapposti, è tempo di passare la mano e di costruirla dal basso, anche partendo dai soli Paesi fondatori o da quei popoli che anelano ad un'Europa politica, ad un'Europa cui appartenere e di cui essere cittadini a pieno titolo. E' già accaduto quando tutti gli europei erano cittadini romani, è, in parte, già accaduto quando tutte le case regnanti europee erano strettamente imparentate tra loro.

Si parta dal Parlamento Europeo, si riconosca ad esso non solo il diritto di iniziativa, gli si dia anche, attraverso il suffragio universale, la prerogativa di essere Assemblea costituente per l'Europa, si conceda ad esso di aprire la strada verso la cittadinanza europea.

Sarebbe un primo concreto e promettente passo verso un'altra Europa, quella nazione o confederazione di nazioni che in tanti sognano da tempo.

In questo percorso, l'ormai vecchia Costituzione italiana potrebbe offrire uno spunto significativo nel passaggio in cui afferma che "la sovranità appartiene al popolo".

Si tratta di un principio bistrattato, spesso giudicato con sufficienza dai governi che sono, di fatto e di diritto (internazionale) i veri detentori della sovranità. Eppure quel vecchio principio bistrattato potrebbe cambiare la realtà dell'Europa.

Pierre Kadosh audacia temeraria igiene spirituale

EUROPA

INNO ALL’ECTOPLASMA Se non fosse da piangere, ci sarebbe da ridere.

Mai, dal 1979, anno di introduzione del suffragio universale per la formazione del Parlamento Europeo, ad oggi, mi era mai capitato di sentire uno spot pubblicitario a favore dell'Europa.

Beh! In effetti, non c'era motivo per farlo. Non si fa propaganda ad un ectoplasma che si aggira nel continente i cui effetti sull'essere umano potrebbero essere benefici ma nessuno, finora, li ha individuati né la ricerca vuole spingersi in avanti a cercarli perché i finanziatori, paradossalmente, pur pagando fior di miliardi di euro all'anno ai laboratori, non hanno interesse alcuno a ché vengano trovati.

Così, già che l'ectoplasma c'era, visto che i ricercatori erano praticamente senza lavoro, perché non impiegare al meglio il personale amministrativo dei gabinetti di ricerca? Dagli usceri agli autisti, dai quadri ai dirigenti, ai commissari, un affannarsi complessivo per stabilire la forma e la lunghezza del baccello più consone alle produzioni agricole comunitarie.

Addirittura, i finanziatori sono riusciti in un'operazione che ha dell'incredibile: la creazione di un organismo dall'altisonante nome di Parlamento europeo che, tuttavia, non ha il potere di legiferare.

Si potrebbe pensare, allora, che tale potere i finanziatori, nell'espressione dei Capi di Stato e di Governo, abbiano voluto riservarlo a loro stessi, visto che, comunque, politici sono. Ebbene, no.

Neppure questo. Il potere di promozione legislativa è stato affidato ad un organismo, squisitamente burocratico, composto da burocrati ai quali i parlamentari (sic) europei, eletti a suffragio universale, e i Capi di Stato e di Governo, anch'essi eletti a suffragio universale, debbono presentarsi, ovviamente con il cappello in mano, per far loro comprendere che in talune zone della Campania il baccello viene più lungo e meno arcuato, rispetto a baccelli dell'Europa del Nord, in virtù del clima migliore, della terra più ricca e delle cure più assidue.

E, spesso, l'evidenza dei fatti cozza contro il razionalismo e il tecnicismo più beceri e vincolanti che fanno sì che si debba peggiorare il clima, impoverire la terra e privare di cure la campagna perché il baccello nazionale si adegui.

Oh! Naturalmente, nel corso del tempo, in varie occasioni, il Consiglio Europeo, composto dai reggitori degli Stati nazionali, i finanziatori dell'ectoplasma, ha stabilito degli altisonanti scopi, dei rimbombanti obiettivi, dei fantasmagorici intenti per l'entità incorporea, i quali, alla fine, non sono andati più in là di apprezzabili auspici, perseguibili solo se l'ectoplasma si evolvesse. Ma, no.

Meglio non correre rischi e lasciare che la fluida forma dell'entità, tale resti.

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Naturalmente, una ragione, i finanziatori, ce l'hanno nel voler tenere l'ectoplasma nella sua concezione originaria: intanto, per tanti anni, ha aiutato politiche clientelari, soprattutto italiane. Aggirarsi nelle stanze del potere della Commissione Esecutiva, i cui burocrati sono muniti di squadre e compassi per misurare lunghezze e circonferenze dei piselli nazionali, è un rimbalzare di calabrese e di siciliano, di campano e di pugliese tra il personale che ti accompagna a parlare con l'alto dirigente, il quale parla tedesco, francese, olandese o austriaco e neppure una parola d'italiano.

La seconda ragione del perdurare del paradosso si è scissa tra quegli Stati che volevano proseguire nell'inserire alti burocrati alla guida della Commissione Esecutiva, detentrice del potere finanziario, la cassaforte europea, e quegli Stati che volevano proseguire nell'inserire bravi autisti e integerrimi usceri nelle strutture comunitarie; e, poiché i due intenti, non sono mai stati collidenti, ciascuno ha proseguito gioiosamente sulla strada del proprio interesse.

C'è una ragione in più per l'Italia: la valvola di sfogo che ha rappresentato e che rappresenta il parlamento europeo. Vista la sua astrusa concezione, dove trovare di meglio come "cimitero di elefanti" da frequentare a mo' di eccentriche vacanze? Ma, siccome anche gli elefanti, a volte, hanno un cuore e un cervello, qualora decidessero di lavorare, di produrre a vantaggio degli ordinamenti legislativi nazionali, comunque costretti, dopo un paio d'anni, a recepire la norma comunitaria; qualora, si industriassero per confrontarsi positivamente con l'ostinazione della Commissione Esecutiva e con la miopia del Consiglio Europeo; qualora riuscissero a trovare il consenso al loro agire e alle loro proposte da parte di colleghi avversari politici; ebbene, qualora l'"elefante" riuscisse in tutto questo, lo farebbe nel totale disinteresse nazionale, compreso quello del partito che lo ha espresso, nella certezza, da parte di quello stesso partito, che tanto quell'elefante, nella stragrande maggioranza dei casi, non tornerà a Bruxelles per un successivo mandato. Infatti, non è mai stata politica nazionale "magnificare" l'opera, per quanto limitata, dei parlamentari europei perché, se lo si fosse fatto, si sarebbe anche dovuto dire che l'80% del lavoro dei Parlamenti nazionali deriva dal lavoro comunitario e ciò avrebbe gettato un'ombra sull'alta, significativa, sostanziosa opera dei parlamentari nazionali e dell'organismo dove essi, non so quanto abitualmente, siedono.

Già. Perché almeno gli altri Stati, quelli che esprimo gli alti dirigenti della Commissione Esecutiva, hanno alla fine compreso che la permanenza a Bruxelles degli "elefanti" che lavorano torna a vantaggio dello Stato nazionale e, pur non magnificando in patria la loro opera, hanno fatto sì che la loro esperienza, maturata nel primo mandato, si arricchisse nei successivi.

Infatti, la loro legge elettorale per le europee, per quanto rispecchi il sistema proporzionale, è a lista bloccata: nel senso che quegli "elefanti" che hanno lavorato bene sono pressoché certi di continuare a lavorare. E, qualora decidessero di non farlo più, scadrebbero nella numerazione della lista fino alla loro uscita.

Del resto, attraverso la cosiddetta lista bloccata, nel mentre gli altri Stati premiano l'opera meritoria dei loro "elefanti", evitano il dissanguamento di questi ultimi, altrimenti costretti a "correre" su un collegio elettorale che, mediamente, riunisce oltre 10 milioni di cittadini.

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L'Italia, invece, nel suo lungimirante agire, accomunando per la prima volta "destra" e "sinistra", non solo ha lasciato per le europee la legge vigente che produce l'allucinante turn over quinquennale del 75% degli "elefanti" eletti e un mortale salasso finanziario per i candidati, ma ha preso la legge che gli altri Stati usano per le europee e ne ha fatta la legge per le elezioni politiche; così, i rappresentanti nazionali del popolo, addirittura prima delle elezioni, hanno vista garantita la loro designazione. Se non fosse chiaro, la legge in questione è quella chiamata Porcellum, che dal 2005 ad oggi, ha "disciplinato" le tornate elettorali politiche.

E, ora, alla luce di tutto questo, di un perdurante mare di ipocrisie e di ottusità, di opportunismi di bassa lega, di cecità spacciate per lungimiranze, dobbiamo assistere alle dissimulazioni elevate a sistema attraverso un mega-spot della Rai a favore dell'Unione europea, dove la si presenta come "un esperimento mai tentato prima e ancora in corso, per continuare a contare nel mondo".

Dove mai l'Europa, nella sua definizione di Unione, si è fatta notare per qualcosa, se non per le sue divisioni? Così per la guerra nella ex Jugoslavia, dove gli americani l'hanno fatta da padroni; così per quella in Iran, praticata da Bush padre; così per quella, sempre in Iran, scatenata da Bush figlio; e, sempre così, per quella, civile, libica, nonostante il primo Paese fosse nel cuore dell'Europa stessa e i secondi fossero Stati rivieraschi del Mediterraneo.

Né, tantomeno, conta, in quanto Unione, nello scacchiere internazionale dove, prima di assistere ad un intervento a favore dei due marò italiani da parte della sedicente Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la britannica Catherine Margaret Ashton, Baronessa Ashton di Upholland, è stato necessario attendere due anni.

Ma, poi, per inciso, come si fa ad affidare la politica estera dell'Unione europea, sia pur in sedicesimo, ad un soggetto il cui Stato di appartenenza è dichiaratamente filoatlantico?

Non basta. Quando mai la voce dell'Unione europea, in quanto tale, si è levata dai tavoli del WTO, i cui 159 Paesi aderenti e i 25 Paesi osservatori rappresentano circa il 97% del commercio mondiale di beni e servizi? Nemmeno la definizione e la tutela della proprietà intellettuale, tema caldo e caro a diversi Stati europei, è riuscita ad approdare all'ordine del giorno di una riunione di quell'organismo. E, analogamente, ha scantonato quei tavoli la necessità di una regolamentazione internazionale del commercio elettronico.

Lo spot, infine, conclude con delle ilari affermazioni: "La sua lezione l'ha imparata dalla guerra. Il suo inno non parla di gloria, di morte e di conquiste. Il suo inno parla di gioia". Beh! Se non fosse stato per l'Inno alla Gioia, scritto da Friedrich Schiller, animato da sentimenti di fratellanza universale, e adottato da Beethoven a conclusione della sua 9.a sinfonia, l'Europa si troverebbe totalmente priva di qualunque riferimento a quel particolare stato d'animo.

E, ancora. Un elogio alla "economia più grande del Pianeta". Peccato perché, presa nell'insieme dei singoli Stati, con regole, caratteristiche, punti di forza e di debolezza totalmente differenti tra loro, così è. Ma nessuno si azzardi a ventilare una politica economica comune.

E, inoltre. "Una qualità della vita tra le più alte del mondo". Certo, rispetto al Burkina Faso, all'Uganda e a qualche altro, non c'è dubbio. Ma come si fa a creare una realtà dove, a fronte di

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una moneta unica, spacciata come un lusinghiero traguardo, coabitano Paesi dal PIL pro-capite tra loro agli antipodi?

Si va dal Lussemburgo, con 77.958 dollari a testa, alla Serbia con 10.722 e il bello, fra l'altro, è che, insieme ad una politica economica comune, manca una comune politica sociale, sia pur di prospettiva, e l'impostazione di strumenti affini di distribuzione del reddito. Anzi, dopo il fiscal compact del 2012, possiamo dire che i gaps sociali sono stabilmente congelati.

Lo spot conclude notando che "Se fossimo uno Stato saremmo i primi alle Olimpiadi". Oddio, ma qualcosa di meno stucchevole non potevano trovarlo?

