Con i Piedi per Terra | 23. BASSA PADOVANA E POLESINE

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N. 23 - Luglio - Agosto 2017 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD

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arte storia e natura prodotti tipici

Magazine “Conipiediperterra”


Semplicemente

NATURA-LE A Castelbaldo una campagna rispettosa della salute e dell’ambiente

Il piacere di tornare al gusto succoso e croccante di una mela e alla dolcezza di una pera PROVATE QUESTE VARIETÀ

• VARIETÀ MELE: Gala, Golden Delicius, Golden Ruggine, Fuji, Dallago • VARIETÀ PERE: William’s, William’s Red, Conference, Decana Comice, Abate Fétel, Kaiser

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Numero 23

Direttore responsabile: Mauro Gambin Editore: Speak Out srl di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) - speakout@live.it

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COME CAMBIA IL PANORAMA

Il flagello della cimice asiatica

Hanno collaborato a questo numero: Silvano Bizzaro Emanuele Cenghiaro Mattia De Poli Mauro Gambin Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Anna Maria Pellegrino Roberto Soliman Mario Stramazzo Aldo Tonelli Martina Toso

Progetto Grafico:

Think! soluzioni creative Piove di Sacco (PD) think.esclamativo@gmail.com Tel. 049 5842968

Vendita spazi pubblicitari: Speak Out srl speakout@live.it

Stampa: Stampe Violato snc Bagnoli di Sopra (PD) Tel 049 9535267 www.stampeviolato.com info@stampeviolato.com

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STORIA E DINTORNI

Vendemmie d’altri tempi

32 SALUTE E BENESSERE

L’Uva un farmaco naturale

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ARTERRA

Riconoscere la bellezza, salvare il paesaggio

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Giornale chiuso in redazione il 28 agosto 2017 Tiratura: 5000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013 Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)

La copertina è a cura dei laboratori della Cooperativa Sociale Giovani e Amici di Terrassa Padovana, l’autore è Claudio Zanellato

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EDITORIALE Maurits Cornelis Escher , Nastro di Mobius II (Formiche rosse), febbraio 1963, xilografia

di Mattia De Poli

PARADOSSO,

OPINIONE e APPARENZA La seduzione della parola e la costruzione di una verità “altra” possono essere smascherate

L

a reazione di fronte ad ogni situazione paradossale è sempre la sorpresa. Poi subentrerà lo sdegno, la rabbia, il disprezzo, insomma una qualsiasi forma di giudizio razionale, ma tutte le volte in cui assistiamo ad un fenomeno che non ci aspettiamo e che è contrario alle aspettative comuni viene naturale spalancare la bocca e sbarrare gli occhi. Sentire una persona, considerata sapiente, affermare che Achille, l’antico eroe greco celebre per la sua velocità, correndo all’inseguimento di una tartaruga non la raggiungerà mai, lascia sbalorditi. Dal punto di vista logico, forse, Zenone di Elea poteva argomentare persuasivamente questa tesi, ma Diogene di Sinope, alzandosi in piedi e camminando confutò con l’evidenza dei fatti quell’affermazione, che definiamo paradossale perché appariva immediatamente contraria alla comune aspettativa basata sull’esperienza. Questo aneddoto oggi fa sorridere e magari qualcuno potrà pensare che gli antichi greci dovevano essere davvero ingenui per credere alle parole di Zenone. Ma noi siamo davvero molto diversi? Nessuno, certo, si lascerà convincere che una Ferrari, per quanto corra, non raggiungerà mai una Panda, ma siamo convinti che la pubblicità o la propaganda, ad esempio, non ci persuadano di avere bisogno di cose superflue o non ci convincano della bontà di un’evidente assurdità? Quante volte, anche nel nostro Veneto, ci capita di arrivare in un paese che, una volta, senza offesa, si sareb-

be detto “di campagna”, e trovare l’immancabile cartello stradale “Zona industriale”? Spersi nel nulla, mezzi vuoti o abbandonati, ecco i capannoni delinearsi come gli esoscheletri di scarafaggi morti. Sorpresa e disgusto, in rapida successione. Un’altra caratteristica del nostro territorio è la presenza di una tangenziale: tutti i centri urbani che vogliano avere un minimo di dignità devono averne una. Vivendo in una realtà sostanzialmente omologata, non ci badiamo neppure: è diventato normale. Ma basta aggirarsi in altri ambienti, magari in altre regioni, e ci parrà strano non trovare pressoché ovunque la zona industriale o la tangenziale. Ci sembrerà paradossale. Alla sorpresa in questo caso seguirà un certo smarrimento ma non il disprezzo perché si sperimenterà che i piccoli paesi continuano a vivere anche senza la zona industriale e che è possibile attraversarli in auto anche passando per le vie del centro, senza disagi e senza creare intralcio. Le emozioni sono importanti: la sorpresa e lo stupore sono nemici dell’indifferenza. Tuttavia, da sole possono alimentare facili ma inutili entusiasmi, con conseguenze anche pericolose. Solo quando a questo tipo di reazione emotiva segue una riflessione ponderata, possiamo intervenire a correggere eventuali errori. Possiamo alzarci in piedi e camminare, come Diogene di Sinope detto il Cinico, per smentire le affermazioni del sapiente Zenone di Elea. Possiamo compiere gesti semplici che smascherano il paradosso nelle parole altrui.

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CONSORZIO DI BONIFICA ADIGE EUGANEO

bilancio di metà mandato per il Presidente Michele Zanato

Dopo due anni e mezzo dal suo insediamento alla guida dell’ente è stato raggiunto l’equilibrio di bilancio e poste le basi, attraverso un lavoro sinergico con le istituzioni del territorio, per affrontare le emergenze legate al dissesto idrogeologico e al miglioramento del potenziale irriguo del Leb “Economie di scala ed efficientamento per migliorare i servizi ai consorziati” : è stato chiaro fin da subito il programma che il Presidente Michele Zanato, e tutta la sua squadra di governo, avrebbe portato avanti una volta intrapreso il proprio mandato alla guida del Consorzio di bonifica Adige Euganeo. Era il febbraio del 2015 e se la sistemazione dei “conti” si era dimostrata fin da subito come una necessità, visto che al tempo il bilancio presentava un deficit di cassa ben superiore a 11 milioni di euro, riuscirci nell’arco di due anni e mezzo rappresenta un risultato significativo, che ben può essere inserito nel proprio personale esame di metà mandato e che costituisce una solida base di partenza per la futura programmazione dell’ente. “All’inizio del mandato il Consorzio - spiega Michele Zanato - era creditore dei confronti della Regione Veneto di importanti cifre. Il nostro Ente, infatti, interviene su opere, impianti e canali che sono di proprietà regionale e, dunque, ogni manutenzione straordinaria oppure ogni realizzazione di nuove opere di bonifica viene svolto per conto della Regione, anticipandone la relativa spesa. Purtroppo, negli ultimi anni i costi di tali lavori non sono stati regolarmente rimborsati al Consorzio e, quindi, per ottenere la liquidazione delle ingenti somme anticipate abbiamo dato vita ad un vero e proprio pressing, reso possibile anche grazie alla firma dei Sindaci di tutti i 70 Comuni che ricadono, in tutto o in parte, nel comprensorio consortile. Ma, fra le azioni che hanno portato al risanamento dei conti del Consorzio, ri-

Nel febbraio del 2015 il bilancio dell’ente presentava un deficit di cassa ben superiore a 11 milioni di euro. Il riequilibrio è stato ottenuto con il rientro dei crediti e con una politica di contenimento dei costi che ha salvaguardato la qualità del servizio

entrano anche altre attività, come la riduzione delle spese: infatti, a fronte di un contributo regionale che di anno in anno si fa sempre più esiguo, era di 446 mila euro nel 2014 mentre oggi è previsto in soli 100 mila euro, alcuni interventi si sono resi assolutamente necessari”. In quest’ottica va inquadrata l’unificazione di tutto il personale impiegatizio presso la sede di Este, con conferma della piena funzionalità del Centro Operativo di Conselve e con affidamento in locazione di una parte dell’ex sede di Conselve. Non va neppure trascurata la revisione del POV (Piano Organizzazione Variabile) che ha portato al contingentamento delle aree dirigenziali. “Erano quattro - continua il Presidente - due amministrative e due tecniche ed ora sono state portate a tre: una amministrativa, una tecnica per lavori pubblici, ed una tecnica per esercizio manutenzione. Questo efficientamento organizzativo ha anche permesso una riduzione delle spese per lavoro straordinario e per rimborsi chilometrici, senza nuove assunzioni e senza affidamenti di lavori a ditte esterne. Il numero dei dipendenti è andato progressivamente riducendosi in virtù di specifici scivoli attivati per alcune figure professionali, oltre che per il blocco del turn-over: abbiamo quindi una riduzione del personale dipendente di 13 unità, con una minor spesa annua rispetto al precedente assetto organizzativo superiore a 600 mila euro. Tutto questo con la qualità del servizio invariata, anzi, migliorata: un esempio per tutti, nel 2015 gli scoli di bonifica sono stati sfalciati direttamente dal personale consorziale per 24.120.647 metri quadrati, mentre nel 2016 siamo passati a 26.436.631 metri quadrati. Del resto l’efficientamento del lavoro dei dipendenti è un tema a cui teniamo particolarmente, l’impegno è quello di mettere a loro disposizione mezzi e attrezzature sempre più all’avanguardia. Va considerato, inoltre, che gli efficientamenti fatti non si sono tradotti in una maggiore esternalizzazione dei lavori, questi ultimi, infatti, incidono per 147 mila euro, equivalenti all’1,12% delle entrate correnti in un bilancio di circa

Consorzio di Bonifica Adige Euganeo • www.adigeuganeo.it ESTE Via Augustea, 25 - Tel. 0429 601563 Fax 0429 50054


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13 milioni di euro. Ciò permette al Consorzio una posizione virtuosa. In una ipotetica graduatoria composta dagli altri 10 Consorzi di bonifica veneti, noi saremmo al secondo posto: appena dopo il consorzio Piave la cui incidenza degli appalti esterni sul bilancio ammonta allo 0,49%”. La grande attenzione sui conti dell’ente, dunque, oggi ha portato all’equilibrio di bilancio, e nel corso di quest’ultimo periodo sono stati anche aperti cinque cantieri finalizzati all’adeguamento degli impianti idrovori ed alla manutenzione strutturale della rete scolante, al fine di garantire i necessari standard di efficienza ed operatività del sistema bonifica. E se qualcuno potesse pensare che si tratta di ordinaria amministrazione, in realtà il riassetto dell’ente è il frutto di forte volontà dell’Amministrazione ed è stato ottenuto anche con il sacrificio e la preziosa consapevolezza di tutti i dipendenti consorziali. Tuttavia la volontà della squadra guidata da Michele Zanato non risulta minimamente appagata da questa sistemazione interna, in quanto ora si punta ad una nuova ed impegnativa sfida consistente nell’assicurare un elevato standard di efficienza nell’attività manutentoria svolta dal Consorzio, ma anche nello svolgere attività progettuali finalizzate alla realizzazione di importanti ed efficaci interventi strutturali. “Nel corso degli ultimi anni - continua Zanato - siamo usciti dagli uffici di via Augustea e abbiamo promosso momenti di informazione e di incontro con il territorio e i suoi amministratori. Come priorità ci sono

Il presidente del Consorzio di bonifica Adige Euganeo Michele Zanato, in carica dal febbraio 2015

stati segnalati interventi per ridurre il rischio degli allagamenti, per contrastare l’inquinamento da Pfas (le sostanze perfluoroalchiliche che ammorbano le acque del Fratta/Gorzone) e anche, con mia sorpresa, le opportunità turistiche che potrebbero svilupparsi se venisse ripresa l’attività della navigazione nei fiumi. A questi io aggiungerei anche una quarta emergenza, ossia quella legata alla rete irrigua per la campagna. Gli andamenti siccitosi degli ultimi anni e la recente magra dell’Adige pongono più di qualche dubbio per il futuro”. In questo caso lo strumento messo in campo dal Consorzio di Bonifica Adige Euganeo si chiama Contratto di Fiume, ossia un nuovo strumento operativo per la gestione in forma partecipata, con gli enti locali e i portatori d’interesse, delle criticità idrografiche ed in generale delle risorse idriche, per superare le problematiche strutturali conseguenti ad un’eccessiva scissione di autorità nel territorio che rendono difficile, e lungo, il lavoro di chi invece è chiamato ad intervenire con tempestività, se non più spesso addirittura in forma preventiva. E al centro

Ora si punta ad una nuova ed impegnativa sfida consistente nell’assicurare un elevato standard di efficienza nell’attività manutentoria svolta dal Consorzio, ma anche nello svolgere attività progettuali finalizzate alla realizzazione di importanti ed efficaci interventi strutturali delle azioni di questa “cabina di regia” ci sono le misure per la difesa dalle alluvioni e la qualità delle acque. “Per quanto riguarda il dissesto idrogeologico - prosegue il Presidente nella sua disamina - abbiamo presentato alla Regione e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri due progetti, vidimati dalla firma dei 28 sindaci dei comuni interessati dal rischio, per l’interconnessione idraulica di alcuni bacini di bonifica che metterebbe in sicurezza dagli allagamenti un territorio vasto 26 mila ettari. Attraverso la realizzazione di questi due diversivi, le cui immissioni avverrebbero attraverso pompe di sollevamento idrovore collocate a Sant’Urbano ed Anguillara Veneta, gli eccessi delle acque piovane verrebbero convogliate direttamente in Adige, senza appesantire, come avviene ora, il corso del Fratta/Gorzone”. Per ciascuno degli interventi il costo di realizzazione si aggira attorno ai 20 milioni di euro e per risolvere le emergenze invece causate dalla mancanza di acqua ne servirebbero immediatamente altri 20. Infatti, se nei due casi appena menzionati gli interventi riguardano l’eliminazione dell’acqua in eccesso, il terzo caso rappresenta il rovescio della medaglia ossia l’approvvigionamento idrico per le campagne nei periodi di siccità. “Questa parte del Veneto - conclude il Michele Zanato - può ricevere acqua pulita da destinare alla colture soltanto da un’unica grande arteria, l’Adige, le cui acque vengono distribuite su tre Consorzi di bonifica elementari: Il nostro; il Consorzio Alta Pianura Veneta e il Consorzio di bonifica Bacchiglione attraverso il L.E.B. Ossia il canale artificiale che tra i suoi scopi principali ha proprio quello di erogare acqua a fini irrigui, ma che oggi avrebbe bisogno di interventi che ne aumentino l’efficienza. Essendo questo il punto di approvvigionamento principale, infatti, ogni altra progettualità inerente alla rete di distribuzione diventa secondaria o addirittura marginale rispetto al vero problema. Per questo, ancora una volta, abbiamo cercato di fare sinergia, in tal caso con gli altri Consorzi interessati del territorio per poter accedere in forma strutturata al Piano Irriguo Nazionale e portare a casa le risorse che servirebbero per un intervento su entrambe le sponde del canale. In buona sostanza queste sono le azioni che porteremo avanti con determinazione per mettere al sicuro il territorio dagli eccessi a cui ci ha abituati il clima, un’abitudine che tuttavia non si può dire sia diventata consapevolezza da parte di tutti. Il Consorzio di bonifica Adige Euganeo sta facendo e continuerà a fare la sua parte, ma anche ogni singolo cittadino dovrà fare la sua. Tra gli impegni che porterò avanti c’è anche quello che riguarda la diffusione della consapevolezza che ognuno di noi è responsabile e custode del territorio in cui vive. Su questa strada non sarò da solo, continuerò a lavorare con tutti coloro che finora mi hanno dato una mano e che per questo sentitamente ringrazio”.

Per tenerti informato sull’operatività del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo e sui progetti che riguardano il territorio, iscriviti alla newsletter settimanale, basta entrare nel sito www.adigeuganeo.it, cliccare sul tasto “Contatti” e registrarsi


L’ELZEVIRO di Giuseppe Cilione

OLTRE GLI SPAZI INDECISI PREMESSE AD UN AUSPICABILE PIANO TURISTICO PER LA BASSA Il turismo può essere un settore che insieme ad altri contribuisce a creare una cultura dello sviluppo, non dissociata a quella del progresso

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l percorso verso una consapevolezza della Bassa Padovana come “luogo turistico” è iniziato, per quanto riguarda l’esperienza di chi scrive, con quella che doveva essere la preparazione di un’azione condivisa di “salvataggio” di villa Grompo Pigafetta a Villa Estense. La serie di incontri che ne derivò, ebbe culmine in un convegno, tenuto nel settembre 2015 presso villa Ardit, in cui lo storico complesso veniva definito “uno spazio indeciso”. Oggi, a distanza di due anni non è cambiato nulla, la villa continua a cadere a pezzi e a navigare nel suo stato d’indecisione, ma probabilmente ciò avviene perché non siamo in grado di definire perfettamente il significato di que-

Nella foto in alto: Villa Ardit di Villa Estense, nel Padovano

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sta “indecisione”, o meglio al contrario, non siamo in grado di tracciare in modo netto e preciso una “decisione”. Intorno a noi pullulano gli spazi indecisi, le stazioni ferroviarie abbandonate (“impresenziate” è il termine tecnico), gli edifici svuotati e lasciati al loro destino, i campi coltivati con tre o quattro “oligo-culture” che permettono ai monopoli di decidere sui produttori. La storia ci tramanda invece almeno quattro grandi decisioni prese per far diventare il Veneto quello che è oggi: • La centuriazione romana, ricordata anche in un museo a Granze: il Museo delle Centuriazioni, parte del


L’ELZEVIRO Sistema Museale della Bassa Padovana • La bonifica benedettina avviata intorno all’anno 1000 e nel Basso Medioevo, di cui il centro più importante nella Bassa Padovana è l’abbazia di Carceri • La grande espansione della Villa Veneta, che segna la “conversione” alla “santa agricoltura”, secondo la definizione di Alvise Cornaro, della nobiltà veneziana, e di cui abbiamo un grande esempio nella zona del “retratto del Gorzone”, che fu una delle casse d’espansione agricola nel periodo fra Cinque e Seicento • La trasformazione industriale del Novecento L’ultima trasformazione si separa nettamente dalle prime tre, che costituiscono invece un continuo perpetuarsi della stessa idea, e soprattutto è quella che ha segnato in modo deciso la sovrascrittura di una condizione storica tramandatasi di fatto per millenni. La zona compresa fra i Colli Euganei e l’Adige ne è rimasta in gran parte esclusa e forse a questo deve la sua grande “indecisione”. Indecisione significa non avere un percorso, significa subire scelte altrui. Indecisione significa porsi obiettivi casuali perché dipendenti da parole d’ordine sentite in giro, obiettivi spesso non realizzabili o non particolarmente adatti al territorio, e soprattutto significa non pianificare. O pianificare spese inutili, come spesso si fa, ad esempio per pubblicazioni fatte e pagate per segnalare la presenza di attrazioni turistiche che rimangono irrimediabilmente chiuse, siti web realizzati e lasciati in “ammollo” nella rete senza investimenti in pubblicità o finalizzati all’apertura e fruizione dei luoghi. Il processo di “definizione” passa dunque, necessariamente, per una programmazione che sappia trovare e utilizzare risorse in modo razionale, “efficace ed efficiente” - chiedendo un prestito alle discipline economiche - e, soprattutto, che sia consapevole del fatto che un sistema di misurazione dei risultati richiede una stima di tre-cinque anni per mettersi in moto. La prima fase di un progetto può essere definita percorso culturale: essa consiste nello studio e ricognizione di un territorio, in accordo con la definizione di

Il paesaggio è ciò che è stato prodotto dalla storia e dalle azioni umane in un territorio, è la carta d’identità di una determinata area di Paese, che permette di tracciare le linee guida di una valorizzazione dello stesso

paesaggio fornita nel Codice dei Beni Culturali del 2004. Il paesaggio è ciò che è stato prodotto dalla storia e dalle azioni umane in un territorio, è la carta d’identità, per dirla in modo semplice, di una determinata area di Paese, che permette di tracciare le linee guida di una valorizzazione dello stesso. Valorizzazione che può essere al tempo stesso culturale ed economica, perché lo studio di un territorio, la sua conoscenza, permette, si spera, di metterne in luce tutte le potenzialità e di farle crescere in modo razionale, capendo quali siano le aree in cui è davvero più redditizio investire, anche dal punto di vista della sostenibilità. In questo senso si può dunque passare dal percorso culturale a quello turistico, ma per farlo è necessario capire diverse cose: in primis che ci sono molti tipi di turismo. La nostra zona, per vocazione, è adatta ad un tipo di turismo che potremmo definire con le parole chiave “verde” e “lento” a cui va indirizzata

Country Road lungo il Gorzone

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L’ELZEVIRO

Lungo il Gorzone, vista su villa Paradiso

una ricezione particolare, fatta di prodotti tipici, naturali e particolari, di passeggiate e biciclettate in una terra che porta i segni inequivocabili di essere stata strappata alle acque con fatica e che ha permesso di vivere per secoli dei suoi prodotti ai suoi abitanti. Una terra che ha visto nascere anche colture specializzate, come quella della canapa che per secoli ha fornito il sartiame delle grandi navi prodotte dall’Arsenale di Venezia. Quali soluzioni per valutare secondo una nuova ottica i beni storico-artistici e naturali della nostra unità geografico-culturale? Ed i benefici economici e sociali che ne deriverebbero? Ovviamente, se parliamo di turismo, possiamo pensare ad un luogo centrale per la ricezione: un luogo come l’Abbazia di Carceri, che può essere un centro perfetto fra i Colli Euganei e l’Adige, per il suo ruolo “strategico” a livello di posizione, per la sua importanza culturale di luogo simbolo delle bonifiche e di approdo di un nuovo stile pittorico in Veneto, il manierismo portatovi negli anni trenta del Cinquecento da Giuseppe Porta, detto il Salviati, ma anche per il suo museo delle tradizioni contadine, che fornisce un interessante trait d’union con tempi più vicini a noi. Da lì si può espandersi e far capire che questa terra può offrire i percorsi naturalistici dei Colli, in cui si trovano gioielli culturali (Arquà, Baone, Valsanzibio, Villa Vescovi), lungo l’Adige, legato inesorabilmente alla civiltà della Villa (Vescovana, Granze, Sant’Elena, Villa Estense, S. Urbano ma più in là Canda con Scamozzi e a pochissima distanza Palladio, a Fratta Polesine, Agugliaro e Pojana), si possono infine visitare città d’arte come Este, Monselice e Montagnana. E poi, allargando di poco il cerchio, questo territorio

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Studiare Palladio e la villa veneta offre un’opportunità di capire come funziona un modello imprenditoriale di successo, perché l’imprenditorialità è innanzitutto un fatto di cultura, altrimenti l’alternativa è diventare la Terra dei Fuochi d’Europa si trova quasi perfettamente al centro fra Mantova, Ferrara, Padova, Verona, Venezia, tutte raggiungibili in circa un’ora di macchina o treno, permettendo, con una rete di ricezione adeguata, di offrire un’ottima base, in un luogo tranquillo per un turismo di qualità. Si tratta di discorsi in fondo noti, emersi in occasione del convegno e non solo (se si pensano ai lavori di studio del Gruppo Bassa Padovana, con tanto di itinerari tracciati), ma di fatto rimasti sempre sulla carta e mai trasformati in un piano operativo. Naturalmente il turismo non può essere “la via di salvezza” di un territorio, né - allargando il discorso - di un Paese, ma può essere un settore che insieme ad altri contribuisce a creare una cultura dello sviluppo, non dissociata, per citare il Pasolini degli Scritti corsari, a quella del progresso. Giova forse allora ricordare, come un doveroso memento per “partire bene” - che la prima grande lezione di economia territoriale ci è stata donata dal pensiero umanistico: studiare Palladio e la villa veneta offre un’opportunità di capire come funziona un modello imprenditoriale di successo, perché l’imprenditorialità è innanzitutto un fatto di cultura, altrimenti l’alternativa è diventare la Terra dei Fuochi d’Europa.


