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N. 30 - Dicembre 2018 - Gennaio 2019 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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Editoriale:
CARO AMICO, TI SCRIVO... IL MONDO STA CAMBIANDO MA FORSE NON IN MEGLIO Tema:
CHI SI FERMA ALLE APPARENZE, IN PRATICA, VIVE MANGIANDO BUCCE...
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Numero 30
La campagna veneta si tinge di rosa
Editore: Speak Out srl di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) info@speakoutmedia.it
Pfas un’emergenza dimenticata
Alessandra Capato Emanuele Cenghiaro Mattia De Poli Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Anna Maria Pellegrino Ada Sinigalia Roberto Soliman Mario Stramazzo Aldo Tonelli
Impazza la pizza, questione di mode
Progetto Grafico:
LA NOTIZIA
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Nevio Scala, dalla panchina alla cantina
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N. 26 - Febbraio - Marzo 2018 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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N. 29 - Ottobre - Novembre 2018 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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N. 25 - Dicembre 2017 - Gennaio 2018 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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N. 28 - Luglio - Agosto 2018 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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N. 24 - Ottobre - Novembre 2017 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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N. 27 - Maggio - Giugno 2018 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
della Cooperativa Sociale Giovani e Amici di Terrassa Padovana. L’autore è Roberto Roin
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Inverno, inferno per via dei “diavoli”
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La copertina è a cura dei laboratori
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LA MEMORIA DI CARTA
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Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)
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PANORAMA GASTRONOMICO
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Tiratura: 10.000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013
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AMBIENTE
Hanno collaborato a questo numero:
Giornale chiuso in redazione il 29 gennaio 2019
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AGRICOLTURA
Direttore responsabile: Mauro Gambin
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Le nostre aziende presentano i loro prodotti da portare in tavola durante le feste
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EDITORIALE di Mattia De Poli
PENSIERI SOSPESI tra l’anno vecchio e l’anno nuovo
Riflessioni sui cambiamenti avvenuti, su quelli in corso e su quelli che (forse) verranno
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aro amico, ti scrivo… il mondo sta cambiando, ma non so se cambi in meglio o in peggio. Ogni volta che succede un incidente (anche grave, ma pur sempre un incidente), subito si pensa ad un attentato. Ed ora nelle notizie di cronaca gli atti terroristici si confondono con i gesti xenofobi: sono ugualmente gravi, ma appiattire la realtà annullando le differenze impedisce di cogliere i sintomi di un cambiamento pericoloso in atto nella società europea. Già, l’Europa: il prossimo 26 maggio gli Italiani voteranno per eleggere i loro nuovi rappresentanti al Parlamento europeo. In quei giorni gli altri Stati dell’Unione faranno lo stesso. Se si vuole garantire un futuro a questa istituzione, i suoi dirigenti dovranno fare scelte coraggiose. La svolta politica da Comunità economica europea a Unione europea è rimasta incompleta: manca una costituzione in cui gli Stati membri si riconoscano e che ne orienti le scelte. Anche gli Stati Uniti d’America, nonostante le forti differenze interne, hanno almeno una politica estera e una politica economica co-
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mune. Certe iniziative, è vero, devono partire dalla Commissione europea, composta da un membro per ogni Stato, nominato dai singoli governi, ma il Parlamento europeo le discute e, prima che vengano approvate, può proporre degli emendamenti. Nonostante tutto, la discussione parlamentare è sempre importante: prima di esprimere un parere, chi siede in un Parlamento dovrebbe approfondire l’argomento in questione, saper fare delle valutazioni personali e saperle spiegare alla gente. Questo è il compito che i cittadini demandano ai propri rappresentanti, perché uno studente, un lavoratore, un qualunque cittadino non ha il tempo o i mezzi per occuparsi di tutte le questioni di un Paese o dell’Unione europea. Non basta leggere un “tweet” e mettere un “like” o un “emoticon”. A tanti piace fare gli allenatori, ma la vita non è un gioco: non siamo tutti insegnanti, medici, scienziati. Caro amico, spero che la gente ritrovi la fiducia nei professionisti e sappia rivolgersi a loro con rispetto e umiltà.
EDITORIALE
Altrimenti gli studi universitari, le specializzazioni, i corsi di perfezionamento finiranno davvero per essere, come qualcuno auspica, pezzi di carta senza valore e tutti potranno esercitare un mestiere, influenzare l’opinione pubblica, giocare con la vita delle persone, formare le nuove generazioni, senza conoscenze e competenze specifiche di base. Ogni volta che cambia un governo, ci si aspetta una riforma del sistema scolastico e del processo di reclutamento del personale docente o sanitario, e le novità non tardano ad arrivare, alimentando confusione, disorientamento e scoraggiamento. Le persone vorrebbero certezze, ma la risposta della politica (vecchia e nuova) è spesso un condono. E allora, viva la furbizia. Caro amico, non so che cosa ci riserverà il 2019… Tra un anno sarà tutto passato e allora spero di poter guardare qualche foto in cui un gruppo numeroso di gente mangia, beve, ascolta musica e gioca in allegria, seduta su un prato verde all’ombra di un grande albero in una giornata di sole.
Caro amico, spero che la gente ritrovi la fiducia nei professionisti e sappia rivolgersi a loro con rispetto e umiltà. Altrimenti gli studi universitari, le specializzazioni, i corsi di perfezionamento finiranno davvero per essere, come qualcuno auspica, pezzi di carta senza valore e tutti potranno esercitare un mestiere, influenzare l’opinione pubblica, giocare con la vita delle persone, formare le nuove generazioni, senza conoscenze e competenze specifiche di base. 3
messaggio pubbliredazionale
CONSORZIO DI BONIFICA ADIGE EUGANEO
FORESTO SUPERIORE E CENTRALE,
PRESTO IL VIA AI LAVORI CHE RISOLVERANNO I PROBLEMI DI SICUREZZA IDRAULICA Nei bacini consortili a servizio di un’area di circa 5 mila ettari, tra Cavarzere e Cona, verranno apportati lavori per realizzare: una nuova idrovora, aumentare l’invaso dei canali principali e apportare un’inversione immissaria dal Canale dei Cuori al Gorzone I problemi di sicurezza idraulica dei bacini consortili meridionali Foresto Superiore e Foresto Centrale, deputati allo sgrondo delle acque meteoriche di una superficie di circa 5 mila ettari, tra Cavarzere e Cona, saranno presto superati grazie alla realizzazione di una idrovora e alla nuova configurazione della rete di bonifica. Si tratta di un intervento piuttosto articolato i cui lavori dovrebbero partire dopo l’estate e richiedere un costo di quasi due milioni di euro. 1.816.000 è l’importo preciso, per rendere idraulicamente connessi i due bacini, aumentare l’invaso dei canali principali tramite una ricalibratura degli stessi, garantendo una gestione ottimale in condizioni di piogge intense, e apportare un’inversione immissaria dal Canale dei Cuori, e quindi dalla laguna di Venezia, al Fratta Gorzone. L’area in questione, infatti, presenta diversi tipi di problematicità, la più grave sicuramente deriva dal trovarsi ad una quota di meno quattro metri sul livello del mare e quindi dall’essere gravata da una cronica sofferenza idraulica, in occasione di precipitazioni persistenti. Un difficoltà che il Consorzio di bonifica Adige Euganeo ha deciso di superare attraverso il posizionamento di una nuova idrovora, come spiega il suo presidente, Michele Zanato. “In prossimità del Ponte del bacino denominato “Buoro” troverà posto un
nuovo impianto, che attraverso due piccole pompe sarà in grado di prelevare dal canale Viola, e quindi dal canale Primario, circa 2.100 litri d’acqua al secondo per dirottarli nel Gorzone, nel caso lo scarico per gravità nella laguna di Venezia non dovesse funzionare”. Oltre alla depressione altimetrica, infatti, incide negativamente il gioco delle maree nello smaltimento delle acque, soprattutto in concomitanza con i venti di Scirocco il mare blocca ogni possibilità di deflusso. Con l’apertura di uno sbocco anche attraverso il Gorzone, quindi, gli ecSi tratta di un intervento cessi delle piogge piuttosto articolato i cui lavori avranno una sedovrebbero partire dopo conda via per ragl’estate e richiedere un costo giungere l’Adriadi quasi due milioni di euro tico. Le acque meteoriche verranno convogliate verso il nuovo impianto attraverso il risezionamento dei due canali principali, Viola e Primario, che permetterà di aumentarne l’invaso, e l’escavo ex novo di un tratto di canale, della lunghezza di circa 2200 metri. L’escavo di un tratto di canale ben più esteso, circa 4 chilometri, invece, si renderà necessario per permettere alle acque sollevate dall’idrovora di trovare sbocco nel Gorzone, garantendo una diversione idraulica
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A sinistra: la cartina indica la località Buoro, dove troverà posizionamento il nuovo impianto idrovoro Qui in alto: due pompe idrovore
che porterà benefici anche all’ecosistema della Laguna di Venezia. L’estensione dei canali di corrivazione e il generale risezionamento degli alvei, uniti alla diversione, infatti, garantiranno migliori condizioni per l’autodepurazione delle acque. “Un tempo - conclude il presidente Zanato - alla biodiversità dei canali di bonifica non si dava molta importanza, certo le condizioni di inquinamento erano sicuramente minori e per questo motivo i condotti venivano realizzati con scopi esclusivamente legati allo smaltimento delle acque. Spesso, per permetterne il deflusso in tempi rapidissimi, anche ricorrendo alla cementificazione delle sponde. Oggi, invece, le mutate condizioni del territorio, in particolare lo sviluppo di zone urbanizzate e di maggiore sviluppo agricolo, ha abbreviato i tempi di corrivazione dei bacini, con conseguente aumento delle portate di punta dei corsi d’acqua ed ha contestualmente aumentato i livelli di inquinamento delle acque di scolo. Una situazione che ci impone la necessità di apporre dei rimedi, in questo caso ottenibili estendendo la naturale capacità auto-depurativa dei corsi d’acqua con la realizzazione di sponde naturali e l’estensione della lunghezza dei canali”.
L’AUTODEPURAZIONE DELLE ACQUE Tutte le acque sia superficiali che sotterranee, hanno una certa capacità di reagire all’immissione diretta e indiretta di carichi inquinanti. Tale capacità, detta autodepurazione, comprende una complessa serie di meccanismi di tipo fisico (sedimentazione, diluizione, assorbimento), chimico (reazioni di precipitazione, ossidoriduzione, idrolisi) e biologico (degradazione batterica, ingestione da parte di organismi acquatici) volti a riportare l’acqua allo stato originario. Questi processi si sviluppano lungo tutta l’asta dei corsi d’acqua, soprattutto in quelli le cui sponde sono state mantenute allo stato naturale in quanto ne aumentano la biodiversità. Piante ed erbe, infatti, a loro volta creano habitat ideali a colonie di organismi che concorrono nella depurazione delle acque. Per quanto riguarda i canali di bonifica, la capacità degli stessi di un’autodepurazione diventa fondamentale, in quanto, at-
traversando quasi esclusivamente zone agricole diventano i ricettori dei fitosanitari o dei concimi usati per le colture. Queste forme di inquinamento se raggiungono, in quantità importanti, bacini caratterizzati da bassi fondali e una scarsa ossigenazione, come nel caso della laguna di Venezia, danno luogo molto spesso al fenomeno dell’eutrofizzazione, ossia una crescita eccessiva di alghe. Soprattutto in estate, quando l’aumento della temperatura dell’acqua combinato alla presenza delle sostanze nutrienti (fosforo e azoto, sempre presenti nei fertilizzanti) porta al proliferare di micro alghe e piante acquatiche, l’aumento di concentrazioni batteriche diventa esponenziale e causa un elevatissimo consumo di ossigeno. Una situazione deleteria per i pesci e le altre specie che vivono in questi ambienti.