Spero che marchette del genere di quello dello spot non debbano essere più pagate, a maggior ragione se dettate dal solo timore dell'invasione prossima delle truppe antieuropeiste.

Non vorrei la distruzione dell'Unione bensì la sua forte riforma secondo ragione. In conseguenza, spero che i risultati delle prossime elezioni europee riescano a dare uno scossone all'attuale schizofrenico impianto. Non per distruggerlo ma per riformarlo opportunamente.

Infatti, non sono un anti europeista bensì, prendendo a prestito dal dizionario dell'ipocrisia, un diversamente europeista.

Francesco Diacceto

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PUBBLICITA’ INGANNEVOLE Come ormai tutti sanno, il Trattato sulla costituzione dell'Unione Europea e dell'eurozona, fu firmato nel 1992 a Maastricht, ridente cittadina olandese, luogo nel quale morì Charles de Batz de Castelmore d'Artagnan, il famoso moschettiere del re.

Quel trattato prevedeva la ratifica in sede nazionale da parte degli Stati sottoscrittori; per cui, secondo le rispettive costituzioni, alcuni procedettero per via parlamentare, altri per via referendaria.

L'Italia, ad esempio, adottò la via parlamentare mentre la Francia, ad ulteriore esempio, prese la via del referendum. In Francia, a quel tempo, governava Pierre Bérégovoy, un curioso politico socialista vicino a Francois Mitterrand.

Il referendum francese non si presentava con esito scontato; l'opposizione, rappresentata soprattutto dai nazionalisti Charles Pasqua e Philippe Seguin, uomini a quel tempo nel Raggruppamento Per (la) Repubblica (RPR) e animatori della corrente critica verso la gestione di Jacques Chirac, era molto forte e persuasiva; insieme al timore di un appannamento della grandeur francese, esprimeva contrarietà particolarmente verso la costruzione dell'euro, totalmente svincolata da politiche di sostegno economiche e sociali.

Un feroce oppositore al trattato era anche Philippe de Villiers, un forte deputato liberale della Vandea, a quel tempo nell'UDF -Unione per la democrazia francese - il quale non voleva neppure l'affissione dei manifesti referendari. Arrivò persino a chiedere a viva voce, e formalmente, al Consiglio costituzionale - una specie di Corte Costituzionale italiana - un intervento d'autorità, invitando i contribuenti, nel frattempo, a reclamare al fisco una "diminuzione d'imposta" per le spese a carico dell'erario, ingiustificate a suo dire.

Di fronte ad un'opposizione di tal fatta, Bérégovoy pensò di mettere in atto delle pratiche per indirizzare l'opinione pubblica verso un positivo risultato referendario e, tra le varie pratiche, considerò anche di porre in atto una campagna elettorale televisiva, affidandone la realizzazione a Jacques Séguéla, il più celebre pubblicitario di Francia.

Tradotta in clip televisivi e in messaggi radiofonici, l'iniziativa avrebbe dovuto dare il via alla campagna elettorale in vista del referendum del 20 settembre di quell'anno, sotto l'accattivante e incisivo slogan: "L'Europa è adulta, diamole la maggioranza".

Tutto era pronto per il grande lancio, compreso il già avvenuto pagamento della parcella di Séguéla, ammontante a 25 milioni di franchi (circa 3 milioni degli attuali euro), prelevati dalle casse del SID, il Servizio informazioni e diffusioni del governo: ma, ecco che, all'improvviso,

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l'intervento di Jacques Boutet, allora presidente del Consiglio superiore dell'audiovisivo, indusse il governo a rinunciare all'iniziativa con una decisione che, sostanzialmente, può essere così riassunta: "Non tutti i francesi sono pro Maastricht, non è quindi giusto che debbano pagare tutti."

A quel tempo, la tanto osannata Simone Veil, martire di Auschwitz, esponente di primo piano nella lista dell'Unione per la Democrazia Francese alle prime elezioni a suffragio universale per il Parlamento Europeo del 1979, capofila dello schieramento europeista, liberale e centrista, sostenuto da Giscard d'Estaing, eletta addirittura Presidente dell'assemblea fino al 1982, sostenitrice accanita del Trattato di Maastricht, proverà a fare un tentativo di riappacificazione tra i protagonisti politici, vista la marcia indietro del governo Bérégovoy.

Eppure, il tentativo non le impedirà di precisare: "Bisogna ammettere che gli spot televisivi immaginati da Séguéla questa volta erano proprio brutti. Non riuscivano a dare una bella immagine dell'Europa."

A quel tempo, un articolista italiano commentò i fatti francesi concludendo il suo articolo con una considerazione: "l'Europa di Maastricht divide la Francia in due e un risultato positivo del referendum è lungi dall' essere acquisito.".

Mai parole furono più sacrosante. Il referendum su Maastricht fu vinto dai "sì" ma quel momento diede inizio al conto alla rovescia dell'Unione europea appena costituita, fino ad arrivare oggi a portare alla ribalta il Front National di Marine Le Pen, che ha conquistato la Francia ancor prima delle Europee alle quali viene data come vincitrice assoluta.

Non so se questo accadrà ma è certo che, a seguito di quanto sta accadendo in altri Stati europei, con la rilevante crescita di consensi verso partiti di destra e, in ogni caso, critici verso l'attuale concezione dell'Unione europea, gli euroscettici eletti a Strasburgo arriveranno ad inserirsi nella terna dei tre maggiori gruppi, insieme a PSE e PPE. Ciò che dopo potrà succedere è facilmente immaginabile, perché è vero che la Commissione Esecutiva ha il potere di promozione legislativa e, addirittura, di intervento sulle proposizioni del Consiglio Europeo nel processo legislativo, ma è anche vero che il terzo o il secondo gruppo in Parlamento, costituito da soggetti perplessi sull'attuale Unione se non avversi, costituirà un terremoto; peraltro, nella impossibilità per gli altri di costituire una valida barriera per ancestrali motivi di divisione.

Non credo che ci siano dubbi in proposito.

La Corte Costituzionale tedesca, recentemente, ha abolito, perché dichiarata incostituzionale, la soglia di sbarramento del 3 % per i partiti che vogliono entrare in Europa. Il meccanismo - recita in sintesi la sentenza - viola il principio "una testa, un voto" e introduce un discrimine tra gli elettori dei partiti grandi e quelli delle formazioni minori escluse dalla rappresentanza. I partiti maggioritari godrebbero di una facile rendita di posizione, in virtù del classico argomento del "voto utile".

Così, la Germania andrà a votare alle elezioni per il parlamento europeo con il proporzionale puro. L'unico partito di sinistra a gioirne è stata la Linke, la formazione della sinistra radicale

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tedesca. Ma al centro populista o, ancor di più, a destra il discorso muta drasticamente rimettendo in gioco forze finora escluse sia dal Bundestag che dall'europarlamento: i Freie Wähler (Liberi Elettori), un partito populista che alle ultime elezioni in Baviera ha raccolto il 9%, il Partito dei pensionati, il Partito della famiglia e le femministe del Partito della Donna, la Npd, la principale forza della galassia neonazista, i liberali della Fdp e l'Alternativa per la Germania (AfD), la formazione anti euro nata di recente, per un totale di oltre 7 milioni di voti.

In Inghilterra, l'Ukip - United Kingdom Independence Party - è senz'altro il più famoso e affermato tra i movimenti euroscettici. Sebbene non si possa definire propriamente di "estrema destra", essendo più specificatamente un partito conservatore e nazionalista con venature populiste, è indubbio che abbia in comune molti punti programmatici con i partiti di estrema destra europei.

L'Ukip gode di buona salute: ha, attualmente due rappresentanti nella Camera dei Lord, 13 deputati all'europarlamento e, alle ultime elezioni locali del 2013, ha ottenuto il 23% dei consensi, arrivando subito dopo il Partito Conservatore (25%) e il Labour Party (29%).

Nigel Farage, leader di quel partito, ha spesso tuonato contro le lobby che soffocano i popoli continentali, prima fra tutte quella delle banche. La BCE, infatti, è considerata un nemico che strozza la gente e l'euro una malattia che bisogna debellare.

Ma, all'Ukip, si aggiunge a sorpresa il British National Party (BNP), la destra nazionalista, ha recentemente vinto le amministrative di Swanley, nel Kent, guadagnando il 41% dopo il collasso del Labour. I Tory, spinti al centro, sono arrivati terzi. Ed è la prima volta che il BNP sfonda nell'Inghilterra del Sud, tradizionalmente liberal. Nel 2006, aveva espugnato il Nord, le contee di Barking e Dagenhham, dove aveva raccolto il 20%. E, sulla scorta dei recenti successi, tutti gli analisti sono concordi nel ritenere che il BNP possa conquistare seggi a Strasburgo.

In Spagna, la destra, recentemente, ha rotto con il primo ministro Rajoy e ha formato un partito.

Non si tratta dei soliti gruppetti post franchisti ma di un fenomeno, almeno apparentemente, serio e credibile: Vox è il nome del nuovo partito guidato da José María Ortega Lara, ex funzionario sequestrato dall'Eta e già dirigente del Partito Popolare.

Vox, che si presenta alle prossime elezioni europee, nasce con l'obiettivo di essere "un'alternativa all'incapacità delle due grandi forze politiche" - popolari e socialisti - nel rispondere alla crisi strutturale in Spagna. Ovviamente, contro i diktat capestro dell'Unione. E su questa strada ha già incontrato vasti assensi tra i quali, quelli di rilievo, di Ignacio Camuñas, ex ministro del governo di Adolfo Suárez, Ana Velasco, figlia del militare ucciso dall'Eta Jesús Velasco, e il filosofo José Luis González Quirós. Stando ai sondaggi Vox potrebbe raccogliere alle prossime europee almeno il quattro per cento dei voti. Ma non è la sola formazione a cavalcare il tema dell'identità spagnola e, direttamente o indirettamente, ad essere critica contro l'Unione.

In Catalogna, il partito "Plataforma per Catalunya" con lo slogan "prima la gente di qui e non gli immigrati" ha raccolto più di 75.000 voti. Visto il successo ottenuto nella regione, Josep Anglad, il suo presidente, starebbe addirittura pensando di estenderne il modello su scala nazionale, con il nome di "Plataforma por España" facendo anche un ragionamento per le europee.

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España 2000, un altro partito di destra, ha avuto sin dall'inizio l'appoggio del Front National francese. Puntando sull'opposizione all'immigrazione e alla difesa dei cittadini spagnoli, questa formazione è riuscita a guadagnare diverse rappresentanze all'interno di comuni valenziani con più di 15.000 abitanti. E, a tanto, si aggiunge forse il più vecchio dei partiti neofascisti, La Falange di Manuel Andrino, che cavalca i temi classici della destra, sia pur rivestiti da un'estetica tradizionalista.

In Portogallo, poi, la situazione si presenta quasi paradossale. Il Paese, con i suoi 10,4 milioni di abitanti, è reduce da un quinquennio di grave crisi economica che ha costretto il premier Pedro Passos Coelho a una politica di austerity tesa a contenere il debito per rispettare gli accordi presi con la trojka (Bce, Fmi e Commissione Europea) dopo il salvataggio dell'aprile 2011.

I licenziamenti e i tagli degli stipendi nel settore pubblico e delle pensioni dovevano essere la cura, ma hanno ridotto il Paese allo stremo. E, anche se le ultime statistiche sull'occupazione sembrano fornire dati incoraggianti, fare pronostici sull'andamento delle europee è un esercizio tutt'altro che semplice: da una parte c'è il Partito Socialista dell'ex premier José Socrates, dall'altra quello Socialdemocratico dell'attuale premier Pedro Passos Coelho: al primo viene imputato il disastro economico che ha portato il Paese sull'orlo del baratro, al secondo il fatto di avere messo in sicurezza il Paese a un prezzo troppo alto.