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TENUTA CIVRANA

autunno stagione di abbondanza La campagna restituisce i prodotti maturati naturalmente quasi senza trattamenti, mentre la fattoria didattica apre le porte delle sue classi per interessanti lezioni sulla Natura La fine dell’estate non porta a nostalgiche malinconie alla Tenuta Civrana di Pegolotte di Cona, rappresenta sicuramente la fine di una stagione, bella e anche quest’anno carica di tante iniziative che hanno accompagnato la tradizionale offerta, ma piuttosto è l’inizio di un nuovo tempo dove colori, profumi e sapori si intensificano. In fattoria è iniziata la raccolta. Mele rosse e gialle, pere, maturate naturalmente quasi senza trattamenti sono pronte ad essere spiccate dagli alberi, mentre dagli orti l’andirivieni di casse di zucche, di radicchio, di porri o di melanzane si fa quotidiano sia per approvvigionare il punto vendita aziendale che l’agriturismo, perché qui l’offerta è rigorosamente a chilometri zero e ricalca fedelmente le stagioni di un tempo. Sicché anche il menù viene aggiornato dallo chef Luca Brun alle nuove disponibilità che la grande dispensa della Natura mette a disposizione,

in perfetto accordo con le altre opportunità che la grande campagna offre. A fianco dei 365 ettari di fertile suolo destinati alle produzioni, ve ne sono altri 6 lasciati appositamente allo stato naturale che si prestano ad essere attrazione per gli amanti della flora e della fauna e all’offerta didattica per le scuole. Questa è la stagione giusta per inoltrarsi tra i sentieri e i ponticelli che permettono l’esplorazione di una grande area umida, magari appostandosi nelle apposite torri per il birdwatching e osservare le oltre duecento specie di uccelli che negli ultimi anni sono stati censite. Per i più giovani, del resto, Tenuta Civrana è posto giusto per un ciclo di lezioni a tema ambientale, una fattoria didattica che unisce il “sapere” al “saper fare”. L’inizio dell’autunno è una grande festa, un mondo di opportunità per vivere da vicino il grande tempo circolare della campagna e dei suoi antichi riti.

GLI APPUNTAMENTI DA NON PERDERE • 27 SETTEMBRE inizia il Corso di Sommelier Fisar di 1 livello. Iscrizioni aperte. Telefonare al 348 2912373 • 8 OTTOBRE Fattorie Didattiche Aperte • 6, 13, 20 e 27 OTTOBRE “Venerdì da gustare”, in agriturismo serate a tema con cene a base di prodotti di stagione

Pegolotte di Cona (VE), Via della Stazione 10 Tel. 333 6662584 • Agriturismo 347 2220023 info@tenutacivrana.it • www.tenutacivrana.it

Le lezioni sono indicate per scuole dell’infanzia, scuole primarie e scuole secondarie di primo grado, con attività calibrate e concordate con i docenti in base alle diverse stagioni, all’età degli studenti o ai progetti delle singole classi. Per iscriversi basa andare sul sito della tenuta all’indirizzo www.tenutacivrana.it e scaricare l’apposito modulo.

TENUTA CIVRANA


“Cimice asiatica” CRONACA DI COME CAMBIA IL PANORAMA

di Eliano Morello

UN FLAGELLO ANNUNCIATO Questo insetto è arrivato in Italia solo da pochi anni, ma la sua diffusione è stata velocissima e il danno prodotto sui frutteti sempre maggiore

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uando esordii a scrivere in questa rivista, il mio primo articolo trattò di insetti pentatomidi (cimici). Mai avrei immaginato che sarei dovuto tornare sul tema. Purtroppo però questo insetto sta avendo un impatto enorme (in senso negativo) sulla produzione agricola delle nostre zone e questo rende necessario fornire nuove informazioni sull’argomento. Mi riferisco, in particolare, alla Cimice Asiatica (il cui nome scientifico è Halyomorpha halys), conosciuta in America come Brown marmorated stink bug. Si tratta di un pentatomide dalle notevoli potenzialità di danno, caratterizzato da una rapida diffusione e da difficoltà di controllo. Come suggerisce il nome, essa è originaria dell’Asia dove si comporta da fitofago occasionale ed è controllata da diversi antagonisti naturali. Quando, invece, è stata introdotta (accidentalmente) nel nord est degli Stati Uniti, dove si è insediata, la musica è cambiata: l’insetto, senza predatori naturali e in un ambiente nuovo ricco di

frutteti, ha causato danni per milioni di dollari, diventando rapidamente il fitofago più pericoloso per le colture frutticole. In Europa la sua prima presenza è stata segnalata già dal 2004 (Svizzera) per poi essere notata anche in Italia (2012) nel Cuneese e Modenese. Dal 2014 dal Piemonte e dall’Emilia Romagna gli avvistamenti cominciano a fioccare anche se manca la percezione dei danni che può arrecare. Nel 2015 parte il monitoraggio nell’area di Modena e Reggio Emilia (due provincie ad alta concentrazione di pero), nel 2016 la rete di monitoraggio parte anche in Veneto, ma le segnalazioni sono sporadiche e solo nel Trevigiano (zona di produzione del Kiwi) risulta in concentrazione abbondante e preoccupante. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 si susseguono convegni e riunioni dove si informano e sensibilizzano tecnici e agricoltori sulla probabile futura presenza dell’insetto e sulle strategie di monitoraggio e di primo intervento. All’appello mancano Comuni e rappresentanti del

CIMICE ASIATICA: Si tratta di un pentatomide dalle notevoli potenzialità di danno, caratterizzato da una rapida diffusione e da difficoltà di controllo. Come suggerisce il nome, essa è originaria dell’Asia dove si comporta da fitofago occasionale ed è controllata da diversi antagonisti naturali. Dove è stata introdotta di recente, invece, essa non ha predatori e sta causando danni per milioni di dollari. Oggi è fitofago più pericoloso per le colture frutticole

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COME CAMBIA IL PANORAMA Il controllo della cimice asiatica è difficoltoso sia nell’agricoltura tradizionale, dove sono pochi gli insetticidi ammessi ed efficaci, sia nell’agricoltura biologica in quanto sono solo alcuni i prodotti disponibili e di incerta efficacia territorio forse perché si pensa che la cimice sia solo un problema agricolo e di agricoltori. A metà 2017 (momento in cui scrivo) la diffusione è totale: in alcune zone si dichiara che non è presente, ma è più probabile che si osservi poco e male o che ci si fidi troppo delle trappole le quali, tra l’altro, spesso non coprono sufficientemente il territorio non catturando l’insetto. Accade troppo frequentemente, ormai, che le trappole risultino vuote ma che si trovino danni importanti causati dalla cimice su molte colture a partire da ciliegio, albicocco, pesco (nettarine in particolare), pero, melo, soia, vite e quanto altro commestibile. Ho incontrato persone che hanno riscontrato danni su pesco in giardino o su fagioli e pomodoro in orto senza sapere che ormai ce l’avevano in casa. L’insetto ha una spiccata tendenza a nascondersi in microhabitat, anche fuori dal campo coltivato (ad esempio siepi e piante spontanee come il susino). La diffusione avviene tramite l’uomo, le merci e i bagagli. Si tratta di un insetto molto mobile e veloce, ol-

È insetto molto mobile e veloce, oltre che dannoso in tutti gli stadi, specializzato in movimenti in spazi ristretti: le ninfe coprono 20 metri in 5 ore, gli adulti possono volare per 2 km al giorno

tre che dannoso in tutti gli stadi (diverse dimensioni), specializzato in movimenti in spazi ristretti: le ninfe coprono 20 metri in 5 ore, gli adulti possono volare per 2 km al giorno (distanza massima coperta 116 km ad un’altezza di 26 metri). La Cimice Asiatica ha cicli di riproduzione sovrapposti con presenza contemporanea di tutti gli stadi (5 in totale) e molto numerosi (è un insetto anche gregario che si riunisce in gruppi attraverso un feromone di aggregazione). Essa diventa dannosa in brevissimo tempo e incrementa la diffusione in autunno per poi trovare riparo, nella forma adulta (per trascorrere l’inverno), in tutte le anfrattuosità disponibili (dalla legna

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COME CAMBIA IL PANORAMA

La Cimice Asiatica ha cicli di riproduzione sovrapposti con presenza contemporanea di tutti gli stadi di accrescimento

accatastata, nel sottocoppo dei tetti, negli angoli dei fabbricati, nello stesso frutteto, all’interno dei copripalo in plastica ecc...). Come tutte le altre cimici del resto. Grazie alla sua enorme biodiversità dovuta a introduzioni in tempi diversi e incroci tra popolazioni diverse (questo crea sempre nuove combinazioni genetiche), il suo controllo è difficoltoso sia con interventi chimici, dove sono pochi gli insetticidi ammessi ed efficaci, per non parlare del biologico dove ci sono solo alcuni prodotti disponibili e di incerta efficacia. Ma allora come ci dobbiamo comportare? Per prima cosa suggerisco il monitoraggio: rilievi settimanali a partire da marzo-aprile con conteggio di adulti e neanidi. Prestare attenzione in particolar modo alla parte alta della pianta, specialmente nelle occasioni in cui si diradano albicocche, pesche e mele per poter individuare precocemente i danni, utilizzare trappole per la cattura e cambiare spesso la posizione delle stesse (alcuni tipi di trappola - ad esempio le Rescue - sembra catturino meno rispetto a trappole trecè). Vorrei sottolineare che posizionando la trappola lontano dal frutteto non si ottengono indicazioni precise sulla reale presenza di cimici nel campo coltivato: le indicazioni di presenza/abbondanza si ottengono nel contesto in cui la trappola è posizionata! Occorre dunque preferire il posizionamento nei filari esterni in numero di 3-5 per azienda. I trattamenti sono indispensabili ma non sufficienti e, come già accennato poc’anzi, poche sono le molecole a disposizione e ancora meno quelle disponibili nel biologico. Spesso, trascorsi alcuni giorni dal trattamento insetticida, la cimice si ripresenta (in Emilia Romagna, nel 2016, si sono registrati anche 10 interventi). Senz’altro occorre una strategia multipla, cioè applicare diffusamente la confusione sessuale contro la carpocapsa (così da dirottare alcuni prodotti contro la cimice) e, dove possibile, coprire i frutteti con reti anti-insetto (sia con la tecnica del monoblocco,

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Per contenerne il danno occorre una strategia multipla, cioè applicare diffusamente la confusione sessuale e, dove possibile, coprire i frutteti con reti anti-insetto. I risultati ottenuti dimostrano che questa è la soluzione migliore sia con quella del monofila ma precoce) che dai risultati ottenuti sembra la soluzione migliore. Oltre la protezione occorre adottare tutti i mezzi utili a ridurne il numero di adulti svernanti, bene allora raccoglierli e distruggerli in tutti i modi: specialmente colpendo, con insetticidi, gli adulti svernanti quando escono dai ripari invernali (è questa la fase più sensibile da parte degli insetti).

Trappola per cimici


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STORIA E DINTORNI di Paolo Rigoni

Il caso Polesine

TERRA TROPPO FERTILE PER PRODURRE VINO Nei secoli passati la grande abbondanza di acqua ha reso redditizie altre coltivazioni rispetto alla vite, così progressivamente oltre alla sua coltura è andata perdendosi anche la cultura legata alla vinificazione

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ien da chiedersi come mai certe terre abbiano una vocazione vitivinicola e certe altre no. Certo a volte sono le condizioni pedoclimatiche a determinare la qualità e dunque il successo di un vino, ma non sempre è così. Del resto su terre impervie si arroccano gli antichi vigneti del monte Calvario, mentre quelli del Bosco Eliceo vivono su suoli sabbiosi. E che dire di quelli a strapiombo sul mare della Costa d’Amalfi? O dei “vigneti di mare” dell’Isola d’Ischia? E ancora quelli delle pendici del Monte Etna? O di Salina e Pantelleria? No la terra a volte centra poco, centrano di più le ragioni culturali ed è proprio in questo modo che ci si può spiegare come il Polesine non sia una terra di vini. Poi, che non lo sia non è neanche vero fino in

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fondo, in quanto c’è stato un tempo in cui il vino Polesano era tenuto in gran considerazione. Secondo lo storico inglese Hugh Johnson, autore di una sistematica “Storia del vino”, nel passare in rassegna i “Grands Crus” della Roma antica, colloca ai primi posti il “vinum Hadrianum”, la cui produzione si situava nei pressi di Adria. Un primato vitivinicolo che probabilmente è rimasto invalso anche durante l’alto Medievo, tanto che al tempo la vite risultava una coltura specializzata, presente in un appezzamento a sé stante circondato da fossati e siepi, clausure. I vigneti erano sostenuti dal “palo secco”, e quindi è da immaginare che la diffusione della coltura promiscua, con alberi da frutto o con alberi ombreggianti vivi, si sia diffusa più tardi, evolvendo poi verso il sistema


STORIA E DINTORNI “Il metodo prevalente di tenere i vigneti è quello di maritare le viti agli alberi lungo le stréne, a pioppi, olmi, oppi o salici che siano, a motivo del guadagno di pertiche e fascine, della foglia per alimentare il bestiame e perché la chioma degli alberi protegge i grappoli dalla grandine” della “piantata” padana che diventerà caratteristico fino al tempo recente. Ma la coltura della vite aveva anche un secondo scopo, come risulta dagli atti dei Certosini di Corcrevà, risalente al 1489, essa infatti radicava il colono alla terra. Non c’è da stupirsene, siamo negli anni delle prime bonifiche: grandi distese di terra venivano liberate dall’acqua e queste dovevano essere lavorate. Pertanto i grandi proprietari, laici o ecclesiastici, obbligavano, alla coltivazione della vite e a mantenerne intatto il numero fornendo essi stessi le piante. Le cose dunque in Polesine, per quanto riguarda la vite, devono essere mutate in seguito all’inserimento di nuove colture come ad esempio il mais, la cui diffusione nel resto d’Italia inizia proprio da qui nel 1554. La grande presenza di acqua, infatti, deve aver stimolato nei tempi in cui le produzioni non erano più strettamente legate alla sussistenza, speculazioni verso quei prodotti che sfruttavano in modo più profondo le caratteristiche geomorfologiche del territorio. Il riso e la canapa, per esempio, venivano imposte dalla Repubblica di Venezia: il primo come coltura di bonifica nelle terre appena prosciugate e la seconda

La cartina indica le aree di provenienza delle “Grands Crus” della Roma antica, la produzione del “vinum Hadrianum” viene collocata nei pressi di Adria ed era tra le più apprezzate

come pregiata materia prima per l’indotto dell’Arsenale. Fatto sta che alla fine del XIX secolo le cronache restituiscono un Polesine totalmente incapace di produrre vino di qualità. Il primo materiale utile per un’indagine sulle tecniche dei vignaioli del tempo, è una monografia redatta dal fattore dei Papadopoli Giacomo Bisinotto al tempo dell’Inchiesta Agraria nel 1882, dalla quale emerge un quadro piuttosto desolante per la coltivazione della vite. “La vite - scriveva - la si tiene appaiata agli alberi lungo i filari delle sistemate campagne; solo alcuni fra i più solerti agricoltori da qualche anno impresero a coltivarla a vigneto. I vitigni che prevalgono si nominano: marzemino, friularo, corbino, corbinello, uva d’oro, pateresco, basegano, padovano, ecc”. Tuttavia non esistevano uve per un vino “distinto”, riconoscibile e connotabile, ma molti tipi coesistevano senza alcuna omogeneità. La ragione risiedeva nella necessità di premunirsi contro l’aleatorietà del tempo e il pericolo che le gelate potessero pregiudicare irrimediabilmente la raccolta se tutte le viti fiorivano nel medesimo periodo. Inoltre, essendo inveterato l’uso di vendemmiare contemporaneamente senza distinguere il momento ideale di maturazione delle singole uve, facendo una sola vendemmia, l’uva più matura avrebbe fornito lo zucchero, e quella meno matura l’acidità. Il compromesso era più che ragionevole seppur a scapito della qualità. Insomma al tempo certo si guardava più, alla quantità che alla “bontà” e del resto i vigneti non dovevano produrre solo vini. “Il metodo prevalente di tenere i vigneti - scriveva Giacomo Agostinetti sul finire del ‘600 in un volume destinato a fattori e castaldi - è quello di maritare le viti agli alberi lungo le stréne, a pioppi, olmi, oppi o salici che siano, a motivo del guadagno di pertiche e fascine, della foglia per alimentare il bestiame e perché la chioma degli alberi protegge i grappoli dalla grandine”. Dalla potatura dipende, si sa, la raccolta ed in Polesine a quel tempo vigeva un modo redditizio di bruscare, articolato in tre anni successivi: “Il primo anno che li salgari hanno le pertiche longhe di tre anni, li troncano e tirano li capi delle vide che sono lunghi da un arbore all’altro; il secondo anno lasciano le tirelle vecchie e gettano sopra li capi giovani; il terzo anno tagliano tutto il vecchio dell’uno e dell’altro anno et il quarto anno tornano a ripigliar l’istesso ballo, chiamando questo loro bruscar l’uno di pertica, l’altro di spiron, et l’altro anguanino; e perciò costumano far la possession in tre parti per haver ogn’anno d’ogni sorte di cose, cioè legne, vin buono, mezano et inferiore”. Ma se la situazione nelle campagne non è tra le più

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STORIA E DINTORNI La piantata padana prevedeva una disposizione degli alberi a tutela della vite. Gli “alberi tutori” erano prevalentemente l’Olmo, l’Acero campestre (quello che i nostri contadini chiamano ancora opi), in alcuni casi erano impiegati anche pioppi e gelsi. Le foglie di queste piante, raccolte quando erano ancora verdi, costituivano una ottima integrazione alimentare invernale per i bovini

“La manifattura del vino, rare eccezioni fatte, è quale la faceva il buon Noè. Nessuna cura della scelta dell’uva, né dell’epoca della vendemmia. La pigiatura si fa all’aperto nei campi, ed il tempo della bollitura giunge per taluno, si può dir, fino alla dimenticanza!” incoraggianti, in cantina - dalla relazione di Bisinotto emerge una situazione anche più desolante. “La fabbricazione del vino vien fatta comunemente dai singoli proprietari: vendesi però una rilevante quantità d’uva pigiata ad osti ed a privati, che finiscono la riduzione del mosto in vino nelle loro cantine. La manifattura del vino, rare eccezioni fatte, è quale la faceva il buon Noè. Nessuna cura della scelta dell’uva, né dell’epoca della vendemmia. La pigiatura si fa all’aperto nei campi, ed il tempo della bollitura giunge per taluno, si può dir, fino alla dimenticanza! Da ciò vini non serbevoli e di poco pregio quando con l’osservanza delle più elementari prescrizioni dell’arte enologica, vi sarebbe modo di ottenere discreto vino e conservabile, quale lo si riscontra nelle cantine di qualche intelligente proprietario”. Insomma la terra “da buon vino” c’era come c’era sempre stata, quella che nel tempo venne a mancare fu proprio la cultura nel produrlo. Sempre le righe del Bisinotto restituiscono una varietà di “convinzioni” che animavano i nostri progenitori vignaioli, che oggi paiono commoventi alla luce delle nuove tecniche enologiche. “La svinatura si fa pei vini neri dall’ottavo al quindicesimo giorno dopo la pigiatura; pei bianchi quasi sempre dall’ottavo al decimo, qualche volta dal ventesimo al trentesimo…”. Tale consuetudine era dovuta

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alla esigenza di dar corpo e colore al vino che diventava tanto più scuro quanto più rimaneva nei tini con l’unico vantaggio di un maggior contenuto di tannino. Al tempo, infatti, le preferenze dei consumatori si accordavano a vini fortemente “colorati”, e chi produceva sapeva tenerne conto. “Si ottiene dovunque un vino ben colorato col ripigiare le vinacce nel tino durante la pigiatura, il che dicesi “follare il cappello”. In qualche luogo e in qualche annata, quasi non bastasse, si rinforza il colore colla “crepata”, ossia col far cuocere dell’uva nel paiolo per poi mescolarla nel tino all’altra che fermenta”. Inoltre, sino a poco tempo fa, vigeva l’uso di porre nei tini durante la fermentazione alcuni oggetti di ferro, come catene, vomeri o catenacci, con l’intento di rendere il vino più resistente. Nella pratica giocava la credenza nelle virtù magiche e terapeutiche del ferro cui si assegnava il potere di prolungare la durata del vino e di evitare che potesse essere influenzato negativamente dai tuoni. Pratiche che potrebbero essere considerate ingenue credulonerie, figlie di un tempo in cui era la scaramanzia ad avere la meglio sulla scienza, tuttavia l’uso di sciogliere sostanze par-

Tacuinum Sanitatis in Medicina fine XIV secolo Österreichische Nationalbibliothek Vienna


ticolari nel vino era diffuso sin dall’antichità: i Romani vi immergevano l’ambra, nel Medio Evo veniva scaldato ed infuso l’oro, specchio del sole e del cuore, che avrebbe offerto un efficace cardiotonico, in una stretta relazione tra medicina, alchimia e fisica. Certo erano pratiche che non deponevano a favore della qualità del vino, o almeno del vino come lo intendiamo noi adesso. Ma ad incidere su tutto era appunto la mancanza di una cultura dedicata al vino, la necessità diffusa di ottenere dal vigneto non solo l’uva e pratiche di cantina dove molto spesso il vino prendeva l’odore dei salami, dei formaggi e degli altri prodotti destinati alla tavola contadina. Valori volatili, per dirla con parole prese in prestito da un qualsiasi sommelier, che probabilmente spaziavano dal rancido alle muffe e a qualsiasi altro miasma emanato da quei luoghi dove al tempo venivano stipate quelle cose che oggi destiniamo al frigorifero. Dalla disamina di Bisinotto emerge anche una certa propensione dei produttori del tempo a puntare esclusivamente all’immediato profitto della vendita dell’uva e, tuttavia, non

“… chiamano questo loro bruscar l’uno di pertica, l’altro di spiron, et l’altro anguanino; e perciò costumano far la possession in tre parti per haver ogn’anno d’ogni sorte di cose, cioè legne, vin buono, mezano et inferiore”

va trascurato che fino a non molto tempo fa l’uva serviva quasi esclusivamente per produrre vini destinati all’autoconsumo. E quindi la qualità veniva dopo molte altre cose, soprattutto nell’Ottocento quando nelle campagne la povertà era endemica. D’altra parte “i ricchi - per dirla con Goethe - vogliono buon vino, i poveri molto vino”. In poche parole: il vino polesano era destinato al consumo popolare, chi poteva si rivolgeva al vino d’importazione. Giacomo Bisinotto, così attento e meticoloso, puntuale e preciso nella sua relazione per quanto riguarda le bonifiche, le arature, le rese di frumento e mais, sul vino pare toccare l’argomento velocemente solo perché il dovere glielo impone. In fin dei conti sa perfettamente che il Veneto, dopo l’Unità, ha perso il fiorente mercato austriaco, che la peronospera infuria nelle zone umide e che ai proprietari convengono mais e foraggio per l’allevamento di vitelli per i quali si “hanno molte pasture”. La perdita della coltura della vite in Polesine, insomma, è figlia di emergenze più gravi, di un tempo di ristrettezze in cui gli sforzi erano appena sufficienti per il necessario e la qualità, nell’economia della sussistenza, era un semplice orpello. Non era la fertilità della terra a mancare, il Polesine del resto - usando termini illustri - “è terra di promissione che frutta al dispetto del mondo che se queste nostre terre di Trevisana fossero trattate come quelle di Polesine, non potessimo vivere a mezza strada”.