L’autodepurazione delle acque è un processo che si sviluppa lungo tutta l’asta dei corsi d’acqua, soprattutto in quelli le cui sponde sono state mantenute allo stato naturale in quanto ne aumentano la biodiversità. Piante ed erbe, infatti, a loro volta concorrono nel creare habitat ideali a colonie di organismi che concorrono nella depurazione
Per tenerti informato sull’operatività del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo e sui progetti che riguardano il territorio, iscriviti alla newsletter settimanale, basta entrare nel sito www.adigeuganeo.it, cliccare sul tasto “Contatti” e registrarsi
L’ELZEVIRO di Eliano Morello
il bene contro il male
UNO SCONTRO PERENNE: La conoscenza superficiale molto spesso può portare al più semplice degli schematismi, ma in agricoltura è opportuno non demonizzare alcuna categoria e conoscere chi sa far bene il proprio mestiere
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l dibattito è ancora infuocato. Tutto è cominciato al Politecnico di Milano quando l’Università ha deciso di ospitare, con il patrocinio di Comune di Milano e della Regione Lombardia, un convegno sull’agricoltura biodinamica. La Senatrice a Vita Elena Cattaneo, docente presso la Statale di Milano nonché scienziata di fama mondiale, non ci sta ed esprime tutta la sua indignazione verso gli organizzatori sostenendo che una prestigiosa università non dovrebbe fare da cassa di risonanza su tematiche (biodinamico) non supportate da evidenze scientifiche, tanto da essere accostate a “pratiche che sconfinano nell’esoterismo e nella stregoneria”. Lo scontro venutosi a creare tra coloro che difendono a spada tratta l’agricoltura biologica e biodinamica, e coloro che accusano questi metodi di produzione di non essere migliori della tanto vilipesa agricoltura convenzionale, non è stato enfatizzato dalla stampa, ma ha comunque destato scalpore nel settore. Non desidero addentrarmi nella discussione, ma per chi fosse interessato ad approfondire il tema, la rete internet offre un’ampia documentazione: ciò che mi
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sento di promuovere è il botta e risposta intercorso tra Elena Cattaneo e Michele Serra (editorialista del Corriere della Sera). Non è la prima volta che argomenti di carattere scientifico vengono trattati da persone che non hanno le competenze per parlarne, ma pare che questa sia la regola piuttosto che l’eccezione, almeno qui in Italia. Quando si parla di alimenti, alimentazione e sicurezza alimentare, farmaci, vaccini e medicina, sono molti coloro a sentirsi in dovere di esprimere una opinione: che essa sia poi basata o meno su consolidate basi scientifiche, è un altro paio di maniche. Confondere le opinioni con i fatti per noi è ormai lo sport nazionale. Ma tornando alla disputa, le cose sono ulteriormente peggiorate quando la scienziata Cattaneo si è per-
Non possiamo essere così ingenui da credere che tutto il bene sia nel biologico e tutto il male stia nell’agricoltura tradizionale. Ogni metodo ha i suoi risvolti positivi e negativi
L’ELZEVIRO messa di puntualizzare che anche nella coltivazione biologica e biodinamica vengono impiegati prodotti chimici (naturali, certo, ma derivanti dalla sintesi chimica operata dalle industrie del settore, che producono rame, zolfo, polisolfuro di calcio, spinosad, piretrine, azadiractina ecc.), i quali hanno un impatto ambientale e sulla salute molto grave (rame in primis). Ecco la vera scintilla che ha scatenato il vespaio. Il rame, proprio per il fatto che il suo impiego in agricoltura biologica e biodinamica impatta notevolmente sull’ambiente, ha visto il proprio utilizzo fortemente ridimensionato, passando dai 6 kg/ha/anno di rame metallo a 28 kg/ha in 7 anni (media di 4 kg/ha/anno), ma con la possibilità di splafonare negli anni più difficili. Altra regolamentazione è arrivata da Accredia che ha vietato l’uso di concimi fogliari (sempre in agricoltura biologica e biodinamica) contenenti rame: sarà ammesso l’impiego solo nei casi di manifesta carenza nutrizionale. Ma non è finita qui.
La scienza non è democratica: in questo campo non contano le opinioni della maggioranza, ma i fatti, i quali “devono” essere scientificamente dimostrati Il governo, a inizio dicembre 2018, nel pieno del dibattito tra l’utilità ambientale dell’agricoltura biologica e quella convenzionale, ha deciso di lavorare al Disegno di legge (Ddl) dal titolo “Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico” che contiene l’equiparazione tra metodo biologico e biodinamico. Molti parlamentari hanno salutato con favore (acriticamente) la proposta e questo forse è stato indirizzato anche dalla diffusione del rapporto “Cambia la terra - rapporto annuale, edizione 2018” con un sottotitolo sibillino: “Così l’agricoltura convenzionale inquina l’economia (oltre che il pianeta)”. Già dal titolo del Ddl si possono intuire il pensiero e le opinioni di chi legifera. Questa è stata la molla che ha fatto finalmente risvegliare studiosi, specialisti, agronomi e produttori agricoli, i quali hanno contestato i contenuti del Ddl, nonché il metodo adottato dalla politica: mancanza di dialogo e di contraddittorio, difendendo a spada tratta una metodologia di coltivazione semplicemente perché “va di moda”. Duecentotredici esperti hanno pertanto scritto una nota critica ai Senatori, chiedendo di modificare il Ddl sul biologico. Senza entrare nel merito delle osservazioni fatte (le quali sono facilmente reperibili in
rete), mi vorrei soffermare su un punto. Nella nota sottoscritta dagli esperti è stato messo in discussione solo il metodo di produzione biologico, non tanto l’impianto del Ddl di per sé. Il Governo sta tentando di avvallare il biologico e di farlo assurgere a disciplina nazionale, a scapito dell’agricoltura tradizionale. La locandina di un convegno contro Ciò che pare l’agricoltura convenzionale non sia chiaro a molti, politicanti compresi, è che il biologico non è la salvezza dell’agricoltura: si tratta di un metodo di coltivazione che ha dei vantaggi, certo, ma anche molUn recente articolo che prende ti limiti. Non è di mira il mondo del biologico tutto oro quello che luccica, e non possiamo essere così ingenui da credere che tutto il bene sia nel biologico e tutto il male stia nell’agricoltura tradizionale. Ogni metodo ha i suoi risvolti positivi e negativi. Dal dibattito sembra che ci sia uno scontro tra buoni e cattivi, i buoni pretendono di salvare il pianeta mentre i cattivi lo vogliono uccidere. Alcuni denunciano e sostengono che con il Rapporto annuale, il movimento del Biologico ha sferrato un attacco diretto al sistema dell’agricoltura convenzionale, autoproclamandosi paladino della salute, della salvaguardia del territorio, del pianeta e di tanti altri benefici non dimostrati e anzi in contrasto con alcuni studi apparsi su riviste internazionali. Forse molti non sanno che la scienza non è democratica: in questo campo non contano le opinioni della maggioranza,
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L’ELZEVIRO ma i fatti, i quali “devono” essere scienCONTRIBUTO TECNICO-SCIENTIFICO ALLA DISCUSSIONE tificamente di9 Gennaio 2019 mostrati. Due opinioni in campo scientifico non possono avere pari dignità. Quello che molti firmatari della modifica del Ddl denunciano è che Un gruppo di 213 esperti ha scritto una il tormentone nota critica ai Senatori chiedendo di del Bio abbia modificare un Decreto di Legge troppo creato un mosbilanciato a favore del biologico vimento con finalità dogmatiche, omologanti, radicali e fondamentaliste, poco incline al confronto, arrogante e intriso di pregiudizio, pressapochismo e utopia totalizzante. Vediamo ora chi sono gli attori di questo scontro culturale: da una parte abbiamo Federbio, ISDE (Medici per l’ambiente), Legambiente, Lipu e WWF; dall’altra si sono uniti e hanno preso posizione: Docenti Universitari, Ricercatori, l’Accademia Nazionale di Agricoltura, la Divisione Ricerca della Società Produttori Sementi, rappresentanti del Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura, di varie Università Italiane e molti Laureati in Scienze Agrarie, professionisti del settore e così via. Entrare nel merito di chi abbia ragione o torto non è facile ma per prendere posizione non è sufficiente presumere di conoscere: occorre informarsi e approfondire. Anche sostenere che il lavoro che si cita è stato pubblicato su una rivista scientifica non è sufficiente come non è sufficiente che una tesi sia sostenuta da chi ha una laurea ma non conosce nulla di Agronomia, Biologia vegetale e animale, Chimica del suolo, Ecologia, Statistica, Genetica e Miglio-
Testo per gli Onorevoli membri del SENATO DELLA REPUBBLICA ITALIANA relativo alla Discussione del DDL “Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico”.
INDICE
Riassunto Obiettivo del documento 1. Aspetti poco conosciuti, conflittuali e negativi del biologico 2. La necessità di una legislazione agricola che tuteli l’interesse generale 3. Analisi dei singoli articoli del DDL Conclusioni Approfondimenti sui temi trattati nel testo Bibliografia e riferimenti fattuali alle note evidenziate Estensori e firmatari
pag. 2 pag. 3 pag. 3 pag. 5 pag. 7 pag. 15 pag. 16 pag. 23 pag. 26
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ramento Genetico, Economia e Ingegneria agraria. Occorre cercare lo specialista, per quanto possibile. Come cittadini dovremmo finirla di sentirci informatissimi quando si parla di salute, di medicina, di alimenti e alimentazione. Se abbiamo un problema alla vista non andiamo certo dall’ortopedico, se la nostra macchina non funziona non andiamo dal panettiere, ma cerchiamo lo specialista ovvero chi se ne intende. Bisogna informarsi in modo corretto, il che significa ricercare i dati scientificamente provati, in riviste e siti affidabili, e affidarsi a chi è esperto nel settore, senza avere l’arroganza di assurgerci a esperti di cose che non comprendiamo. E prima di parlare o dare una notizia è importante verificare che la notizia sia veritiera e fondata, cercando di non assecondare la tendenza di molto giornalismo a produrre sensazionalismo, diffondendo paure ingiustificate. Dobbiamo cominciare a dubitare di chi cerca di relegare i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, chi ha la patente di buono? Per inciso, ha destato molto clamore un articolo apparso sulla prestigiosa rivista inglese Nature secondo il quale “l’agricoltura biologica avrebbe un impatto maggiore sul clima rispetto a quella convenzionale” (volume n. 564 pag. 249-253) pubblicato il 12 dicembre 2018. Ebbene, questo studio svedese è stato ricevuto dalla rivista il 23 marzo 2017, e dopo essere stato verificato (peer review), è stato accettato il 12 settembre 2018 e pubblicato il giorno medesimo. Questo solo per evidenziare quanto tempo può necessitare prima di divulgare uno studio fatto con i crismi della ricerca scientifica. Segnalo inoltre un interessante articolo apparso su Le Scienze a ottobre 2018 (a pag. 47) dal titolo: “Il pensiero antiscientifico visto dalla scienza”. Nel nostro Paese siamo ancora distanti dal pensiero globale, ritenendo che chiudendoci a riccio salveremo il mondo. Ma un grande scienziato, Edward Norton Lorenz, si chiedeva (provocatoriamente) se “può il battito delle ali di una farfalla in Brasile, scatenare una tempesta in Texas?”.
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LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE di Ada Sinigalia
di rosa
LA CAMPAGNA VENETA SI TINGE Un’impresa agricola su quattro è gestita da una donna su un totale di oltre 63mila. Molte hanno ripreso in mano i campi dei genitori o del marito, altre hanno deciso di cambiare mestiere e di dedicarsi alla terra. L’approccio a questa scelta professionale quindi non avviene più per destino ma per convinzione
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umentano di anno in anno le donne che scelgono di lavorare in agricoltura come imprenditrici tanto che oggi un’impresa agricola su quattro veneta è gestita da una donna su un totale di oltre 63mila. Molte hanno ripreso in mano la campagna magari dei genitori o del marito, altre hanno deciso di cambiare mestiere e di dedicarsi alla terra. L’approccio a questa scelta professionale quindi non avviene più per destino ma per convinzione. Infatti, un elemento di novità è l’arrivo sui campi di imprenditrici che hanno seguito percorsi formativi diversi dall’agricoltura, come raccontano le intervistate.
VALENTINA GALESSO Il babbo le aveva impresso nel Dna la passione della campagna in quanto coltivava e vendeva frutta e verdura al mercato di Padova. Valentina però pur amando la natura ha preferito seguire il commercio piuttosto che la produzione scegliendo per la sua carriera il campo della moda. E così tra passerelle ed eventi fashion, tra Milano, Parigi ha seguito le nuove tendenze aprendo uno show room e concentrandosi sulle scarpe.
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Le imprenditrici agricole venete dimostrano capacità di coniugare la sfida con il mercato e il rispetto dell’ambiente, la tutela della qualità della vita, l’attenzione al sociale, la curiosità per la tecnologia, la valorizzazione dei prodotti tipici locali e la biodiversità, diventando protagoniste in diversi campi dall’agriturismo alla fattoria didattica. Da queste esperienze si evidenziano competenze nuove tipo tutor della spesa, l’agritata o l’operatrice agricola sociale. Le giovani scoprono mestieri antichi come sfida moderna, praticando la pesca, la pastorizia e la bachicoltura.
Valentina Galesso dalle passerelle degli eventi fashion alla scuderia, con la voglia di aiutare gli altri a migliorare e ad integrarsi in un mondo di alti valori
“Coltivavo nel cassetto il sogno di avere una fattoria e l’ho realizzato con una scuderia sociale, data la mia passione per i cavalli”. Con Alice, veterinaria e docente all’università di Padova, l’amicizia si è trasformata in un rapporto di società. Nella scuderia sociale di Bovolenta (Pd), posto incantato tra piante ed erbe officinali, i cavalli sono curati e impiegati per ippoterapia, equitazione e ippica. Un cambio di vita radicale con un tuffo nel verde con la voglia di aiutare gli altri a migliorare e ad integrarsi in un mondo di alti valori.
LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE
CHIARA BORTOLAS Il destino di Chiara Bortolas, da biologa molecolare, era in un laboratorio di analisi dove mettere in pratica la sua laurea e una vocazione professionale. E infatti, la porta dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie l’ha varcata e tra vetrini, microscopi, piastre e provette c’è rimasta per sette anni, finché il richiamo della campagna, dell’aria aperta, della freschezza dei prodotti l’ha riportata nella terra natia a Feltre, nel bellunese. “Convinto e primo sostenitore di questa scelta - racconta la trentottenne Chiara Bortolas - è stato il mio compagno Gabriele che è molto di più, è pure il mio socio. Condivisione di ideali e spirito di sacrificio hanno forgiato maggiormente il nostro rapporto. Ora
Chiara Bortolas, dai laboratori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie a una campagna di circa 30 e 50 capi di ovini da allevare
insieme coltiviamo circa 30 ettari tra ortaggi e seminativi e alleviamo anche 50 capi di ovini”. Nel 2018 Chiara è stata eletta responsabile regionale di Donne Impresa e Vice presidente Nazionale dello stesso movimento. “Affronto con l’appoggio della famiglia queste nuove sfide, concentrando le energie tra attività agricola e di rappresentanza. Una crescita professionale che dopo l’Università pensavo fosse legata alla ricerca. Invece lo studio è continuo sui campi, come nelle varie manifestazioni dove portiamo il Made in Italy con la sua unicità e l’identità di un popolo, quello italiano, che lo genera ogni giorno con onestà secondo i principi della trasparenza verso i consumatori con cui noi produttori abbiamo stretto un’alleanza che difficilmente potremmo tradire”.