Alle prossime elezioni europee, il Portogallo eleggerà 21 membri. Per i Socialdemocratici c'è il rischio di una vera e propria "Caporetto": gli ultimi sondaggi li danno sotto il 20% e anche le elezioni comunali dello scorso settembre sono state una disfatta. Potrebbe essere il tempo delle rivincite per i Socialisti all'opposizione, ma tutto lascia credere che si assisterà a un boom dei partiti anti-austerity della sinistra come il Bloco de Esquerda e il Partito Comunista Portoghese o di quelli di estrema destra, analogamente euroscettici, come il Partido Nacional Renovador.

In Danimarca, il Dansk Folkeparti (il Partito popolare danese) ha una caratura istituzionale: di fatto è stato precursore delle altre estreme destre che stanno esplodendo in Europa, accettando un percorso di "normalizzazione. Dopo le elezioni del 2001 - dove ottenne oltre il 12% -, il Df ha sostenuto, seppur esternamente, il governo guidato dai liberali di Anders Fogh Rasmussen, formando un asse di centrodestra, comunque con un obiettivo chiaro: spostare la Danimarca su posizioni conservatrici e nazionaliste. E, con tali obiettivi, si presenterà alla prossima competizione per l'Europa.

La situazione austriaca non è da meno. La destra anti-euro ed anti-immigrazione del Freiheitliche Partei Österreichs (FPO) - il Partito della Libertà - è data nei recenti sondaggi per le europee alla vertiginosa percentuale del 27% e, se così fosse, si affermerebbe, per la prima volta nella storia austriaca, come primo partito, a danno di socialdemocratici, popolari e verdi.

Analogo è il caso olandese con la forte affermazione del Partij voor de Vrijheid (Pvv) - Partito della Libertà - di estrema destra che, nelle recenti amministrative, ha determinato un tracollo di consolidati partiti come i conservatori, i laburisti e la sinistra radicale socialista.

Per avviarci alla conclusione, non si può trascurare la Grecia dove Alba Dorata, partito di estrema destra, ovviamente anti europeista, alle elezioni legislative del 2009, raccolse lo 0,29% dei voti.

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Tre anni dopo, con il 7% dei suffragi, quel partito ha inviato 18 deputati in Parlamento e, oggi, i sondaggi per le europee lo accreditano al 13%; il che ne farebbe la terza forza politica del paese, dietro a Nuova democrazia (destra) e Syriza, la coalizione di sinistra radicale.

E, per concludere, tra gli ex Peco, brilla l'Ungheria dove nelle recenti consultazioni il Fidesz, partito nazionalista di destra guidato da Viktor Orban, ha conseguito il 44,4% dei consensi.

Qualcuno afferma che quella formazione ha ridotto la percentuale rispetto alle precedenti elezioni. E' vero, ma nessuno dice che la percentuale dei votanti si è ridotta al 61% degli aventi diritto e che un altro partito di destra, estrema stavolta, lo Jobbik, con il suo leader Gabor Vona, è passata dal 16,7% del 2010 al 21,4%, ad una mezza spanna dal 22% raccolto dai socialisti Non giova considerare l'Italia, visto che la situazione è nota.

Tutto ciò posto, considerato particolarmente l'eclatante esempio francese del '92, come si può assistere impunemente ad una ingannevole pubblicità, messa in onda dalla Rai, consistente in uno spot di 1 minuto e 49 secondi, dove impunemente si inneggia ai benefici effetti dell'Europa, senza vergogna alcuna?

Per chiunque abbia voglia di vederlo e commentarlo trascrivo l'indirizzo web: http://www.europa.rai.it/videos/ e lascio una domanda.

E' comprensibile che gli euro burocrati siano fortemente preoccupati dalle situazioni politiche dei vari Paesi. E' altresì comprensibile che lo siano i reggitori del potere nostrano. Ma può essere un video, confezionato e posto in onda con i soldi dei contribuenti tutti, a giustificare l'astrusa costruzione dell'Unione e a risolvere la profonda insoddisfazione che una parte sempre più cospicua di cittadini europei nutrono per l'agire delle istituzioni comunitarie?

Certamente no. E c'è già chi pensa di presentare un esposto alla magistratura e un'interpellanza al presidente della Commissione di Vigilanza Rai contro "l'Unione Sovietica Europea".

Non mi auguro che tutto quanto costruito finora crolli. Auspico, invece, che, per la prima volta nella sua lunga esistenza, l'Europa tragga dai risultati delle prossime consultazioni una lezione: un'unione si fa o con le armi, come purtroppo la storia ci insegna, o con il consenso delle genti.

Fare dichiaratamente a meno del primo aspetto è nobile. Ma cercare ripetutamente di bypassare il secondo a vantaggio di pochi è disonorevole.

Roberta Forte

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IL TEMPO DELLE SCELTE All'ordine del giorno c'è la disputa della partita europea, che reca una decisiva novità. Per la prima volta, nella storia di queste elezioni, la prospettiva d'approccio appare completamente rovesciata. Mentre fino ad oggi il voto europeo è stato visto e letto in funzione della politica interna del Paese, meglio sarebbe parlare delle beghe da cortile di casa, con il prossimo 25 maggio sarà il quadro europeo a determinare effetti sul corso delle vicende italiane. E questo è un bene. Forse potrebbe rappresentare l'inizio del processo di guarigione da quella patologia, molto nostrana, che si chiama provincialismo. Per troppo tempo abbiamo pensato che la nostra realtà costituisse il fulcro intorno al quale avrebbe ruotato l'asse del mondo. Ovvio che non è così. E non lo è più da secoli, millenni, almeno dai tempi di Roma "caput mundi". A voler essere pignoli non lo è neppure l'Europa, che da molti anni ha perso la sua centralità nel sistema degli equilibri internazionali. Se proprio dovessimo oggi cercare uno dei possibli baricentri dello scenario strategico-diplomatico globale dovremmo pensare di andare in crociera nel Mar della Cina. Da quelle parti, in uno spazio geografico neanche troppo vasto, si sta scrivendo il futuro del pianeta per i prossimi decenni del XXIesimo secolo.

Tuttavia, non deve affatto dispiacere la novità europea di un confronto elettorale che abbia un senso compiuto. Quale? Forse per la prima volta nella storia della vicenda continentale, si presenta l'occasione agli elettori degli Stati membri dell'Unione di dire con chiarezza quale Europa vorrebbero consegnare alle future generazioni. Soprattutto i cittadini dei Paesi che maggiormante hanno subito il peso della durezza di un processo d'integrazione fondato su inflessibili parametri di contenimento della finanza pubblica, hanno la possibilità di esprimersi con un tratto di penna su ciò che non vogliono più.

Potrebbero essere i Paesi dell'area mediterranea dell'Unione a levarsi e dire a piena voce che un'Europa fatta a immagine e somiglianza delle politiche particolaristiche del "fronte del Nord dell'area euro", guidato da un' intransigente Germania, non va bene. Possono dire che l'Austerity finalizzata ad assicurare stabilità alla moneta unica, voluta dalle autorità centrali di Bruxelles e Francoforte per determinare un'esasperata politica deflazionistica, funziona ed è virtuosa fin quando reca benessere e prosperità agli amministrati. Quando, invece, quelle stesse politiche, che producono la drastica contrazione di capitale circolante, incrociano rigidità formali di stampo burocratico, provocano soltanto disagio sociale diffuso e inducono le comunità colpite a una generale sfiducia per il futuro. Le politiche di rigore applicate a tempo indeterminato annichiliscono la naturale vocazione di ogni essere umano a progredire nella sua condizione di

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cittadino e di produttore. Perché si interrompa la spirale degenerativa nella quale stanno precipitando interi sistemi economico-sociali è necessario che esse vengano interrotte e si cambi strada. La storia del nostro continente ci ha insegnato che sottoponendo le popolazioni degli Stati alla pressione di ingiuste costrizioni o di governi oppressori, esasperando le condizioni di vita della gente comune, consentendo il dilagare della miseria, si è giunti più volte nel tempo a vivere il dramma delle esplosioni rivoluzionarie dove sangue e terrore hanno fatto da contrappeso all'arroganza dei potentati di tutti i generi. Molto si è combattuto e molto si è sofferto nelle contrade d'Europa. E il solo fatto di riconoscersi nella modernità dello Stato liberale-costituzionale, a impronta democratica, non basta di per sé a rendere le nuove generazioni immuni dal ritorno di un discusso passato. Parossismo? Può darsi. Enfasi letteraria?

E' possibile. Tuttavia questa riflessione è sostenuta da fatti inoppugnabili.

Nell'Europa degli Stati maggiormente colpiti dalla crisi di sistema, indotta delle regole europee, sta crescendo un sentimento autenticamente scettico. Tale sentimento ha trovato modo di canalizzarsi verso nuove forme organizzate di offerta politica. In Grecia, il partito di "Alba Dorata" guidato da Nikólaos Michaloliákos, ha portato nelle ultime elezioni nazionali del giugno 2012 un gruppo di 18 deputati a sedere nel Parlamento greco. I cardini della politica di "Alba Dorata" sono la lotta alla disoccupazione, la lotta all'austerity voluta dall' Europa e la lotta all'immigrazione. In sostanza, un movimento politico a vocazione totalitarista si presenta e raccoglie voti su una piattaforma programmatica che difficilmente può essere bollata come irricevibile da quanti soffrono degli stessi problemi a cui soggiace da qualche anno il popolo greco. In Ungheria, invece, nell'ultimo confronto elettorale la vittoria è andata al partito nazional- conservatore di Viktor Orbàn che ha conquistato il 47% dei consensi. Il risultato è particolarmente importante se si considera la posizione molto critica di Orbàn verso gli "eurocrati" di Bruxelles. Costoro ricambiano totalmente l'odio mostrato da Orbàn nei loro riguardi. Per insultarlo lo chiamano "il Berlusconi ungherese", "l'autarchico ribelle". Ma come di Berlusconi, i manovratori di Bruxelles hanno disperato bisogno di Orbàn. O meglio, avvertono la necessità che la politica antiglobalizzazione del Fidesz, partito al potere, che in sede europea aderisce al PPE, faccia da argine al dilagare delle idee xenofobe e neonaziste che stanno infettando l'Est del continente. In realtà, di là dalle antipatie parsonali, Orbàn in qualche modo costituisce una garanzia per la tenuta democratica del Paese. Tuttavia, non può essere cancellato il clamoroso successo elettorale del Partito Jobbik passato dal 17% dei seggi al Parlamento nazionale, nella precedente legislatura, all'attuale 20,7%. Jobbik adesso può contare su una pattuglia di ben 26 deputati.

Come la formazione greca "Alba Dorata", anche l'ultranazionalismo ungherese si dichiara neonazista e antisemita. Tanto per comprendere chi siano i suoi affiliati, la proposta avanzata di recente da un rappresentante del movimento prevedeva che venissero stilate liste di ebrei responsabili, secondo Jobbik, delle difficoltà economiche in cui versa buona parte della popolazione ungherese. Gli ebrei sarebbero dunque una minaccia per la sicurezza nazionale.

Immaginate cosa accadrebbe se, alle prossime elezioni europee, la corrente neonazista dovesse ancora incrementare il proprio bacino di consensi. L'Ungheria, posta nel cuore dell'Europa,

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rischierebbe di fare un salto indietro di settant'anni precipitando di nuovo il continente "in quelle tenebre". Si tenga conto che nelle aree di Nord-est del Paese, le più povere, Jobbik ha raccolto il maggior numero di voti, superando talvolta la soglia del 35%. Ora la zona economicamente depressa dell'Ungheria confina con l'Ucraina dove, come è noto, è in corso un tentativo di distacco dallo storico alleato russo in vista di un avvicinamento del Paese al progetto europeo. A sostenere l'impatto dello scontro frontale con la Russia sono, in prima fila, i militanti di Svoboda e dei gruppi ultranazionalisti, anche loro insufflati da pulsioni naziste e antisemite. Ma il nord-est ungherese confina anche con la Slovacchia.