ES VENDANGES: Tapisserie, Pays Bas du Sud, 1° quarto del XVI secolo - Musée National du Moyen-Age -Parigi

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A Z I E N DA A G R I C O L A

Vittorio Comini

Vini che provengono dal passato e che guardano al futuro Turchetta, Benedina, Mattarella tre varietà identitarie delle terre tra Adige e Po Vittorio Comini la chiama “la terra di mezzo” questa sua campagna dell’Alto Polesine racchiusa tra i due più grandi fiumi d’Italia: il Po e l’Adige. Tra di essi intercorrono appena 16 chilometri, è il punto in cui si avvicinano di più nel loro lento scendere verso il mare, ma non sono gli unici: questa è una terra di grandi canali e quindi di argini, è terra retratta anzi d’impresa di bonifica, visto che ai latifondisti Bentivoglio, nel XVII secolo, il suo prosciugamento è equivalso al drenaggio anche dell’intero loro patrimonio economico. Acqua, dunque, e anche volendo parlare di terra e sempre con l’acqua che bisogna fare i conti perché questa è terra portata dall’acqua uscita dai fiumi con rotte, alluvioni, disastri avvenuti in un tempo in cui l’uomo nulla poteva contro la forza della natura. E questo è un lato del Polesine ancora primigenio, un suolo che è sabbia e argilla, una terra fertilissima, verde, che la famiglia Comini conduce ormai da tre generazioni nel segno della più progredita agricoltura. Frutticoltura, un tempo, il kiwi ancora oggi in forma diffusa, ma da qualche anno sei dei dieci ettari di campagna a disposizione sono stati convertiti alla viticoltura, una viticoltura, va aggiunto, particolare. Perché Vittorio Comini oltre alla passione per l’agricoltura ne ha un’altra: la Storia, soprattutto quella di questa terra, e delle due ne ha fatto una con la coltivazione di vitigni storici polesani. “Turchetta”, “Mattarella”, “Benedina”, sono quelli che ha già portato ad essere bottiglie, varietà che precedono di decenni l’industria commerciale ed intensiva del vino e si posizionano invece in quel lontano passato, razionale ed essenziale, in cui le coltivazioni venivano selezionate in ragione alla loro capacità di adattarsi all’ambiente. E queste hanno rappresentato per secoli il miglior frutto della terra polesana e lo sono tutt’oggi a patto di salvarle dall’oblio del tempo e riproporle alla luce delle nuove tecniche della vinificazione. Per questo Vittorio, insieme ad alcuni viticoltori ed amatori nel 2012, ha costituito l’Associazione Vini Storici Polesani: il passato può essere il ancora il futuro, anzi qui il condizionale non serve, la certezza è assoluta.

A Z I E N DA A G R I C O L A

Vittorio Comini

via Borgonovo, 1300 Giacciano con Baruchella (RO) tel. 346 2205921 www.vinicomini.jimdo.com vittorio.comini@libero.it


messaggio pubbliredazionale

TRE VARIETÀ STORICHE DI QUESTA TERRA

La sua uva si vendemmia verso la terza decade di settembre , anche se oggi si tende ad anticiparla per evitare un accumulo di zuccheri. La vinificazione è a freddo e l’imbottigliamento avviene a marzo. Si presenta di colore giallo oro, sorprendente freschezza e mineralità con pesci ai ferri o fritti, carni bianche grigliate, adatto anche come aperitivo (se spumantizzato) o con dolci secchi. Temperatura 8°-10° C

Prodotto in purezza. La vendemmia inizia alla fine di settembre, la fermentazione è classica, in rosso, non molto prolungata, per evitare il concentrarsi di una colorazione eccessiva. L’imbottigliamento inizia a maggio e dunque pur essendo un rosso di corpo è comunque di pronta beva. La colorazione è molto intensa, rosso granato, sensorialmente presenta sentori di viola e marasca con una giusta nota amara. In genere si accompagna bene con carni rosse alla griglia o arrosti. Temperatura di servizio: 18-20 °C Vinificazione classica e imbotti-

gliato ad ottobre dell’anno successivo alla vendemmia. È un vino dal gusto armonico, buone caratteristiche organolettiche colore brillante mediamente alcolico adatto anche ad essere invecchiato, grazie alla buona acidità. Si accompagna bene con carni rosse brasate o in umido. Temperatura di servizio:18-20°C

IN AZIENDA VENGONO PRODOTTI ANCHE MERLOT, CARMENERE, RABOSO, TAI, REASLING E MANZONI BIANCO CHE VENGONO VENDUTI SFUSI


PAESAGGI SONORI di Martina Toso

La “piantata padana” AGRICOLTURA RAZIONALE DI UN PAESAGGIO CHE NON C’È PIÙ Un tempo non esistevano i vigneti come li intendiamo noi adesso. La vite, invece, faceva parte di un sistema promiscuo, dove l’uva non era l’unico “frutto” atteso dal contadino

L

a grande “Carta del Gorzon” custodita al Museo Etnografico di Stanghella è un documento storico di eccezionale importanza: nonostante i suoi quattrocento anni di età, rappresenta in maniera precisa ed efficace l’idrografia e l’uso del suolo del tempo. Un suolo che dove non era occupato dall’acqua, come nel caso dell’enorme lago di Vighizzolo e della sua cassa di espansione, era destinato in gran parte alla viticultura. La superficie destinata al “vignà” infatti risulta preponderante, coprendo quasi il 30% dell’intero territorio allora disponibile. Molto, quasi quattro volte la terra destinata alle colture cerealicole, presenti in ragione dell’8%, e moltissimo se si considera che oggi, nella stessa area presa in considerazione

dalla carta, la superficie destina alla viticoltura rappresenta solo lo 0,81%. Stante così le cose, verrebbe da chiedersi se la Bassa Padovana non fosse un tempo l’equivalente della Valpolicella o del Chianti moderni. Una ipotesi, tuttavia, senz’altro da escludere. Una presenza così cospicua della vigna, invece, va forse considerata in quello che era il modo di mettere a regime un fondo. Le colture specializzate al tempo erano molto rare, soprattutto nel caso della viticoltura. Insomma non esistevano i vigneti come li intendiamo noi adesso, ma la vite faceva parte di un sistema promiscuo dove l’uva non era l’unico “frutto” atteso dal contadino. Questo sistema è passato alla storia con il nome di

Nella foto in alto: la piantata oggi. Qualcuno fece appello alla malattia dell’olmo per trovare le cause della scomparsa della “piantata”, in realtà è stato l’inserimento delle macchine agricole il vero motivo

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PAESAGGI SONORI Le viti mantenute in alto dagli alberi permettevano ai grappoli la massima insolazione, per favorire la maturazione, ed il minimo di umidità in modo da impedire i pericoli delle muffe “piantata padana” e nella fattispecie si concretizzava con la collocazione ai bordi del campo destinato alla cerealicoltura di alberi e viti, ossia di viti “maritate” ad un sostegno vivo, in genere all’olmo, all’acero campestre, al salice, al pioppo, ai gelsi o non più raramente a qualche albero da frutto, come nel caso del ciliegio o del pero. I vantaggi che tale sistema comportava erano molteplici, visto che contemporaneamente venivano sviluppate diverse colture: certamente l’uva, ma anche i frutti degli alberi reggi-vigna e le foglie, che spesso venivano raccolte ancora verdi per essere destinate all’alimentazione invernale degli animali della stalla o ai bachi da seta, nel caso del gelso. Inoltre, visto il clima delle zone padane, non è certamente il più adatto alla produzione vitivinicola, le viti mantenute in alto dagli alberi permettevano ai grappoli la massima insolazione, per favorire la maturazione, ed il minimo di umidità in modo da impedire i pericoli delle muffe. Non va tralasciato poi che sotto ai filari si stendevano spazi erbosi (strene, rivali) utili per lo sgrondo delle acque piovane verso fossati e scoline e utili pure per ottenere una modesta produzione foraggera da destinare agli animali. Importantissima, inoltre, la produzione di legname con la quale l’agricoltore poteva gestire al meglio le caratteristiche del terreno e diversificare gli introiti dalle proprie colture. Alberi dolci come il salice o il pioppo avevano funzione di asciugare il terreno, il pregiato noce, già al tempo tra gli alberi da reddito, forniva legname per realizzare mobili e arredi, mentre con alberi forti e da cima come la farnia venivano prodotte travi i legname da opera. Ancora le legna serviva per i bisogni energetici della famiglia contadina e spesso entrava anche in quei prodotti di pregio che venivano richiesti per il pagamento del livello, ossia il sistema più diffuso di affido dei fondi, visto che la proprietà era tutta in mano a pochi e ricchissimi possidenti. Il campo arativo-arborato e vitato, dunque, era un modello organizzativo di un sistema agrario a coltura promiscua ma intensiva, capace di esprimere il massimo di efficienza dal punto di vista energetico e delle rese. L’investimento del proprietario urbano, per dotare il podere di abitazioni per la famiglia contadina e per gli animali da lavoro, veniva abbondantemente ripagato

con il forte incremento di valore del campo arborato e vitato rispetto alle altre forme di uso del suolo. Un sistema che di certo accompagnò e diede ordine a quelle operazioni di “deforestizzazione”, che rappresentarono le prime bonifiche del territorio, avviate verso la fine del XIII e del XIV secolo, in parte ricollocando ai bordi dei seminativi quegli alberi che erano stati estirpati. Un sistema che proprio per la sua “razionalità” nella gestione delle risorse accompagnerà anche la successiva stagione di bonifica del territorio, ossia quella veneziana avviata con il retratto delle acque. “Fili d’arbore - scriveva alla metà Seicento il Tanara - o piante che sostentano le viti: con questi non s’occupa o impedisce parte alcuna di terreno che non si possi lavorare e cavarne frutto; anzi dallo stesso lavorare che per altrui si fa, la vite ne viene coltivata senza spesa, e quasi perpetui (gli alberi) mantengono e sostentano la vite, e col mezzo di questi le allunghi e dilati tanto, che rende più un filo di questi arbori, o due nella piantata bene aiutata che non fa una vigna, porgono ancora dilettazione alla vista e servono di comodità di separare un campo dall’altro…”. Fu un sistema talmente efficiente da rimanere in uso

Già alla fine del 1.300 l’uso della Piantata Padana era diffuso nella coltivazione della vigna, lo dimostra questa immagine estratta da un Tacuinum-Sanitatis della fine-XIV-secolo, oggi conservato all’Österreichische-Nationalbibliothek di Vienna

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PAESAGGI SONORI Alberi dolci come il salice o il pioppo avevano funzione di asciugare il terreno, il pregiato noce forniva legname per realizzare mobili e arredi, mentre con alberi forti e da cima come la farnia venivano prodotte travi i legname da opera fino all’epoca recente. Qualcuno fece appello alla malattia dell’olmo per trovare le cause della scomparsa della “piantata”, in realtà è stato l’inserimento delle macchine agricole il vero motivo. La necessità di lavorare la campagna con macchine sempre più grosse e potenti portò ad eliminare gli intralci costituiti dagli alberi, mentre il ricorso ai mangimi artificiali rese inutili le produzioni di foglie ed erbe che fino a quel momento erano state fondamentali per l’allevamento degli animali. Con l’arrivo dei trattori dunque il nostro paesaggio conobbe una radicale trasformazione, sparì un sistema che aveva retto per secoli, arrivarono i tutori “morti” e l’espandersi della coltivazione del vigneto specializzato. Qua e là è ancora possibile imbattersi in qualche esempio di “piantata padana”, a nostro avviso andrebbe tutelata come fosse un’opera d’arte per essere un monumento a quell’intelligenza contadina che sapeva colmare la carenza con sistemi razionali improntati al multitasking.

Nella Piantata le viti venivano “maritate” ad un sostegno vivo, in genere all’olmo, all’acero campestre, al salice, al pioppo, ai gelsi o non più raramente a qualche albero da frutto, come nel caso del ciliegio o del pero

La grande carta del Retratto del Gorzon ci informa che la superficie destinata al “vignà” (in verde), alla metà del ‘500, era preponderante, coprendo quasi il 30% dell’intero territorio allora disponibile. Molto, quasi quattro volte la terra destinata alle colture cerealicole, presenti in ragione dell’8%, e moltissimo se si considera che oggi, nella stessa area presa in considerazione dalla carta, la superficie destina alla viticoltura rappresenta lo 0,81%

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INGIROPIEDANDO di Mauro Gambin

Stagione dopo stagione,

GUARDANDO OLTRE LA VENDEMMIA Intervista a Roberto Lorin, giovane presidente di Conselve Vigneti e Cantine, da circa un anno alla guida della cantina sociale che trasforma 170 mila quintali d’uva, ossia il lavoro di 700 soci dell’area del Conselvano e non solo

Dai campi l’uva ha già iniziato ad essere conferita nei centri di lavorazione per essere trasformata in vino. Dai tralci, in questi giorni, si stanno spiccando esclusivamente i grappoli a bacca bianca, la vendemmia dunque non è ancora entrata nel vivo ma abbiamo voluto comunque avere qualche anticipazione su come sta andando la stagione, anche in virtù degli andamenti climatici che hanno caratterizzato l’estate creando più di qualche problema per il resto delle colture della nostra campagna. Roberto Lorin, lei è il presidente della Conselve Vigneti e Cantine, la cantina sociale di Conselve che rappresenta un colosso dell’enologia locale, lavorando annualmente circa 170 mila quintali d’uva dei circa 700 soci che conferiscono qui i loro prodotti. Che stagione è stata questa per le nostre viti? “È stata una stagione che darà sicuramente qualità, gli andamenti siccitosi che hanno caratterizzato Roberto Lorin un po’ tutta l’estate hanno garantito un’uva molto sana. Anche la grandine caduta qualche settimana fa non ha inficiato il raccolto: fortunatamente l’assenza di vento ha fatto sì che i chicchi di ghiaccio cadessero perpendicolarmente e il loro impatto è stato attutito dalle foglie delle viti. La vendemmia come lo scorso anno è iniziata già ap-

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pena dopo la metà di agosto per le uve bianche e in questi giorni si stanno raccogliendo anche i primi grappoli di Raboso. Per entrambe le tipologie stiamo riscontrando grappoli ben sviluppati e con un’ottima maturazione”. Le gelate di inizio primavera non hanno pregiudicato più di tanto la produzione? “I problemi causati dal freddo della primavera si sono manifestati a “macchia di leopardo”: qualche azienda è stata colpita di più qualcuna di meno, e anche se a prima vista i danni parevano essere ingenti, nel corso della stagione le viti hanno avuto una ripresa, sicché la perdita di prodotto è stimabile attorno al 6/7%. Un danno, tutto sommato, che potremmo definire contenuto”. Da quale varietà avete le aspettative più elevate? Se non è troppo presto trarre dei bilanci… “Se parliamo in termini di mera remunerazione, il “fenomeno” rimane il prosecco. Con i suoi 420 milioni di bottiglie venduti nel mondo rimane l’immagine dell’enologia veneta e, io direi anche, la produzione che rende remunerativa la nostra campagna. Se vogliamo essere obiettivi, non possiamo che partire da questa considerazione, ma per noi che siamo un territorio di uve a bacca rossa è ovvio aspettarsi molto dai nostri vini, ovviamente compreso il Friularo anche se la vendemmia destinata a questa produzione non è ancora iniziata”. Visto che abbiamo tirato in ballo il tema della resa economica, com’è la situazione per i produttori locali? “Se facciamo un confronto con le altre colture della campagna, la produzione vitivinicola è sicuramen-


te quella che sta meglio e questo è un aspetto fondamentale se vogliamo anche guardare al futuro di questa terra. Io da presidente di una cantina sociale questo obiettivo lo devo tenere sempre al primo posto, la soddisfazione dei soci è il motivo per il quale sono qui, ma da questo dipende anche la tenuta del comparto agricolo. Le buone rese dei vigneti in questi anni hanno tenuto i giovani in campagna, hanno permesso un ricambio generazionale alla guida delle aziende, hanno stimolato investimenti, progetti legati all’innovazione, insomma l’idea del futuro. La qualità della produzione in questi anni è cresciuta anche per effetto di questo, ma la massimizzazione dei profitti rappresenta anche quello che io definisco lo spettro del futuro della viticoltura del territorio”. In che senso? Può spiegarci meglio? “Irrigidirsi esclusivamente su quelle produzioni che oggi danno rese importanti, come nel caso del già citato Prosecco, potrebbe portare, a mio avviso, a situazioni già viste in passato. Nel momento in cui questo mercato conoscesse una flessione, spero in un tempo molto lontano, non avere un’alternativa rappresenta un grave rischio. Quindi bisogna lavorare anche sul vino del dopo Prosecco, bisogna immaginare il futuro, pianificarlo, mettere già in campo le soluzioni a quelli che potranno essere i problemi del domani”. Voi, come Conselve Vigneti e Cantine che cosa state facendo in tal senso? “Cerchiamo di puntare sulla qualità. Da anni accompagniamo i soci anche nelle scelte agronomiche, informiamo attraverso un bollettino, elaborato da tecnici che collaborano con la cantina, i trattamenti, gli accorgimenti, le strategie da tenere in campagna durante i mesi della coltivazione. Ma stiamo puntando anche su una maggiore consapevolezza “green” della campagna, dal disciplinare di produzione del Prosecco Doc, per esempio, dall’anno prossimo toglieremo la possibilità di usare il Glifosate, il Folpet e il Mancozeb. Credo molto nel mercato del biologico, chi compra chiede sempre più garanzie e qualità e questa è terra che ha ampi margini di crescita. Solo quest’anno sono stati piantati 600 ettari di nuovi vigneti e questi numeri non li dobbiamo guardare solo secondo le logiche della produzione di uva, ma è una produzione che si sta espandendo e con essa il suo indotto: chi fa impianti, chi vende macchine agricole, chi segue l’offerta dei fitofarmaci, tutto questo rappresenta un’economia in crescita ma, a mio avviso, proprio per evitare gli errori del passato a cui facevo riferimento prima, va governata con intelligenza”. Va gestita… “E certo, se confrontiamo questa terra con il Trevigia-

no, dove la viticoltura ha saturato ogni angolo di campagna, qui si può solo crescere, potremmo arrivare anche ad essere il terzo polo vitivinicolo del Veneto dopo Treviso e Verona. Abbiamo le superfici, abbiamo la capacità di produrre ottimi vini, abbiamo davanti gli errori fatti dagli altri e che noi possiamo evitare”. In che modo? “Lavorando con le altre cantine del territorio per organizzare una crescita equilibrata, nel senso che non devono crescere solo le superfici vitate ma anche la cultura della produzione vitivinicola, per eliminare gli squilibri e mantenere uno standard reddituale sicuro per i produttori, per crescere in qualità e prendersi quelle fette di mercato che premiano chi lavora bene, nel rispetto dell’uomo e del su ambiente”. E il Friularo che spazio ha in questa “vision” del futuro? “Ne è il simbolo, è il vino che rappresenta questa terra e la sua storia: dobbiamo farlo conoscere di più, dovremmo lavorare con le aziende distributrici affinché si trovi nelle carte dei vini di tutti i ristoranti e delle enoteche del territorio e lavorare anche sull’appeal che questo nostro straordinario prodotto può trovare all’estero, penso al Nord Europa o alla Cina dove amano i vini strutturati, corposi, dalla gradazione alcolica sostenuta. Nel Veneto non c’è solo l’Amarone…”.