Le imprenditrici agricole dimostrano capacità di coniugare la sfida con il mercato e il rispetto dell’ambiente, la tutela della qualità della vita, l’attenzione al sociale, la curiosità per la tecnologia, la valorizzazione dei prodotti tipici locali e la biodiversità
CHIARA RECCHIA Chiara Recchia rappresenta la quarta generazione dell’azienda agricola fratelli Recchia. La famiglia Recchia dal 1906 si dedica alla viticoltura e alla produzione e vendita del vino sulle colline di Jago, nel comune di Negrar di Valpolicella: uno dei cinque comuni della Valpolicella Classica, dove coltiva 100 ettari di vigneto. “Sono entrata a pieno titolo in azienda subito dopo la maturità e il mio ruolo era quello un po’ di jolly: facevo tutto quello che restava da fare. Alla fine degli anni novanta infatti la vita aziendale era ben diversa da ora e la struttura non era certamente quella di oggi. Quindi a parte le due ore in ufficio in cui rispondevo al telefono o al fax, non avevo tanto da svolgere alla scrivania e quindi mi dedicavo a tutto il resto: lavori in cantina, spazzare i piazzali, im-
Chiara Recchia rappresenta la quarta generazione dell’omonima azienda impegnata nella produzione e vendita di vino sulle colline di Jago, nel comune di Negrar di Valpolicella
bottigliare, etichettare, vendere ai clienti privati che acquistavano direttamente da noi”. Poprio dall’approccio con la clientela e dagli apprezzamenti ricevuti sul vino è nata l’idea di Chiara: fare la vendita diretta del vino imbottigliato. Fino ad allora, infatti, l’azienda agricola per scelta commercializzava il proprio prodotto sfuso agli altri imbottigliatori. “Dalla mia intuizione è nato un nuovo percorso: la creazione del marchio, lo studio di un etichetta rappresentativa e la ricerca di clienti, il primo dei quali trovato in Svizzera. A 21 anni sono salita in macchina senza navigatore ma con le fotocopie delle mappe europee per andare a trovarlo. L’appuntamento si è concluso con un ordine ed ha dato inizio ad una grande rivoluzione dell’intera azienda: dal vigneto all’imbottigliamento. Una nuova forma di gestione controllata per una produzione in totale sicurezza per noi e il consumatore”.
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AMBIENTIAMOCI di Emanuele Cenghiaro
PFAS:
IL DISASTRO SILENZIOSO L’inquinamento provocato dall’azienda di Trissino, Miteni, ha assunto dimensioni gigantesche, il monitoraggio degli effetti coinvolge circa trecentomila persone, eppure la strage degli alberi nelle Dolomiti ha fatto più notizia
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AMBIENTIAMOCI
L’
acqua scorre dalla terra verso il mare, evapora, ritorna alla terra sotto forma di pioggia. Ma c’è un altro ciclo altrettanto prezioso soprattutto per la vita animale: l’acqua che scompare nel terreno, purificandosi in modo naturale in decenni di lenta filtrazione che la conduce ad accumularsi in falde profonde. Alla fine, riemerge nelle risorgive. A queste falde e a queste risorgive attingono in gran parte gli acquedotti veneti per il bisogno dei propri cittadini. Le falde acquifere nel Veneto sono infatti abbondanti nella fascia pedemontana, ma sono sotto osservazione perché sovrasfruttate negli ultimi decenni e in costante, pericolosa, contrazione. L’uomo però non si accontenta di abusare delle risorse naturali, fa di più: le inquina. Il caso sotto gli occhi di tutti è quello di Trissino, in provincia di Vicenza, dove nelle acque vi sono altissimi livelli dei cosiddetti PFAS, sostanze perfluoroalchiliche utilizzate in campo industriale per la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi. Sostanze non naturali, quindi, che riversate per decenni nei torrenti sono arrivate a inquinare la falda, rendendo vani decenni di paziente lavoro della natura. L’azienda additata come colpevole di tutto ciò - ma c’è un’indagine ancora in corso - è l’industria chimica Miteni di Trissino, che a sua volta ha chiamato in causa le centinaia di concerie della zona che di Pfas fanno un uso ampio e crescente. Nel 1966, quando qui iniziò la produzione di Pfas, nessuno sospettava che le conseguenze potessero essere così devastanti. Ma in seguito, forse, l’azienda intuì qualcosa, commissionò uno studio e qualche anno dopo smise di produrre Pfas a “catena lunga”, sostituendoli con quelli a “catena corta”, apparentemente meno nocivi. Il danno però era stato fatto. Sperare che il tutto venisse a galla il più tardi possibile è stata la probabile linea di azione. Che, poi, i processi per danni ambientali vanno per le lunghe e alla fine potrebbe finire che vadano in prescrizione. E non è un’ipotesi remota. Nel frattempo, l’anno scorso, la Miteni ha chiesto il fallimento. Qualcuno pagherà? “La Miteni, ma prima di lei altre, all’inizio c’era la Rimar ricerche Marzotto, ha continuato a riversare per anni in un torrente, e quindi in falda, prima Pfas a catena lunga e poi a catena corta, che sono comunque più inquinanti di altre sostanze rilasciate, ad esempio, dalle concerie”, ci racconta la dottoressa Marina Lecis, consulente ambientale dell’associazione La Terra dei Pfas. “Oggi che le indagini sono concluse - continua - ci aspettiamo che il Ministero dell’ambiente e la Regione chiedano i danni per i costi della bonifica. Il Ministero si dovrebbe costituire parte ci-
Autodenunciandosi, la Miteni, avrebbe forse consentito alle autorità di correre ai ripari e ridurre le conseguenze sui cittadini, ma invece si è preferita la via del silenzio, forse auspicando che il problema emergesse il più tardi possibile vile così come i sindaci e tutti i singoli che sono stati danneggiati. Quello che non mi va giù è il rischio che la causa vada in prescrizione perché i reati per cui la Miteni è imputata sono stati riconosciuti solo fino al 2013, anno di avvio della bonifica. Non riconoscendo il reato di “omessa bonifica” anche per gli anni successivi, non può essergli applicata la legge sugli “ecoreati”, approvata solo nel 2015, che non prevede la prescrizione”. Un plauso invece la Lecis lo indirizza al Noe (Nucleo Operativo Ambientale) di Treviso, che con il suo operato scrupoloso e efficiente avrebbe evitato che la vicenda andasse già in prescrizione. E ci rivela che, se è vero che la Miteni è chiusa, a rispondere potrebbe-
Marina Lecis, consulente ambientale dell’associazione La Terra dei Pfas
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AMBIENTIAMOCI
Fiume Fratta-Gorzone. Per decenni le sostanze inquinanti sono state scaricate nelle sue acque
Esiste una probabile associazione tra esposizione a PFOA e ipercolesterolemia, ipertensione in gravidanza e pre-eclampsia, malattie della tiroide e alterazioni degli ormoni tiroidei, colite ulcerosa, tumore del rene e tumore del testicolo ro essere chiamate le aziende che la controllavano, la Mitsubishi fino al 2009 e la Icig successivamente. “Due aziende che, a differenza della Miteni, godono di ottima salute”, precisa. La situazione attuale è che gli acquedotti sono a posto grazie a un enorme sforzo anche economico da parte dell’ente gestore per dotarsi, ad esempio, di appositi filtri a carboni attivi. Nel frattempo la Regione ha abbassato i limiti di Pfas consentiti nelle acque potabili. Il problema è che se si ammorbano le falde, non basta versare un po’ di cloro, come in piscina, e tutto si risolve: le acque rimarranno inquinate per decenni e forse più. Così come quelle dei pozzi e delle risorgive, e poi dei fiumi in cui confluiscono e dei territori che attraversano. Dove vi saranno sempre animali che si abbeverano e pesci che sguazzano. E qualcuno che magari ci irrigherà la campagna. Per decenni la popolazione civile ha assunto Pfas bevendo acqua dai rubinetti di casa e dalle fontanelle
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di strada: il corpo li espelle a fatica, ci vogliono anni. Nel frattempo nella zona definita “rossa”, i trenta Comuni dove le persone sono state più esposte prima dell’applicazione dei filtri agli acquedotti e in cui le analisi hanno rilevato limiti ben oltre la norma nella maggioranza delle persone esaminate, potrebbe non essere impossibile assumerne ancora, ad esempio mangiando carni e verdure. Il rischio potenziale e sanitario non è stato ancora quantificato, ma recenti studi pare abbiano dimostrato che i Pfas si accumulano negli organismi e ne vengono espulsi a fatica. Il sito della Ulss 8 Berica cita studi americani secondo cui “esiste una probabile associazione tra esposizione a PFOA e ipercolesterolemia, ipertensione in gravidanza e pre-eclampsia, malattie della tiroide e alterazioni degli ormoni tiroidei, colite ulcerosa, tumore del rene e tumore del teLa popolazione civile ha assunto Pfas bevendo acqua dai rubinetti di casa e dalle fontanelle di strada. Oggi la situazione degli acquedotti è sicura, ma ha richiesto un enorme sforzo economico
AMBIENTIAMOCI
sticolo”. Nonostante l’Istituto superiore di Sanità abbia minimizzato i rischi per la popolazione, il presidente della Regione del Veneto ha emesso un’ordinanza con la quale ha vietato il consumo di pesce proveniente dalle acque superficiali della cosiddetta “zona rossa”, prorogato fino al 30 giugno 2019. La zona rossa, a est di Trissino fino al mare, riguarda 90mila persone. Ma l’area di monitoraggio per le possibili ricadute sulla salute si è allargata a territori di quattro province venete: da Trissino il problema è arrivato fino al Polesine, ma tocca l’area a sud dei Berici e dei Colli Euganei fino al veronese, portando così a circa 300mila il numero di persone. Le strutture pubbliche e gli enti locali come la Regione hanno posto in atto azioni d’emergenza, non sempre tempestive, come i piani di sorveglianza sanitaria con esami gratuiti per chi vive nell’area di massima esposizione. Se anche qualcuno un giorno pagasse per questo disastro, considerato il più grave nel suo genere a livello mondiale, non sarà mai abbastanza, soprattutto perché le conseguenze non sono ancora ben chiare né quantificabili. Si saprà mai se vi saranno persone morte a causa dei Pfas, quanti bambini non saranno nati per infertilità, quanto sarà costato alla sanità pubblica curare le patologie croniche da essi indotte? A noi di “Con i piedi per terra” pare che di questo disastro ambientale, su scala europea, si parli troppo poco. Per fortuna vi sono dei comitati civici che
Si saprà mai quante persone saranno morte a causa dei Pfas, quanti bambini non saranno nati per infertilità, quanto sarà costato alla sanità pubblica curare le patologie croniche da essi indotte? tengono viva l’attenzione. La strage degli alberi nelle Dolomiti ha fatto più notizia: giustamente i veneti si sono mobilitati per sostenere la rinascita delle loro montagne e delle popolazioni che le abitano. La popolazione colpita dai Pfas è però maggiormente investita, c’è gente che convive ogni giorno con angoscia nella testa… È necessario essere solidali anche con loro, prima di tutto informandoci: siamo consci che la cosa riguarda anche noi? Sperando che a qualcuno non faccia male che se ne parli.
Una protesta da parte di Green Peace
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SCEGLIAMO CON RIGORE LE NOSTRE MATERIE PRIME Produciamo pasta fresca all’uovo e ripiena con lo scrupolo di usare solo i migliori prodotti, selezionati, testati e analizzati per garantire sempre la massima sicurezza alimentare Nella produzione di pasta l’uso delle farine è di fondamentale importanza. Da queste, infatti, deriva la genuinità, le qualità organolettiche e nutritive del prodotto finale. Noi del Pastificio Artusi, per tutti i nostri prodotti, abbiamo deciso di usare solo le farine 00 Due Passi, realizzate dal Consorzio Agricolo Nordest con frumento coltivato esclusivamente in Pianura Padana. Siamo gli unici a farlo perché crediamo nel valore della nostra terra e nella serietà di chi lavora con scrupolo e rigore. Infatti, le farine Due Passi vengono prodotte con le stesse attenzioni con cui il Consorzio porta avanti la propria storia dal 1895. Passione e attenzione alla salute sono i binari lungo i quali si è sviluppata la loro secolare attività di agricoltori, specializzati nella produzione di cereali. L’altro aspetto è la trasparenza, la filiera di produzione delle farine Due Passi, infatti, è garantita oltre che da CSQA UNI EN
ISO 22005:08 dalla serietà di chi la produce, in quanto la rintracciabilità parte da un’attenta selezione delle varietà di frumento e si declina in campo con accordi diretti con i contadini impegnati nella produzione. Dal Centro Selezione Sementi di Montebello Vicentino, ai centri di Raccolta di Conselve e Montagnana tutto avviene sotto la lente d’ingrandimento del nostro territorio e lo stesso scrupolo viene esteso alle fasi successive di essicazione dei grani e molitura con sistematici processi di controllo, ad ogni passaggio, curati da laboratori specializzati. Questa è la storia che è entrata a far parte anche della nostra azienda e da qui in poi è nostro compito preservare il valore di una materia prima così preziosa e ovviamente valorizzarla attraverso le ricette e i metodi di produzione che dal 1998 qualificano le paste a marchio Artusi.
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AMICI CON LE ALI di Aldo Tonelli
i Passeri?