Di recente, nella Slovacchia centrale, è stato eletto governatore della regione Banska Bystrica, Marian Kotleba, un esponente del nazionalismo estremista del partito "La nostra Slovacchia", noto per le sue battaglie anti-rom. Kotleba è stato messo all'indice per aver definito "criminali" i rom del suo Paese.

Tuttavia, sarebbe un errore pensare che il sentimento antieuropeo si sia radicalizzato nella parte meridionale e orientale del continente. In effetti, ancor prima che l'estremismo politico incominciasse a raccogliere frutti nelle aree della crisi, movimenti xenofobi hanno consolidato la loro presenza all'interno delle rappresentanze parlamentari di quasi tutti i Paesi del progredito Nord dell'Europa. In Finlandia, un quinto dei seggi parlamentari è andato al partito dei "Veri Finlandesi". Nella scettica Gran Bretagna ottiene consensi il partito anti-europeista Ukip guidato da Nigel Farage che ricordiamo bene per aver, senza mezze misure, sbattuto in faccia agli italiani una verità sgradita. Per Farage il nostro paese negli ultimi anni è diventato una colonia della Germania. In Austria, alle elezioni dello scorso settembre il Fpoe, il partito xenofobo di HeinzChristian Strache, successore di Joerg Haider, ha riscosso un notevole consenso. In Olanda, il partito di estrema destra PVV, attraverso il suo leader, Geert Wilders, da tempo punta la sua politica sulla proposta di referendum per far uscire l'Olanda dall'area euro. Le argomentazioni a sostegno sono elementari: a fronte di benefici pari a 800€ procapite, ogni cittadino olandese subisce una perdita pari a 2700€, causata dalla necessità di contribuire al salvataggio degli altri partner insolventi. Messa così, una causa referendaria sarebbe una passeggiata per i proponenti.

Ma il Paese dove sta montando un'onda anti-europeista significativa è certamente la Francia. I sondaggi indicano il partito patriottico di Marine Le Pen, il "Front National", al primo posto nel gradimento degli elettori. Marine ha idee chiarissime sull'Europa. Il suo programma si fonda su quattro pilastri: la fine dello spazio di Schengen, l'addio all'euro, il patriottismo economico e la superiorità del diritto nazionale sulle direttive europee. In caso di vittoria alle elezioni nazionali sarà lei a dire alla UE: "prendere o lasciare" perché, sostiene Marine, "la maggioranza dei mei compatrioti non vuole morire in questo magma informe chiamato Europa". Le ragioni del successo di "blu Marine", nell'ultimo confronto elettorale interno vanno essenzialmente ricercate nel fallimento del sistema di welfare transalpino e nell'incapacità del presidente Hollande, icona della sinistra italiana, di fornire risposte adeguate alla crisi che sta impoverendo i francesi. Tuttavia, rileva il dato, che i francesi hanno chiaramente espresso, di un voto che è anche di contestazione alle politiche recessive praticate dall'Unione Europea. Non vi è dubbio

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che il consenso assegnato al Front National faccia da battistrada a un risultato ancora più significativo che i francesi potrebbero consegnare al futuro dell'Europa il prossimo 25 maggio.

Appare rilevante il dato che evidenzia una forte incidenza dei partiti xenofobi o populisti anche in Paesi che sono fuori dell'UE. E' il caso della Svizzera dove la destra dell'Unione Democratica di Centro raccoglie un consenso intorno al 31%. Il partito si è particolarmente distinto nella campagna referendaria recente che ha posto un freno ai flussi migratori in entrata. Il partito è schierato contro il trattato di Shengen. Una petizione presentata lo scorso 14 febbraio al Consiglio federale e alle Camere chiede di rescindere l'accordo con gli altri Paesi della UE. L'obiettivo è quello di rinegoziare con l'Europa i patti sulla libera circolazione delle persone. In Norvegia, nelle elezioni dello scorso anno ha trionfato il Partito del Progresso, di matrice conservatrice e populista che ha fatto della lotta agli immigrati la sua bandiera. Nella tornata elettorale che l'ha visto vincente, per il Partito del Progresso, accusato dall'opposizione di aver ospitato nelle sue fila Anders Behring Breivik, il folle autore della strage del 22 luglio 2011 in cui furono trucidati 77 giovani che patecipavano a un'iniziativa del Partito laburista, non vi è stato alcun contraccolpo.

La corrente neonazista e xenofoba che sta attraversando l'Europa si muove sull'onda di alcune parole d'ordine comuni a tutti i movimenti locali. "L'immigrazione musulmana, la globalizzazione, a cui vengono associati, la deindustrializzazione e la crescita della disoccupazione, le politiche dell'Unione europea, accusata di essere responsabile dell'abbandono della sovranità nazionale sulla moneta e della crisi finanziaria del Vecchio Continente degli ultimi due anni". Questa è l'analisi di Béatrice Giblin esposta in un suo scritto introduttivo sulle destre europee, comparso nella rivista francese di geopolitica "Héredote". In realtà, la questione è ancora più profonda. Bisogna risalire alla crisi di quel relativismo culturale, molto in voga negli ultimi tempi in Europa. L'annullamento di ogni difesa identitaria sacrificata sull'altare di un diabolico progetto la cui pericolosità fu insistentemente denunciata dalla compianta Oriana Fallaci, rappresenta la principale causa scatenante del senso di insicurezza e di deprivazione delle comunità autoctone continentali. L'integrazione della civiltà europea, reinnestata dagli apporti delle culture provenienti dall'Asia e dall'Africa, incrociava, nei disegni delle classi dirigenti della "Eurocrazia", il processo liberistico attivato per il mercato interno continentale. Cosicché, colpevolmente lasciata incustodita a ogni possibile penetrazione dall'esterno dei suoi confini politici e geografici, la nuova Europa è stata immaginata alla stregua di un grande mercato aperto alla globalizzazione, privo di qualsiasi barriera per capitali e forza lavoro. Lo scoppio della crisi strutturale che l'ha travolta a partire dal 2008 ha costretto le governance a prendere atto del fallimento delle policies praticate, sconsideratamente "aperturiste". Tuttavia, la politica dell'UE, ancorata a fumosi piani di sviluppo decennale (del tipo strategia Lisbona 2010- Europa 2020) nulla ha prodotto di concreto per porvi rimedio. L'assenza d'iniziativa a protezione delle economie territoriali ha generato, per diretta conseguenza, la crescita dei movimenti politici estremisti. La piattaforma organica che viene contrapposta alle ricette economiche e sociali di Bruxelles si indirizza a un ritorno alla sovranità nazionale dei

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singoli Stati come argine all'onda di piena delle correnti migratorie che si teme possa investire la vecchia Europa nei prossimi anni. D'altro canto, come la Storia insegna, sono proprio i contesti di crisi che fanno sorgere fenomeni estremistici. L'avvento del nazismo fu provocato dal collasso inarrestabile della Germania di Weimar. E' quindi del tutto comprensibile che la crescente disoccupazione delle popolazioni autoctone abbia fatto riemergere pulsioni razziste e xenofobe.

L'ampiezza crescente del fenomeno è data dal fatto che la sensazione di subire un'invasione abbia contaminato non soltanto le classi più deboli, solitamente più arretrate dal punto di vista dei fondamenti culturali, ma si sia estesa ai ceti medi dei diversi contesti sociali, cioè a quella borghesia evoluta, che è sempre stata il fiore all'occhiello dell'Europa continentale. Dunque, anche le fasce maggiormente evolute dei Paesi a rischio di recessione, hanno iniziato a concepire un'opzione possibile il ricorso all'antidoto della difesa identitaria quale risposta efficace allo sgretolamento delle identità locali e alla crisi perdurante del sistema produttivo. Nondimeno, anche nei Paesi dove gli indicatori economici sono positivi parte del ceto medio prende in considerazione misure protezionistiche nell'intento di difendere, in via cautelativa, il vantaggio produttivo conquistato grazie alla più rapida ripartenza della produzione industriale e dei consumi rispetto agli altri competitori.

Entrambe le motivazioni conducono a ritenere che la governance europea sconti un errore di fondo nell'introduzione, in un sistema tradizionalmente ricco dal punto di vista della dimensione etico-culturale delle persone e delle comunità di riferimento, di quello che Giulio Tremonti definisce "il mercatismo", cioè la presunzione di riduzione ideologica dell'uomo a mero consumatore. L'"homo consumptor" vivrebbe esclusivamente all'interno della logica del mercato integrale, concepito alla stregua di un gigantesco "Truman show", soltanto non più limitato a singoli individui- cavie ma esteso all'intera popolazione, senza eccezione alcuna. La crisi, per fortuna, ha rotto l'incantesimo riconducendo parte dei cittadini a ritenere che oltre a una dimensione consumistica permanga un'altra e più importante realtà etica nella quale conglobare scale assiologiche e valoriali, inelibinabili per un ordinato sviluppo dei rapporti sociali.

In questo scenario fluido anche in Italia qualcosa di interessante accade. Tuttavia, un'analisi compiuta della situazione interna al nostro paese merita di essere illustrata in una specifica trattazione. Si rinivia, pertanto, al prossimo numero la composizione dello scenario europeo, in vista delle prossime consultazioni elettorali.

Cristofaro Sola

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SOVRANITA’ E CITTADINANZA Alcuni giorni or sono, un mio fraterno amico ed io discutevamo sul concetto di sovranità e lui si interrogava se non vi fosse un modo, un aggancio, per-ché tale concetto si potesse attagliare all'Unione europea e da ciò far discendere significativamente un altro importante concetto: quello della cittadinanza europea. Cominciamo. In qualunque testo di diritto pubblico e di diritto internazionale si può desumere che per "sovranità" si intende l'espressione della somma dei poteri di governo (legislativo, esecutivo e giudiziario), riconosciuta ad un soggetto di diritto pubblico internazionale, che può essere una persona od un organo collegiale. Le modalità nelle quali questa somma di poteri è organizzata e ripartita è detta forma di governo.

Se sovrapponessimo tale definizione all'attuale costruzione europea, cominceremmo a far emergere i primi problemi. Infatti, l'unico potere che, all'apparenza, risponde ai requisiti richiesti è quello legislativo. Dico all'apparenza perché, intanto, le leggi elettorali dei singoli Stati sono tra loro differenti; inoltre, sebbene l'Unione sia dotata di un Parlamento, comunque eletto a suffragio universale, massima espressione della democrazia, l'attuale modalità operativa comunitaria vanifica l'espressione del popolo non riconoscendo al Parlamento alcun potere d'iniziativa legislativa. Tale iniziativa, invece, è di esclusiva pertinenza della Commissione Europea che, per una sorta di gioco delle parti, potremmo identificare come potere esecutivo.

Tuttavia, essa, oltre al ruolo di promozione legislativa, svolge il potere esecutivo solo su alcune materie e non su tutte quelle che riguardano l'esistenza, la coesistenza e l'agire di un popolo.

In realtà, il potere esecutivo dovremmo ripartirlo anche sul Consiglio dei Capi di Stato e di Governo e sui consigli dei ministri competenti per materia; un potere, seppur limitato che, all'atto pratico viene attuato in una sorta di confronto permanente con la Commissione. Allora, da un lato, abbiamo poca democrazia e un limitato, seppur significativo potere esecutivo, dall'altro un'abbondanza di soggetti per gestirlo.

Ma c'è di più in ordine al potere esecutivo. La carica di Presidente del Consiglio europeo, unico aggancio con un'espressione di popolo sia pur a livello nazionale, dura sei mesi; un tempo assolutamente incongruo per impostare seriamente qualunque politica, sia pur limitata alle poche ma rilevanti materie di pertinenza.