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A OGNUNO IL SUO CALICE… di Emanuele Cenghiaro

SOAVE

CHARDONNAY

ROSÈ

BONARDA

NERO D’AVOLA

MERLOT

PINOT NERO

PASSITO

PORTO

CHAMPAGNE PROSECCO

MOSCATO

NUOVI VINI MA ANCHE NUOVE PROPOSTE

nel tempo della vendemmia

Cinque etichette per un viaggio nella grande enoteca chiamata Veneto

F

edeli al nostro proposito di suggerire a ogni numero alcune etichette che ben rappresentino la nostra regione e ci facciano compiere un piccolo viaggio nelle più interessanti realtà vitivinicole venete alla ricerca non solo di vini blasonati, che non possono comunque mancare, ma anche di qualche chicca e curiosità, questa volta abbiamo selezionato

una Celebrità (i vini di cui avete forse sentito parlare e che almeno una volta vi piacerebbe assaggiare), una Riscoperta (vini da uve di un tempo o che non si facevano più da tempo), una Sincerità (o vino “sincero”), una Tradizione (andiamo sul sicuro!) e per finire una proposta per i Giovani (ma in realtà adatta a tutti).

LA CELEBRITÀ (VICENZA) MACULAN, tris con un re e due regine rosse: PALAZZOTTO, CROSARA E FRATTA Breganze vuol dire Maculan, non ci piove. Per la storia, per i prodotti eccellenti e per il titolare della cantina, uno dei “padri” della rinascita del vino italiano e non solo veneto. Non si finirebbe di ascoltarlo, quando racconta le storie della sua azienda e le origini dei suoi vini. E scopri che non stai bevendo un prodotto, ma una storia. Se Breganze vuol dire uva vespaiola e, soprattutto, Torcolato, per misurare la grandezza di Maculan bisogna provare i rossi, nati per rivaleggiare con i bordolesi: Palazzotto e Crosara, Cabernet Sauvignon il primo, Merlot il secondo. E soprattutto Fratta, un blend di entrambi, la pietra miliare: nasce da un terreno vulcanico e tufaceo, uve

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vendemmiate a mano con selezione dei grappoli, un anno di fermentazione in barrique nuove di rovere francese. Colore intenso e vivace come i profumi di bacche rosse, tannini eleganti.

Per misurare la grandezza di Maculan bisogna provare i rossi, nati per rivaleggiare con i bordolesi


A OGNUNO IL SUO CALICE… LA RISCOPERTA (VENEZIA) LA VENISSA TARGA BISOL, degno calice di un doge Un raro vitigno recuperato e coltivato in un luogo magico: l’isola di Mazzorbo, a fianco di Burano. Qui c’è un vero “clos”, termine francese che indica un vigneto recintato da muretto: meno di un ettaro in cui cresce la Dorona, l’uva d’oro dei dogi, dimenticata da tempo e recuperata tra orti e conventi. Oggi è un nettare speciale, vinificato come fosse un rosso, con lunga macerazione sulle bucce per estrarne aromi, complessità e colore. L’iniziativa si deve a Gianluca Bisol: con le 4mila piante produce 38 quintali di uve, raccolte a mano, portate in barca in terraferma e vinificate sui Colli Euganei. Se ne producono 4mila bottiglie da mezzo litro, vendute a cifra appropriata. Le bottiglie, numerate, sono rifinite a mano da una vetreria di Murano; l’etichetta è a foglia d’oro prodotta a mano dalla famiglia Berta Battiloro di Venezia e

fusa nel vetro. Il vino prende il nome del luogo dove si coltiva, Venissa: qui c’è il ristorante con annesso resort dove si può mangiare a contatto con le viti e passeggiare tra i filari.

Con 4mila piante vengono prodotti 38 quintali di uve, raccolte a mano, portate in barca in terraferma e vinificate sui Colli Euganei. Ne escono 4mila bottiglie da mezzo litro, numerate e rifinite a mano da una vetreria di Murano con etichetta a foglia d’oro

LA TRADIZIONE (VERONA) OTTELLA e si va sul sicuro Il Lugana è di moda, è vero. E la sua Doc compie nel 2017 i 50 anni e cresce sempre più di importanza. Ma non basta il nome a fare il vino. È bene sperimentare: perché vi sono Lugana di pianura, di lago e di collina. Quello di Ottella, la cantina dei Montresor, è una proposta che va sul sicuro. La gamma è completa, c’è il vino base, ottimo sempre, c’è il cru, Le Creete, e c’è la riserva, il Molceo. Tutti tra i 12 e i 12,5 gradi alcool. Il primo è perfetto a tutto pasto, di pesce naturalmente ma anche con preparazioni di verdure, il secondo potrebbe essere l’aperitivo alternativo allo spritz da abbinare poi a pesce più pregiato e primi piatti profumati; quanto al terzo, richiama pesce di lago e persino carni bianche, anche grasse come l’oca, o i formaggi erborinati.

La gamma è completa, c’è il vino base, ottimo sempre, c’è il cru, Le Creete, e c’è la riserva, il Molceo. Tutti tra i 12 e i 12,5 gradi alcool 27


A OGNUNO IL SUO CALICE… LA SINCERITÀ (PADOVA) VIGNE AL COLLE, BACCARI: il temperamento vulcanico degli Euganei È piccola la cantina di Martino Benato, Vigne al Colle, una delle molte che occupano i pendii dei Colli Euganei e non superano i pochi ettari. Ma vincono premi. Lui è uno dei “vignerons” schietti, che fanno vino per passione ma anche per guadagnarsi da vivere, artigiani che quindi cercano di fare le cose per bene altrimenti il prodotto non si vende. È un peccato non andarli a incontrare: conoscono ogni sasso dei loro vigneti. Vigne al Colle si trova a Rovolon e il suo Baccari 2016 ha vinto il Primo premio e la Medaglia d’oro alla Selezione del Consorzio 2017 nella sezione Bianco Colli Euganei Doc. Raccoglie la sapidità e la mineralità del terreno vulcanico collinare in cui nasce. È un’alternativa a ben più blasonati bianchi italiani per chi vuole provare un sapore

diverso, al giusto prezzo, portandosi a casa un pezzo di cantina. Abbinare a carni bianche e a primi piatti saporiti, giocando con i profumi floreali.

Martino Benato, “vignerons” schietto ha fatto suo il Primo premio e la Medaglia d’oro alla Selezione del Consorzio 2017 nella sezione Bianco Colli Euganei Doc

PER I GIOVANI (TREVISO) “SPRINGO”, Conegliano Prosecco Superiore Docg ma con una marcia in più “Springo” è un nome originale: nel trevigiano indica chi ha una marcia in più, richiama la parola sprint, insomma. Per gli altri veneti ha una certa assonanza con la parola spritz. All’estero invece lo associano alla primavera, “spring”. Insomma, con questo nome ci si gioca come si vuole: non è una scelta appropriata per un prosecco? La cantina Le Manzane di San Pietro di Feletto, proprietà della famiglia Balbinot, la pensa così e ne ha fatto uno dei suoi prodotti di punta: anzi due. Perché Springo Conegliano Prosecco Superiore Docg esiste in doppia versione: il “Blue Rive di Formeniga” che è il brut, l’aperitivo per eccellenza, ideale anche per continuare il pasto, e il “Bronze Rive di Manzana”, che è il dry, ovvero quello quasi

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dolce (più di un extradry) che si può bere a tutto pasto e si può azzardare anche con alcuni dolci. L’abbinata perfetta per fare bella figura.

La cantina Le Manzane di San Pietro di Feletto lo propone in due versioni: il “Blue Rive di Formeniga” che è il brut, l’aperitivo per eccellenza, ideale anche per continuare il pasto, e il “Bronze Rive di Manzana”, che è il dry, ovvero quello quasi dolce


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benvenuto autunno

Lo storico ristorante della località Bornio di Lusia è la patria di gourmet e buon gustai che ai sapori della tradizione abbinano la fantasia dell’innovazione Le stagioni si susseguono ininterrottamente da quasi due secoli alla Trattoria Al Ponte della famiglia Rizzato a Lusia. Era il 1840 quando l’orologio si è messo in moto e da allora, una dopo l’altra, le stagioni ne hanno cadenzato il tempo, fissato i parametri, scelto i colori e quelli dell’autunno forse sono i più attesi. Merito di una terra fertile vocata agli orti che con la fine dell’estate mostra la sua abbondanza e merito di una capacità di portare a tavola esclusivamente il meglio che questa offre secondo il calendario, condita solo con il rispetto della tradizione, che in un ristorante che ha quasi duecento anni richiede le sia dato del “Lei”, senza però rinunciare all’innovazione e alla creatività che è la vera cifra del locale. Così con la fine dell’estate è benvenuta la zucca, visitata in mille modi, i funghi, il tartufo bianco, i ri-

sotti, le paste fatte in casa e le minestre, le carni, compresi gli animali di bassa corte di cui l’oca presto diventerà regina, il baccalà, anch’esso proposto nelle sue varianti: dal mantecato alla vicentina e da quello “alla polesana” fino alla cappuccina, che ogni anno rende onore alla cucina, passando a pieni voti il vaglio di “papille” preparate, quali quelle della giuria del Festival dedicato che proprio da settembre coinvolge l’intero Triveneto. A tanta poesia si affiancano i dolci, sempre espressione della creatività della casa, e i vini: figli anch’essi di un’attenta ricerca che ha portato alla selezione delle migliori etichette nazionali e internazionali, comprese quelle di quell’espressione locale, interpretata dai Colli Euganei, strizzando l’occhio ai vini naturali.

Trattoria al Ponte Srl - Via Bertolda 27 - 45020 Lusia (RO) Tel. 0425 669890 - Fax 0425 650161 info@trattorialponte.it - www.trattorialponte.it


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TEMPO DI FESTA, TEMPO DI VENDEMMIA DEL SOLE Per la storica cantina di Due Carrare il momento della maturazione e della raccolta dell’uva è fatto di lunghe giornate trascorse tra il sole dei filari ed il fresco della cantina, di braccia stanche, di mani colorate di mosto e di un vivo brulicare tra i vigneti

“L’abbiamo chiamata la vendemmia dei vini del Sole, quella di quest’anno: il caldo torrido dell’estate, la mancanza di pioggia ci hanno fatto pensare al Sud d’Italia, alle caratteristiche di quei vini… ne beneficeranno i nostri rossi: il Merlot Stradella, il Cabernet Algio, il Rosso 01/01 e il nostro Friularo negli ultimi anni riscoperto e raccolto con “Vendemmia Tardiva”… ma anche i nostri bianchi saranno pieni di passione, la stessa che mettiamo da oltre cento anni nelle nostre bottiglie, perché per noi la vendemmia rimane una gran bella festa!” • Famiglia Dal Martello • La Mincana - Via Mincana, 52 - 35020 Due Carrare (PD) - Tel. 049 525559 - Fax 049 525499 www.lamincana.it - info@lamincana.it


DIVINO PARLAR di Silvano Bizzaro - Sommelier s.bizzaro@alice.it

“FIOR D’ARANCIO DOCG” La Mincana:

l ’oro dei colli euganei!

C

i sono aziende capaci di interpretare l’anima e la ricchezza di un territorio fino a diventarne la bandiera: come La Mincana - azienda della famiglia Dal Martello che da poco ha tagliato il ragguardevole traguardo dei suoi 103 anni. Azienda storica, dunque, affermata per quanto rigarda i vini rossi e di recente anche sui vini da bacca biana. Ho avuto modo di degustare il loro Fior d’Arancio DOCG, una delle etichette più importanti della linea di produzione ufficiale dell’azienda e oggi è presente nelle sue tre versioni: Spumante, Passito e Secco, realizzati rispettando i dettami del disciplinare di produzione di questo prodotto della DOC Colli Euganei che sta conquistando sempre più i mercati nazionali e internazionali. Tre bottiglie davvero straordinarie che rispettano la fama di questa cantina, ma la mia recensione la dedico al Fior d’Arancio DOCG secco 2016. Stiamo parlando di un vino ottenuto con uve vendemmiate manualmente verso la metà di settembre, pigia-diraspatura con vinificazione in bianco; successiva fermentazione per circa

10 giorni con pulizia del mosto e aggiunta di lieviti selezionati, il tutto in vasi vinari termocontrollati (1617° C). Il vino ha successivamente riposato per circa 3-4 mesi nelle sue fecce nobili ed è stato imbottigliato a febbraio di quest’anno. Altri 1-2 mesi in bottiglia e poi il tappo può essere fatto saltare. E così è stato per la mia degustazione e devo dire che al primo impatto la brillantezza e la trasparenza del prodotto hanno denotato già un grande vino. Il colore è un bel giallo paglierino intenso con riflessi dorati. Al naso il bouquet è complesso ed elegante: sentore di agrumi e note fruttate di frutti a pasta bianca dove spicca una nota di pesca. Si avvertono pure note fruttate di mela e pera williams. Il tutto riconduce ad un gusto tendenzialmente dolce per gradevolezza e piacevolezza non per particolari residui zuccherini. Al palato spicca una piacevole nota di freschezza, sapidità con una mineralità che è tipica di questo territorio dei Colli Euganei, il tutto avvolto al gusto tipico aromatico del moscato giallo.

La Scheda di Con i piedi per terra ⊲ ANALISI VISIVA

Colore giallo paglierino/verdolino, con evidenza di particelle sospese per la presenza dei prodotti di rifermentazione

⊲ ANALISI OLFATTIVA

Note floreali di fiori bianchi e note aromatiche fruttate di mela golden, pera, note esotiche (dall’ananas… alla banana); sentore di nota minerale

⊲ ANALISI GUSTATIVA

Vino secco, freschezza e grande bevibilità, pulizia del palato. Buona sapidità e mineralità

⊲ RETROGUSTO

Persistente

⊲ ABBINAMENTO con

Antipasti leggeri all’italiana a base di carni bianche, primi piatti leggeri, piatti estivi, risotti alle erbette, asparagi, antipasti e primi piatti a base di pesce. Formaggi freschi a pasta molle

i piatti del territorio

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Se la volpe ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE del Prof. Adriano Mollica

AVESSE ASSAGGIATO QUELL'UVA…

Dai grappoli oltre al vino si ottengono una infinità di sostanze che fanno bene al corpo: lo proteggono dal tempo e rafforzano il cuore

V

i sono un grande numero di osservazioni e studi scientifici che hanno stabilito legami tra la dieta e la prevenzione delle malattie e altri studi che hanno esplorano sistematicamente la validità scientifica e i fondamenti delle proprietà di alcuni alimenti nel mantenere un buono stato di salute dell’organismo. Frutta, vegetali, erbe, spezie rappresentano un vasto panorama su cui investigare. Il potenziale dell’uva di modulare numerosi effetti biologici sono tuttora oggetto di studio. Sono tuttavia già ampliamente documentate le attività positive verso il sistema cardiovascolare, diabete, iperglicemia, funzione immunitaria, cancro, funzioni cognitive, salute mentale, attività antimicrobica. IL VINO ROSSO, POTENTE CARDIO PROTETTORE È stato accertato che il consumo di vino rosso, e altri prodotti derivati dall’ uva, contengono grande concentrazioni di polifenoli e sono quindi associati a una diminuzione delle malattie cardiovascolari. Tale evidenza risulta anche dalle ricerche che negli ultimi anni hanno indagato quello che nel mondo della medicina costituiva il “paradosso francese”. Ossia il fenomeno per il quale in Francia, nonostante il relativamente alto consumo di alimenti ricchi in acidi grassi saturi, l'incidenza di mortalità per malattie cardiovascolari è relati-

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vamente bassa, molto inferiore rispetto ad altri Paesi nord europei e invece più simile ai paesi come l’Italia, dove lo stile di vita e l’alimentazione si basa su una dieta meno ricca di grassi per effetto dieta mediterranea, che come è noto privilegia il consumo di cereali, frutta, verdura, semi, olio di oliva (grasso insaturo). A mitigare gli effetti di una così sbilanciata dieta dei cittadini d’Oltralpe pare concorra proprio il consumo di vino rosso. Dunque pur non volendo entrare nel merito specifico di tutti i benefici ben noti del vino, che in un consumo eccessivo sono comunque inficiati dalla presenza dell’ alcool, va tuttavia riconosciuto che il vino rosso è un potente cardio protettore. L’UVETTA SULTANINA, FONTE DI VITAMINE, MINERALI, FIBRA E ANTIOSSIDANTI L’uvetta sultanina, è un tipo di uva seccata tramite esposizione al sole o al calore artificiale, o aria o tramite essiccamento in forni. Alcuni studi hanno dimostrato come questo tipo di frutta possa essere una fonte di vitamine, minerali, fibra e antiossidanti. Non contengono grassi né colesterolo, contengono un’alta quantità di fruttosio. Tuttavia la qualità del prodotto disponibile sul mercato può variare molto, i migliori prodotti contengono alte concentrazioni di antiossidanti, polifenoli, flavonoidi e vitamine.


ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE

IL “VIN COTTO” RIMEDIO ANTICO PER CURARE GLI STATI FEBBRILI, RAFFREDDAMENTI E MAL DI GOLA Un altro prodotto tradizionale dell’uva è il vinocotto inserito nel 2000, per effetto di un decreto ministeriale, nell'elenco ufficiale dei prodotti agro-alimentari tradizionali delle regione Marche e Abruzzo. Il vinocotto o mosto cotto era prodotto sin dai tempi degli antichi Romani. Lo usavano come ingrediente per arricchire carni ed altri piatti e nelle torte come edulcorante; prima che venisse introdotto l'uso dello zucchero di canna veniva anche mischiato al miele. Usavano anche il mosto cotto diluito con acqua come una dolce bibita energetica, o come base per creare un "vino" fortemente inebriante. Tradizionalmente è utilizzato per la preparazione di molteplici prodotti della tradizione culinaria, tra i quali spiccano le tipiche "pittule" pugliesi, i taralli neri, i mustazzoli, le ciambelle al mosto prodotte nel mese di novembre in alcuni comuni del Lazio. Il vinocotto è ricco di polifenoli antiossidanti benefici per la salute e veniva usato tra-

dizionalmente per curare gli stati febbrili, raffreddamenti e mal di gola. ZUCCHERO DELL’UVA, DOLCIFICANTE DAL VALORE AGGIUNTO Lo zucchero d’uva, è un dolcificante naturale di alta qualità, largamente utilizzato oltre che nel settore vitivinicolo per aumentare la gradazione alcolica dei vini, anche nell’industria alimentare come ingrediente fondamentale per la preparazione di marmellate, composte, bevande a base di frutta fresca, soft drinks o cocktails di frutta, succhi d'uva fresca e per la produzione dell'aceto balsamico. Lo zucchero d’uva è una soluzione acido-zuccherina che si ottiene a seguito della pigiatura delle uve mediante un processo di purificazione, un processo completamente diverso quindi dalla cristallizzazione attraverso la quale invece si ottiene il normale saccarosio, ossia lo zucchero da tavola che tutti conosciamo. Lo zucchero ottenuto a seguito del processo di purificazione del succo d’ uva, mantiene nella sua composizione il 2% di polialcoli dolci e di “zuccheri minori”. Nello zucchero da tavola, questi componenti non sono presen-

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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE ti. Inoltre, lo zucchero dall’ uva, è una miscela di monosaccaridi tipo il fruttosio, il glucosio, polialcoli dolci e altri zuccheri minori sono presenti in forma libera e possono così esprimere le loro caratteristiche e proprietà. Queste differenze, anche se possono sembrare molto tecniche ed astratte, sono in realtà di grande importanza in quanto i polialcoli dolci e zuccheri minori, differenziano lo zucchero d’uva dagli altri zuccheri, e gli conferiscono il valore aggiunto che possiede in termini organolettici, di aroma, e di sapore e di salubrità. Per questo motivo, l’industria alimentare privilegia sempre di più l’utilizzo dello zucchero d’uva per la preparazione dei propri prodotti rispetto ad altri dolcificanti. IL MOSTO UN CONCENTRATO DI VITAMINE Nel mosto d’uva sono presenti numerosi acidi naturali tra cui i più importanti sono l'acido tartarico, l'acido malico e l'acido citrico. Le sostanze minerali sono presenti in particolar modo nelle bucce e nei vinaccioli, sono molto importanti poiché influenzano la sapidità e svolgono un ruolo fondamentale per l'accrescimento e l'attività fermentativa dei lieviti qualora il mosto venga destinato alla vinificazione. I composti fenolici hanno una grande importanza sia a livello nutrizionale in quanto antiossidanti, sia a livello organolettico influenzando il colore e il sapore del prodotto che si otterrà. Le sostanze azotate costituiscono un ottimo alimento dei lieviti alcolici, per cui

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la mancanza o carenza di sostanze azotate, presenti nella buccia dell’uva, può creare diversi problemi durante la fermentazione. Infine nel mosto d’uva sono presenti numerose vitamine tra cui: vitamina C, le vitamine del gruppo B, molto utili ai lieviti, e la vitamina A presente nei vinaccioli. In conclusione, al consumo moderato di vino, e altri prodotti di alta qualità derivanti dall’uva, o altri alimenti contenenti polifenoli, è associato ad una diminuzione del rischio di malattie cardiovascolari, inoltre sono stati pubblicati lavori scientifici in cui si è concluso che l’uva e prodotti derivati hanno effetti migliorativi sul diabete di tipo 2, effetti benefici sulla funzione immunitaria e prevenzione dal cancro. Anche l’estratto dei semi è stato studiato con promettenti risultati. Questi dati suggeriscono che l’uva e i suoi derivati potrebbero produrre effetti benefici sulla salute dell’uomo.