DOVE SONO FINITI
Da uccellino presente in tutte le città e campagne d’Europa è in pratica diventato una specie minacciata: la Passera d’Italia ha subito in Italia un decremento dal 2000 al 2010 del 47% 18
AMICI CON LE ALI Secondo gli ornitologi la diminuzione dei passeri è determinata dalla riduzione dei siti idonei alla riproduzione, alla diminuzione e depauperamento degli habitat, all’inquinamento e all’uso di prodotti chimici in agricoltura e conseguente diminuzione degli insetti, anello fondamentale nella catena alimentare gravi
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ino a pochi anni fa ne vedevi frotte zampettare qua e là a caccia di briciole, oggi sono pressoché scomparsi, non se ne scorgono i nidi e non si ode il caratteristico cinguettio: dove sono finiti i passeri, dove sono le séeghete? In Italia vivono quattro specie di uccelli del genere Passer: sono la Passera oltremontana P. domesticus, diffuso in tutta Europa con la sommità del capo grigiastra, la Passera d’Italia P. italiae con la sommità del capo marroncina tipico del nostro Paese e di poche altre aree, la Passera sarda P. hispaniolensis con il petto pesantemente striato di nero diffusa in Sardegna, Sicilia e in poche altre isolate zone italiane, la Passera mattugia P. montanus, che si distingue per la macchia nera sulla guancia ed è l’unica delle quattro dove non è evidente la differenza di piumaggio tra maschi e femmine. Da uccellino presente in tutte le città e campagne d’Europa è in pratica diventato una specie minacciata: la Passera d’Italia ha subito in Italia un decremento dal 2000 al 2010 del 47% (-5% di media all’anno). Quando una specie animale molto diffusa diminuisce rapidamente e drasticamente di numero le colpe sono sempre di molti fattori concomitanti. Troppo semplicistico e non scientifico è attribuire la colpa a una sola causa come per esempio alla competizione con altri animali: Gazze, Ghiandaie, Gabbiani reali e Cornacchie grigie non dovrebbero fare grosse differenze con la loro azione predatrice su uova e nidiacei concentrata nei pochi mesi della nidificazione, poiché vi sono migliaia di anni di convivenza ed equilibri raggiunti a meno che questi non vengono alterati da altri fattori. Semplicisticamente si riversa la colpa a questi animali selvatici dimenticandoci invece per esempio quanti uccellini catturino i nostri gatti domestici che non sono in equilibrio naturale: li alimentiamo con cibi ad hoc e, nonostante questo, per soddisfare i loro istinti cacciano lo stesso nidiacei e adulti e non solo nel periodo riproduttivo ma tutto l’anno. Nel caso dei passeri le “colpe” secondo gli ornitologi sono invece molte e variegate. Non facili da analizzare ma da imputare principalmente alla diminuzione dei siti idonei alla riproduzione, alla diminuzione e depauperamento degli habitat, all’inquinamento e all’uso di prodotti chimici in agricoltura e conseguente diminuzione degli insetti, anello fondamentale nella catena alimentare. Pur essendo prevalentemente granivoro, il passero necessita di molti insetti nel periodo della riproduzione per nutrire i pulcini, con l’aumento dell’uso dei pesticidi e la diminuzione degli insetti (uno studio tedesco ha stabilito che stiamo assistendo a una vera e propria ‘apocalisse degli insetti’) i passeri e in generale gli uccelli dei campi non sanno più
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AMICI CON LE ALI Cerchiamo di facilitare la presenza dei passeriformi piantando siepi nei giardini e in campagna affinché possano trovare rifugio per nidificare e difendersi dalle predazioni e cerchiamo di limitare l’uso di sostanze chimiche Passera d’Italia e mattugia con la tipica macchia nera sulla guancia
Passera oltremontana e d’Italia
come dare da mangiare ai loro piccoli e quei pochi che trovano molte volte si rivelano bocconi avvelenati, mortali. Il problema non è solo italiano ma globale: perché scompaiono gli insetti? Studi recenti puntano l’indice sull’uso degli insetticidi sistemici denominati neonicotinoidi che vengono assorbiti dalle piante ed avvelenano gli insetti che si nutrono di qualsiasi parte delle piante trattate. Ora è arrivata la conferma di quello che si teorizzava soltanto: i pesticidi sono letali anche per gli uccelli che vivono negli ambienti agricoli. Negli ultimi tre anni è stato registrato un calo preoccupante nelle popolazioni di uccelli che abitano le aree agricole del Vecchio continente, alcune specie sarebbero diminuite del 20 per cento. I neonicotinoidi sono insetticidi di sintesi che dagli anni Novanta hanno vissuto una grande diffusione. Nel 2013 gli insetticidi a base di neonicotinoidi sono
stati banditi temporaneamente dall’Unione europea a causa del loro impatto sugli insetti impollinatori e particolarmente sulle api. Un recente studio olandese ha dimostrato che la pericolosità di questi pesticidi si ripercuote anche su altre specie dando vita ad un pericoloso effetto a catena. Sono state prese in esame quindici specie di volatili che si nutrono prevalentemente di insetti e ad alte concentrazioni nell’acqua di neonicotinoidi è stata costantemente associata una flessione delle popolazioni di uccelli monitorate.
Passera d’Italia femmina e maschio
Secondo i ricercatori almeno il 95 per cento dei neonicotinoidi utilizzato per le colture contamina l’ambiente circostante, avvelenando gli insetti e di conseguenza gli uccelli che se ne nutrono e che sono particolarmente vulnerabili nel periodo in cui allevano i pulcini. Passeri e Rondini risultano tra gli uccelli più colpiti. La natura prevede meccanismi tanto precisi quanto delicati, se anche solo uno degli ingranaggi venisse manomesso gli effetti potrebbero essere devastanti e ricordiamoci che anche l’uomo fa parte di questo. Cerchiamo quindi di facilitare la presenza dei passeriformi piantando siepi nei giardini e in campagna affinché possano trovare rifugio per nidificare e difendersi dalle predazioni e cerchiamo di limitare l’uso di sostanze chimiche: paradossalmente, molti animali vivono e prosperano meglio nelle città perché meno velenose delle campagne e con una maggiore biodiversità.
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Agriturismo Corte Bonicella Agriturismo, Bed&Breakfast e Fattoria Didattica Sapori antichi rivisitati in cucina con gusto moderno, ottimi insaccati di carne ovina e il formaggio dell’alpeggio
Un luogo incantato della campagna, tra l’Adige e il mare Adriatico, in cui il tempo trascorre ancora con il passo lento delle stagioni: questa è Corte Bonicella, agriturismo, Bed&Breakfast e fattoria didattica. Un punto fermo attorno al quale in realtà gira un mondo in costante movimento qual è la pastorizia, arte che la famiglia Morandi si tramanda da generazioni e che qui ha trovato il suo valore più attuale. Moderni infatti sono i piatti proposti per pranzi e cene che escono dalla routine dei soliti sapori, le carni ovine ovviamente sono il punto forte della
L’agriturismo
Il ristorante
casa: insaccati e stagionati, come i salami o la bresaola, sono autentiche specialità e si accompagnano a preparazioni ormai internazionali come gli arrosticini, gli arrosti o le costolette. Ovviamente serviti con creatività e fantasia, sapendo coniugare sapori ed esaltandone il valore come nel caso del pecorino locale, stagionato nella baita dell’alpeggio, abbinato alle marmellate fatte in casa. L’altro valore aggiunto di Corte Bonicella è l’ospitalità, perché solo chi nel proprio Dna ha la vita errante conosce il valore dell’accoglienza.
Gli eventi
Le camere
Le camere sono tutte dotate di connessione Wi-Fi ed è possibile usufruire del servizio deposito bagagli e lavanderia CORTE BONICELLA Via Cavarzere, 28 - Pegolotte di Cona (VE) • Tel. 0426 59298 • Cell. 349 3680371 info@cortebonicella.it • www.cortebonicella.it
ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE del Prof. Adriano Mollica
La
La verza produce alcune sostanze chiamate isotiocianati, responsabili dell’odore pungente e tipico, che però hanno proprietà benefiche sulla salute. Gli isotiocianati sono stati studiati per la loro proprietà di proteggere il DNA dalla degradazione e quindi hanno un’azione protettiva verso vari tipi di tumori. È anche naturalmente ricca di antiossidanti, che sono in grado di bloccare i radicali liberi e quindi di proteggere le cellule e i tessuti dall’invecchiamento
Verza
DA CIBO DEI POVERI A MEDICINA NATURALE Uno dei prodotti più comuni dei nostri orti durante la stagione invernale è uno straordinario concentrato di proprietà benefiche per la salute del corpo
L
a verza, è un particolare tipo di cavolo, chiamato anche cavolo di Savoia o varietà Sabauda. È in effetti una varietà di Brassica orelacea (il cavolo comune) ma a differenza del cavolo ha delle foglie spesse, quasi spugnose e prominenti. La pianta può crescere notevolmente fino a formare delle spettacolari palle costituite dalle foglie di oltre 50 cm. A Montalto Dora (TO), si tiene annualmente la “sagra del Cavolo Verza”, è una tradizionale manifestazione gastronomica piemontese che si svolge a novembre in cui si celebra questo meraviglioso ortaggio, che da sempre arricchisce le nostre tavole. Nella cucina italiana e anche in quella di tutta Europa, è utilizzatissimo e apprezzatissimo, soprattutto previa cottura, infatti rientra nella preparazione di numerose minestre, minestroni, zuppe, paste, risotti, gradite soprattutto nella stagione fredda, poiché spesso arricchite con carne, salsicce o fagioli. La verza rientra a tutti gli effetti tra quegli alimenti considerati “poveri”,
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poiché consumati abitualmente dalle famiglie contadine. Le prime testimonianze dell’ uso della verza in cucina risalgono al territorio della Savoia del XVI secolo, ma è anche vero che già ai tempi dei romani lo storico Marco Catone lodava il cavolo cappuccio non solo come alimento adatto a molti piatti ma anche come pianta medicinale dai molti usi. I popoli germaniGià ai tempi dei romani lo storico ci e dell’est Europa, Marco Catone lodava il cavolo ne fanno largo uso cappuccio non solo come alimento ed hanno introdotto adatto a molti piatti ma anche come un metodo specifico pianta medicinale dai molti usi
ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE Da un punto di vista salutistico, la verza, essendo un prodotto prettamente invernale, è un’ottima fonte di vitamina C. Inoltre contiene altre vitamine, come la A, e quelle del gruppo B, la K, la E e la PP. È ricca di sali minerali e di fibre per consumarlo e conservarlo previa fermentazione, questo processo dà vita ai famosi crauti. La fermentazione è un metodo di conservazione dei vegetali molto diffuso, difatti la verza è largamente consumata come verdura fermentata anche in insalate; per la preparazione è necessario tagliarla a listarelle sottili, e avviare la fermentazione lattica lasciando la verdura a macerare a bassa temperatura per una settimana e poi al fresco in una cantina per almeno 3 o 4 settimane, avendo l’accortezza di coprire la verdura con un tappo di legno pigiato con un peso. In queste condizioni viene favorita la fermentazione lattica (diversa da quella acetica), che funge sia da conservante che da insaporitore naturale. Quello che ne deriva, è un alimento ricco di fermenti lattici vivi per l’appunto, che favorisce la digestione, nonché rafforza la flora intestinale e il sistema immunitario. Un altro utilizzo molto comune in cucina è quello di prendere la foglia e chiuderla in involtini. Questo tipo di involtini com-
Uno dei metodi specifici per consumare cavoli e verze è la fermentazione lattica che si ottiene lasciando la verdura a macerare a bassa temperatura per una settimana e poi al fresco in una cantina per almeno 3 o 4 settimane, avendo l’accortezza di coprire la verdura con un tappo di legno pigiato con un peso. In queste condizioni viene favorita la fermentazione lattica (diversa da quella acetica), che funge sia da conservante che da insaporitore naturale. Quello che ne deriva, è un alimento ricco di fermenti lattici vivi per l’appunto, che favorisce la digestione, nonché rafforza la flora intestinale e il sistema immunitario
paiono nella cucina tradizionale di molte culture, con variegate sfaccettature, infatti possono contenere riso e carne, solo carne o interiora di agnello come fegatini e polmone, cotti al sugo o in casseruola o in padella. Invariabilmente queste ricette sono presenti in tutte le nazioni europee e anche nell’Asia minore. Da un punto di vista salutistico, la verza, essendo un prodotto prettamente invernale, è un’ottima fonte di vitamina C. Inoltre contiene altre vitamine, come la A, e quelle del gruppo B, la K, la E e la PP. È ricca di sali minerali e di fibre. Come il broccolo, anche la verza, essendo della stessa famiglia produce alcune
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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE Il modo migliore di consumare la verza a scopo medicinale sarebbe crudo, ma dato il sapore e la consistenza si può scottarla leggermente, cercando di non cuocerla troppo a lungo per non rovinarne le preziose proprietà medicinali sostanze, chiamate isotiocianati, responsabili dell’odore pungente e tipico di broccolo, che però hanno proprietà benefiche sulla salute. Gli isotiocianati sono stati studiati per la loro proprietà di proteggere il DNA dalla degradazione e quindi hanno un’azione protettiva verso vari tipi di tumori. È anche naturalmente ricca di antiossidanti, che sono in grado di bloccare i radicali liberi e quindi di proteggere le cellule e i tessuti dall’ invecchiamento. È usata in medicina popolare contro le irritazioni oculari, in quanto è un antiinfiammatorio, contro le distorsioni, poiché facilità il riassorbimento degli ematomi. Il decotto è utile per combattere bronchiti, asma e faringiti, è inoltre un ottimo rimedio contro la stipsi poiché ricca di fibre.