Allo stato dei fatti, perciò, la continuità esecutiva è data dalla Commissione, il cui Presidente, insieme ai Commissari, dura in carica cinque anni, senza che, per la loro designazione, abbia minimamente concorso qualsivoglia volontà popolare. Infatti, essa è formata su investitura concordata tra governi nazionali (potremmo dire, su compromesso), avendo sempre in animo di

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bilanciare i poteri nazionali all'interno di essa; quindi, una sorta di rappresentazione della forza della singola entità statale e non frutto di un intento comunitario. In ordine, poi, al potere giudiziario, l'Unione ha una magistratura giudicante che si identifica nella Corte di Giustizia dell'Unione europea, con sede a Lus-semburgo. Tuttavia, la competenza della Corte viene esercitata solo per garantire l'osservanza del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati fondativi dell'Unione europea. L'altro organo giudicante, la Corte europea dei diritti dell'uomo, non è, in verità, espressione dell'Unione europea quanto, invece, dei 47 Stati firmatari della Convenzione dei diritti dell'Uomo, nel 1959. Non c'è la benché minima uniformità nel diritto civile mentre, nel penale, solo pochi tipi di reato vedono una comune interpretazione giuridica e consentono, non un'unica magistratura giudicante, bensì l'emissione di un mandato di cattura di un magistrato nazionale a valenza nei territori dell'Unione. Andiamo avanti. In dottrina, il diritto pubblico teorizza la sovranità essenzialmente come uno degli elementi costitutivi dello Stato, insieme al territorio ed al popolo. Ebbene, non ritengo che nell'attuale Unione si possa parlare di "territorio" e di "popolo" quanto di territori e, surrettiziamente, di popoli. L'unica definizione aggregante è quella, piuttosto limitativa e avvilente, di "mercato interno". Per il resto, la considerazione che l'Unione ha dei singoli territori e popoli è espressa non verso gli Stati nazionali che li identificano bensì verso le Regioni di quest'ultimi. Sono le Regioni, infatti, a dover rappresentare a Bruxelles, ogni sette anni, i loro programmi operativi a fronte dei quali ricevere consistenti finanziamenti per promuovere la cosiddetta "coesione comunitaria" tra territori (non per divenire un solo territorio). Per inciso, è dato comunque il caso che nei rapporti annuali sulla cosiddetta coesione, le regioni meno progredite negli ultimi vent'anni sono praticamente le stesse. Per inciso, tali strumenti di "coesione" sono gli unici previsti, sul piano concettuale e normativo, per una progressione sociale, sia pur graduale, dei popoli. In ogni caso, si potrebbe, allora, pensare, che le Regioni, visto il loro grado di interlocuzione con il "governo" dell'Unione abbiano un peso specifico nella confezione del potere legislativo o di quello esecutivo. Se lo pensassimo, saremmo fuori strada perché il Comitato delle Regioni europee, degnamente ospitato a Bruxelles, ha solo la possibilità di esprimere pareri consultivi. E, per concludere sui popoli, si potrebbe pensare che, a seguito degli Accordi di Schengen, almeno per dare significato al concetto di "mercato interno", entro i confini comunitari vi sia libera circolazione dei capitali, delle merci e delle persone. Ed invece, no.

Vi sono Stati membri, quali il Regno Unito e l'Irlanda, che, in base alla clausola di autoesclusione, definita opting out, non fanno parte dell'area "Schengen". Tale "Area", invece, ingloba Stati terzi che partecipano a Schengen pur non facendo parte dell'Unione: Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein. Infine, quattro Stati (Cipro, Romania, Bulgaria, Croazia), sebbene membri dell'Unione, sono esclusi dall'area Schengen per non aver ancora attuato nella pratica gli accorgimenti tecnici per l'adesione. Pertanto, mantengono tuttora i controlli alla frontiera.

Un altro passo. Nel diritto costituzionale e nel diritto internazionale, la sovranità connota il potere supremo nell'ambito dello Stato e, nei rapporti internazionali, l'indipendenza di una entità/soggetto statale, in condizione di determinare liberamente la propria politica estera.

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Per il diritto internazionale, infatti, ha rilevanza solo il gruppo di persone di un soggetto di diritto pubblico internazionale le cui azioni, considerate dall'esterno, hanno valore vincolante per lo Stato e cioè il Capo di uno Stato o i rappresentanti di un Governo Beh! Tali aspetti non possiamo proprio riconoscerli all'Unione. Non esiste una comune politica di difesa né, tantomeno, una comune politica negli affari internazionali. E' di tutta evidenza, infatti, l'atteggiamento schizofrenico tenuto dagli Stati dell'Unione nei confronti della crisi jugoslava, della cosiddetta "Primavera araba", della crisi libica e della guerra in Iraq, divisi tra astensionisti e interventisti, a seconda delle rispettive opportunità. Né, tantomeno, si registra una comune volontà negli affari mercantili internazionali dove, pur essendo rappresentata ai tavoli della World Trade Organization dal commissario di turno, l'Unione non può parlare con una sola voce.

Non può neppure presentarsi come soggetto sovrano ai tavoli del G7, G8, G20 ai quali, invece, sono presenti, come singoli, alcuni tra gli Stati membri dell'Unione. E, come abbiamo visto, la carica di Alto Rappresentante dell'Unione europea per la politica estera e per la sicurezza ha semplicemente un valore nominalistico. Ultimamente, sono emerse tesi che tendono ad individuare ulteriori aspetti in ordine al concetto di sovranità in base ai quali poter riconoscerla anche in capo a soggetti privi di un proprio territorio o di un proprio popolo, come inteso in senso tecnico-giuridico stretto. E, a sostegno della tesi, si indicano ad esempio il Sovrano Militare Ordine di Malta (SMOM) e l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU).

Né l'unell'ano e ltro si adattano alla costruzione istituzionale dell'Unione perché, rispetto al primo caso, l'Unione dovrebbe rappresentare una sorta di sovraordinata sovranità su (apparenti) sovranità già esistenti.igiene Nemmeno rispetto al secondo esempio il paragone è calzante audacia temeraria spirituale e ciò in quanto da un lato le decisioni dell'ONU possono essere bypassate e, dall'altro, il suo potere di interlocuzione è ambivalentemente pari a zero o a 100, a seconda delle convenienze.

Inoltre, nel concetto di sovranità è insita la cura dei propri sudditi/cittadini: a proposito dei due marò italiani, neppure un'increspatura nello scenario internazionale hanno suscitato le parole della Baronessa inglese Catherine Ashton che ricopre l'altisonante carica sopracitata di Alto Rappresentante per la politica estera e per la sicurezza dell'Unione, espresse peraltro a distanza di due anni dai fatti. Un po' come l'ONU: anzi, si potrebbe portare un più edificante paragone ribaltando l'esempio. Le considerazioni espresse non sarebbero esaustive se non si considerasse anche il concetto di sovranità limitata. E' questa una tesi che varie volte ha tentato di accreditare l'ex Unione sovietica nei confronti dei suoi Stati satelliti e che, pur tirandola un po' per i capelli, potrebbe adattarsi all'attuale situazione comunitaria. Sfortunatamente, la società delle nazioni o, per meglio dire, la politica internazionale ha sempre rigettato con forza quel tentativo significando che o la sovranità la sia ha oppure no. L'Unione, quindi, pur avendo privato di sovranità gli Stati membri, non può esporre a proprio merito e a vantaggio degli stessi membri, una superiore più estesa sovranità.

E se non può farlo è inutile parlare di cittadinanza europea.

E di ciò, da europeista convinto (ma non di questa Unione), mi dispiace molto.

Pietro Angeleri

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GIOVANNI BELARDELLI <<Qualsiasi governo che voglia risvegliare negli italiani un autentico sentimento nazionale e una rinnovata fiducia nello Stato, dovrebbe preoccuparsi di recidere la ragnatela di corporazioni e consorterie che, con il loro potere di veto, tengono in ostaggio l'Italia>>.

E' tardo pomeriggio e Giovanni Belardelli risponde al telefono da Perugia: ha appena finito di tenere le sue lezioni all'Università, dove è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche.

Studioso del pensiero di Mazzini e del ventennio fascista è editorialista del Corriere della Sera: tra le sue pubblicazioni più importanti vi è un volume su Mazzini, edito da Il Mulino nel 2011 e "Il ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell'Italia fascista", uscito per Laterza nel 2005. Su un recente numero della Rivista di Politica, dedicato all'opera storiografica di Ernesto Galli della Loggia, si è occupato delle cause dell'assenza del sentimento nazionale nell'Italia repubblicana: partendo proprio, nel suo scritto, dalla data dell' 8 settembre del 1943, momento storico in cui, secondo Galli della Loggia e parte della storiografia, tramonta definitivamente l'idea di Patria.

Professor Belardelli, nel 2011 abbiamo celebrato con entusiasmo e partecipazione i centocinquanta anni dell'Unità di Italia. Nonostante ciò continua ad essere assente tra gli italiani un autentico afflato patriottico. Quali sono, secondo lei, le cause della debolezza del sentimento nazionale?

Le cause sono molteplici. Tra quelle di lungo periodo vi è, senza dubbio, il ritardo con cui lo Stato italiano nasce rispetto agli altri Stati nazionali. A ciò si aggiunga che dopo il 1861 gli abitanti della penisola che parlano la lingua italiana sono una minoranza, ma soprattutto molto di loro non hanno coscienza di vivere in uno Stato unitario, rimanendo di fatto cittadini delle regioni in cui risiedono. Nasce così la necessità di "nazionalizzare" gli italiani rendendoli parte della comunità nazionale: in tal senso operano i politici liberali di inizio novecento che promuovono l'allargamento dell'alfabetizzazione.

L'altra causa di lungo periodo, che segna la rottura del sentimento nazionale, è la torsione nazionalista e autoritaria compiuta dal fascismo: svolta che porta il Paese in guerra e alla successiva sconfitta militare, che farà dire a Benedetto Croce che l'Italia consegnataci dal Risorgimento è finita.

Le cause di più breve periodo si ritrovano, invece, nell'Italia repubblicana.

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Nella stagione repubblicana, infatti, gli italiani sembrano riscoprire il senso di appartenenza alla Nazione unicamente in occasione di manifestazioni sportive e tragedie nazionali. Dal lessico comune e da quello politico scompaiono, addirittura, le parole patria e nazione.

La rimozione lessicale di questi due termini, nei primi anni della Repubblica, è totale: si vuole, in tal modo, recidere qualsiasi scomodo richiamo al ventennio fascista.

E' anche vero che, nei primi anni del dopoguerra, si manifesta tra gli italiani un autentico sentimento unitario e nazionale che si concreta nello sforzo per la ricostruzione del Paese.

Successivamente si assiste, invece, ad un fenomeno inverso.

Negli anni del boom economico, quando i primi frigoriferi e i primi apparecchi televisivi cominciano ad entrare nelle case degli italiani, il benessere porta con sé un processo che definirei di "snazionalizzazione". La nuova civiltà dei consumi, infatti, introduce lentamente modelli nazionali di altri Paesi, penso ad esempio all'american way of life.

Questo succede in molti Paesi, ma è in Italia che ha effetti particolarmente accentuati di snazionalizzazione per quella relativa debolezza del sentimento di appartenenza nazionale alla quale ho già fatto riferimento. A indebolire ulteriormente il sentimento nazionale nella Prima Repubblica vi è quella che si può definire, riprendendo la tesi di Pietro Scoppola nel suo libro "La Repubblica dei partiti", la partitizzazione dell'idea di nazione. I partiti diventano, cioè, delle vere e proprie "nazioni" di appartenenza così che, nella maggior parte dei casi, ci si sente prima democristiani o comunisti che italiani.

Nella Seconda Repubblica alcune forze politiche, come Forza Italia ed Alleanza Nazionale, fanno esplicito riferimento, anche nel nome, all'Italia e allo spirito nazionale. Quale è il suo giudizio su questi tentativi di riscoperta della Nazione?

Forza Italia riscopre nel proprio simbolo il tricolore, che nei decenni precedenti era stato appannaggio quasi esclusivamente dell'estrema destra.