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il

TORTELL AIO MATTO matto furioso e privo di buon senso e´ chi della pasta non si gode ogni senso La produzione è “su misura”, ogni richiesta viene esaudita sia per i ristoranti che per le botteghe, con forniture già in porzioni e paste ripiene pastorizzate e in ATM per gestire meglio le scadenze, e per le famiglie, perché qui ogni ricetta trova l’entusiasmo per il gusto della genuinità e la certezza del prodotto fresco “A farine ricercate, particolari, “altamente selezionate” e alle uova rigorosamente fresche, aggiungiamo solo il lavoro delle mani perché il valore aggiunto delle nostra pasta sta nei gesti antichi e nel rapporto con le materie prime. Per questo i colori dei nostri prodotti sono quelli del paesaggio e con l’arrivo dell’autunno si sono fatti intensi. La zucca dipinge le nostre paste ripiene, così come le melanzane, le zucchine e i peroni, mentre le morbide carni ne intensificano i sapori, ne esaltano la consistenza e il piacere al palato. Lavoriamo per assecondare ogni richiesta, lavoriamo ogni giorno perché la vostra pasta sia davvero fresca…”

La pasta ripiena ha la sua storia: nesce, cresce, evolve. Ha un’anima al suo interno che non va nascosta con il sugo PASTE RIPIENE DOVE TROVARCI La lavorazione avviene tutta a mano e i ripieni vengono realizzati solo con materie prime fresche e di stagione secondo un ricettario che va dalle verdure alla carne e dal pesce ai formaggi assecondando ogni richiesta del cliente: • Tortellini • Caramelle • Tortelloni • Cappellacci

• Crespelle

• Lasagne al forno

•G nocchi classici di patate o già conditi con spinaci, pomodoro, nero di seppia, zucca e altri prodotti di stagione

PASTA LAMINATA E TRAFILATA La lavorazione a mano garantisce la giusta nervatura e consistenza della sfoglia: PASTA LAMINATA • Tagliatelle • Papardelle

Tutti i prodotti possono essere acquistati presso il punto vendita di via I Maggio, 57 a Boara Pisani, tutte le mattine dalle 8.30 alle 12.30 e dal giovedì al sabato anche al pomeriggio con orario dalle 16.30 alle 19.30 e presto anche on-line visitando il sito: www.iltortellaiomatto.it Aperto anche la domenica dalle 9.00 alle 12.30, Il laboratorio è sempre operativo per ordini e prenotazioni, i mattarelli si fermano solo il lunedì il

TORTELL AIO MATTO

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IL TORTELLAIO MATTO Sas via I Maggio, 57 - Boara Pisani (PD) - Cell. 345 1060541 www.iltortellaiomatto.it - info@iltortellaiomatto.it - Seguici su Facebook e Twitter per tutte le novità


Azienda Scudellaro carni bianche dall' effetto salute “Noi siamo quello che mangiamo” diceva il filosofo Ludwig Feuerbach, e mangiare sano nasce prima di tutto dalla scelta della qualità degli alimenti che portiamo nella nostra cucina La storica Azienda è affermata nel settore dell’allevamento di animali di “bassa corte”: polli, anatre, oche, faraone, capponi, e tacchinelle, ruspanti, ossia cresciuti liberi in grandi recinti tra il verde della campagna a Pontecasale di Candiana. Scudellaro è il marchio conosciuto sul mercato per la qualità dei prodotti, un’eccellenza data dal rispetto degli animali.

EVITA DI FARE LA FIGURA DEL POLLO, quello che porta questo marchio è il vero Latte&Miele!

Azienda Agricola Scudellaro S.Agr.S. - Via Valli Pontecasale, 16 - 35020 Candiana (PD)


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Pollo latte&miele, campione di Omega 3

L’alimentazione è determinante per un pollo di qualità e all’azienda Antichi Sapori lo sanno bene, per questo gli animali vengono nutriti solo con cereali e sfarinati prodotti in azienda ed erba medica. Per i polli latte&miele la consueta razione, negli ultimi 3-6 mesi di vita, viene integrata con latte in polvere, che garantisce un sano apporto di proteine e calcio, e miele millefiori dei Colli Euganei, per la giusta quantità di minerali, vitamine e micronutrienti dalle note proprietà disintossicanti ed antisettiche. La carne dei “polli latte&miele” è delicata, tenera e profumata, inoltre, rispetto a quella dei polli ruspanti, ha un maggior contenuto di acidi grassi omega 3 utili nella prevenzione del diabetee nella prevenzione di molte malattie anche gravi

Il latte apporta calcio mentre il miele è un pieno di minerali, vitamine e micronutrienti dalle note proprietà disintossicanti ed antisettiche

Le carni bianche fanno bene, ma se sono di animali ruspanti fanno molto meglio Mangiare sano con la dieta mediterranea significa mettere in tavola una porzione di carne, meglio se bianca, in 2 - 3 pasti alla settimana. Il pollo è senz’altro tra le scelte migliori: la sua carne è leggera e digeribile ed è adatta ad essere consumata a tutte le età. Apporta proteine di alta qualità, ossia ricche di amminoacidi essenziali, minerali e vitamine del gruppo B, soprattutto la B12.

Una porzione del peso di 100 g di pollo contiene in media: • 0,8 g di lipidi • 23,3 g di proteine • fornisce circa 100 kcal. Mantenere sotto controllo l’apporto di grassi, soprattutto saturi, è importante per tutti ma lo è ancora di più per chi soffre di alcune patologie o ha un elevato rischio cardiovascolare: la carne del pollo allevato all’aperto è senz’altro tra le più indicate.

Stiamo lavorando ad una GRANDE NOVITÀ, presto saremo pronti... Tel. 049 5349944 - Fax 049 7383364 - info@scudellaro.it - www.scudellaro.it


Caseus Veneti LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi

VETRINA DEI FORMAGGI REGIONALE Il 23 e 24 settembre Villa Contarini di Piazzola sul Brenta torna a ospitare il celebre concorso caseario dedicato alle produzioni venete

Caseus Veneti è il Concorso regionale dei formaggi del Veneto, arrivato quest’anno alla 13esima edizione si terrà il 23 e 24 settembre a Villa Contarini di Piazzola sul Brenta. E’ un evento sostenuto dalla Regione Veneto, Assessorato al Turismo, per tramite della Direzione Promozione Turistico Integrata. L’evento è promosso da un comitato composto dai sette Consorzi di Tutela dei formaggi DOP del Veneto, che a loro volta hanno incaricato il Consorzio Tutela Grana Padano quale soggetto capofila

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LA FORMA DEL LATTE

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efinire il formaggio un benedetto dono della natura è quanto mai azzeccato, certo l’intervento dell’uomo è fondamentale ma è proprio la natura la responsabile di ogni fase che vede il latte, delle diverse specie di animali, trasformarsi prima in cagliata e poi in pasta. Ho definito e ripetuto molte volte questo pensiero in contesti diversi, per far comprendere all’interlocutore che la terra e le diverse situazioni legate alla tradizione, o la semplice complicità del sole, della luna e delle intemperie, determinano un intramontabile concetto che da luogo a una denominazione, Paese del formaggio. Proprio così, l’Italia del formaggio non è solo una mappa, peraltro ancora del tutto ignorata, ma una realtà da riscoprire e naturalmente da valorizzare. Non c’è territorio nel Bel Paese che non sia caratterizzato da uno o più formaggi, tant’è che spesso sono denominati con toponimi di città, paesi, fiumi, montagne. Uno degli aspetti sconosciuti del formaggio è proprio riguardante la sua origine, ovvero la sua scoperta, che è fortemente influenzata delle caratteristiche morfologiche e climatiche e di conseguenza dalle necessità esistenziali dell’uomo. Mentre sulle Alpi venete il formaggio, per le necessità alimentari del suo popolo, veniva fatto togliendo una buona parte del grasso da trasformare poi in burro, nel lontano Sud il grasso era parte essenziale del formaggio stesso, anche e soprattutto quello fresco. È plausibile quindi affermare che il formaggio è il degno e principale rappresentante del territorio, e per questo amato, ma poco conosciuto anche nel Veneto che di prodotti tipici ne ha davvero molti. Sono molti

Al Veneto appartengono ben otto Dop e trentadue formaggi registrati nelle liste delle produzioni agroalimentari tradizionali anche i formaggi frutto della fantasia dei casari, non ancora iscritti nelle liste dei prodotti agroalimentari tradizionali. Lo saranno solo quando verrà dimostrata la loro presenza sul territorio per un periodo non inferiore a 25 anni. Un modo per conoscere i formaggi è quello di “radunarli” invitando i produttori a farlo, in manifestazioni meglio definite concorsi, che rappresentano la più bella delle vetrine offerte al consumatore. Il più importante e ambito concorso caseario del Veneto è Caseus Veneti, manifestazione culturale che mette in mostra alcune centinaia di formaggi del territorio regionale.

Il giudizio della giuria, che viene espletato da un’attenta analisi del formaggio nelle sue peculiarità organolettiche, tramite analisi sensoriale, visive esterne e interne, olfattive, aromatiche, e del sapore, viene rappresentato su una scheda che il giudice compila assegnando diversi punteggi, indispensabili per stilare una graduatoria che definisce i premi da assegnare

Caseus Veneti è considerata un evento di grande importanza nazionale, che l’Italia del formaggio vede ogni anno imporsi per le sue finalità e capacità organizzative nonché di professionalità e qualità dei prodotti presenti. Per citare alcuni numeri, al Veneto appartengono ben 8 formaggi Dop dei quali solo il Taleggio, la cui collocazione di origine è la provincia di Treviso ben distante dal territorio lombardo-piemontese maggiormente conosciuto per questo formaggio, non viene prodotto, e 32 registrati nelle liste delle produzioni agroalimentari tradizionali. Il concorso caseario non dev’essere considerato essenzialmente una gara, i casari non sono in competizione fra loro, ma un’occasione per mettere in gioco le proprie capacità di trasformazione che non solo soddisfino il consumatore ma anche una giuria di esperti. Il giudizio della giuria, che viene espletato da un’attenta analisi del formaggio nelle sue peculiarità organolettiche, tramite analisi sensoriale, visive esterne e interne, olfattive, aromatiche, e del sapore, viene rappresentato su una scheda che il giudice compila assegnando diversi punteggi, indispensabili per stilare una graduatoria che definisce i premi da assegnare. Il raggiungimento del “podio” è certamente importante ma lo è maggiormente la valutazione di eccellenza che viene concessa ai formaggi che ot-

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LA FORMA DEL LATTE Il concorso caseario non dev’essere considerato essenzialmente una gara, i casari non sono in competizione fra loro, ma un’occasione per mettere in gioco le proprie capacità di trasformazione che non solo soddisfino il consumatore ma anche una giuria di esperti

Il concorso caseario rilascia, oltre alla qualifica, un parere di conformità che per i formaggi Dop segue le indicazione del disciplinare di produzione, mentre per gli altri formaggi tiene conto delle caratteristiche positive e dei difetti in funzione della tipologia del formaggio. Questo parere è importante per il casaro che l’accoglie come una sfida per migliorare sempre più il formaggio, e mantenere o ottenere un giudizio di eccellenza

tengono un punteggio superiore agli 85 punti. E a rappresentare il Paese del formaggio sono proprio le eccellenze che identificano e caratterizzano il difficile lavoro del casaro, il quale riesce a sfruttare l’influenza del territorio, anche a rischio di ottenere imperfezioni, a dimostrazione che il formaggio è materia viva. Il concorso caseario rilascia, oltre alla qualifica, un parere di conformità che per i formaggi Dop segue le indicazione del disciplinare di produzione, mentre per gli altri formaggi tiene conto delle caratteristiche positive e dei difetti in funzione della tipologia del formaggio. Questo parere è importante per il casaro che l’accoglie come una sfida per migliorare sempre più il formaggio, e mantenere o ottenere un giudizio di eccellenza. La “competizione” ha significato d’incontro non di scontro, non vi sono vincitori ma formaggi capaci di entrare nell’ambita classifica di prodotti eccellenti. Il Veneto è quindi una regione, di formaggi, rappresentata da importanti diversità geomorfologiche, dall’Adriatico alla pianura sterminata del grande Po, alle Dolomiti. Da quote a volte inferiori allo 0 idrografico agli oltre 3.000 metri delle vette. Diversità che sottolineano e definiscono le caratteristiche tipologi-

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che dei formaggi, dalle paste molli fresche a quelle dure di lunga stagionatura, il Veneto le contempla tutte. Dalla grande pianura, rappresentata dalle Dop come Casatella Trevigiana, Grana padano, Provolone valpadana, alla montagna dove vengono prodotte le Dop come l’Asiago, il Montasio, il Piave, il Monte veronese, ma anche formaggi di malga come il Bellunese o l’Agordino che era, ora non lo è più, un presidio Slow Food. Da Caseus Veneti bisogna attendersi uno specchio della realtà casearia regionale, un modo di comunicare al consumatore che è possibile conservare e valorizzare i prodotti tradizionali. È pur vero che il casaro veneto non ha timore di esporre i propri prodotti anche alla critica, cosciente che è auspicabile ottenere quel messaggio capace di aiutarlo a migliorare il formaggio, nella consapevolezza che il formaggio perfetto non può esistere.


Caseificio AI PRÀ

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SOLO SE AVETE UN DEBOLE PER I FORMAGGI GENUINI

L’intera filiera di produzione viene seguita in azienda, dal seme che diventa foraggio per la mucca al latte che viene trasformato in formaggio tutto viene prodotto nel segno della naturalezza Se per i formaggi genuini avete un debole, allora il nome del Caseificio Ai Prà è opportuno segnarlo in agenda, oppure scolpire i profumi dei suoi prodotti nella memoria olfattiva. No, forse meglio sulle papille gustative: perché il sapore dei formaggi prodotti qui è quello inconfondibile delle produzioni nostrane, quelle, per intenderci, che il casaro fa come se le facesse per la sua famiglia. In questo caso però è opportuno parlare al femminile, perché l’industria del Caseificio Ai Prà sta nelle mani e nella fantasia di Antonella, che lavora circa 6-7 quintali di latte vaccino trasformandolo in diversi tipi di formaggio, impiegando solo caglio naturale di vitello, fermenti, sale e la forza della sua passione. Niente conservanti, niente acido citrico (nemmeno nelle mozzarelle), niente che non sia naturale. Il suo segreto è la stagionalità, ma soprattutto il latte che il marito Pier Giorgio fa arrivare direttamente dalla stalla, distante dal caseificio appena pochi metri. Chilometri zero, appunto. Come a chilometri zero è l’alimentazione delle 50 mucche pezzate italiane in lattazione. Il foraggio, il mais, l’orzo e il sorgo, infatti, sono coltivati in azienda. Anche dalla stalla sono banditi i bari, niente Ogm, niente farine a base di carni, ma solo produzioni naturali, rispettose della biodiversità e della sostenibilità ambientale. Attenzioni che un bestiame in piena salute ricambia con un latte di qualità superiore che nella sua interezza, e grazie all’abile arte casearia di Antonella, si presta a produzioni di formaggi e latticini di straordinaria qualità.

La caciotta è la regina del caseificio e con il cambio di stagione cambia le sue aromatizzazioni in base ai prodotti disponibili. Così in questa stagione sono da provare e riprovare le caciotte alle noci, al miele, alle vinacce. Ma dal banco non mancano mai le toselle, eccellenti anche grigliate, e i freschissimi come le mozzarelle o la ricotta. Tra gli stagionati spicca Il Nostrano, che qui viene affinato con il miele di castagno o in barrique di legno riempite di fieno, Il “Vecchio” con dieci mesi di stagionatura; Il celebrato Ai Prà dal sapore di latte appena munto, si scioglie in bocca liberando una nota dolce e lievemente acidula e tra i punti di forza ci sono anche gli yogurt…in tantissimi gusti

DOVE TROVARE I PRODOTTI DEL CASEIFICIO AI PRÀ

Il banco dei prodotti del caseificio Ai Prà si sposta durante la settimana: • Il martedì pomeriggio dalle 17.00 alle 20.00 in piazza di Due Carrare • Il mercoledì mattina al mercato di Conselve • Il venerdì è aperto tutto il giorno il punto vendita aziendale • Il sabato mattina in piazza Cannoni a Sottomarina al mercatino dei tipici • La domenica ai mercatini di Campagna Amica, o alle fiere promozionali del territorio

+39 339 3278420

Azienda Agricola Ai Prà via Pratiarcati, 9 - 35020 Maserà di Padova (PD) www.aziendaagricolacaseificio.padova.it antbus973@gmail.com Azienda Agricola Ai Prà


Carpaccio e Bellini OLTRE L’ORIZZONTE di Anna Maria Pellegrino

COME ANTIDOTO ALLA GRANDE BRUTTEZZA Cipriani è un nome che nel mondo significa classe, Harry’s Bar, diverse forme di ristorazione, Bellini e soprattutto la Venezia del Ventesimo secolo

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rrigo Cipriani, inquieto 85enne, re dell’Harry’s Bar. Il locale di Calle Vallaresso 1323 è la sede del suo regno che si estende dall’America, con 12 locali e 2 alberghi, a Montecarlo, a Hong Kong, a Dubai, in Arabia Saudita ed a Londra. Nell’entroterra veneziano ha sede un pastificio, un caseificio e nell’Isola di Torcello ha dato vita ad una coltivazione di carciofi “violetto”, meglio conosciute come “castraure”, affidando ad un esperto contadino la cura di oltre quarantamila preziose piantine. Dalle cucine di Venezia, quindi, è iniziato tutto e in tutto il mondo si possono assaggiare il piatto e il cocktail simboli di una “grande bellezza” italiana. La storia del celebre locale conosciuto in tutto il mondo e che ha servito re, principi, i protagonisti della Storia e le stelle dello spettacolo - da Woody Allen a Giorgio De Chirico, da Ernest Hemingway a Frank

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Sinatra - la si può leggere anche nel suo ultimo libro “Harry’s Bar Venezia”, edito da Giunti, dove storie e ricette prendono vita tra le mura dell’unico esercizio pubblico che negli ultimi cento anni ha ricevuto un riconoscimento dal Ministero dei Beni Culturali come “luogo di interesse nazionale per la sua testimonianza del Ventesimo secolo a Venezia.” Mi siedo su una delle poltroncine, studiate nei minimi particolari nelle forme e nell’altezza, come i tavolini, che arredano una stanza piena di avventori sorridenti e non rumorosi. Ecco apparire il mitico Bellini servito in un bicchiere cilindrico, un tumbler alto. Il cameriere, che indossa una giacca candida e dai modi oltremodo gentili, con gesti che assomigliano ad una danza, piega ad arte i tovaglioli logati dal celebre simbolo. “Le porto anche una polpetta?” Arriva, perfetta, sembra preparata con il calibro. Ma non viene lasciata sul piatto. Viene avvolta da un tovagliolino in modo tale da poterla mangiare con le mani ma senza sporcarsi, come dovrebbe avvenire per ogni cicchetto che si rispetti. Naturalmente è buonissima, morbida e croccante, come buonissimo è il Bellini, preparato con il succo di pesca bianca e le bollicine del prosecco. E convengo con il barman che il tumbler alto è il “suo” bicchiere. Arriva Arrigo Cipriani e si scusa dei pochi minuti di ritardo, si confronta brevemente con un cameriere e si siede. Un sorriso aperto ed un paio di


OLTRE L’ORIZZONTE occhi dall’intelligenza arguta mi anticipano due ore di chiacchiere piacevolissime e leggere, mai frivole. “Dove sta andando Venezia?” gli domando con la voce un po’ roca dall’emozione. Un’ombra attraversa lo sguardo. “Di Venezia resteranno le pietre. Sono le persone che rendono viva una città. Le persone nella loro quotidianità, che fanno la spesa nei negozi di quartiere, che si incontrano e si salutano, che si occupano di tenere in ordine e puliti calli e campi”. E mi mostra le foto scattate qualche giorno prima con lo smartphone: ritraggono una panchina mezza divelta poco distante da un imbarcadero. “Ma le pare possibile? A Venezia? Cosa costerebbe ripararla? E cosa costa alla città una bruttura simile?”. Foto regolarmente inviate agli account social del sindaco, Brugnaro, a cui viene rimproverato di non essere veneziano. “È di Mogliano.” chiude tranchant con un sorriso che dice molto di più. Mi racconta del suo recente acquisto, il raddoppio di piantine di “castraure”, che vengono lavorate nella cucina del ristorante di Venezia e poi spedite, per via aerea, agli altri locali della galassia Cipriani. Sono come dovrebbero essere le castraure: piccole, morbide, condite con un filo d’olio, deliziosamente sapide (la sapidità degli ortaggi veneziani) e disposte come un fiore sul piatto. Il bello che ritorna. Come nei gesti dei suoi collaboratori e come nell’altezza dei tavolini. Mi invita a restare per cena e ci spostiamo al piano di sopra, in una sala dai colori caldi. Gli chiedo se sono cambiati i clienti mentre viene stesa sul tavolo rotondo un’essenziale tovaglia di lino e viene apparecchiato con pochi pezzi. In un bicchiere da champagne, di quelli meravigliosamente forgiati a piccola coppa, viene versato un Ribolla gialla spumantizzato davvero notevole, di produzione di un’azienda agricola del trevigiano, anch’essa presente in tutti i suoi locali. “Venezia mette più soggezione di Ibiza e comunque si riconoscono da lontano e non solo per l’outfit: sono disposti a spendere anche 800 euro per la bottiglia più costosa e non sanno neanche che vino è. Ma anche a Venezia, purtroppo, qualcosa è cambiato e lo evince proprio dall’abbigliamento. Rispetto ad anni fa c’è più libertà nel vestire e mi auguro che questa tendenza cambi. È una forma di rispetto reciproco essere ben vestiti”. Ed ecco apparire “il” carpaccio, l Bellini è un long drink italiano per eccellenza, a base di purea di pesca e vino bianco frizzante. Questo cocktail fu ideato nel 1948 da Giuseppe Cipriani, proprietario del noto Harry’S Bar di Venezia, per l’inaugurazione della mostra pittorica dell’artista Giovanni Bellini

il piatto di carne cruda ed accompagnato con un filo, un filo!, di salsa “universale” (perché va bene con tutto, come precisa Arrigo) preparata con maionese, pepe ed un po’ di salsa Worcester. Si scioglie in bocca nella sua morbidezza, temperatura di servizio perfetta. La bellezza si cela anche in un piatto apparentemente semplice ed impeccabile. Senza che la pietanza principale sia adagiata “sopra un letto di qualcosa”. Mi chiede Castraure se voglio una fetta di torta. Non riesco a replicare. Ancora con movimenti felpati, come quelli di un gatto e senza che ciò distragga la conversazione, viene cambiata la tovaglia (si, avete letto bene, il dessert viene servito sopra una tovaglia intonsa) ed arriva una fetta di torta al limone sopra la quale, vezzosa, fa bella mostra di sé una meringa morbida ed appena “bruciata”. Gli chiedo se si sente uno scrittore, del resto ha al suo attivo molti libri e tutti di successo, e me ne fa portare subito un paio, che effettivamente non possiedo, tra cui uno “A Tavola” pubblicato da Rizzoli nel 1984, fuori produzione ahimè, che vi consiglio davvero di leggere. “I miei sono pensieri in libertà. Sono un ristoratore che scrive libri. Se fossi stato uno scrittore con un ristorante avrebbe fatto più notizia.” Trascorrono veloci i minuti ed improvvisamente l’Apple Watch che indossa si illumina. “Avrei un appuntamento con il personal trainer, alla mia età devo prendermi cura di me.” E sorride ironico mentre si paragona alle castraure che coltiva “siamo entrambi molto vicini alla terra”. Ci salutiamo e ci promettiamo di vederci nuovamente soprattutto per condividere la bellezza del suo nuovo progetto ovvero quello di valorizzare la pesca del Montello per la preparazione del Bellini da servire in tutto il mondo. Esco dal locale affrontando una folla che spinge incolonnata, come a voler chiudere nel più breve di tempo possibile il programma della giornata e mi domando se la bellezza salverà il mondo dalla stupidità. Mi rispondo con una frase di Zanzotto circa l’obbligo di difendere la bellezza “perché noi siamo il paesaggio che vediamo’’.