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Le foglie di verza sono usate in medicina popolare contro le irritazioni oculari, in quanto è un antiinfiammatorio. È usato anche contro le distorsioni, poiché facilità il riassorbimento degli ematomi
Il modo migliore di consumarla a scopo medicinale sarebbe crudo, ma dato il sapore e la consistenza si può scottarla leggermente, cercando di non cuocerla troppo a lungo per non rovinarne le preziose proprietà medicinali. In conclusione, la verza così come il cavolo cappuccio, i cavolini di Bruxelles e il broccolo vero e proprio, sono piante dalle straordinarie proprietà organolettiche ma soprattutto costituiscono la base per una alimentazione sana e naturale, un vero toccasana per la salute, con proprietà nutraceutiche riconosciute da molti studi scientifici specialmente contro le malattie dismetaboliche, obesità, ipercolesterolemia e diabete.
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Vivai Lorin Maurizio scegliere il meglio porta a buoni frutti Produzione e vendita barbatelle di viti e piante da frutto. Ampia gamma di varietà e selezioni clonali
Sono circa un milione le barbatelle di viti che ogni anno vengono preparate selezionando circa 60 varietà per la produzione di uva da vino e 20 per le uve da tavola. Praticamente ogni richiesta può essere esaudita
Quasi un secolo di esperienza nella preparazione di barbatelle qualifica l’offerta dei Vivai Lorin Maurizio di Arre nel padovano. Sono circa un milione le giovani viti che ogni anno vengono preparate per essere destinate ai vigneti del Triveneto, della Campania, della Toscana, dell’Abruzzo, delle Marche, della Puglia e dell’Emilia Romagna, praticamente esaudendo ogni richiesta in termini di varietà (autoctone, antiche, da tavola) e di quantità. Quasi 17 ettari di campagna, infatti, sono destinati ad una produzione ancora artigianale che risponde ai parametri tecnico-qualitativi della normativa nazionale. Il materiale di propagazione deriva da portainnesti e gemmai controllati dal servizio fitosanitario regionale del Veneto e selezionati dall’azienda per garantire ottime rese e qualità di uve eccellenti. La stessa qualità viene estesa anche alle piante da frutto, di cui i Vivai Lorin curano la commercializzazione sia in vaso che a radice nuda, e alle piante da piccoli frutti.
I Nostri Servizi
• Rapporto diretto con la clientela • Assistenza tecnica nella scelta della varietà • Moltiplicazione di biotipi aziendali ritenuti interessanti • Conservazione delle barbatelle in cella frigo a temperatura e umidità controllate • Consegna delle barbatelle al momento dell’impianto • Possibilità di fornire il vigneto “chiavi in mano” •D isponibilità per l’effettuazione di eventuali analisi del terreno • Recupero e selezione di varietà antiche o minori
Vivai Lorin Maurizio
via Campagnon, 21 35020 Arre (Padova) Tel. e Fax 049 5389022 Mob. 339 6414427
PALESTRA e PALESTRA IN ACQUA H2Ogym,
tornare in forma non è mai stato così facile Un centro con attrezzature all’avanguardia, una politica di abbonamenti per le tasche di tutti e orari pensati per chi non ha mai tempo per l’attività fisica
Tornare in forma è un obiettivo facile da raggiungere alla palestra H2Ogym del centro sportivo Conselve Nuoto, grazie alla possibilità di allenarsi tutti i giorni e in orari pensati appositamente per accontentare tutti coloro che sono sempre alle prese con le lancette dell’orologio. Non sarà più possibile accampare la scusa del “non ho tempo”. La costante presenza in sala di personal trainer, laureati in scienze motorie, inoltre, permetterà a tutti di individuare il proprio percorso di attività, anche in abbinamento ai corsi di nuoto. Sia per chi cerca il potenziamento e la tonificazione muscolare, sia per chi insegue o vuole mantenere la propria forma fisica fino a chi ha bisogno di percorsi riabilitativi per ritrovare il miglior stato di salute, la palestra H2Ogym mette a disposizione le più moderne attrezzature Technogym, comprese quelle all’avanguardia per l’estensione e il rilassamento muscolare e il raggiungimento del miglior benessere psicofisico. ABBONAMENTO Palestra
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INGIROPIEDANDO di Alessandra Capato
nel Delta del Po
ALESSANDRO BORGHESE Il celebre programma di Sky, 4 Ristoranti, ha fatto tappa in Polesine. Protagonisti i tavoli di quattro ristoratori tra Rosolina, Porto Viro, Taglio di Po e Porto Tolle
L
e immagini che scorrono sono quelle della laguna al tramonto, del mare, dei fenicotteri rosa, di una spiaggia con le conchiglie ad ottobre, quando la troupe della trasmissione televisiva 4 Ristoranti, condotta da Alessandro Borghese, ha iniziato le riprese. Il celebre programma di Sky, infatti, ha toccato le spiagge e le lagune del Basso Polesine. Il protagonista indubbiamente è stato lui: il paesaggio disegnato dal delta del Po, una terra che non è già più terra e un mare che non è ancora mare. Un lembo di Veneto in quel mai abbastanza esplorato angolo della provincia di Rovigo incorniciato dai Comuni di Rosolina, Porto Viro, Taglio di Po e Porto Tolle. Anzi la protagonista è stata lei, la regina di questo paesaggio anfibio: l’anguilla. I 4 ristoratori coinvolti dal celebre chef, diventato popolare sul piccolo schermo come conduttore e giudice appunto della trasmissione 4 Ristoranti - si sono sfidati sulla preparazione e sulla presentazione di questo piatto della tradizione locale. In realtà il giudizio finale, che assegna la
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Manuela Roncon de La Palafitta
Pamela Veronese dell'Osteria Arcadia
Gino Pizzoli del Ristorante Canarin
Isi Coppola dell'Ittiturismo In Marinetta
INGIROPIEDANDO Il protagonista indubbiamente è stato lui: il paesaggio disegnato dal delta del Po, una terra che non è già più terra e un mare che non è ancora mare vittoria, verte su quattro categorie: location, ossia la bellezza del locale, il menù, il servizio e il rapporto qualità prezzo. Ma l’anguilla è stata il vero ingrediente della contesa. E la sfida è stata raccolta da quattro figure emblematiche della ristorazione del Delta Polesano: Gino Pizzoli che con il suo Canarin, a Porto Tolle, ama presentare una cucina che accontenta i palati “senza ricami”. Manuela Roncon de La Palafitta di Porto Viro, dove l’anguilla in menù c’è sempre ed è consigliata affumicata. L’ittiturismo In Marinetta a Rosolina dell’ex assessore regionale Isi Coppola, luogo suggestivo adagiato sull’acqua, aperto da poco più di un anno con un’offerta attestata su piatti ricercati e molto curati. Qui l’anguilla si degusta marinata e Borghese In Marinetta ha scoperto anche il prelibato Tartufo del Delta. Il poker di fornelli è stato chiuso dall’Osteria Arcadia di Santa Giulia dove da undici anni Pamela Veronese e la mamma incrociano i mestoli in quella che un tempo era stata la bottega del “casolin”, dove si vendeva un po’ di tutto: dallo zucchero alla farina e dal riso alle corde per la pesca. Ed è stata proprio l’Osteria Arcadia a far suo l’ambito premio, la loro “Anguilla in broeto” è stata capace di riassumere il valore di una cucina antica e povera come quella veneta. Una cucina millenaria fatta sulla disponibilità di poche materie prime e tante bocche da sfamare. E il “broeto” indubbiamente, nel passato povero di questa terra, rappresentava il tentativo di allungare i sapori in una quantità che dovesse dare ristoro anche alle pance. La battaglia è stata avvincente e senza esclusione di colpi, a riprova che è stata competizione vera anche se a richiedere un po’ di astiosità è il format stesso della trasmissione. Ma in Polesine si sa: il carattere non manca e se c’è
da “far baruffa”, beh non siamo poi così lontani dalle calli Chioggiotte raccontate dal teatro di Goldoni! Del resto a comporre parte del punteggio finale sono i ristoratori stessi, non risparmiando severe critiche e voti impietosi. Vincere è nell’ambizione di tutti. Così il punteggio è stato in bilico fino alla fine, Canarin con i suoi piatti ha raggiunto i 71 punti, superato di poco dal ristorante di Isi Coppola che ne ha racimolati 73, più distaccata La Palafitta, per via di una critica condivisa sulla “pesantezza” del menù proposto, che ha portato appena 61 punti sulla lavagnetta dello score. A fare la differenza è stata la valutazione di Alessandro Borghese che alla fine ha eletto l’Anguilla in broeto a regina del Delta, esattamente come era successo qualche anno fa, quando lo stesso piatto si era imposto al Premio Vergani-Ballotta, in una competizione tra i ristoranti delle sei provincie del Veneto. Ma a vincere è stato sicuramente il territorio del Delta, un territorio nominato patrimonio dell’Umanità Unesco per via di un equilibrio della biodiversità, che qui pare non aver conosciuto gli scempi dell’industrializzazione spinta di altre parti del Veneto, e di una bellezza, alla quale ha concorso il lavoro dell’uomo, rimasta comunque nella sua forza primigenia. La puntata è stata sicuramente un bell’endorsement al Polesine e alle sue tante bellezze, donando un po’ di quella visibilità che sicuramente a questa terra non nuoce.
Un momento della premiazione all’Osteria Arcadia. L’”Anguilla in broeto” è stato piatto che ha convinto il giudice-conduttore, Alessandro Borghese, nell’assegnazione del premio Le immagini a corredo di questo articolo sono state fornite dall'ufficio stampa di Sky
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IL PANORAMA GASTRONOMICO di Mario Stramazzo
IMPAZZA LA PIZZA,
“pizzaiuoli ”
MA ATTENZIONE: CERCATE I VERI
Certe mode alimentari del momento nascono dall’emulazione degli aspetti più effimeri della gastronomia: ma come non bastano due petali in un piatto per fare dell’haut cuisine non basta aggiungere l’aggettivo gourmet alla pizza per avere un sapore e una digeribilità maggiore
S
econdo quanto riportano gli specialisti del copia e incolla, e non solo nel web, la nuova pizza del Maestro Franco Pepe di “Pepe in Grani” (notare la M maiuscola di maestro perché così vogliono i copiaincollisti, nonché le grandi penne dell’enogastronomia sblaterata), tale pizza sarebbe diventata un fenomeno virale. Ma più che a questo pizzaiuolo, che lavora nel cuore di Caiazzo, in provincia di Caserta, il successo di questa pizza infettante, andrebbe ascritto ad un’anonima giornalista che intervistando il Maestro ad Hong Kong avrebbe chiesto: “Franco, ma tu faresti una pizza all’ananas?”. Da qui la risposta del pluripremiato “Pizza Chef” che si è tradotta in uno studio immediato di fattibilità e di accostamento dell’ananas, e la sua giusta preparazione, ad altri ingredienti. Il tutto, così riferiscono i copiaincollisti, “per sdoganare l’impossibilità di avvicinare l’ananas alla pizza”. Così nasce “AnaNascosta”, continuano a spiegare i dotti articolisti, perché la ricetta di questo cono-pizza, come suggerisce il nome, vuole che sia il palato a giudicare il connubio di sapori della pizza, e non la vista. La pizza infatti è stata realizzata in forma di cono fritto con fonduta di Grana Padano dop stagionato 12 mesi, prosciutto crudo San Daniele, ananas e polvere
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di liquirizia. Dunque non più lo storico impasto a base di farina, acqua, lievito e pizzico di sale, arrotondato e un po’ più piatto delle globose forme di pane, alla maniera degli antichi romani, gentes che avevano apportato questa modifica innovativa alla forma già secolare del pane e che più avanti fu definita pizza. E ancora, non più il ricordo dell’arrivo in Italia dei Longobardi, che per definire la pizza diedero la stura ad un nuovo vocabolo gotico-longobardo: “bizzo”, talvolta detto “pizzo” e in tedesco “bizzen”, ovvero morso. Che diventa boccone eppoi, nel 1300 circa, “pizis” e “pissas”, con riferimento ad alcuni panificati diffusi dal centro al meridione d’Italia. Proprio dove quella che era focaccia per altri italici, venne definita pizza, nel 1535, per merito del poeta e saggista Benedetto di Falco. Il quale ne indicò in bella grafia l’uso e la primordiale ricetta di una tipica schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso. Cui si aggiunse, con il passar del tempi, olio di oliva, caciocavallo e qualche erba aromatica. Senza
Quella che era focaccia per altri paesi d’Italia, venne definita pizza dal poeta e saggista Benedetto di Falco nel 1535
IL PANORAMA GASTRONOMICO
“Ananascosta” e il suo ideatore Franco Pepe. La pizza è realizzata in forma di cono fritto con fonduta di Grana Padano dop stagionato 12 mesi, prosciutto crudo San Daniele, ananas e polvere di liquirizia
pomidoro, pur avendone già cominciato a importare dalle Americhe, men che meno con l’aggiunta di mozzarella da latte di vacca o di bufala. Per questi ingredienti bisogna aspettare ancora qualche secolo, almeno secondo quanto descrive a metà dell’ottocento tale Francesco De Bourcard che, oltre a mozzarella e basilico, indica che si può usare “quel che vi viene in testa”. Insomma ecco iniziare la “storia” di quella che oggi, i conta storie del web, ma anche degli accodati redattori della carta stampata, definiscono pizza
Il nome pizza attraversa i secoli del medioevo, partendo dai Longobardi che la definivano “bizzo”, talvolta anche “pizzo” e in tedesco “bizzen”, ovvero morso, per attestarsi in “pizis” e “pissas” nel corso del Trecento in riferimento ad alcuni panificati diffusi dal centro al meridione d’Italia
La primordiale ricetta della pizza era una tipica schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso gourmet. Un impasto rotondo non dissimile da quello del pane con sopra quel che più suggerisce la fantasia del pizzaiuolo (Maestro) a patto però che siano ingredienti da far pagare comunque non poco e che quindi giustifichino il costo. Ricordando che il conto minimo va anche e ben oltre una decina di euro. Pur se ormai si ha convinzione che tali costi, abbiano comunque avuto il merito di avvicinare qualità e ricercatezza degli ingredienti anche ai palati dei frequentatori della più scalcinata delle pizzerie. Elevando il millenario impasto alla stregua di piatto di alta cucina ma alla portata di molti più borselli che possono acquistarlo con farciture di variegati prodotti gourmet. O meglio, traducendo dal francese, alimenti da buongustaio o da fine intenditore di cibi e di vini che, con la sua conoscenza ed esperienza cerca, le più buone leccornie. Ivi comprese quelle che i Maestri hanno imparato ad appoggiare sopra una pizza, lievitata nei tempi che più fanno tendenza ma che la scienza afferma essere del tutto ininfluenti. La digeribilità non dipende dalle ore di lievitazione, ma innanzi tutto dalla qualità della farina e poi da come e chi fa l’impasto; che può essere anche diretto e limitato ad un paio d’ore.