Nel partito di Berlusconi, però, il richiamo alla tradizione nazionale resta sostanzialmente superficiale, a differenza di ciò che accade in altri partiti di centro-destra europei. Vi sono, certamente, dei flebili e occasionali richiami alle figure di De Gasperi ed Einaudi, ma il successo di Forza Italia è da ascrivere, principalmente, alla figura di homo novus rappresentata da Berlusconi, che si presenta -e sostanzialmente è- la personificazione di una modernità "televisiva" non legata ad alcun particolare contesto nazionale. Per quanto riguarda, invece, Alleanza Nazionale, essa nasce sulle ceneri del vecchio Msi che aveva sempre conservato un rapporto con la tradizione nazionale; ma si trattava di una tradizione-ghetto, legata com'era all'esperienza fascista( in particolare di Salò). Uscita dal ghetto politico in cui si era trovata rinchiusa per decenni, la classe dirigente di An è poi apparsa travolta, anche psicologicamente, dall'euforia per essere finalmente entrata nelle stanze del potere, dedicandosi a ben altro che alla tradizione nazionale o ai tradizionali valori patriottici.

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Nel 1999 viene eletto al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi che caratterizza il suo settennato all'insegna di un patriottismo mite e repubblicano.

Ciampi ha sicuramente avuto il merito di rilanciare alcuni elementi lessicali e simbolici legati al patriottismo. Si deve a lui la piena reintroduzione della Festa del 2 giugno che è tornata ad essere autonomo giorno festivo, dopo che era stata retrocessa negli anni Ottanta a festa mobile, da tenersi nella prima domenica di giugno. Ritengo che il Presidente Ciampi abbia operato con buon senso rendendo più fruibili alcuni termini legati ai concetti di Nazione e di Patria.

Non credo, però, che la sua opera abbia agito in profondità, risvegliando tra gli italiani il sentimento nazionale: un esito, questo, che ha a che fare con le strutture mentali profonde di un Paese, con i sedimenti della sua storia, e non può essere facilmente modificato dai discorsi di un Presidente della Repubblica.

In tutta Europa aumentano i movimenti politici di protesta che, all'insegna del recupero della sovranità nazionale, propugnano l'uscita dall'euro. In che modo si può armonizzare, invece, il processo di costruzione europea con la sopravvivenza degli Stati Nazionali?

Per quanto riguarda i movimenti cui lei fa riferimento, non tutti vanno assimilati al Front National di Marine Le Pen. Almeno nel caso dell'Italia, la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle sono ben lungi dal considerare un valore il rilancio del sentimento patriottico e dello spirito nazionale.

Detto ciò ritengo che l'attuale processo di integrazione europea si presti a svariate critiche. A cominciare dalla poco chiara divisione di poteri tra governi nazionali, parlamento europeo e commissione europea. Il tutto in una cornice normativa europea che proviene, sempre di più, da organi non eletti e che condiziona fortemente il diritto nazionale.

La costruzione europea ha provato, in sostanza, a superare lo Stato nazionale cercando di creare un super-Stato europeo: si è trattato, però, di un processo che è partito dall'alto e che non ha mai preso in considerazione, attraverso il voto, l'opinione dei milioni di cittadini europei. Non si è voluto ascoltare, insomma, chi continuava a sostenere che la nascita dell'Unione Europea doveva avvenire in modo democratico e non tecnocratico. Credo che la gran parte degli europei sia nettamente a favore di una UE come grande area di libero scambio di merci e di persone(giovani in primo luogo), di cultura e valori, ma non abbia alcuna intenzione di farne qualcosa di sostitutivo rispetto ai vecchi Stati nazionali.

Tornando all'Italia, è possibile immaginare per il prossimo futuro un risveglio del sentimento patriottico?

Credo sia difficile. Anche perché il sentimento nazionale non è un qualcosa che si possa creare a tavolino né, tantomeno, intorno ad un patriottismo costituzionale fatto di una serie di articoli della Costituzione imparati a memoria. In Italia, purtroppo, prevale l'appartenenza alle comunità sub-nazionali rappresentate dai partiti, dai sindacati e, nel piccolo, dalle famiglie nel senso più

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ampio del termine. Siamo, in definitiva, un Paese familistico e oligarchico caratterizzato dal potere dilagante degli innumerevoli corporativismi. Penso, ad esempio, al potere dei tanti funzionari ministeriali che, attraverso una farraginosa burocrazia, condizionano la vita del Paese.

Ecco, un governo che voglia provare risvegliare negli italiani il senso di appartenenza alla Nazione e una rinnovata fiducia nello Stato, dovrebbe limitare il potere debordante di corporazioni e consorterie.

Ogni giorno assistiamo all'indebolimento di alcuni capisaldi della nostra identità. Il patrimonio artistico e culturale è lasciato all'incuria e all'abbandono. Lo stesso si può dire del patrimonio paesistico, sfregiato da abusi di ogni tipo che ne mettono a repentaglio la tenuta idrogeologica.

Nelle città chiudono le librerie, i cinema e i caffè storici. Quali sono le cause che stanno mettendo a repentaglio l'identità culturale e paesaggistica della Nazione?

Vede, proprio qui a Perugia ha da poco riaperto, dopo un periodo di chiusura, lo storico Bar Sandri, grazie all'ingresso di nuovi capitali: segno che vi è una volontà di difendere alcuni luoghi che rappresentano la storia e l'identità dei nostri centri storici.

Il punto, però, è che in molti luoghi d'Italia il benessere diffuso ha distrutto la capacità di conservare e preservare le tante bellezze artistiche, culturali e paesistiche di cui il nostro Paese gode. Vige, tra tanti italiani, l'infausta regola secondo la quale è mio tutto ciò che riesco a costruire ed "arraffare" anche al di là delle leggi, oltre ad uno scarso senso del legame con il territorio nel quale si vive. La prova di questo sentimento profondo del Paese sta nel numero straordinariamente elevato di abusi edilizi che ogni anno vengono perpetrati ai danni del territorio e del paesaggio italiano. Parte della responsabilità per questa triste situazione va ascritta alla politica che ha consentito la regionalizzazione della tutela del patrimonio artistico e paesistico. La vicinanza sul territorio tra governanti e governati, infatti, con la necessità dei primi di raccogliere consenso e voti, fa si che vengano autorizzati o tollerati abusi di ogni tipo.

Giuseppe Farese

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DESTRA E SINISTRA La mia abitudine alla riflessione mi ha spinto a chiedermi che significato possa avere, in questo tempo storico, la parola Destra, per me, che sono nato di "Destra" ed ho vissuto di conseguenza.

Il concetto ha qualche parentela con la destra giolittiana o liberale, quando il suffragio era legato al censo? Certamente no. Eppure quella era la destra politica italiana.

Il concetto ha qualche parentela con la destra di stampo anglosassone: conservatori inglesi, repubblicani americani? Meno che mai, al massimo qualche blandissima affinità in alcuni specifici ambiti. Qualcosina in più con i Gollisti francesi.

Forse col popolarismo europeo? Anche qui, soltanto qualche affinità…

Il Fascismo è stato il Fascismo, né di destra, né di sinistra. Un tentativo di sintesi e superamento, per molti versi originale e riuscito, tra socialismo e liberalismo.

Poi, archiviata malamente e con la rimozione l'esperienza fascista, è arrivato il Movimento Sociale per mantenere vive e tramandare, sia pure in democrazia, le intuizioni del Fascismo.

I deputati missini, in Parlamento, si collocarono a destra con i monarchici ed i liberali pur avendo poco da spartire con essi. E qui ha inizio l'anomalia di una certa destra italiana, perché il Fascismo era ben oltre le categorie di destra e sinistra allora note.

Poi c'è stato il crollo delle ideologie - non delle visioni del mondo - e questo ha indotto una lenta mutazione genetica che ha portato alla nascita di quella vera e propria fabbrica di mostri che fu Alleanza Nazionale, fatto salvo - nonostante le tante responsabilità - Fini e poi spiegherò il perché. E poi la degenerazione nel berlusconismo.

E allora, cosa è mai Destra? Azzardo una risposta.

Due principi, due forze sono alla base dell'esistenza. Ciò che specifica e ciò che omologa.

Il principio di specificazione rende gli esseri diversi, unici, irripetibili.

Quello di omologazione li sospinge entro i canoni propri della specie cui appartiene.

In ogni essere vivente i due principi coesistono agendo in proporzioni diverse.

Tra i batteri e gli insetti il principio di specificazione è latente, man mano che si sale sulla scala della vita esso si rende via via più manifesto.

Un cane ha un suo carattere, una sua personalità definita, ma restano in lui tutti i comportamenti che lo omologano alla sua specie.

L'uomo, nella sua unicità, libertà, razionalità e spiritualità, tende a specificarsi più di ogni altra creatura, i comportamenti omologanti residuano a livello di necessità biologiche e di autoconservazione.

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Il progresso dell'uomo, a ben guardare, è fatto di specificazioni sempre più spinte.

La storia delle società umane, e quindi della politica, ha molto a che fare con questi due principi.

Dagli assetti tribali, dove il capo era il più forte, come nei branchi, fino agli assetti attuali dove, in genere - meno che in Italia-, è il più dotato, si legge il percorso della specificazione.

Analogamente, se si cerca di leggere sotto questa luce l'evoluzione delle società e le loro specifiche gerarchie ed assetti.

Le categorie di Destra e Sinistra, posto che abbia ancora un senso utilizzarle, discendono dai questi due principi.

Ciò che tende a specificare è tendenzialmente "di destra", ciò che tende ad omologare è tendenzialmente "di sinistra".

La vita di ciascuno è, in estrema sintesi, costituita da un mix di "come" e di "cosa".

Il "cosa" ricomprende tutti i comportamenti e le azioni, il "come" esprime la loro modalità qualitativa.

Il "cosa" è più figlio dell'omologazione, il "come" della specificazione.

Da destra, quindi, sono più facilmente concepibili che da sinistra concetti specificanti quali: onore, gloria, eroismo, abnegazione, valore, bellezza, dovere, sacrificio, trascendenza, patria, nazione, civiltà, individuo.

Specularmente, da sinistra sono più immediatamente concepibili concetti omologanti quali: bisogno, diritto, normalità, garanzie, socialità, media, massa, immanenza, internazionalismo, cellula, società.

La dialettica, spesso vivace, che ne nasce è però regressiva.

Le "ragioni della specie" hanno un loro fondamento, costituiscono parte della stessa medaglia, e questo va compreso e tenuto nel debito conto, soprattutto in ordine ai bisogni, alla socialità, alle garanzie ed ai diritti, per il resto la storia è specificazione.

Alla luce di questa interpretazione del termine Destra si fanno più chiari i punti di affinità con le altre Destre. Si tratta dei tratti specificanti: il senso di nazione ed il patriottismo dei Repubblicani americani, l'orgoglio e la difesa delle tradizioni dei Conservatori inglesi, l'ancoraggio ad alcuni valori dei Popolari europei.

Resta apparentemente fuori il concetto di Destra sociale. Ma, a ben guardare, se le ragioni della specificazione e quelle dell'omologazione appartengono alla stessa medaglia della vita, allora la Destra, è in sé anche sociale. Cosa che il Fascismo aveva compreso perfettamente, ma che non entra nelle corde dei Repubblicani d'America.

Ma attenzione. Anche qui la contraddizione è dietro l'angolo ed ha a che fare con il concetto di libertà. Nel recinto del bisogno non c'è libertà. Questa comincia oltre il bisogno, oltre la necessità. Nel bisogno c'è, al massimo, il desiderio di libertà. L'individuo può portarsi fuori dalla sfera del bisogno o comprimendola il più possibile, come il fachiro o l'asceta o competendo, con se stesso e con gli altri, per farsi libero.

Se è la società che provvede a soddisfare i bisogni è solo il recinto che si è fatto più grande, la libertà resta solo un miraggio.

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L'uomo che si fa libero scopre la responsabilità che è il metro autoregolatore della sua libertà.

L'uomo che si fa libero anela a farsi uguale ai migliori della sua specie, in saggezza, consapevolezza e conoscenza per offrirsi, come modello ed esempio, alla sua specie, affinché possa progredire ancora. La legge sta a salvaguardia della libertà di ciascuno e di tutti.