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Az. Agricola Cappello Mattia

LA CHIANINA Allevamento

NON e' SOLO IN TOSCANA E NON e' SOLO UNA FIORENTINA A STANGHELLA ALLEVAMENTO E VENDITA DIRETTA, QUALITÀ E TRACCIABILITÀ GARANTITE Non serve andare in Toscana per trovare le migliori vero e proprio comfort. Le stalle sono aperte, disponcarni di razza Chianina, a Stanghella l’Azienda Agrigono di prati verdi in cui pascolare, di condizionatori cola Mattia Cappello dal 1999 alleva animali in purezche mantengono la temperatura in base al clima, ma za certificati ANABIC, ossia dal fondamentale è la loro alimentazione L’alimentazione degli animali pedigree autentico e cresciuti in perché mais, soia, semi di girasole, è OGM free, tutti i prodotti stretta osservanza di un disciplicrusca di grano tenero, polpe di bievengono coltivati in azienda nare ferreo. Perché la qualità deltola, erba medica e il fieno vengono le carni parte dallo stato di salute degli animali e nel prodotti in azienda, garantendo massima tracciabilità caso dei 200 capi allevati qui il benessere sfocia nel dalla stalla al bancone della macelleria.

AZIENDA AGRICOLA CAPPELLO MATTIA - Via Canaletta Superiore, 92 - Stanghella (PD)


Le carni di Chianina non si prestano solo per essere fatte alla griglia nella classica definizione toscana di filetto, controfiletto e osso, ma è ottima per ogni impiego in cucina. Grazie al basso contenuto di colesterolo e all’alta presenza di Omega 3 ha valori nutraceutici e poi c’è tutto il valore di una carne elegante, dalla grana fine, la cui morbidezza è garantita da un grasso di superficie naturale favorito da un’alimentazione sana.

Le carni di Chianina dell’allevamento Cappello sono usate dallo Chef Franco Ruggero: “La carne è già perfetta, consiglio cotture veloci al sangue, meglio ancora a crudo per tartare e carpacci. Non coprite il suo naturale sapore con troppe spezie”

Le carni di Chianina oltre che nello spaccio aziendale di via Canaletta Superiore a Stanghella, nei giorni di: Venerdì dalle 15.30 alle 19.00 Sabato dalle 8.30 alle 12.45 Le puoi trovare ai mercatini contadini di Padova a: Cadoneghe il martedì mattina Abano-Monteortone e Mezzavia il venerdì Vigodarzere il sabato mattina

AZIENDA PORTE APERTE DOMENICA17SETTEMBRE2017

Per trascorrere una divertente giornata in compagnia, nel verde con gli animali e dei buoni prodotti agricoli, che potrete acquistare (Carne Chianina, Frutta, Verdura, Pane, Vino e Formaggi)

APERTURA E ACCOGLIENZA ORE 9:30

gran barbeque Saranno messi a disposizione dei barbeque con griglie, braci, sedie e tavoli, per cucinare i prodotti a cquistati in azienda, carne chianina, frutta, verdura, formaggi, vino e pane Tel. 339 3271753 - www.lachianina,eu


LA MEMORIA DI CARTA

“El Boaro”, di Roberto Soliman

UN VERO PROFESSIONISTA DELLA CORTE Ricordi di gioventù di una persona che nei dizionari viene citata come rozza e incivile, ma che fino a mezzo secolo fa era determinante per il funzionamento della corte e degnamente pagata. Ora viene sostituito dai “Bergamini” indiani e pakistani nelle grandi stalle mantovane ed emiliane, ma in alcune di esse si stanno già inserendo i robot governati dal computer

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ai miei, aimè, lontani ricordi d’infanzia vissuta nella corte alle Grompe dove sono nato, riaffiorano episodi che credevo sepolti dall’evolversi delle cose e del tempo. Questi ricordi si collegano indissolubilmente ai pochi e mai sufficientemente intensi anni vissuti con mio padre, prima che se ne andasse! Dopo di che la mia vita non è più stata la stessa e anch’io ho lasciato le Grompe! Dalla mia stanza in semi-tramontana dove il sole, basso all’orizzonte, entrava di buon mattino tra le grosse fessure del balcone, udivo dei lontani scuotimenti di catene e cigolii di Era l’uomo di fiducia ruote di ferro che si della corte e della allontanavano dalla stalla, sempre corte, tra incitazioni umane: “Toh e toh presente già prima Roma, aissìa fora del sorgere del sole Italia!” Poi riprene presente anche devo il mio sonno giovanile, sgombro la notte se una vacca da impegni scolastidoveva partorire

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ci. Era estate! Il risveglio me lo dava mia madre che dopo un rapido lavaggio di occhi nel catino e la solita colazione con pane raffermo e caffè di orzo (le cronache famigliari raccontano che ho sempre rifiutato il latte, persino quello materno!), mi diceva: “…pòrtaghe la sporta par la marènda de le oto a to papà, che xe tre ore che el xe drio aràre con Ciro!”. Ciro era “el boaro” che custodiva le dodici vacche della corte, il toro, una giovenca e una decina di vitelli da latte, e che nella bella stagione guidava l’aratro trainato dalle vacche condotte da mio padre, aiutava a caricare il


LA MEMORIA DI CARTA

L’aratura si faceva la mattina presto. Dalle cinque alle otto la prima parte della giornata, poi la merenda all’ombra di un albero con polenta abbrustolita, melanzane fritte, salame, bevendo acqua e vino leggero. Poi altre tre ore. Al pomeriggio, per il troppo caldo, l’aratura veniva sospesa

fieno nel carro in campagna per scaricarlo nel fienile o l’erbaio dentro il silos, e sistemava la concimaia. Era l’uomo di fiducia della corte e della stalla, sempre presente già prima del sorgere del sole e presente anche la notte se una vacca doveva partorire. Servizio 24h si direbbe oggi! La sua giornata incominciava partendo a piedi, o in bicicletta nella bella stagione, dalla sua povera casa di due stanzoni, con il pavimento in terra battuta, in piena notte, portandosi nella sporta poche fette di polenta, del salame rancido e un fiasco di vino aspro. Arrivato nella stalla distribuiva il fieno nelle singole mangiatoie per due volte, poi gli animali venivano accompagnati a coppie all’abbeveratoio riempito d’acqua del pozzo che lui attingeva a secchi, per farli ritornare al loro posto, legandoli con la catena al collo. Quindi Ciro accompagnava i vitelli dalla loro madri per la prima poppata, e mungeva il latte rimasto dalle singole vacche. Intanto si alzavano anche mio padre e mio zio, e se c’era da arare mio papà e Ciro prendevano quattro vacche fra quelle che non erano “in latte” e aravano per tre ore, per fare merenda all’ombra di un albero, seduti sulla riva del fosso, con polenta abbrustolita, melanzane fritte, salame, bevendo acqua e vino leggero. Io portavo la sporta con queste prelibatezze che assaggiavo assieme a loro: momenti e gusti introvabili! Le vacche, intanto, mangiavano l’erba in capezzagna, poi riprendevano a trainare l’aratro per altre tre lunghe ore, per tornare in stalla a riposarsi. Al pomerig-

gio non si arava, per il troppo caldo, e il boaro si dedicava ancora alla cura delle bestie. Tutte le vacche della stalla avevano il nome e mio papà, arando, teneva alla capezza la Roma che, attraverso il giogo, guidava l’Italia che insieme facevano strada ad Africa e America o ad Asia e Australia. Forse a mio papà sembrava così di guidare il mondo, anche se ogni tanto lo sentivo dire: “Toh e toh! Vaca Roma!” quando lei si fermava in capezzagna per tentare di mangiare un boccone di erba fresca, anche se aveva la museruola. Se mio papà tornasse al mondo ora, chissà cosa direbbe che Roma non si accontenta più di mangiare solo l’erba fresca! Come dicevo, l’aratro lo guidava, camminando dentro il solco, Ciro, detto “el maestro”, che quando gli

Il boaro veniva assunto con un contratto regolare che partiva e finiva da “San Martìn”, salvo rinnovo. In questo veniva scritto se disponeva della casa “da bando”, cioè gratuita, di un tre quartieri di terra per seminare il mais per farsi la polenta, di un piccolo orto di 10 x 15 metri da coltivare in proprio, di alcuni quintali di legna e di fascine, del vino e del frumento per farsi il pane 47


LA MEMORIA DI CARTA scappava di grosso non fermava “la boarìa”, ma in un attimo lasciava le stegole dell’aratro, calava i pantaloni fin che si accucciava (non indossava indumenti intimi!), faceva quel che doveva fare, per raddrizzarsi, sistemare i pantaloni e, con quattro salti, riprendere la guida dell’aratro! Al giro successivo veniva coperto tutto! Ciro, assieme a mio zio, accudiva anche il toro che si chiamava Asso, figlio di Furio e Arianna, nato a Forlì, un Romagnolo puro di undici quintali. Avevamo la “Stazione di Monta Taurina”, con tanto di tabella attaccata al portone in strada. Ogni tanto arrivava dalla strada qualche magra vacchetta, accompagnata dal proprietario. La portavano dietro la barchessa dove c’era un posto proibito per noi bambini, subito dopo mio zio e Ciro accompagnavano anche Asso in quel luogo, legato per le corna, per il naso e per il collo per paura che scappasse. Poi queste vacchette se ne tornavano a casa un po’ frastornate. Più tardi è arrivata la fecondazione artificiale e le vacche rimasero in stalla anche per questa operazione, arrivò la meccanizzazione agricola e non uscirono più per i campi, arrivarono le bacinelle, e non andarono più a bere sotto il portico, i vitellini incominciarono ad essere svezzati a latte in polvere e le vacche munte con la mungitrice elettrica, così il ruolo dei vari Ciro, nelle corti di un tempo, finì!

Era un ruolo importante, venivano assunti con un contratto regolare che loro firmavano con una croce perché, passando il mestiere da padre in figlio, i piccoli difficilmente andavano a scuola. La stalla e le bestie erano la loro scuola, imparavano ad alimentarle, a pulirle, ad assisterle in caso di malattia, a controllare le scadenze degli accoppiamenti e delle gravidanze, a far nascere il vitello anche senza l’intervento del veterinario. Nel contratto, che partiva e finiva da “San Martìn”, salvo rinnovo, era scritto se disponevano della casa “da bando”, cioè gratuita, di un tre quartieri di terra per seminare il mais per farsi la polenta, di un piccolo orto di 10 x 15 metri da coltivare in proprio, di alcuni quintali di legna e di fascine, del vino e del frumento per farsi il pane.

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Oggi le stalle sono modernissime: la distribuzione del fieno avviene attraverso appositi macchinari, i medicinali attraverso l’acqua delle bacinelle, l’areazione è sotto controllo informatico, la musica favorisce la produzione di latte, un robot, simile ai tagliaerba autonomi, pulisce sistematicamente il pavimento grigliato, e le giostre di mungitura sono sempre più automatizzate e la pulizia degli animali fatta con spazzoloni tipo “Lavaggio Auto”

Ora alcune vecchie stalle sono state trasformate in enoteche o agriturismo, altre in magazzino agricolo, le poche stalle nuove ospitano vitelli da ingrasso di provenienza francese e in molti casi di proprietà della ditta che fornisce il mangime, le grandi stalle di vacche da latte mantovane ed emiliane sono accudite da bravi “Bergamini” indiani o pakistani che custodiscono vacche provenienti dalla Baviera, inseminate artificialmente con tori canadesi, nutrite con mangimi di soia brasiliana, di mais ibrido americano, di erba medica disidratata spagnola, munte in sala di mungitura tedesca, mentre il latte viene trasformato in formaggio con caglio danese da un casaro moldavo! È la globalizzazione che confonde anche il “Made in…” e confonde il consumatore finale con troppe varietà di prodotti caseari e di imitazioni presenti sul mercato. Ma anche i “Bergamini” indiani e pakistani non dormono sonni tranquilli. In alcune stalle ultramoderne il proprietario, attraverso il computer, comanda la miscelazione e la distribuzione del cibo, i medicinali attraverso l’acqua delle bacinelle, l’areazione è sotto controllo informatico, la musica favorisce la produzione di latte, un robot, simile ai tagliaerba autonomi, pulisce sistematicamente il pavimento grigliato, e le giostre di mungitura sono sempre più automatizzate e la pulizia degli animali fatta con spazzoloni tipo “Lavaggio Auto!” E vi sono fondi per automatizzare le stalle esistenti anche nelle regioni del nord Italia! Chi vivrà vedrà! Intanto i vari Ciro resteranno ingiustamente nei dizionari come persona rozza e incivile, anche se hanno contribuito pienamente alla vita del vecchio mondo contadino che ci ha generato e dal quale a volte ci sentiamo estranei!


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IL CORTILE DE MARCHI,

il benessere dei nostri animali diventa la qualità per la vostra tavola In via Sabbionara a Merlara, a pochi chilometri da Montagnana, alleviamo animali di bassa corte come un tempo: liberi di razzolare a terra e alimentati con i cereali prodotti in azienda. Il nostro sistema di allevamento si basa sul benessere dell’animale in quanto la genuinità e la salute delle loro carni si traduce in quella qualità che poi ritroviamo nel piatto Oltre alla vendita di polli, galline e faraone vivi e macellati, dal bancone di vendita non mancano il coniglio, le uova freschissime di giornata e le nostre specialità. Ma con l’arrivo dell’autunno sono l’oca e l’anatra le vere regine del nostro Cortile, sempre allevate all’aperto e nel rispetto del loro benessere.

Le specie allevate • Anatra muta bianca • Anatra Mulard • Anatra nostrana • Germani • Oca grigia pesante • Oca Cigno • Oche bianche del Campidoglio

DOVE TROVARCI PROVA I NOSTRI RAGÙ

di anatra, coniglio e pollo/faraona, porta in tavola il gusto genuino di una volta!!!

Oltre al punto vendita aziendale in via Sabbionara, 1651 a Merlara (PD) ci puoi trovare nei mercatini di: • Monselice il lunedì mattina, il mercoledì pomeriggio e il sabato mattina • Rubano il mercoledì mattina • Legnago e Cittadella il giovedì mattina • Noventa Padovana il giovedì pomeriggio • Bussolengo il venerdì mattina • Vigonza e Pescantina il sabato mattina • Verona (zona fiera) il sabato mattina • Castelnuovo domenica mattina

Il Cortile De Marchi via Sabbionara, 1651 - Merlara (PD) - Tel. 0429 85468 www.ilcortiledemarchi.it - Facebook: Il Cortile De Marchi


IL PANORAMA GASTRONOMICO

La trippa rivelata di Mario Stramazzo

Piatto che affonda le sue origini nella notte dei tempi e che unisce l’Italia, anche quella che gioca al lotto

P

uò sembrare strano, ma l’alimento-elemento di cui vi sarà detto dalle pagine di questo numero di Con i Piedi per Terra, è inserito pure nell’Antica Smorfia Napoletana. In particolare se vi capita di sognare questo cibo ghiottoso, sappiate che se il sogno lo prevede cotto, il numero da giocare è il 52; 54 se invece è ancora crudo. Se lo si sogna in brodo, bisogna giocare il 53 mentre, se sognate chi lo lavora e lo rende cibo, il numero suggerito, per giocarlo al lotto, è il 29. Il tutto in barba a chi vorrebbe che sognare e non mangiare questa leccornia, assolutamente vietata ai vegani e mal vista dai vegetariani, sia presagio di sventura. Dimostrando però di non conoscere la millenaria sapienza delle genti della Mesopotania. Secondo costoro, infatti, sognare trippa di ruminante significava attendersi periodi di serena e prospera

tranquillità. Quel relax che non può essere condiviso dai bovini che invece, soprattutto se in fase giovanile, da vitelle e vitelli, oltre che la trippa ci rimettono la stessa esistenza. Giacché non si è mai visto che un povero quadrupede riesca sopravvivere senza tutte le parti del suo stomaco e intestino che, da organo funzionale per la digestione del ruminante, diventa elemento, talora disturbatore, della digestione umana. Evenienza che si verifica solo a patto che la quantità sul piatto sia esagerata e superi i due o tre mestoli. Quantità ideale invece per non affaticare troppo la funzionalità digestiva e che permette di apprezzare questa leccornia regalata da tempo immemorabile all’uomo dai quadrupedi allevati per quell’apporto proteico animale pressoché indispensabile. Anche per mettersi al riparo da patologie debilitanti che sembrano di contro più aggressive quando la dieta è limitata solo ai prodotti vegetali. Qui giunti, si sarà sicuramente capito che è la trippa l’obiettivo di queste righe, quale cibo prima dei poveri e dei popolani, ma oggi sempre più sofisticata “sciccheria” per fortunati gourmand. Fortunati proprio perché riescono a reperire ancora qualche trancio dello stomaco di bovino e non dell’intestino come si crede erroneamente. Si tratta infatti di

Un tempo cibo dei poveri e dei popolani, ma oggi è sempre più sofisticata “sciccheria” per fortunati gourmand


IL PANORAMA GASTRONOMICO una summa che distingue il grande sacco detto rumine, o trippa, croce, pancia liscia; un sacco più piccolo e dall’aspetto spugnoso, detto anche cuffia, bonetto o nido d’ape; l’omaso, un sacco a lamelle detto anche foiolo, centopelli o libro e infine l’abomaso, stomaco vero e proprio o riccioletta, spannocchia o lampredotto. Ecco, è un trancio fra questi che diventa trippa, dopo che è stato acconciato da cuoco esperto usando il metodo “in bianco”, o al “sugo rosso”, con il pomodoro, in brodo di carne, ma anche arrostito, alla moda di qualche isolano della Croazia (sotto una campana di ghisa tutta avvolta da braci ). Ed è trippa non per gatti, come vorrebbe l’antico adagio romano, ma per amanti dei cibi della tradizione popolare da nord a sud del nostro Paese. Che di fronte ad un piatto di trippa, ha sempre trovato un’unità che nemmeno il più fervente patriota potrebbe mai sperare di incontrare tra i suoi connazionali. Viene infatti dai

Viene dai tempi degli antichi progenitori della Roma imperiale questa mai consumata passione per uno dei componenti fondamentali del quinto quarto che, nel seicento, fu celebrata finanche dal cuoco di Paolo V: il celeberrimo Bartolomeo Scappi tempi degli antichi progenitori della Roma imperiale questa mai consumata passione per uno dei componenti fondamentali del quinto quarto che, nel seicento, fu celebrata finanche dal cuoco di Paolo V: il celeberrimo Bartolomeo Scappi. Cuoco inventore di beatitudini gastronomiche che in nel suo secondo libro di ricette descrive appunto di come preparare un raffinato pasticcio di trippa di vitella.

Con “trippa” possono essere indicati il grande sacco detto rumine, o croce, pancia liscia; un sacco più piccolo e dall’aspetto spugnoso, detto anche cuffia, bonetto o nido d’ape; l’omaso, un sacco a lamelle detto anche foiolo, centopelli o libro e infine l’abomaso, stomaco vero e proprio o riccioletta, spannocchia o lampredotto

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IL PANORAMA GASTRONOMICO LA TRIPPA DIVENTA BEATITUDINE PAPALE Va fatta bollire in acqua senza sale ma, al posto di verdure varie come si usa oggi giorno, si può aggiungere un pezzo di prosciutto crudo nel brodo. Insomma questa ricetta è un inno alla “ciccia” a tutto tondo che infatti prosegue nel stratificare le striscioline di trippa, ottenute dal taglio dei pezzi ben cotti, nella “cassa” di pasta (fior d i farina e rosso d’uovo impastata) e precedentemente coperta da uno strato di cervellata gialla (raro e particolare tipo di salciccia allo zafferano); provatura (particolare formaggio romano fresco fatto con latte di bufala); parmigiano grattuggiato; menta e maggiorna battute; pepe, cannella; zafferano. A quel punto, lo Scappi indica di passare in forno il pasticcio e cuocere avendo cura di servirlo “caldo in ogni tempo”. Quindi anche d’estate e, se vogliamo, in netta controtendenza con le scuole di pensiero “insalatoniane” e “verduresche” d’oggi giorno che di trippa, bella calda e fumante, fatta alla moda del grande Scappi, in bianco con il rosmarino e il parmigiano o con il pomodoro, manco a parlarne. E non solo d’estate. Visto che si vorrebbe ingabbiare la trippa come alimen-

to altamente calorico e ricco di grassi animali ma che va invece considerata come un “taglio” di carne animale non molto diverso da tanti altri o non tanto diverso dai formaggi. Basta ad esempio confrontare 100 grammi di trippa con 100 grammi di mozzarella. La prima vale 72 grammi di acqua, 16 grammi di proteine, 3,69 grammi di grassi, con una percentuaBartolomeo Scappi le di monoinsaturi maggiore di quella dei polinsaturi (1,533 g vs 1,291 gr) e 122 mg di colesterolo. Di contro 100 gr di mozzarella contengono 50 gr di acqua, 22,3 grammi di grassi con i saturi a quota 13,152 che la fanno da padrone insieme a 75 mg di colesterolo. Fra il gusto di una trippata o di una pallida mozzarella e due foglie di lattuga, dunque, si scelga pure ma non si aggiunga... a piacere.