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IL PANORAMA GASTRONOMICO
Francesco De Bourcard, editore e letterato, noto soprattutto per aver coordinato l’edizione di Usi e costumi di Napoli alla metà dell’Ottocento, scrive che oltre a mozzarella e basilico la pizza può essere condita con “quel che vi viene in testa”
Per non parlare de gusto che dovrebbe servire per accontentare non solo l’esigenza legata alle papille del gourmet ma anche al suo comportamento e allo stile di vita, solitamente influenzato pure dalla capacità di spesa economica. Una disponibilità in denaro che la pizza gourmet ha decisamente livellato verso il basso ma, a conti fatti, non proprio così a buon mercato. Vero che qualche anno fa nessuno si sarebbe potuto permettere acciughe del Cantabrico in così grande profusione o strati di scaglie di tartufo, seppur scorzone, come fossero teli da pacciamatura da cui spuntano ciuffi di puntarelle e lamelle di porchetta cotta al forno di fuoco di ciliegio e insaporita con sale delle Camargue o di fior di sale di Sardegna e di Cervia. Altrettanto vero però che non è proprio così consequenziale che, con la pizza gourmet, l’alta cucina sia diventata popolar-proletaria. Qualche ostrica di Bluff sopra al rotondeggiante impasto, non significa che la bivalve più ricercata del mondo che nasce solo in Nuova Zelanda, autorizzi a definire gourmand chi la mangia. Men che meno “Gran Maestro”, il pizzaiuolo che le appoggia sopra il suo lievitato gourmet. Ottenuto magari con impasto diretto dove le 24, 36 o 48 ore di lievitazione, come ben sanno i professionisti, sono solo un racconto per chi vuol crederci. Ed è ormai cosa nota nel mondo del cibo che chi più ben la sa raccontare, più la parola
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gourmet incanta, ma non certo perché si nasconde dell’ananas in un cono pizza. Insomma lasciamo il campanile attaccato alla chiesa se vogliamo che non crolli e le pizzerie lasciamole pizzerie. Locali curati, belli e confortevolmente modaioli quanto si vuole ma non imperiosamente copie stonate di ristoranti stellati. Nella pizzeria del cuore ci si andava in tutta libertà per gustarsi una pizza che prima di altre cose soddisfaceva palato e stomaco. Dopo che se ne era decretata la sua qualitativa bontà che premiava pure la pizzeria dove volentieri si tornava, scartando i locali “indigesti” e certo non pensando di essere per forza dei nuovi discepoli di Nel ritratto il magistrato, scrittore e Jean Anthelme gourmet Jean Anthelme Brillat-Savarin che nel 1825, pubblicò la FiBrillat-Savarin. siologia del gusto: una pietra miliare della letteratura gastronomica
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ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ DELLE NOSTRE ECCELLENZE Dietro a certi sapori c’è una storia che rientra come ingrediente speciale della produzione, per questo amiamo farvela conoscere Con la nostra vasta selezione di formaggi, che contempla tipicità provenienti da ogni angolo d’Europa, cerchiamo di soddisfare ogni piacere del gusto con originalità e ricercatezza. E, a proposito di rarità, ve ne sono alcune che davvero sarebbero introvabili se non ci fosse stato l’impegno di un manipolo di persone che hanno conti-
nuato a portare avanti il loro lavoro anche quando non era più conveniente farlo o addirittura era una pratica fuori legge. Secondo noi sono stati degli eroi, e li sentiamo vicini perché come noi innamorati di quelle specificità e peculiarità che portano i sapori ad essere davvero unici.
A destra: La presenza della vacca Rendena è stata seriamente messa a rischio nel corso del secolo scorso quando venne promosso l’incrocio con la razza Bruna. Fu l’interessamento di alcuni allevatori trentini e veneti, che continuarono ad allevarla in purezza, a salvare la specie. Dal 1978 il suo allevamento è tutelato e nel 1981 alcuni allevatori si sono uniti nell’Associazione Nazionale Allevatori Bovini di Razza Rendena. A sinistra: Vacca Burlina
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Il primo è il Bastardo del Grappa prodotto con latte mono razza dall’autoctona Vacca Burlina ed è un formaggio, a pasta semicotta dalla consistenza morbida, leggermente occhiato di colore tendente al paglierino e dal sapore intenso, gradevole e mai piccante. Il nome bastardo deriva dal fatto che un tempo per la sua produzione i malgari si ispiravano alla lavorazione dell’Asiago pressato e dell’Asiago d’allevo o del Montasio, ma la vera storia di questa straordinaria eccellenza delle nostre Prealpi si lega al suo latte e anzi a chi lo produce: la vacca Burlina. Si dice sia stata portata sull’Altipiano di Asiago e sul Monte Grappa dai pastori Cimbri provenienti dalla penisola del Jutland della Danimarca la cui regina si chiamava Burhlina, ma l’origine del nome trova svariate affermazioni. È una pascolatrice mansueta, volonterosa e frugale, capace di accontentarsi anche di bassi pascoli, brucando ortiche e rovi. Una dieta che si ripercuote ovviamente nel latte e di conseguenza sul formaggio. E pensare che ha rischiato l’estinzione, quando alle sue modeste quantità di latte, ma di elevatissima qualità, sono state scelte razze più remunerative. Fortunatamente da una decina d’anni la Burlina è tornata nelle stalle della Pedemontana del Monte Grappa dove abili casari producono formaggi quali il Morlacco, il Bastardo di vacca burlina ed il Burlino.
La seconda eccellenza è lo Stagionato a Marchio Burlina-Rendena. In questo caso un formaggio a latte crudo prodotto nel piccolissimo caseificio di Altissimo che raggruppa 14 piccoli allevatori di vacche di razza Burlina e di razza Rendena. La pasta è “burrosa” ed avvolge completamente il palato regalando intense sensazioni tipiche dei formaggi ottenuti dal latte crudo derivante esclusivamente da queste razze lasciate libere di nutrirsi nei pascoli collinari e negli alpeggi fin dal lontano XVIII secolo. La presenza della razza Rendena, infatti, è attestata nell’omonima valle trentina fin dal 1712 quando in seguito ad un periodo di epidemie e carestie, le popolazioni furono costrette a ripopolare le proprie mandrie con capi provenienti dalla Svizzera. Il bestiame importato si fuse armonicamente con il bestiame indigeno dando vita alla razza Rendena e al suo straordinario latte.
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LA FORMA DEL LATTE di Michele Grassi
Formaggi
FIGLI DEL FREDDO La stabulazione degli animali unita ad un’alimentazione basata su foraggi cambia i valori del latte e quindi il risultato caseario. Ma alcune varietà di formaggi guadagnano le proprie caratteristiche proprio durante questa stagione
I
l pervenire della stagione autunnale obbliga gli allevatori e i casari ad affinare i metodi di lavoro, spesso modificandoli radicalmente. Per ogni tipologia di allevamento, giunto il periodo freddo dell’anno, è necessario cambiare il tipo di alimentazione degli animali, sia per mandrie di vacche sia per greggi di pecore. Ciò che ne consegue determina una modificazione chimica e fisica del latte da utilizzare in caseificio. Il freddo continua per tutta la stagione invernale, con maggiore intensità nelle zone montane dove il manto nevoso può concedere una stabilizzazione delle temperature. Le pecore in questo periodo sono in asciutta, non vengono munte, in attesa dei nuovi parti che inizie-
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ranno dal mese di febbraio. Di conseguenza i pastori o i casari non possono fare formaggio, si riposano, almeno da questa impegnativa attività. Le vacche invece continuano ad essere munte ma il loro latte è diverso, diverso da quello delle altre stagioni. Un tempo la stagione invernale era la più adatta per la scrematura, ovvero la raccolta per affioramento del grasso del latte, la panna, molto ambita per la produ-
Le pecore durante questo periodo dell’anno sono in asciutta, non vengono munte, in attesa dei nuovi parti che inizieranno dal mese di febbraio
LA FORMA DEL LATTE zione del burro che era un importante sostentamento dietetico, essenziale per l’apporto di energia. In inverno, l’alimentazione delle lattifere è prevalentemente determinata da affienati, erba, medica, o da insilati, mais e altri cereali fermentati. I vari tipi di alimentazione comportano una diversa produzione di formaggi soprattutto nei territori freddi, come le regioni dell’arco Alpino a partire dalla Valle d’Aosta fino al Friuli Venezia Giulia. Proprio in Valle d’Aosta, possiamo trovare un formaggio ai più sconosciuto, il Valle d’Aosta Fromadzo che, in alternativa alla più famosa Fontina, può essere fatto in ogni stagione ma soprattutto nella stagione fredda. È un formaggio vaccino originato da latte locale in parte lasciato in sosta a temperatura tra 10 e i 15°C, per un tempo che varia dalle 12 alle 24 ore, per la tipologia semigrassa, e di 24-36 ore per la tipologia a basso contenuto di grasso, ovvero inferiore, nel formaggio, al 20%. Il grasso, composto del latte in emulsione, è più leggero dell’acqua e quindi capace di salire verso la superficie del latte. La velocità di affioramento e il tempo di sosta, sono i parametri necessari per ottenere per la quantità di grasso da scremare in funzione del formaggio che si intende realizzare. In passato gli aspetti dietetici non erano considerati come li si considerano oggi, per cui il formaggio semigrasso non aveva valore in funzione di tale caratteristica tipologica. Il suo valore era strettamente connesso alla quantità di panna, che veniva estratta dal latte, che consentiva di ottenere il burro e, in certe zone come la Lombardia, il mascarpone. Avvicinandoci al Veneto, precisamente in Trentino Alto Adige, troviamo un’altro formaggio che ha stretta affinità con
La Spressa delle Giudicarie e un Dop prodotto nel territorio delle Valli Giudicarie, Chiese, Rendena e Ledro in provincia di Trento. La caratteristica principale di questo formaggio è determinata, dall’alimentazione delle bovine che deve avvenire solamente con fieno del territorio, e dal periodo prevalentemente invernale per la trasformazione
l’inverno, la Spressa delle Giudicarie. Un formaggio Dop come il Fromadzo, che ha origine nel territorio delle Valli Giudicarie, Chiese, Rendena e Ledro in provincia di Trento. La caratteristica principale della Spressa delle Giudicarie è determinata, dall’alimentazione delle bovine che deve avvenire solamente con fieno del territorio, e dal periodo prevalentemente invernale per la trasformazione. Il disciplinare di produzione prevede che possa essere trasformato il latte, previa scrematura per affioramento, dal mese di set-
In inverno, l’alimentazione delle lattifere è prevalentemente determinata da affienati, erba, medica, o da insilati, mais e altri cereali fermentati. I vari tipi di alimentazione comportano una diversa produzione di formaggi soprattutto nei territori freddi, come le regioni dell’arco Alpino a partire dalla Valle d’Aosta fino al Friuli Venezia Giulia
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LA FORMA DEL LATTE
Scrematura del latte. Un tempo la stagione invernale era la più adatta per la scrematura, ovvero la raccolta per affioramento del grasso del latte, la panna, molto ambita per la produzione del burro che era un importante sostentamento dietetico, essenziale per l’apporto di energia
tembre al mese di giugno. È chiaro che questo periodo esclude totalmente la possibilità di utilizzare latte di alpeggio estivo e latte derivante da alimentazione verde. La Spressa delle Giudicarie diventa quindi il formaggio del post alpeggio e non ha alcuna caratteristica comune con altri formaggi per lo più estivi.