Libertà e socialità vanno ben conciliate altrimenti l'una esclude l'altra.

Ora una digressione sul concetto di "capitale sociale".

Francis Fukuyama, il famoso economista, ha definito la nozione di "capitale sociale". Esso è dato: "dall'insieme di regole e valori condivisi dai membri di un gruppo che consente loro di aiutarsi".

"Regole e valori non scritti, che devono comprendere virtù quali la lealtà, l'osservanza degli impegni presi e la reciprocità". Se le persone giungono a ritenere che gli altri si comporteranno in modo affidabile ed onesto, tra di loro si instaurerà la fiducia che accresce, come un lubrificante, l'efficienza di qualsiasi gruppo o organizzazione".

Essere comunità significa avere un alto capitale sociale, saperlo mantenere ed accrescere.

Questo è anche il presupposto della socialità. Comportamenti difformi consumano rapidamente il capitale sociale fino ad azzerarlo. Ricostituirlo è quasi impossibile, come dimostra la storia recente del Pdl. Molti, a destra, ancora si riferiscono ad una "risposta italiana" ai mali dell'Occidente che presupporrebbe l'individuazione della mitica "Terza via", una sintesi ancora più complessa e ardita di quella fascista. Ve ne sono i presupposti? E posto che vi siano, sono tali da risolvere i problemi di scenario?

Certo all'orizzonte si intravedono alcune contraddizioni che andranno risolte. Ad esempio: quando tutte le produzioni saranno automatizzate di chi sarà la proprietà dei mezzi di produzione? Sarà la partecipazione la soluzione o un nuovo statalismo? Ma senza il recupero della supremazia della politica come sarà possibile una soluzione? E come si risolverà l'antinomia di Stati a giurisdizione geografica ed economia e finanza a giurisdizione globale?

Paradossalmente la Cina comunista è uno dei pochi Paesi ancora a guida politica e non economica. La soluzione potrà mai venire da un'Europa che più si allarga più diluisce le sue possibilità di essere nazione?

Di fronte alla complessità dei problemi di scenario ed alla difficoltà di trovare risposte capisco Gianfranco Fini - cui riconosco, una capacità di lungimiranza ed un genuino interesse ai contenuti - e la sua scelta di puntare più sulle affinità, sui minimi comun denominatori, sui punti di contatto possibili tra le tante destre europee ed occidentali, optando per una politica delle soluzioni che presuppone la comprensione profonda dei cambiamenti in atto e la capacità di dare risposte a problemi nuovi. E questo ha a che fare col futuro che è la realtà immaginata che si trasforma in fatti, grazie al germogliare dei semi piantati nel presente.

La scienza, la politica e la stupidità sono i principali artefici del futuro.

Per questo è bene che la politica incontri la scienza e si liberi degli stupidi e Fini sembra averlo ben compreso.

Pennanera

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RENZITE PERNICIOSA Si è aperta la polemica sulle riforme. I custodi della "Costituzione più bella del mondo" cominciano a far sentire i loro lamenti affinché non si cambi niente. Rodotà e Zagrebelski hanno dato il la. E come sempre accade l'Italia si divide, le fazioni si schierano pronte agli insulti reciproci.

In pochi si chiedono: dov'è il bene della nazione? Noi siamo tra questi ultimi e ci chiediamo se il pacchetto di riforme "espresse" ipotizzato da Renzi sia desiderabile e utile.

La prima considerazione è che le riforme in calendario non hanno nulla di organico.

La legge elettorale è un pasticcio peggiore del "Porcellum" e corre gli stessi rischi, per i medesimi motivi, di non passare il vaglio della Consulta. Per altri versi, se il premio di maggioranza garantisce maggiore governabilità, le liste dei "prescelti", le alte soglie di sbarramento ed il doppio turno costituiscono un pastrocchio intollerabile.

Non sarebbe stato meglio, attesa la voglia di riformare, mitigare l'elezione senza vincolo di mandato con un vincolo al programma sottoscritto insieme alla candidatura o con un vincolo di coalizione? Si darebbe così garanzia di continuità alle scelte degli elettori, si arginerebbero i fenomeni del trasformismo e della corruzione e si potrebbe restituire ai cittadini la sacrosanta facoltà di scegliersi chi eleggere. Inoltre si imbriglierebbe la deriva verso l'onnipotenza di certa politica.

Non sarebbe stato meglio, volendo impedire alle formazioni più piccole l'ingresso al Parlamento in nome di un salvifico quanto inesistente e sempre più improbabile bipolarismo, riconoscere un diritto di tribuna ai migliori perdenti? In tal modo si garantirebbe la presenza istituzionale di forze minoritarie che, spesso, sono autorevoli e lungimiranti, mitigando al tempo stesso le tentazioni plebiscitarie. Ciò, a maggior ragione, in ipotesi monocameralista.

Da ultimo, piuttosto che far riferimento ai modelli di altre nazioni, non sarebbe stato meglio, nel reintrodurre i collegi, ipotizzare un maggioritario plurinominale: la coalizione che prende più voti si garantisce il seggio ma viene eletto il candidato del partito di coalizione che prende più suffragi.

Si eviterebbe in tal modo il voto obbligato, "turandosi il naso", al solo candidato di coalizione catapultato in un collegio garantendo, nel contempo, la competizione tra i partiti a proporre i candidati migliori.

Ne guadagnerebbe la democrazia e la qualità della rappresentanza.

E ancora, volendo bandire l'ipocrisia dietro cui si nasconde la legittima necessità dei partiti di

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tutelare le proprie classi dirigenti e che dà luogo, tra l'altro, alle odiose candidature multiple ed alla "forzatura" delle liste, non sarebbe meglio esporre le classi dirigenti dei partiti in liste uniche nazionali, dove i nomi (mettiamo venti o trenta per partito) siano singolarmente spuntabili dagli elettori?

I cittadini avrebbero modo di confermare o meno la linea politica del loro partito di riferimento ed anche di punire o premiare i singoli dirigenti politici. Ne guadagnerebbero la trasparenza del sistema e la credibilità della politica.

Anche la riforma del Senato, che verrebbe trasformato in un "dopolavoro per consiglieri regionali", come giustamente ha notato Enrico Cisnetto, non sembra rispondere ad un disegno organico capace di preservare il giusto equilibrio istituzionale.

Il problema che dovrebbe risolvere la sua abolizione quale Alta Camera è quello della speditezza della produzione legislativa. Ma siamo proprio sicuri che, posto che esista un problema di produttività legislativa in un Paese che scricchiola sotto il peso e l'astrusità delle norme, la soluzione sia quella di cancellare una Camera? E se si riformassero i Regolamenti e si specializzassero per materie le due Camere non si raddoppierebbe ugualmente la velocità senza correre il duplice rischio di rafforzare la Casta dei Deputati e di creare un'inutile Camera delle Autonomie in un sistema che ha già troppo concesso alle autonomie ed al loro smodato costo e che già ha creato i luoghi di confronto tra Stato e Autonomie?

D'altronde la stessa presunta riforma delle Province è un mezzo bluff in quanto le istituzioni restano dove sono, il personale costerà un po' di più, costeranno un po' di più le Città metropolitane e l'incremento di consiglieri nei piccoli comuni, la sola cosa davvero cancellata sono i Consiglieri provinciali eletti. Tremila sugli oltre centocinquantamila eletti in Italia, come le auto blu: duecento su sessantamila.

Eppure salta agli occhi ed alle tasche dei contribuenti che ben più ampio dovrebbe essere il respiro riformatore per portare l'Italia fuori dalle secche e dagli sprechi.

Le Province sono poco utili in presenza di ben venti regioni alcune con meno abitanti di una città, oltre ottomila comuni, 10 città metropolitane (per ora), centinaia di comunità montane anche di pianura, migliaia di società partecipate, consorzi, enti intermedi, autorità e quant'altro ha partorito un sistema impazzito.

Però sarebbero necessarie se le regioni fossero solo cinque o sei a "pezzatura" europea ed i comuni fossero accorpati in conglomerati di almeno cinque/diecimila abitanti. Ma sarebbero nuovamente poco utili se si rendessero obbligatorie le Unioni di comuni per la gestione dei servizi di area vasta.

Questo per sottolineare l'assoluta necessità di un complessivo disegno riformatore che, visto l'andazzo, non arriverà mai.

Angelo Romano

POLITICA

BRAVO! GRAZIE! Se un tizio, per una sorta di sghiribizzo, va a sbirciare il sito Ansa, vedrà che quell'Agenzia, in data 9 aprile, da Washington, ha riportato la dichiarazione di Sanjeev Gupta, responsabile del Fiscal Monitor per il Fondo Monetario Internazionale, a proposito del Documento di programmazione economica e finanziaria, varato il giorno prima dal Governo Renzi.

Ovviamente, quella dichiarazione contiene un plauso del FMI per il citato Documento che, come afferma la nota, "incassa un primo via libera" dal Fondo stesso perché "si muove nella direzione indicata".

Il responsabile del Fiscal Monitor, poi, conclude sottolineando che le rac-comandazioni del FMI per l'Italia sono "una riforma delle spese e quella per ridurre i costi del lavoro".

La suddetta dichiarazione, peraltro, è stata preceduta, nel giorno 8 u.s., da un'altra affermazione, offerta addirittura da Christine Lagarde, direttore operativo dello stesso FMI, con la quale l'alto dirigente, pur plaudendo alle iniziative del Governo italiano, sottolineava che tra le riforme urgenti per l'Italia vi è quella, si pensi, della giustizia.

A scherzoso motteggio per i nostalgici, qualche tempo fa circolava una battuta che, in enigmistica, si direbbe a cambio di vocale: quando c'era Lui, caro Lei, significando che, allora, i treni arrivavano in orario, si poteva lasciare la chiave nella toppa della porta di casa e i bambini giocavano tranquilli nei parchi.

Purtroppo, non sono certo quelli i deprecabili segni che hanno caratterizzato un ventennio; in ogni caso, era vero: nella generalità. i treni erano puntuali, la chiave poteva essere lasciata nella toppa e i bambini non venivano insidiati. Ora, il Cavaliere sarà anche un fauno dedito a baccanali, un manipolatore di bilanci, un giocoliere di società offshore da censurare secondo giustizia, ma è innegabile che, per vent'anni, abbia continuato a ripetere che la magistratura era da riformare.

E, ogni volta che, nel corso dei trascorsi vent'anni, emergeva una valutazione del genere, espressa con toni più o meno pacati, si sollevava un coro di reprimende, di vibranti strigliate, di feroci ammonizioni, di sapienti rimproveri. Pero, stavolta, non ho sentito alcuno, ne letto di qualcuno, che abbia levato la propria voce per consigliare sommessamente al direttore operativo del FMI di pensare ai casi suoi.

C'è già la Commissione esecutiva dell'Unione a dare ordini, a emettere pagelle, a censurare; e lì, siamo nell'ambito di materie che, per quanto raffazzonati e paranoici siano i poteri delle istituzioni europee, il diritto ad intervenire deriva da trattati comunitari. Ora, considerato che l'Italia non è fruitore, bensì contribuente, del "Fondo Salva-Stati" al punto da inasprire i recenti

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tagli alla spesa sociale per finanziare quel fondo, e che, comunque, la "giustizia" non rientra tra le materie economico-mercantili tanto care ai Custodi della totale deregulation, nel caso del FMI il diritto da cosa deriva?

Mi viene in mente il celebre passo di Giovenale, a feroce attacco dei vizi delle donne, romane e non, ricche e povere, nobili e plebee, secondo lui tutte corrotte e depravate. A cominciare da Messalina: Pone seram, cohibe, sed quis custodiet ipsos custodes? Cauta est et ab illis incipit uxor.". "Spranga la porta, impedisci di uscire, ma chi sorveglierà i sorveglianti? La moglie è astuta e comincerà da quelli.".