TRIPPA ALLA VENETA

PREPARAZIONE Preparate un bel battuto di sedano, carota e cipolla fatelo soffriggere su una pentola a fondo spesso con l’olio e uno spicchio d’aglio. Quando sarà ben stufato, levate l’aglio e mettete le trippe tagliate a listarelle, aggiungete il rosmarino e l’alloro, meglio legati a mazzetto per poi a fine cottura poterli eliminare facilmente. Appena hanno preso colore cominciate ad aggiungere, man mano i mestoli di brodo caldo. Salate e pepate. Fate cuocere a fuoco basso per circa 1 ora e mezza, aggiungendo ancora brodo, se necessario. A fine cottura togliete il mazzetto di odori e se riuscite anche i chiodi di garofano, aggiungete un po’ di prezzemolo tritato, regolate di sale e pepe e soprattutto una bella manciata di Grana grattugiato. Servite nei piatti e volendo spolverate ancora con il Grana. Per gli amanti del pomodoro è sufficente sciogliere in un mestolo di brodo un paio di cucchiai di concentrato di pomodoro e unirlo alle trippe a metà cottura

Difficoltà: bassa

INGREDIENTI PER 4 PERSONE • 800 gr di trippe • 1 costa di sedano • 1 carota • 1 cipolla bianca e aglio • rosmarino e foglie di alloro • 3 chiodi di garofano • prezzemolo tritato • 2 lt brodo di carne • sale e pepe • olio extra vergine di oliva • Grana Padano grattugiato

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Preparazione: 20 minuti

Cottura: 90 minuti


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Osteria Vineria

tutto il gusto della genuinità Il posto giusto dove ritrovare i sapori autentici dei piatti preparati secondo la stagione Quando le giornate si accorciano e la luce diventa più obliqua, calda, avvolgente e pure l’aria si fa più densa e colorata, come se vi ci fosse mischiato il mosto, allora si affaccia alla porta dei desideri quella voglia di sapori autentici, genuini, quei sapori della tradizione che segnano l’inizio di un nuovo tempo. L’autunno mette appetito, ma un appetito particolare, che reclama intimità e atmosfere sincere. Il posto giusto per placare questa necessità è l’Osteria Vineria Le Carni di Borsea, la sua cucina ha come propria quella confidenza che proviene dalle “cose” nostrane, dal sapore antico e pur sempre attuale. Piatti semplici, ma che in realtà sono il frutto di una scrupolosa selezione che porta in cucina solo il meglio dalle materie prime. Insaccati che ricordano che questa è una terra devota alla norcineria, formaggi con il meglio che le malghe dei Lessini producono durante la stagione dell’alpeggio, paste fresche e ripiene rigorosamente fatte in casa e servite con i sughi della “polesinità”, come il “pisto” o le verdure di stagione. Le carni, ovviamente, in un locale che si chiama “Le Carni”, non possono che essere il “pezzo” forte dell’offerta, tagliate, fiorentine, tartare sono il trionfo della griglia o del coltello, e non mancano quelle di maiale o quelle bianche degli animali di bassa corte. I contorni guardano in faccia solo la stagione e i dolci la tradizione a cominciare da quella “brazadela”, che è l’emblema di come le cose veramente buone non abbiano poi bisogno di troppa ricercatezza. Anche i vini sono espressione del locale, la preferenza va ai Colli Euganei, ma la carta sa guardare anche a più lontano ed esaudire ogni aspettativa.

L’Osteria Vineria è aperta tutti i giorni dalle 12.00 alle 15.00 e dalle 17.00 all’1.00 la domenica dalle 11.00 alle 15.00 e dalle 18.30 all’1.00 Le pentole riposano il mercoledì OSTERIA VINERIA LE CARNI via Savonarola, 60/C - 45030 Borsea (RO) - osteria@lecarniborsea.it -

- Per prenotazioni 389 5281555


LA RECENSIONE di Renato Malaman

Hostaria San Benedetto

LA PASSIONE E I VALORI DI UNA FAMIGLIA Il ristorante affacciato sotto i portici nel cuore storico di Montagnana in 29 anni di attività ha valorizzato tante eccellenze locali: dal prosciutto Veneto Dop, alle erbe, ai formaggi della vicina montagna veronese E l’autunno sarà la stagione dei funghi

?

PERCHÈ

Recensione

Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta

E

chi l’ha dimenticata l’epopea del ristorante “Alle Crosare” di Pressana? I montagnanesi lo affollavano tutti i fine settimana, perché si mangiava bene e si spendeva il giusto. E perché potevano concedersi qualche piatto fuori ordinanza per l’epoca. Per raccontare cos’è l’Hostaria San Benedetto oggi bisogna risalire ai primi anni ’80, quando Gianni Rugolotto e Laura Borghesan, all’epoca insieme anche alla sorella e al cognato, si ritagliarono un posto di riguardo in un panorama della ristorazione locale ancora troppo zavorrato da una tradizione stantìa, fatta di piatti buoni ma troppo unti e pesanti. Gianni Rugolotto era ancora giovane, pochi anni prima si era fatto conoscere a Montagnana prendendo in gestione l’albergo Ezzelino. Ma il suo sogno era fare il cuoco, riprendendo l’arte appresa in casa dalla madre e coltivata attingendo a piene mani da quel patrimonio di prodotti, arte culinaria e saggezza contadina che è la montagna veronese. Perché Gianni arriva da là, da Bolca, la terra dei famosi fossili. Anzi, dal borgo di Sprea, penultimo di quattro fratelli, cresciuti senza la mamma che morì giovane. Anche lui ama tuttora i formaggi di quella zona e soprattutto raccogliere le erbe spontanee e i funghi del sottobosco. Quei pochi che trova, naturalmente. Il resto li acquista, come tutti. E dedicato ai funghi è il menu principale che l’Hostaria San Benedetto, locale di signorile eleganza ricavato in un palazzetto del centro storico di Montagnana, proporrà nel prossimo autunno. Un passo indietro: il locale Gianni e Laura lo hanno aperto nel 1988, offrendo un’alternativa a un altro storico e affermato ristorante del centro che, come loro, aveva scelto una qualità senza compromessi. Il successo, e non è piaggeria, è arrivato quasi subito. Anche perché nel frattempo Montagnana è andata sempre più affermandosi in campo turistico. La nostra visita ha evidenziato un valore importante: quello della famiglia e della gestione familiare. Con Gianni e Laura oggi c’è il figlio Federico, che è pure un appassionato sommelier. L’ambiente è arredato con gusto e sobrietà. Sembra di stare in

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L’ambiente è arredato con gusto e sobrietà Sembra di stare in una casa del primo ‘900 La distanza fra i tavoli mette a proprio agio


LA RECENSIONE Rassicurante il piatto che segue: la trilogia d’autunno In un piatto lungo: chiodini con il Monte Veronese, finferle con l’Ubriaco e i porcini con la Toma

una casa del primo ‘900. La distanza tra i tavoli mette a proprio agio. L’accoglienza sincera fa il resto. Ogni dettaglio è frutto di attenzione, anche la stampa del menù. In bella vista i distillati d’autore e qualche tocco d’arte. Nel menù la fa da protagonista il prosciutto crudo Veneto Berico-Euganeo Dop (si sa che non si può chiamarlo ufficialmente con il suo nome secolare, ovvero crudo dolce di Montagnana, altrimenti volano multe dal Ministero), vanto della tradizione locale. Una sezione del menù, in onore della stagione, è dedicata al baccalà, proposto con varie erbette. C’è pure un interessante menu degustazione a 30 euro, che comprende cinque portate e nel quale spicca l’insalata di gallina padovana con uvetta e pinoli, uno dei piatti simbolo dei Ristorantori Padovani, associazione di cui il ristorante è una colonna. Optiamo per un percorso fuori menù dedicato ai funghi, ben sapendo che lo chef è ferrato in materia. Entrée con zuppetta di finferle su cestino di pane su guazzetto di pomodoro dal bel contrasto dolce-acido. Seguono le frittelle di finferle (che sono diverse dai finferli “maschi”) con crema di yogurt e fiori di finocchietto. Poi il millefoglie di fichi e finferli: due piatti moderatamente audaci che rivelano estro e fantasia. E la consueta buona tecnica. Stimolanti le tagliatelle con finferli e mirtilli che seguono: l’abbinamento un po’ austriaco riporta ai tempi del Lombardo Veneto quando a Montagnana c’era un grande presidio militare delle truppe di Radetzky. Rassicurante il piatto che segue: la trilogia d’autunno. In un piatto lungo troviamo: chiodini con il Monte Veronese, finferle con l’Ubriaco (un altro formaggio veneto) e i porcini con la Toma. Ottimo. Infine un semifreddo con l’albicocca, delizioso. Nella ricca, ma ben ragionata carta dei vini, scegliamo delle bollicine altoatesine di Arunda. Ma c’è anche molto di etichette locali. Definire in due parole il San Benedetto è difficile. Quella di Laura e Gianni è una storia lunga e piena di passione, condivisa con semplicità in famiglia. E questo valore permea tutta la loro attività. Ieri come oggi. E, grazie a Federico, sarà Il giornalista Renato Malaman con Gianni Rugolotto e Laura Borghesan sicuramente così anche domani.

La Pagella

di Con i piedi per terra

⊲ Uso delle materie prime del territorio

⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza ⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo


STORIA E DINTORNI di Mauro Gambin

Guerra di Cambrai,

UN CONFLITTO MONDIALE CHE VENNE COMBATTUTO ANCHE NELLA BASSA Nel 1509 Papa Giulio II aprì le porte d’Italia alle potenze Europee di Francia, Spagna e Impero. Ci mancò veramente poco che la Repubblica di Venezia uscisse per sempre dalle pagine della storia

A

gli inizi del ‘500 la Repubblica di Venezia raggiunse la massima espansione in terraferma. Il suo dominio si estendeva dal Cadore e dalle montagne Friulane fino a Cremona e dalla Romagna a quasi tutta la costa Istriana e Dalmata. Era una super potenza del tempo, in Italia. Nel resto d’Europa, invece, si erano già consolidati quegli stati nazionali che ne domineranno le sorti nei secoli successivi. Il Leone di San Marco, tuttavia, ancora per qualche decennio (fino alla Battaglia di Lepanto del 1571) rimase nel novero di quegli stati che erano in grado di cambiare gli esiti della politica continentale del tempo. Il suo potente esercito navale e di terra, le sue accorte politiche internazionali in mano alla diplomazia mar-

Fu il fatto d’armi di più vasta portata che interessò il Veneto dopo le invasioni barbariche e dopo le scorribande ezzeliniane. Bisognerà attendere Napoleone e la Grande Guerra per vedere il Veneto coinvolto in un conflitto di così vaste proporzioni 56

ciana, l’oculata amministrazione, le solide istituzioni e le sue immense ricchezze dovute ad indiscusso prestigio commerciale, le garantivano potenza e autorevolezza, ma le stesse erano anche motivo di gravi preoccupazioni per gli altri, in quanto la sete di nuove conquiste del Leone di San Marco era un rischio sempre latente per gli stati confinanti. Specialmente le ultime conquiste ai danni dei domini Estensi negli anni ‘80 del Quattrocento nel Ferrarese e le città Romagnole, acquisite durante la crisi dei Borgia negli ultimi anni del pontificato di Alessandro VI, rappresentavano una spina nel fianco per il neo papa Giulio II, salito al soglio di San Pietro nel 1503. Da sempre erano stati possedimenti dello Stato della Chiesa e per il neo pontefice dovevano tornare ad esserlo. Del resto Giulio II non era uno che andava tanto per il sottile, era soprannominato il Papa Guerriero o il Papa Terribile, ed era abituato ad ottenere quello che voleva, anche dallo stesso Michelangelo quando si dimostrò ritroso nell’affrescare la Cappella Sistina. E anche con Venezia passò in poco tempo alle vie di fatto. Non giustificò nemmeno la sua decisione di impugnare le armi con qualche pretesto, il sale ad esempio come avevano fatto i Serenissimi nei confronti degli Estensi


STORIA E DINTORNI qualche anno prima, la tracotanza e la sfacciataggine della Repubblica di Venezia costituivano di per se un valido motivo. “Per far cessare le perdite - scrisse nel 1508 - le ingiurie, le rapine, i danni che i Veneziani hanno arrecato non solo alla Santa Sede Apostolica, ma al Santo Romano Imperio, alla casa d’Austria, ai duchi di Milano, al re di Napoli e a molti altri principi occupando e tirannicamente usurpando i loro beni, i loro possedimenti (…) abbiamo trovato non solo utile ed onorevole, ma ancora necessario di chiamar tutti ad una giusta vendetta per ispegnere, come un incendio comune, la insaziabile cupidigia dei Veneziani e la loro sete di dominio”. Quel “chiamar tutti” di fatto si tradusse nella Lega di Cambrai, alla quale presero parte ovviamente lo Stato Pontificio, la Francia di Luigi XII, il Sacro Romano Impero di Massimiliano I, la Spagna di Ferdinando il Cattolico, il re d’Ungheria, il Ducato di Ferrara, il Marchesato di Mantova, tutti pronti a spartirsi i possedimenti veneziani. Praticamente una guerra mondiale, anzi senza praticamente fu il fatto d’armi di più vasta portata che interessò il Veneto dopo le invasioni barbariche e dopo le scorribande ezzeliniane. Bisognerà attendere Napoleone e la Grande Guerra per vedere il Veneto coinvolto in un conflitto di così vaste proporzioni. Una guerra, va precisato, che venne combattuta anche qui, nel cuore della Bassa Padovana e del Polesine. Certo la battaglia più importante venne combattuta ad Agnadello, oggi in provincia di Cremona, e per la Repubblica veneta fu una vera e propria disfatta, ma per altri quattro anni i nostri territori furono al centro di assedi e scorribande che misero a dura prova la popolazione di terra ferma. Dopo la facile occupazione delle terre lombarde da parte dell’esercito francese, la guerra divampò vorticosa su tutti i fronti. Gli spagnoli occuparono il protettorato veneziano di Puglia, i pontefici incalzarono in Romagna e nel Polesine, mentre nelle terre padovane si concentrarono i soldati dell’Impero. Il 9 agosto 1509 l’imperatore Massimiliano entrò a Camposanpiero, il giorno dopo distrusse Limena, il 22 agosto Nell’immagine un archibugiere fu il giorno del terribidell’Ordinaza Vicentina dei primi le sacco si Este. Nelle decenni del ‘500

La cartina riporta i possedimenti della Repubblica di Venezia prima della Guerra della Lega di Cambrai

stesse date si combatté ferocemente a Montagnana, a Bovolenta, allora importante snodo fluviale, e ad Abano. Le sorti per Venezia erano talmente precarie che gli Estensi riuscirono in breve tempo a riprendersi il Polesine, perduto qualche anno prima nella Guerra del Sale, e a oltrepassare l’Adige per allungare le mani su Monselice. Poi l’avanzata dell’Imperatore fu implacabile, il 31 agosto raggiunse il Bassanello e iniziò a piazzare la sua artiglieria. Non va dimenticato che con il ‘500, sui teatri di guerra, fecero la loro comparsa in modo massiccio le armi da fuoco. Cannoni e armi portatili non erano una vera e propria novità, ma lo era il loro impiego in modo massiccio, tanto che i nuovi strumenti di morte cambiarono radicalmente il modo di “fare la guerra”, ad esempio facendo sparire la fanteria pesante, facile bersaglio per le artiglierie. La guerra non è più un affare di nobili e cavalieri che si fronteggiano nei campi di battaglia, come nel Medioevo, il confronto avviene a distanza, snervante, impersonale: i soldati non si guardano più negli occhi mentre combattono. La colubrina riusciva a sparare a 2.400 metri, in una giornata poteva tirare fino a 60 colpi, il falcone era un tipo più leggero di cannone, superava appena il chilometro e mezzo, ma in compenso sparava 120 colpi in un giorno e la bombarde piazzate dall’imperatore Massimiliano, verso i bastioni di Santa Croce e Pontecorvo, sparavano proiettili di pietra di oltre 60 centimetri di diametro, erano spaventose, tanto che il boato veniva udito perfino a Venezia. E sotto un Nell’immagine un Lanzichenecco pesante bombardadelle occupazioni imperiali mento finì anche la (1509-16)

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STORIA E DINTORNI

Il cronista Gianandrea del Prato, autore della Cronaca di Milano dall’anno 1499 sino al 1519, parlando della battaglia di Agnadello ci informa che i soldati della repubblica di Venezia portavano, come segno di riconoscimento, la croce rossa. La mancanza all’epoca di uniformi che contraddistinguessero i belligeranti tra loro, che spesso usavano le stesse armi o lo stesso abbigliamento, rese necessaria l’adozione di simboli o segni ben visibili portati sul petto, sulle spalle o sulle gambe dei soldati

flotta di “galee” che San Marco aveva approntato nella battaglia di Polesella contro gli Estensi. Le armi da fuoco, insomma, furono la vera forza in campo in quanto l’industria bellica del tempo aveva messo a punto anche nuove armi per la dotazione del soldato. Nel Cinquecento nascono l’archibugio, la pistola e il moschetto che a 350 metri permettono di uccidere un uomo. Le armi da fuoco cambiano anche le formazione degli eserciti, i nuovi equipaggiamenti richiedono professionisti e molto spesso viene fatto ricorso ai mercenari per i quali il sentimento dell’onore e della pietà non hanno più alcun senso. Se una città si arrendeva veniva rasa al suolo e i prigionieri non venivano messi in carcere, ma massacrati, sterminati e dunque la guerra coinvolgeva sempre più anche i civili. Senza contare che durante questa guerra venne disinvoltamente usato sia il taglio degli argini dei fiumi, per allagare le pianure e rallentare l’avanzata delle soldataglie, sia la così detta “terra bruciata” con la quale venivano distrutti i raccolti. Tecniche che manifestavano il loro più efferato effetto proprio sulla popolazione. Una guerra che inoltre si concretizzò con certo numero di assedi, di razzie e spogliazioni, il cui peso andò a caricarsi sulle spalle di paesi e città. L’intera società venne letteralmente messa in ginocchio e continuò a rimanerci anche dopo che Papa Giulio II, nel febbraio del 1510, preoccupato della situazione venutasi a creare con una Francia saldamente padrona delle città ex veneziane di Lombardia, aveva optato per un voltafaccia lasciando la Lega per schierarsi con Venezia. Infondo per lo Stato Pontificio la Repubblica Veneta rappresentava un pericolo ben minore rispetto all’ingerenza che avrebbe esercitato il potente stato d’oltralpe nella Penisola. L’uscita del Papa riequilibrò le sorti del conflitto e riaccese in Venezia

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il desiderio di rivalsa. La guerra dunque continuò con esiti incerti, basti pensare che la città di Montagnana ogni anno venne conquistata da un esercito diverso: nel 1509 si diede volontariamente agli imperiali, nel 1510 diventò Francese, nel 1512 tornò ad essere veneziana mentre il 7 ottobre del 1513 cadde nelle mani degli spagnoli. Nello stesso tempo Padova conobbe un sacco per mano dell’Imperatore e due assedi che fortunatamente andarono a vuoto, grazie alla tenuta delle sua mura. Del resto i continui cambi di fronte delle forze coinvolte riaccesero nuovi tentativi di supremazia che sistematicamente rinfiammavano gli animi coinvolti nel conflitto. Dopo il voltafaccia del Papa, infatti, nel 1511 fu la Spagna a defilarsi dall’originaria Lega per fondare la Santa Alleanza con Venezia e il Papato e poi nel ‘13 fu la volta della Francia che con il Trattato di Blois si posizionò a fianco del Leone di San Marco, uscendo in questo modo come l’unica vincitrice del conflitto. Essa ottenne le terre Lombarde che erano state di Venezia, ma per il resto dei contendenti i trattati di Noyon del 13 agosto 1516 e di Bruxelles, che conclusero la guerra, diedero quasi niente da spartire, la mappa dell’Italia tornò ad essere quella precedente alla Lega, inficiando quasi la portata del conflitto. Quasi, perché in realtà dalla guerra la Repubblica di Venezia, dopo essere stata ad un passo dal tracollo, ne uscì grazie alla sua diplomazia praticamente intatta, lo Stato Pontificio si confermò lo stato più potente del Centro Italia e i due stati italiani dimostrarono che da soli erano in grado di contenere i desideri di conquista in Italia delle superpotenze europee, alleandosi ogni volta con le forze rivali. Il vero pericolo innestato dal Papa con l’apertura della Lega di Cabrai, infatti, fu rappresentato dalle potenti ingerenze che superpotenze come l’Impero, la Francia o la Spagna esercitarono sullo Stivale, e la Guerra che dal 1509 al 1516 tenne in scacco i nostri territori fu solo la terza di otto che infiammarono per sessant’anni l’intera Penisola.