Tutta la Sardegna, ma in particolare la zona del Marghine, della Planargia e del Montiferru, è territorio di produzione del Fresa de attonzu L’affioramento, che sfrutta la stagionalità, è caratteristico di una regione che ha fatto del burro un alimento di primaria importanza e che oggi, se di eccellente qualità, può essere conservato anche nei moderni freezer. Se è vero che l’eccezione conferma la regola, per capire meglio la stagionalità di alcuni formaggi dobbiamo uscire dal continente e andare su una delle più belle isole del mondo, la Sardegna, regione capace di consentire la trasformazione dei suoi prodotti in funzione della localizzazione territoriale e delle mutazioni climatiche. Tutta la Sardegna, ma in particolare la zona del Marghine, della Planargia e del Montiferru, è territorio di produzione del Fresa de attonzu, formaggio a pasta molle e a latte intero munto da vacche che hanno raggiunto il fine lattazione, nei mesi di novembre e dicembre. Proprio con il giungere del freddo, questo eccellente formaggio viene fatto con il latte di animali, diversamente da ciò che accade in questo periodo dell’anno sulle Alpi, alimentati in modo naturale, liberi sui pascoli ancora verdi dell’Isola. Un formaggio che sfrutta le basse temperature anche durante la trasformazione che si limita a poche
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Fresa de attonzu, formaggio a pasta molle e a latte intero munto da vacche che hanno raggiunto il fine lattazione, nei mesi di novembre e dicembre
azioni tradizionali come la pressatura, che avviene dopo aver sminuzzato la pasta nella fase di estrazione della cagliata dalla caldaia, come per molti formaggi d’Alpe, con teli di cotone. E poi, nella migliore tradizione sarda che sfrutta le proprie caratteristiche climatiche, il formaggio viene posto al sole, che nel periodo autunno-inverno in Sardegna non manca, affinché si formi la crosta sottile, elastica, di un bellissimo colore paglierino. Un sole autunnale e invernale, quello che riscalda un territorio dove le vacche e le pecore sono ancora al pascolo e si nutrono con erbe cariche di proteine e di aromi. E l’inverno trascorre lento al Nord, dove il formaggio è culturalmente un alimento che non può mai mancare e che, in Veneto, viene sempre servito con una polenta bollente, fumante, appena tolta dal paiolo, spesso servita con una buona noce di burro, quel burro ottenuto dall’affioramento del tutto naturale, dalla scrematura con spannarola, impegno mattutino del casaro appena giunto in caseificio, effettuato prima di ogni altra azione della trasformazione del latte.
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LA RECENSIONE di Renato Malaman
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PERCHÉ
Recensione
Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta
ALBERTO MORELLO E LA PIZZA CON L’ORTO SOPRA Il giovane maestro pizzaiolo di Este - dopo l’apertura del nuovo e luminoso “Gigi Pipa” all’ex Saffa - in ottobre ha ottenuto il premio di miglior pizzaiolo d’Italia. La sua arte in cinque impasti
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alire sul tetto d’Italia e rimanere sé stessi. Senza scomporsi, continuando a lavorare come sempre al bancone degli impasti accanto ai propri collaboratori. Alberto Morello, titolare della pizzeria Gigi Pipa di Este, sta vivendo il suo momento d’oro: la guida Ristoranti d’Italia de L’Espresso 2019 lo ha incoronato miglior pizzaiolo d’Italia e la bella soddisfazione arriva proprio nell’anno in cui sta diventando per la seconda volta papà. Senza contare che a far da cornice a questi allori - che farebbero felice chiunque - è la sospirata apertura del nuovo locale. La sfida vera è iniziata nel migliore dei modi, dunque. Alberto Morello ha scelto un altro luogo simbolo di Este come teatro per la sua nuova scommessa: l’ex Saffa di via Corradini, la storica fabbrica di fiammiferi atestina, i cui grandi spazi - impreziositi da un fascino da archeologia industriale - sono stati recuperati grazie a un pregevole progetto architettonico. Lasciato l’Hotel Beatrice, dove la sua pizzeria “Gigi Pipa” era erede di un locale rimasto nel cuore degli estensi over ’60, il giovane maestro pizzaiolo, già celebrato tre anni fa dalla Guida del Gambero Rosso come il più promettente d’Italia, ha allestito il nuovo “Gigi Pipa - Alberto Morello - Pizzeria con orto”. Il locale è bello e grande (130 coperti), di stile “urban” e dall’atmosfera metro-
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Il locale è bello e grande, di stile “urban” e dall’atmosfera metropolitana: potrebbe essere a Milano come a Berlino, ma è bello che sia a Este
LA RECENSIONE Le gourmet hanno il peso di una piuma, le classiche si fanno notare per la loro croccantezza, il loro colore “dorato” e la buona lievitazione
politana: potrebbe essere a Milano come a Berlino, ma è bello che sia a Este. Negli arredi Alberto Morello ha strizzato l’occhio ai suoi clienti di sempre, creando un ambiente che è sì contemporaneo, ma anche intimo e rassicurante. Come le pizze che propone. Accanto alle cosiddette gourmet - che i puristi preferiscono chiamare “pizza italiana contemporanea” - sono ancora in menù le classiche, cotte nel forno a legna (le gourmet nel più evoluto forno elettrico, che ormai è il futuro) e con un listino prezzi molto “democratico”. Pizze buone a partire dall’impasto, fragrante e leggero. Il che significa anche digeribile. Anzi, gli impasti oggi sono cinque: soffice, croccante, farro, integrale e Panburger. Pizze curate nei minimi dettagli. Le gourmet hanno il peso di una piuma, le classiche si fanno notare per la loro croccantezza, il loro colore “dorato” e la buona lievitazione. Sul piano gastronomico la crescita di Morello, un trentenne autodidatta e di puro talento che ha completato la propria formazione all’Università della Pizza del Molino Quaglia, è evidente. La sua ricerca sugli impasti come detto non conosce sosta, ora ne propone cinque, tutti a lunga lievitazione. Utilizza farine della linea bio di Quaglia e anche una farina di farro. Sui prodotti nessun compromesso: solo alta qualità. Da una mozzarella artigianale pugliese fior di latte, al pomodoro di Petrilli. Anche per i topping (ovvero le guarnizioni) solo prodotti ben selezionati, grazie all’esperienza. Ora c’è pure il caffè Giamaica del compianto Gianni Frasi. Dal vecchio “Gigi Pipa” Morello ha esportato pure l’orto, che presto amplierà. Le sue verdure di casa (ne coltiva una decina a rotazione) conferiscono un altro sapore alle pizze. Se ne sono accorti in tanti. Anzi, uno dei must di Alberto Morello è proprio la pizza dell’orto. In varo quella ai tre radicchi, va forte quella con le alici di Cetara. Il Gigi Pipa propone anche un numero limitato di primi piatti, che stanno riscuotendo curiosità e gradimento.Tra le birre anche quelle artigianali a “Km 0” del Birrificio Estense di Nicola Innocenti e quelle venete di 32 Via dei Birrai. Lui, Alberto, dirige il lavoro dei tanti collaboratori a testa bassa, impegnato al banco della preparazione delle pizze gourmet dall’inizio alla fine del turno. Alla sala per ora pensano mamma Miriam e papà Maurizio. Ma Alberto - ora che è famoso - è molto richiesto ai tavoli. Il nuovo Gigi Pipa di via Corradini 1 dispone anche di un bell’esterno estivo ed è dotato di ampio parcheggio, all’incrocio tra la Sr 10 e la Sp 42 per Solesino.
La Pagella
di Con i piedi per terra
⊲ Uso di materie prime del territorio
⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza
Il giornalista Renato Malaman con Alberto Morello
⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo
Comfort food invernale: LE MANI IN PASTA
di Anna Maria Pellegrino
PIZZOCCHERI, GNOCCHI PROFUMATI ALLO ZAFFERANO E GLI SCIATT Tre semplici ricette per assecondare le rigidità della stagione e prepararsi al Carnevale
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iposte le decorazioni natalizie e archiviate le ricette delle feste il mese di febbraio, complice il grano saraceno ed i formaggi valtellinesi, diventa il momento più adatto per godere di piatti decisamente semplici ma resi unici dall’armonica complessità degli ingredienti usati. Come i pizzoccheri che possono essere considerati una sorta di bandiera gastronomica della Valtellina: nel 2002 a Teglio, infatti, fu fondata l’Accademia del Pizzocchero, che registrò e codificò la ricetta originale, proposta in tutta la valle sia da ristoranti blasonati che da accoglienti trattorie. Oltre al grano saraceno è il Casera il formaggio caratteristico di questo piatto: viene prodotto tutto l’anno e le sue origini risalgono al 1500 grazie alla pratica degli allevatori di riunire il latte per la lavorazione nelle latterie turnarie. Stagionato per almeno 70 giorni è da preferire il Casera più giovane per la lavorazione dei pizzoccheri. Gli stessi ingredienti ci raccontano un piatto decisamente di-
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verso, gli Sciatt, frittelle salate dalle mille forme il cui nome ricorda appunto l’aspetto bitorzoluto dei rospi: una morbida pastella preparata con grano saraceno, birra ed acqua freddissime ed un sospetto di grappa profumata avvolge il Casera tagliato in dadolata. Tuffate nell’olio bollente le frittelle vanno mangiate quasi scottandosi le dita, così da giocare con l’interno filante. Ed infine gli gnocchi profumati con lo zafferano ed il Bagòss, ingredienti non propriamente valtellinesi, ma un omaggio al Carnevale veneziano visto che proprio a Bagolino, paese di frontiera con i possedimenti della Serenissima e principe nella produzione di questo caratteristico formaggio, è consueta l’aggiunta di zafferano nella lavorazione del Bagòss, spezia dorata come gli stucchi dei palazzi veneziani. Che ne dite di scaldare febbraio condividendo profumi e sapori in cucina?
LE MANI IN PASTA
Pizzoccheri della Valtellina
Gnocchi profumati allo zafferano
PIZZOCCHERI DELLA VALTELLINA Nella spianatoia unite le farine setacciate, un pizzico di sale, il tuorlo e l’acqua necessaria per ottenere un composto sodo e liscio. Fate riposare coperto per 30’. Nel frattempo mondate la verza eliminando le foglie esterne più coriacee e la costa centrale e tagliatele a julienne. Sbucciate le patate, lavatele bene e tagliatele in dadolata e sbucciate gli spicchi d’aglio. Affettare finemente il Casera e grattugiate il parmigiano. Portate ad ebollizione dell’abbondante acqua salata, versate la verza e le patate e cuocete per 20’. Ora stendete l’impasto a sfoglia non troppo sottile, ricavando delle listerelle larghe circa 1 cm e lunghe 5-7 cm, ed unire i pizzoccheri così ottenuti alle verdure, continuando la cottura per altri 5’. Sciogliete il burro in una casseruola con l’aglio, rosolandolo delicatamente. Scolate la pasta con le verdure e trasferitela in piccole zuppiere singole alternandola ai formaggi ed al burro aromatizzato. Profumate con una macinata di pepe nero e servite immediatamente.
Gli Sciatt
Difficoltà: bassa
Preparazione: Cottura: 20 minuti 30 minuti più in riposo della pasta
INGREDIENTI per 4 persone • 200 g di formaggio Casera • 100 g di Grana Padano grattugiato • 300 g di farina di grano saraceno • 100 g di farina 00 • 10 g di burro • 1 tuorlo • 300 g di verza • 2 patate medie • 2 spicchi d’aglio • sale • pepe nero macinato al momento • qb acqua per l’impasto (circa 200-250 ml)
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LE MANI IN PASTA
Difficoltà: bassa
Preparazione: Cottura: 40 minuti 40 minuti più in riposo della pasta
INGREDIENTI per 4 persone Per i gnocchi • 600 g di patate gialle farinose o rosse • 150 g di farina 00 • 1 tuorlo piccolo • 3/4 pistilli di zafferano pestati in un mortaio o una bustina di zafferano in polvere • 1 cucchiaino di sale Per il sugo • 250 g di salsiccia • 150 g di Bagoss • 150 g di Crescenza • olio evo • qualche fogliolina di timo fresco • sale • pepe nero macinato al momento
GNOCCHI ALLO ZAFFERANO
CON BAGOSS E CRESCENZA Lavate e spazzolate molto bene le patate e cuocetele al vapore fino a quando non saranno morbide (ci vorrà quasi un’ora oppure per 20’ nella pentola a pressione con poca acqua. Meno ne assorbiranno e migliore sarà il risultato finale). Passatele allo schiacciapatate ancora calde e con la buccia direttamente sulla spianatoia, unite il sale e un po’ alla volta la farina setacciata con lo zafferano ed a metà della lavorazione il tuorlo appena sbattuto. Il segreto è una lavorazione veloce, come fosse la pasta frolla, per un risultato perfetto. Formate dei salamini dello spessore di 2 cm e tagliate dei pezzettini di 3 cm ai quali potete dare la forma rigata con i rebbi della forchetta, con l’apposito strumento in legno o con la parte liscia di una grattugia. Lasciateli riposare ed asciugare sopra un canovaccio pulito ed infarinato e nel frattempo dedicatevi al sugo. Sbriciolate la salsiccia, tagliate a tocchetti la crescenza e grattugiate il Bagòss. Rosolate in una casseruola con un po’ di olio evo e qualche foglia di timo la salsiccia fino a farla dorare e in un’altra casseruola sciogliete a fuoco dolce i formaggi fino ad ottenere una morbida crema. Unite la salsiccia croccante. Nel frattempo lessate gli gnocchi in abbondante acqua salata e spadellateli con il sugo, servendoli subito con un’abbondante macinata di pepe nero.
SCIATT Difficoltà: bassa
Preparazione: Cottura: 15 minuti 5 minuti
INGREDIENTI per 4 persone • 150 g di farina di grano saraceno • 150 g di farina grano tenero tipo 00 • 250 g di Casera (giovane, non stagionato) • 1 bicchierino di grappa, quella che preferite • 250 ml di birra chiara e freddissima • 50 ml di acqua molto frizzante e freddissima • 10 g di sale • pepe nero macinato al momento • olio di semi • rucola, cicorino o radicchio per il servizio, conditi con una leggera citronette
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Tagliate il formaggio a dadini di 3x3 cm. Setacciate e riunite in una ciotola tutti gli ingredienti secchi. Unite la birra, mescolando con una frusta, la grappa ed infine l’acqua, ottenendo una pastella liscia e densa. Nel frattempo portate ad una temperatura di 170° l’olio e mescolate bene il formaggio nella pastella. Aiutandovi con un paio di cucchiai tuffate il pezzettino di formaggio avvolto con la pastella e cuocete la frittella fino a doratura. Vi consiglio di cuocere massimo tre, quattro frittelle per volta, così da non abbassare troppo la temperatura dell’olio che renderebbe le frittelle pesanti ed untuose. Asciugatele in carta assorbente e servitele in un letto di rucola, cicorino o radicchio tagliato finemente a julienne e condito con una leggera citronette.