La domanda, più volte rimbalzata tra le pagine di questa rivista, è: quanto è rimasto della sovranità e della dignità di uno Stato? Non intendo fare un qualunquistico discorso da destra becera che si ricorda dei suoi segni caratteristici, dei suoi valori e dei suoi ideali solo quando è all'opposizione e deve accalappiare gonzi; credo, invece, che l'interrogativo riguardi tutti coloro che hanno a cuore, almeno un po', questo Paese e non lo leggono, né lo vogliono, come una colonia.

Nazionalisti e progressisti, centristi, moderati, destrorsi e sinistrorsi, tutti dovrebbero porsi questa domanda e, considerato che non c'è una costituita alternativa valida né costituenda, alla sovranità nazionale completamente annullata, l'ulteriore domanda che tutti dovrebbero porsi è: quale sarà la sorte del nostro e degli altri Paesi, se non quella di colonia?

La risposta, purtroppo, non è nei mirabolanti programmi del governo Renzi né nella versatilità di Ebay per vendere le auto blu. Non è nei convenzionali apprezzamenti dei commissari UE, espressi peraltro dopo aver ricevuto rassicurazioni circa il rispetto del 3% di disavanzo; né è negli 80 euro in busta paga. Non è neppure nel Documento di programmazione economica e finanziaria e nella spending review.

Analizzare questi ultimi due documenti governativi non giova perché correremmo il rischio di perderci tra calcoli, considerazioni tecniche e scelte comparative di opportunità di tagli. Un aspetto, comunque, mi sento di evidenziarlo: il loro contenuto è poco organico, poco coraggioso e, analogamente, poco coerente.

Pur in presenza di vincoli comunitari e di istruzioni internazionali, non si intravede, infatti, una linea riformatrice governativa se non una nutrita serie di riseghe che non spostano, però, i nodi cardine della spesa e, quindi, non evidenziano gli intenti circa le riforme strutturali. Nel contempo, è poco coraggioso perché ha lasciato intatti notevoli centri di spesa quali, ad esempio, le cosiddette Agenzie di Garanzia (ben 14 e 2 in arrivo), buona parte delle quali sono praticamente inutili.

La coerenza, poi, merita un discorso a parte. E' noto che fanno parte del "pacchetto" ipotesi di riforme istituzionali, sia sul piano del numero che delle prerogative: comuni, provincie, regioni.

Alcune, tra quelle ipotesi, destano perplessità e, in ogni caso, per giudicare bisognerà aspettare l'esito del dibattito parlamentare e le successive loro evoluzioni. Una, però, quella concernente il Senato, non può passare sotto silenzio e richiede una immediata, particolare, riflessione perché è errata in partenza.

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Si può ben capire il punto di vista del Governo circa la totale duplicazione degli organi parlamentari che, allo stato, ritardano il processo legislativo a scapito della celerità. Tuttavia, pensare di riformare il Senato trasformandolo nella Camera delle Rappresentanze locali è assurdo. E tale assurdità non consiste negli eventuali diversi poteri che a quell'organo riformato si potranno attribuire quanto nella modalità della sua formazione.

Sappiamo, malauguratamente, che, per inseguire una parvenza di federalismo, la modifica del Titolo V della Costituzione, tredici anni fa, ha creato una sorta di "mostro", anzi venti "mostri" che, improvvisamente, sono diventati alter ego del governo centrale, con una loro capacità di legiferare e con analoga capacità di spendere.

L'aspetto tragicomico, inoltre, è stato dato dal fatto che non ha avuto alcuna importanza se le loro spese siano state, e siano, congrue e consone perché, in caso di disavanzo (caso molto frequente), è sempre stato ed è il denaro pubblico che ripiana, senza alcuna conseguenza per gli amministratori improvvidi.

Allora, delle due l'una: o la ventilata rimodifica del Titolo V della Costituzione toglie alle Regioni ciò che nel 2001 hanno avuto e, nel qual caso, non c'è ragione perché, togliendo loro un potere di spesa, si dia loro un potere addirittura legislativo; oppure, si attua un federalismo spinto dove le Regioni, insieme alla capacità di spesa, hanno capacità d'incasso, assumendosi in prima battuta le responsabilità del loro agire amministrativo e di eventuali default. In sostanza, uno Stato veramente federale. Solo in quest'ultimo caso sarebbe concepibile una Camera delle Rappresentanze locali per l'evidente necessità di un raccordo, comunque, con le politiche nazionali.

Fare una riforma di un organo legislativo come il Senato senza aver sciolto il nodo di cui sopra, significa adeguarsi al gioco delle apparenze, sport nazionale, che tanto piace ai Sorveglianti comunitari del rigorismo e dell'efficientismo e ai Custodi internazionali dell'ortodossia della deregulation, dove gattopardescamente tutto cambia perché tutto deve restare com'è.

In tutta onestà, devo dire che da Renzi mi aspettavo qualcosa di più e di meglio. E mi dispiace, fortemente, che le sue promesse, le sue azioni, i suoi programmi comincino sempre più a rammentarmi Petrolini e la sua pungente satira, abbinata ad una fantastica autoironia.

Come i meno giovani ricorderanno, Ettore Petrolini è stato un grande attore, scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano tra gli anni '10 e gli anni '30 dello scorso secolo. Tra i suoi scritti, ad esempio, ce n'è uno, Un po' per celia e un po' per non morir, dove Petrolini descriveva l'ambiente nel quale aveva mosso i primi passi "Io provengo, e lo dico con orgoglio, da una piazza di pubblici spettacoli: Piazza Guglielmo Pepe, e da lì nei piccoli caffè-concerto, dove in fondo a quei bottegoni c'era sempre un palcoscenico arrangiato alla meglio: poche tavole, molti chiodi, e quattro quinte, fondale di carta, con quasi sempre dipinto il Vesuvio (in eruzione, naturalmente), ed ecco l'elenco artistico: prima esce lei, poi esce lui, poi escono tutti e due insieme, ricomincia lei... e così via di seguito fino a mezzanotte: il tutto intercalato da uno sminfarolo al pianoforte. ".

Certo, già affermato, poteva avere il vezzo di ricordarsi ironicamente gli inizi. Ma il fatto è che la sua affermazione deriva soprattutto dalla satira, rappresentata da cento e più gags. Una, in

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particolare, mi sembra adatta a descrivere l'attuale situazione: quella di Nerone, parodia della retorica imperiale.

Nella macchietta, Nerone (Petrolini), accusato di essere l'artefice del grande incendio di Roma del 64 d.C., parla con enfasi al popolo e lo rassicura che "Roma risorgerà più bella e più nuova che pria." E il popolo (sempre Petrolini) esclama: "Bravo!" e Nerone (Petrolini) risponde: "Grazie!". E, siccome, Nerone trovava esaltante essere osannato, lo ripeteva: "risorgerà più bella e più nuova che pria". Bravo Grazie. "Più nuova che pria". Bravo Grazie. "Che pria". Bravo. Grazie. "Che pr….".

Bravo Grazie. "Ch…". Bravo Grazie.

Il popolo lavoratore, questo soggetto meraviglioso che ha animato l'opera del pittore Giuseppe Pelizza da Volpedo nel suo percorso artistico, da Gli ambasciatori della fame, a La Fiumana, a Il Cammino dei lavoratori ovvero Quarto Stato, oggi ha perso la sua connotazione giuridica per divenire utente, contribuente, consumatore, spettatore.

Ciò che non ha perso è la sua sconfinata credulità.

Bravo! Grazie!

Massimo Sergenti

TERRITORIO

LA BANDIERA DELLA CULTURA La Destra genovese riprende la bandiera della cultura e della proposta politica, non limitandosi, finalmente, a estemporanee manifestazioni pre-elettorali, ma guardando invece al futuro, pur nella consapevolezza che comunicare all'esterno i propri valori ed i propri princìpi sarà lungo e faticoso.

Tradizione e Libertà, l'Associazione politico-culturale creata da Giuseppe Murolo, già Consigliere Comunale di Alleanza Nazionale, ha dato vita ad un Convegno, fissato nella data fatica del 23 Marzo (Anniversario della nascita del Fascismo sansepolcrista), che ha visto confluire le anime più vive di quel "mare magnum" della Destra italiana: "Dalla Carta del Carnaro alla Destra Sociale".

Relatori, accanto allo steso Murolo, Glauco Berrettoni, Dirigente Scolastico componente il Direttivo di Tradizione e Libertà, Annalisa Maregotto, Presidente di Politica Oltre, Riccardo Fucile, Direttore di Destra di Popolo e Luca Romagnoli, portavoce nazionale della Fiamma-Destra Sociale.

Glauco Berrettoni, ripercorrendo le tappe che hanno portato alla promulgazione della Carta del Carnaro ma, contestualmente, della Lega di Fiume, ha messo in evidenza le intuizioni di De Ambris e D'Annunzio in merito ad una politica capace di dare voce alle istanze anti-imperialiste e terzo-mondialiste delle popolazioni non europee degli anni '20, ma, soprattutto, la capacità di progettare uno Stato corporativo fondato sulla centralità del lavoro produttivo, uno Stato garantista capace di garantire un salario minimo, l'assegno per la disoccupazione involontaria, la pensione di vecchiaia e di invalidità, uno Stato basato sulla piena parità dei diritti di uomini e donne: uno Stato sociale, quello del Carnaro, ugualmente distante da capitalismo e comunismo e sicuramente laico, capace di garantire il diritto di professare il proprio credo ad ogni religione ma, al contempo, ben deciso a respingere ogni ingerenza delle chiese e delle religioni nella vita dello Stato.

Una testimonianza, quella dannunziana, che non è solo vestigia del passato, ma che invece può e deve essere consegnata alla riflessione politica odierna.

Proprio quella capacità di trasformazione della Destra operata dal dannunzianesimo è, nella parole di Murolo, l'elemento chiave che ha permesso di rispondere alle istanze della popolazione e delle generazioni della prima metà del Novecento: partendo da questo fatto, Annalisa Maregotto si è posta il problema di come riuscire a veicolare i valori della Destra l'indomani dei disastri procurati dal berlusconismo.

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La politica come partecipazione, nelle parole della Maregotto, si configura come la risposta possibile e plausibile di una Destra che voglia rimediare agli errori di un passato che non ha saputo superare la distinzione fra dirigenti e militanti. Solo tornando ad essere propositiva la Destra potrà tornare a vincere: sterile sarebbe limitarsi a vagheggiare il passato o a proporre simboli capaci di destare emozioni nei vecchi militanti ma non più in grado di attrarre nuovi elettori.

La capacità propositiva della Carta del Carnaro è stato lo spunto per Riccardo Fucile, uno dei primi Consiglieri provinciali del M.S.I., di fede rautiana e animatore di iniziative editoriali e culturali nella Genova degli anni '80, da cui partire per ricostruire la storia delle diverse anime della Destra italiana: dal binomio Michelini - Almirante a quello di Almirante - Rauti, differenti sono state le risposte che la Destra ha proposto agli italiani: oggi, semplicemente, non ci sono più risposte né proposte: per uscire dal pantano, ha ribadito Fucile, è necessario riscoprirei nostri valori ed avere il coraggio di ribadirli e di riproporli anche a costo di diventare impopolari.

L'On. Luca Romagnoli, già deputato europeo per la Fiamma Tricolore, si è ricollegato con quanto detto dai precedenti relatori, per ribadire la necessità che una nuova Destra, decisamente e compiutamente svincolata dal berlusconismo, che nei fatti l'ha uccisa, debba riappropriarsi di tutte quelle tematiche - dalla politica economica a quella internazionale, dall'ambiente alle problematiche della cittadinanza - di cui oggi si è appropriata la demagogia grillina e con la quale dobbiamo avere il coraggio di fronteggiarci.

Non rimpianti del passato, ha esortato Romagnoli, ma capacità di progettare il futuro: questo, in sintesi, il messaggio emerso dal Convegno di Murolo e che chiama a raccolta quanti non si sono rassegnati e, anzi, sono decisi ad opporsi a questa deriva liberista ed antinazionale.

Glauco Berrettoni

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti.

Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro.

Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove.

Questo e altro è “Confini”

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