Nella foto a sinistra il Ritratto di Giulio II dipinto nel 1511 da Raffaello, oggi conservato alla National Gallery di Londra. A seguire i suoi alleati nella Lega di Cambrai: Massimiliano I d’Asburgo in un ritratto di Albrecht Durer e il re di Francia Luigi XII


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nel menu ’ stagionalita’ e tradizione Accanto ai prodotti ittici pescati dal mare, l’abbondanza che arriva dagli orti La cucina chioggiotta è basata su due tipologie di ingredienti: quelli approvvigionati con la pesca e quelli che si coltivano sulla terra. In entrambi i casi a determinarne la qualità è la stagionalità. Sì perché il mare funziona esattamente come un orto: a tempo debito offre il meglio di se, a patto di saper aspettare e a patto che la mano che li pone in ricetta conosca intimamente le stagioni e le sue esigenze. E lo sa bene Armido Boscolo, chef del Ristorante Minerva, condotto insieme al cognato Fabrizio e alle rispettive mogli, Daniela e Nadia, che la fine dell’estate è il momento più esaltante per la dispensa della cucina. A fianco di calamari, canocchie, gallinelle, mazzancolle, seppie, fasolari e rombi, infatti, arrivano pronti a compendio: radicchi, patate, cipolle e l’immancabile zucca che se nell’arte di Goldoni è motivo di aspre “baruffe” in quella di Armido, invece, trova armonie delicatissime e ovviamente deliziose. Qui, infatti, il menù viene composto seguendo quell’intelligente predilezione di portare a tavola solo prodotti di stagione, in osservanza di quell’ortodossia che potremmo anche definire tradizione purché non diventi un limite alla creatività e alla facoltà di interpretazione. Per questo è bene fidarsi dell’estro di chef Armido e una volta seduti a tavola lasciargli facoltà di iniziativa. Dal menù non mancano le specialità di carne e per chi avesse meno esigenze la carta delle pizze è in grado di assecondare qualsiasi gusto, trovando anch’essa intelligenti sinergie con i prodotti locali. Un ruolo importante nell’offerta del celebrato ristorante hanno i vini: veneti, friulani e trentini e ovviamente lo spiccato senso, anch’esso nostrano, per l’ospitalità.

IL MIGLIOR PESCE preparato secondo tradizione

VERDURE DI STAGIONE direttamente dagli orti di Chioggia

PIZZERIA, il nostro segreto è la pasta

La cucina e la sala sono attrezzate per banchetti e cerimonie I tavoli affacciano direttamente sul mare Il ristorante è aperto tutti i giorni dalle 12.00 alle 14.30 e dalle 18.30 alle 24.00. Il lunedì i mestoli riposano Lungomare Adriatico - Lato Nord, 30015 - Sottomarina Mob. 339 6684500 - Tel. 041 4965367 ristorante.minerva@libero.it - www.ristorantepizzeriaminerva.it - Seguici su Facebbok e Twitter


MORTE

DI UN ARTIGLIERE L’ultima fatica letteraria di Lorenzo Carlesso verrà presentata il prossimo 4 ottobre alla Fiera delle Parole a Noventa Padovana

“F

ucilato in zona di guerra”: con queste parole si conclude il foglio matricolare dell’artigliere Alessandro Ruffini, morto a Noventa Padovana il 3 novembre 1917. A farlo fucilare, il generale Andrea Graziani: erano i giorni di Caporetto. Fu una esecuzione giusta o avventata e troppo sommaria? Non fu certo l’unico episodio poco chiaro accaduto durante la Grande guerra, ma questo in particolare, dopo la fine del conflitto, fu reso di pubblico dominio, ebbe vasta eco e divenne motivo di interrogazione parlamentare da parte del Partito socialista: il generale fu anche denunciato all’autorità giudiziaria, ma la cosa non ebbe seguito. Al contrario, dopo una brillante carriera all’interno del regime fascista, il generale Graziani morì in circostanze oscure nel febbraio del 1931. La memoria di Ruffini fu salvaguardata dalla comunità di Noventa, la quale continua a ricordare il sacrificio del giovane artigliere marchigiano di Castelfidardo: i fori delle pallottole che lo giustiziarono sono ancora visibili al centro del paese, dove una targa ricorda lo sfortunato soldato. Nel frattempo, esce a settembre per l’editore Tracciati di Padova un breve volumetto intitolato Morte di un artigliere, firmato dallo studioso Lorenzo Carlesso, che recuperando testimonianze d’epoca, articoli e memoriali, cerca di mettere ordine in ciò che si sa di quell’episodio e di tutta la vicenda e le polemiche che ne seguirono. Alla serata di presentazione sarà un evento al quale parteciperà anche “Teatronove”. Lorenzo Carlesso, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia dell’Università di Padova e vanta già alcune pubblicazioni, tra cui, sempre in tema di Prima guerra mondiale, Le radiose giornate di maggio. Interventisti e neutralisti a Padova alla vigilia della Grande guerra (La Garangola 2008), e uno su papa Pio XI (Dalla Brescia cattolica alla curia romana di Pio XI. L’itinerario biografico di Giovanni Battista Montini (1897-1939), Cleup 2015). L’editore Tracciati, che gestisce il sito www.padovagrandeguerra.it dove le pagine sul soldato Ruffini risultano le più lette in assoluto, ha dato alle stampe, nel 2015, il volume Padova e la Grande Guerra. Entrambe le opere sono acquistabili on line sul sito www.tracciati.eu .

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La Famiglia Morandi gestisce l 'intera filiera: dall 'allevamento di pecore, agnelli e castrati, alla loro trasformazione e vendita

Corte Bonicella,

agriturismo, B&B e fattoria didattica Un luogo ideale per pranzi e cene in cui è possibile uscire dai soliti schemi e ritrovare il piacere dei piatti tradizionali, ma rivisitati secondo il gusto moderno Un luogo incantato della campagna in cui il tempo trascorre ancora con il passo lento delle stagioni: questa è Corte Bonicella, agriturismo, Bed&Breakfast e fattoria didattica. Un punto fermo attorno al quale in realtà gira un mondo in costante movimento qual’è la pastorizia, arte che la famiglia Morandi si tramanda da generazioni e che qui ha trovato il suo valore più attuale. Moderni infatti sono i piatti proposti per pranzi e cene che escono dalla routine dei soliti sapori, le carni ovine ovviamen-

te sono il punto forte della casa: insaccati e stagionati, come i salami o la bresaola, sono autentiche specialità che rispecchiano la tradizione locale e si accompagnano a preparazioni ormai internazionali come gli arrosticini, gli arrosti o le costolette. Ovviamente serviti con creatività e fantasia, sapendo coniugare sapori ed esaltandone il valore come nel caso del pecorino locale, stagionato nella baita dell’alpeggio, abbinato alle marmellate fatte in casa. L’altro valore aggiunto di Corte Bonicella è l’ospitalità, perché solo chi nel proprio Dna ha la vita errante conosce il valore dell’accoglienza e il rispetto che si deve alla propria terra.

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ARTERRA di Loredana Pavanello

“Questo paradiso che muore di lebbra” La tutela del paesaggio è un tema che appassiona il territorio da decenni, tuttavia il costante attacco al quale è sottoposto il patrimonio naturale e architettonico forse dimostra che siamo lontani dall’intendere la vera importanza che esso rappresenta

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ra le grandi conquiste ottenute a favore del nostro territorio va indubbiamente annoverata l’istituzione del Parco Regionale dei Colli Euganei, avvenuta nel 1989 e frutto di intense battaglie civiche ed umane. Non sarebbe oggi possibile fruire della bellezza naturale dei Colli Euganei senza la legge che ne ha consentito la sopravvivenza fisica: una formula burocratica in apparenza, la Legge 29 novembre 1971, n. 1097 (“legge Romanato”), calata in un’Italia ancora ubriacata dal “miracolo economico” del dopoguerra e quasi del tutto insensibile ai problemi ambientali e di tutela e conservazione del patrimonio storico-artistico. Il Veneto “agro” finalmente non era più una regione di povera gente costretta all’emigrazione, ma una delle zone più ricche ed industrializzate del Paese: il fiume di benessere si era sovrapposto alle famose radici - oggi strumentalmente invocate a scopo elettorale -, cancellando almeno in superficie la fisionomia di un’unità geografica e culturale. Non è quindi cosa di poco conto, in quel clima di inizio anni 70, l’approvazione di un provvedimento - considerato la prima vera legge ecologica varata dal Parlamento italiano - poco sintonizzato con la crescente società dei consumi e coraggiosamente in contrasto con la

potente categoria dei cavatori: la legge speciale, presentata da Giuseppe Romanato (Democrazia Cristiana), stabiliva una decisiva serie di “norme per la tutela delle bellezze naturali ed ambientali e per le attività estrattive nel territorio dei Colli Euganei”, che portarono alla chiusura di più della metà delle settanta cave aperte, e la regolamentazione delle altre. Se si fosse continuato a scavare ai ritmi selvaggi degli

Non sarebbe oggi possibile fruire della bellezza naturale dei Colli Euganei senza la legge che ne ha consentito la sopravvivenza fisica: la Legge 29 novembre 1971, n. 1097 (“legge Romanato”) anni precedenti al provvedimento, probabilmente ora non potremmo riconoscere le forme dei monti quali il Cero, o il Ricco e gli altri che costituiscono quel paesaggio davvero singolare, quasi “letterario”, amatissimo da poeti e autori di ogni tempo, come Percy Shelley che vi scrisse dei versi o Ugo Foscolo, che vi trovò ispirazione per la genesi delle Ultime lettere di Jacopo Ortis nel 1789.

Nella foto in alto: il Castello del Catajo, a Battaglia Terme, costruito tra il 1570 e 1573 per volere di Pio Enea I degli Obizzi, su un progetto di Andrea da Valle e decorato all’interno dal validissimo Giambattista Zelotti, allievo di Paolo Veronese, oggi è minacciato dalla costruzione di un centro commerciale che sorgerà a poca distanza

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ARTERRA Dobbiamo a uomini intelligenti e vitali la salvezza (per quanto precaria) di un pezzo di Paese, uomini come Camillo Semenzato che già un decennio prima, nel 1961, aveva lanciato l’allarme presso la stampa, difendendo il valore dei Colli quale patrimonio comune, e non di quei pochi che li distruggevano per ragioni di profitto. Ma anche come quei gruppi di cittadini che nel 1968 diedero vita a Battaglia Terme al primo comitato in difesa dei Colli Euganei, le cui battaglie furono appassionatamente sostenute da giornalisti del calibro di Paolo Monelli, che “fotografava” la situazione dalla prestigiosa terza pagina del Corriere della Sera, ricordando ai politici che “i Colli Euganei non sono una bellezza provinciale; distruggerli, come si minaccia di fare, sarebbe come abbattere il Partenone o ridurre in briciole il Colosseo”; o ancora di Gigi Ghirotti e Bruno Zevi che scrivevano, rispettivamente, nelle colonne Stampa e dell’Espresso. Il caso, rimbalzato sulla stampa nazionale, divenne dunque parte dell’opinione pubblica, secondo un processo fondamentale che portò prima alla legge del 1971, quindi all’istituzione del Parco nel 1989 ed infine all’approvazione del Piano Ambientale nel 1998. Accanto alla minaccia dell’industria estrattiva, vi era, e continua ad insistere, quella altrettanto aggressiva della speculazione edilizia, resa ancor più grave dall’assenza (che perdura tuttora) di un Piano Paesaggistico Regionale. Eppure l’utilità di questo strumento (peraltro obbligatorio per legge dal 2004) è evidente: non è più possibile ragionare intorno alla valorizzazione di un singolo bene culturale - monumentale, storico-artistico o quant’altro -, come se si trattasse di un fossile immerso nella contemporaneità, un oggetto isolato privo di relazioni con il contesto che lo circonda; è certo giunto il momento - pena la distruzione completa di un territorio segnato dalla storia e vocato alla vita - di considerare i beni collettivi nell’ottica di un piano di “conservazione programmata”, per usare il principio formulato da Giovanni Urbani, direttore dell’Istituto Centrale del Restauro fra il 1973 e 1983. La lezione di Urbani verte su un concetto fondamentale: il restauro di un singolo oggetto (si tratti di un palazzo come di un quadro) è pressoché inutile se non si tutela, in modo scientifico e programmato, l’ambiente che lo ospita; poco serve, ad esempio, pulire la facciata di un palazzo degradata dallo smog se non si inizia ad attuare una politica seria di regolazione dell’inquinamento, e dunque di riduzione di quello stesso smog che causa l’alterazione. Non serve trattare come una bella bomboniera il centro storico di una città se la sua periferia viene deformata da scempi edilizi ed orripilanti cementificazioni.

Alcuni degli articoli con cui, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, Paolo Monelli la battaglia del primo comitato in difesa dei Colli Euganei di Battaglia Terme

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ARTERRA

Il Castello di San Pelagio di Due Carrare, ora sede del Museo dell’Aria

Questo è un discorso di grandissima attualità anche per i nostri Colli Euganei, luoghi di bellezza che sarebbe assurdo immaginare come un’isola separata dal più ampio contesto che li circonda. Il territorio dei Colli, interessante e apprezzato per l’aspetto “vago e pittoresco”, nonché per la singolarità geologica, vive in relazione a quella che è bello pensare come un’unità armoniosa, segnata dalla presenza del canale Battaglia e dai suoi castelli. Nel raggio di pochi chilometri si possono ammirare splendidi esempi di architettura fortificata, originariamente ideata per scopi difensivi, come è ad esempio il Castello Carrarese di Este, e ridefinita nei secoli successivi secondo nuovi canoni estetici e rinnovate funzioni, come è avvenuto nel caso del Castello Cini di Monselice, costituito da quattro nuclei databili fra XI e XV secolo. Vi è poi il Castello di San Pelagio di Due Carrare, ora sede del Museo dell’Aria, che vede la singolare combinazione della torre merlata di età medievale con il riadattamento tardo-settecentesco della parte abitativa, trasformata nella villa dei conti Zaborra. E ancora, presso Monticelli, il Castello di Lispida, sorto a fine Settecento su un antico complesso monastico e fatto costruire dai conti Corinaldi in stile neo-medievale. Di grandissimo pregio è poi il Castello del Catajo, a Battaglia Terme, costruito tra il 1570 e 1573 per volere di Pio Enea I degli Obizzi, su un progetto di Andrea da Valle e decorato all’interno dal validissimo Giambattista Zelotti, allievo di Paolo Veronese. Il maestoso edificio, caratterizzato dall’imponente fisionomia di una fortezza, fu poi ampliato e trasformato tra Sei e Settecento nella magnifica reggia ducale degli Este,

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per passare poi agli Asburgo. Requisito dal governo italiano dopo la Grande Guerra, viene messo all’asta ed acquistato dai Dalla Francesca per essere infine rivenduto nel 2015 a Sergio Cervellin, che ne ha promosso il restauro (2016) e la valorizzazione con un programma di aperture e visite guidate. Considerate queste presenze d’eccezione sembra davvero illogica, oltreché anacronistica, la costruzione di un enorme centro commerciale all’uscita del casello autostradale di Terme Euganee, proprio davanti al Catajo: un’opera di arrogante deturpazione a svantaggio dell’intera collettività, e a favore - come accadeva con i cavatori degli anni 60 - di pochi. Opera che andrebbe ad intaccare la filiera del turismo di qualità in un Veneto sempre più devastato da “grandi opere” inutili, e che con la promessa di una manciata di “nuovi posti di lavoro” (non importa di che tipo, e se realmente qualificanti) va a danneggiare le attività commerciali del centro storico, la virtuosità di chi opera in armonia con il territorio, la bella immagine delle realtà circostanti, il Catajo in primis, ma anche, nondimeno, l’eccellente profilo della villa “La Mincana”. A che cosa serve, o meglio a chi serve la creazione di un “non luogo” come un centro commerciale nel bel verde della campagna carrarese? Serve allora riannodare il filo con il passato per dare un senso al presente, e recuperare il coraggio di quegli uomini intelligenti e vitali che hanno salvato la prima volta i Colli Euganei, dando prova di esemplare impegno civico. Per sottrarre a un ingiusto destino questo territorio, o per dirla con Paolo Monelli, “questo paradiso che muore di lebbra”.


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appuntamento con l’autunno Norberto Gallo e Franca Borin dal 1978 portano in tavola il meglio delle stagioni attraverso la qualità delle materie prime servite con il gusto dell’ospitalità La stagione più generosa è sicuramente l’autunno, generosa per l’abbondanza dei prodotti che dai campi riempiono la dispensa e generosa, pure, per via degli stati d’animo che sa regalare come bisogno di nuovi sapori, di nuovi colori e come necessità di accorciare le distanze. L’autunno è un sentimento gioioso che richiama il piacere alla convivialità, ma in spazi stretti come attorno al tavolo di un ristorante. Per questo La Torre di Monselice è il posto giusto in cui trovare l’autunno: qui i piatti sono studiati per valorizzare la qualità della materia prima offerta dalla stagione. Porcini, finferli, ovuli e tartufi sono ormai i tratti distintivi del

menù, insieme alle paste rigorosamente caserecce, le carni, al fegato alla Veneziana, al petto d’oca affumicato che con l’arrivo dei primi freschi si impongono insieme alla crescente necessità di ritrovare i sapori perduti durante l’estate e concedersi momenti più distesi, famigliari, come in un tempo di tregua in cui a regnare è soltanto il piacere. Questa è l’ospitalità. Un piacere prolungato dalla carta dei dolci, anch’essi figli delle mani e non dell’industria, e dai vini che i padroni di casa amano proporre attraverso 120 etichette: alcune espressione delle alture locali e altre appartenenti alle grandi aree del buon bere internazionale.

Porcini, finferli, ovuli e tartufi sono ormai i tratti distintivi del menù, insieme alle paste rigorosamente caserecce, le carni, al fegato alla Veneziana, al petto d’oca affumicato che con l’arrivo dei primi freschi si impongono insieme alla crescente necessità di ritrovare i sapori perduti durante l’estate e concedersi momenti più distesi, famigliari, come in un tempo di tregua in cui a regnare è soltanto il piacere

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AMICI CON LE ALI Foto di S. Bottazzo

di Aldo Tonelli

L ’usignolo,

UN PICCOLO STRUMENTO MUSICALE VIVENTE Dopo averci allietato l’estate è già in preparativi per partire e raggiungere lidi più caldi

La prudenza lo porta raramente allo scoperto ma lo si può notare dalla coda color arancio

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“C

antare come un usignolo” è un famoso modo di dire e indica chi canta con una voce melodiosa proprio come l’usignolo, un piccolo passeriforme migratore lungo dal becco fino alla punta della coda circa 16 centimetri, che giunge da noi in aprile, volando spesso di notte, e riparte ai primi di settembre per svernare nell’Africa, a nord dell’Equatore. I maschi, come molti passeriformi, precedono le femmine di qualche giorno in territori già occupati in precedenza. Giunti nel loro territorio cominciano subito a cantare nascosti tra i cespugli dando il via ai gorgheggi in piena notte e proseguendo fino al mattino. Limpido ed energico, il canto è estremamente complesso e variegato nella composizione: gli usignoli maschi conoscono tra i 120 e i 260 tipi diversi di strofe che possono durare dai 2 ai 4 secondi. Nidifica da metà maggio a fine giugno, deponendo da 3 a 7 uova in nidi costruiti in vicinanza del suolo a una altezza che di regola non supera il metro: per tale motivo il rischio di predazione è elevato come pure quello del parassitismo da parte del


AMICI CON LE ALI Limpido ed energico, il canto è estremamente complesso e variegato nella composizione: gli usignoli maschi conoscono tra i 120 e i 260 tipi diversi di strofe che possono durare dai 2 ai 4 secondi usignolo, anche se riprodotto da un fonografo, che si perde nella notte e nella suite per piccola orchestra “Gli uccelli” il quarto tempo e dedicato all’usignolo. Come non ricordare poi la grande cantante francese Edith Piaf detta “il passerotto che cantava come un usignolo”, giocando sul cognome poiché nell’argot parigino passerotto si dice piaf. Lo scorso due giugno a Villaga, paese ai piedi del Colli Berici in provincia di Vicenza, il sindaco ha avuto l’idea di organizzare una serata dedicata ad un “Concerto di usignoli” e proporre Villaga come “il paese degli usignoli” nel nome del loro canto, dell’ecologia, della cultura e della poesia. Adagiato in un anfiteatro boscoso verdissimo, nelle notti di primavera tutto il paese risuona della stupefacente ricchezza del canto cristallino di decine di usignoli. Per finire un proverbio italiano che lo cita come sinonimo di libertà: “Meglio sentir cantare l’usignolo che rodere il topo”.

Nella foto in basso: l’abitato di Villaga. Lo scorso due giugno il sindaco ha proposto di denominare il comune come “Il paese degli usignoli” organizzando una serata artistico/ scientifica e una passeggiata per ascoltare il concerto notturno di questi piccoli cantori

Foto di M. Favaron

cuculo. Cova per due settimane e i nidiacei rimangono nel nido per altre due. I giovani maschi apprendono in questa fase il canto ascoltando il padre e gli altri maschi dei territori vicini. Essendo un insettivoro si alimenta fondamentalmente di piccoli insetti, larve e ragni che cattura al suolo e tra la vegetazione. Questo lo obbliga a effettuare spostamenti migratori per ricercare il cibo anche se occasionalmente si nutre di bacche selvatiche. Vive in media 5 anni, il più longevo è stato osservato in Spagna, grazie all’inanellamento, dove un esemplare risultava vissuto 10 anni e 11 mesi. A livello europeo è in leggera diminuzione mentre in Italia la popolazione viene considerata stabile o in leggera diminuzione. Anche nel Veneto è in leggera diminuzione ed è completamente scomparso da alcune aree dove si è fatto ricorso alla quasi totale eliminazione delle siepi: infatti le minacce maggiori per la specie sono la distruzione degli ambienti in cui nidifica e l’uso massiccio di prodotti chimici in agricoltura che possono provocare consistenti cali numerici. Altro elemento che incide fortemente è la variazione climatica in atto nelle aree africane di svernamento. Negli anni più aridi la probabilità di sopravvivenza degli individui scende a una percentuale compresa tra il 19% e il 40% rispetto al 50% che si registra in condizioni normali. Nell’antichità si pensava che le sue note avessero potere antidolorifico: lo si faceva ascoltare ai sofferenti e anche per rendere più lieve il trapasso dei morenti. Molto presente in letteratura in un racconto di Wilde, nelle fiabe di Andersen e nelle odi di Ovidio, Petrarca, G.B. Marino e Keats. Shakespeare nella tragedia “Romeo e Giulietta”, nella famosa scena del balcone, cita il canto notturno dell’usignolo e il canto del mattino dell’allodola. Hanno scritto composizioni ispirandosi al suo canto musicisti come Handel, Couperin, Vivaldi, Liszt e Ottorino Respighi (1879-1936), compositore e direttore d’orchestra, noto per i suoi poemi sinfonici dedicati a Roma. Nel finale del terzo movimento del poema sinfonico “I pini di Roma” prescrisse il canto di un vero

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