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Salvan Vigne del Pigozzo 23 Marzo 2
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INCONTRO CON I VIN I ANTICHI
“Da quasi 20 anni nei nostri vigneti trovano posto i vitigni antichi. Varietà autoctone che un tempo appartenevano al panorama del nostro territorio e che ora non ci sono più. Noi abbiamo deciso di non recidere i fili col passato, le tradizioni ci piacciono, e per questo continuiamo a produrre vini da uve Pattaresca, Marzemina Grossa, Cavarara Garbina, Corbina, Corbinona, Corbinella, Recantina, Gatta, Turchetta. Il momento giusto per conoscere da vicino questa nostra produzione potrebbe essere sabato 23 marzo, in occasione della Sagra del Pigozzo mesceremo i vini ottenuti dalle microvinificazioni delle uve della scorsa vendemmia. Protagonista della giornata sarà la Turchetta entrata in produzione grazie alle 1776 viti che hanno ricambiato con generosità le nostre attenzioni…”
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PER LA DEGUSTAZIONE È GRADITA LA PRENOTAZIONE
Nevio Scala, INGIROPIEDANDO di Mauro Gambin
DALLA PANCHINA ALLA CANTINA NEL SEGNO DELLA COERENZA Dopo tanti successi nei campi da calcio di mezza Europa è tornato alla sua campagna per una nuova sfida, questa volta in squadra con la famiglia, nella produzione di vino biologico
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alla panchina alla cantina il passo sembrerebbe mancare di coerenza e invece è proprio la coerenza il punto di forza di questa storia, se non per il fatto che ha come protagonista Nevio Scala. Certo, il calciatore che tra gli anni ‘70 e ‘80 ha indossato le maglie di Fiorentina, Roma, Inter, Milan e negli anni ‘90 è stato alla guida di quel Parma “dei sogni”, che nel giro di pochi anni è riuscito a mettere in bacheca la Coppa Italia, la Coppa delle Coppe, e la Coppa Uefa. Nevio Scala, dunque, è un uomo del calcio, anzi un nome importante del calcio, un uomo che seppe portare in questo sport l’umiltà come premes-
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sa alla vittoria. A chi, come me, ricorda quegli anni, Scala è rimasto in mente proprio perché non pareva appartenere a quel mondo. Distaccato, misurato e carico di una modestia, veramente contadina, è stato un San Francesco che ha insegnato ad avere una nuova fede nel calcio, facendo inseguire le vittorie ai suoi uomini partendo sempre da molto lontano. Sudore, fiducia e costanza sono stati i valori che effettivamente dalla campagna, da cui proveniva, ha portato nei campi (da calcio) dell’intera Europa e che ora, alla fine della sua carriera di allenatore e di dirigente, ha riportato a casa perché in fondo sono stati, insieme al talento, l’unico e prezioso bagaglio in tutti questi anni. E oggi lontano dai riflettori e da uno sport, che allo stesso Scala sembra aver smarrito il suo significato per inseguire solo logiche legate al profitto, è pronto a ripartire per una nuova sfida, questa volta in squadra con la sua famiglia. Dalla panchina alla cantina, appunto, perché l’obiettivo questa volta è mettere sullo scaffaNevio Scala tra gli anni ‘70 e ‘80 ha indossato le maglie le non delle coppe, ma le bottiglie di vino prodi Fiorentina, Roma, Inter, Milan e negli anni ‘90 è stato dotte nell’azienda di via Saline a Lozzo Atestialla guida di quel Parma “dei sogni”, che nel giro di pochi anni è riuscito a mettere in bacheca la Coppa no. Si badi, però: bottiglie, lette così come le Italia, la Coppa delle Coppe, e la Coppa Uefa ho scritte suonano in una nota merceologica
INGIROPIEDANDO che non appartiene alla famiglia. Perché Claudio e Sacha, insieme alla moglie Elisa Meneghini, hanno un progetto che trascende il puro mercato, come le idee calcistiche del padre trascendevano quelle di una squadra a servizio del fuoriclasse. C’è invece la terra a tenere insieme tutto, il senso di appartenerle e di trarre da essa il meglio perché il vino non è solo frutto e fiori, tannini e acidità, polpa e definizione. Il vino è anche un modo di intendere la vita, da parte di chi lo fa e di chi lo beve. “Le nostre scelte enoviticole - spiega Claudio, che sta per abbandonare la propria carriera di docente universitario di Tecnologie dell’Educazione per occuparsi della campagna - vanno in direzione della custodia dei luoghi, della salvaguardia delle forme e dei colori. Crediamo fermamente in un vino legato al territorio in cui viene prodotto, che esprima la tradizione delle nostre terre e che contribuisca a farne conoscere i sapori e gli aromi. Il “motore” di questa nuova avventura familiare è la ricerca di una nostra via nell’approccio alla campagna, alla viticoltura, ai trattamenti, alle fermentazioni, agli affinamenti, agli imbottigliamenti. Per questo abbiamo deciso che nei dieci ettari, dei cento della grande campagna fino ad ora destinata alla produzione di tabacco, barbabietole e cerali, la produzione di vino avvenga nella osservanza più onesta possibile delle tradizioni di questo territorio, a metà strada tra le alture degli Euganei e quelle dei Colli Berici”. Ciò significa che tra i vitigni non hanno trovato posto, e non lo troveranno in futuro, nè il Prosecco e nè il poliedrico Pinot Grigio, garanzia di guadagni facili, ma piuttosto varietà autoctone come la Garganega, il Moscato Giallo, la Malvasia Istriana o addirittura vitigni scomparsi come
Claudio Scala: “Crediamo fermamente in un vino legato al territorio in cui viene prodotto, che esprima la tradizione delle nostre terre e che contribuisca a farne conoscere i sapori e gli aromi”
I TRE VINI GIÀ CONFERMATI NELLA FORMAZIONE DEGLI SCALA A cura di Silvano Bizzaro I vigneti dell’azienda Scala si trovano ai piedi dei Colli Euganei, al confine col versante vicentino dei Berici. La produzione a regime si estenderà su 10 etteri concentrandosi su varietà autoctone come il Moscato Giallo, la Malvasia Istriana, la Garganega e proprio da quest’ultima la produzione sta già ottenendo risultati importanti che abbiamo avuto il piacere di degustare. GARGÀNETE. Nasce dalla fermentazione in purezza della Garganega con i propri lieviti indigeni, nessuna aggiunta di anidride solforosa (in etichetta è riportato il dato: 9 gr./lt di SO2 che se confrontato con i dati previsti per il biologico… è niente!); al momento dell’imbottigliamento viene aggiunta una percentuale di mosto da uva garganega passita che fa scattare la rifermentazione in bottiglia. Breve riposo in bottiglia di qualche mese e il prodotto è pronto per la commercializzazione. Nasce così un vino dal valore alcolico di 11,5%; per una produzione oggi attestata sulle 8.000 bottiglie. All’analisi visiva il Gargante si presenta di un bel color giallo paglierino con riflessi dorati, al naso un vino sufficientemente complesso con note agrumate e di mandorla dolce. Frizzante in bocca, discretamente avvolgente con buona freschezza e sapidità. Nel complesso è un vino asciutto, armonico ed equilibrato: ideale per gli aperitivi ma può trovare una piacevole compagnia in primi piatti leggeri, come i risotti, le carni bianche o la pizza. DILÈTTO . Sempre una Garganega, questa volta con fermentazione spontanea in acciaio con i propri lieviti senza chiarificazioni o filtraggi. La fermentazione e l’affinamento poi procedono in vasche di
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INGIROPIEDANDO cemento per circa 8 mesi con aggiunta di pochissima solforosa. Ne esce un vino amabilmente alcolico, vol. 12%, pieno, di spessore e di struttura, deciso al palato e avvolgente, con una buona freschezza e sapidità. Il finale è decisamente intenso e lo rende ideale compagno della cucina di mare trovando abbinamento con insalate di crostacei, spaghetti alle cozze, secondi piatti come la granceola, il branzino o l’orata al forno. Ma il Dilétto si accompagna bene anche alle carni bianche e agli arrosti serviti con salse bianche. CÓNTAME. Un vino che già dal nome lascia trasparire la sua vena social, la sua predisposizione ad ascoltare e ad essere ascoltato. Anche in questo caso una Garganega per una produzione ancora limitata, circa 4 mila bottiglie. La macerazione avviene sulle bucce per circa 13 giorni, conferendo un bel colore giallo con riflessi ambrati al prodotto finale, tanto da assomigliare ad un passito. Al naso sprigiona una nota di mandorla dolce molto intensa e caratteristica del Gargarnega. Al palato è rotondo e avvolgente, sapido, fresco, con retrogusto persistente lungo. Un vino che può trovare dialogo anche con piatti complessi, risotti e paste saporite, pesce e carni bianche con lavorazioni complesse.
Dei cento ettari della grande campagna degli Scala, fino ad ora destinata alla produzione di tabacco, barbabietole e cerali, dieci sono stai destinati alla produzione di vino aderendo al disciplinare Vinatur
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la Recantina, la Corbinona, la Turcheta e la Pataresca. “Per la nostra famiglia - continua Sacha - la semplicità è un valore importante ed il nostro tentativo è quello di riportare all’interno di una bottiglia di vino un po’ della nostra storia e molto, se possibile, del nostro quotidiano, dal territorio nel quale viviamo fino alle barchesse sotto i cui archi siamo cresciuti, prestando particolare cura al rispetto dell’ambiente e del paesaggio”. Dunque non è un caso che tra le scelte già entrate a far parte della filosofia aziendale, malgrado la produzione sia appena agli albori, ci sia quella di aderire al disciplinare dei vini naturali, nella più totale osservanza di un dogma: il rispetto dell’ambiente. Parla quasi da redento Nevio quando ammette di essere stato messo su questa strada dai figli, e dopo anni di agricoltura convenzionale di aver ritrovato la sua campagna. E forse non è solo dovuto ai metodi di coltivazione, sarebbe scadere nella facile logica delle scatole preconfezionate, ma piuttosto all’aver ritrovato attorno a se la famiglia e quella marcia fatta di un passo dopo l’altro che può portare ad un nuovo tempo, ad una nuova misura, al respiro di una conoscenza immateriale. Perché il rispetto dell’ambiente è prima di tutto una questione di educazione, di cultura dei luoghi, di dimestichezza con il sudore, con i sassi, la polvere, i sentimenti, i ricordi e insieme a questi il futuro. I primi frutti di questa nuova stagione sono già sotto vetro portando nomi pensati e ragionati di Dilètto, Gargànte o Cóntame promettendo uno spazio importante nel panorama dell’enologia veneta. Manca ancora qualcosa: la cantina, il cuore pulsante e il metronomo dell’intera attività. A questa parte del progetto Scala ci sta pensando Sacha che da architetto (insieme ad Arketipo Studio) sta mettendo mano ad una vecchia barchessa di famiglia. Il progetto integra anche il contributo dello Studio di ingegneria Umberto Zerbinato, di studio ELT e dell’architetto Mirco Simonato in quanto oltre alla salvaguardia delle linee estetiche dello stabile verranno inseriti elementi strutturali all’avanguardia, in risposta a quel “guardare lontano” che gli Scala hanno messo in premessa alla loro impresa. Dunque un po’, ancora, sulla carta e un po’ nella realtà il progetto c’è tutto e c’è da scommetterci che sarà destinato a lasciare un segno importante nell’enologia del territorio. Certo: passo dopo passo, con la calma delle stagioni e un profilo che sarà una forma di identità perché come amano dire qui: “Siamo per un vino piccolo che diventa grande per le sue diversità silenziose”.
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STORIE DI VINI, ENOTECHE E BEVITORI di Emanuele Cenghiaro
IN POLESINE SI RISCOPRE
la Turchetta
Un vitigno antico, la cui coltivazione risale alla seconda metà del XVI secolo, recuperato grazie a un progetto di Veneto Agricoltura con il Centro di Ricerca per la Viticoltura di Conegliano. Il suo vino è già in commercio come Turchetta Igt Veneto
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ovigo è davvero la Cenerentola del vino veneto? Sembrerebbe di sì, visto che conta solo quattro cantine: persino Belluno, dove hanno iniziato a piantare viti di Prosecco (… oops, di Glera) nella valle del feltrino, fa di più. Però anche in Polesine qualcosa si muove e in particolare è in atto la rivalutazione di una vera perla enologica: la Turchetta. Si tratta di un’uva storica: la viticoltura locale ha infatti origini antiche e risale almeno al periodo successivo alle bonifiche di epoca veneziana. Le varietà coltivate erano per lo più autoctone, ovvero quelle adattatesi a un clima difficile, umido e caldo d’estate: davano rese modeste, sufficienti appena al consumo familiare o locale. La crisi del vino tra anni Settanta e Ottanta, unito all’arrivo di varietà francesi e italiane più moderne, le ha spazzate via dal Polesine portando alla quasi scomparsa di queste viti. Sull’onda dell’interesse generale per il recupero dei vitigni autoctoni, e anche per differenziarsi in un mercato del vino che tende ormai a essere dominato da poche varietà internazionali, i produttori rodigini stanno valorizzando alcu-
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ne delle vecchie specie che più di qualcuno aveva ancora in giardino. È il caso della Turchetta, recuperata grazie a un progetto di Veneto Agricoltura con il Centro di Ricerca per la Viticoltura di Conegliano, di cui negli ultimi anni sono state piantate migliaia di barbatelle. Di quest’uva il “Bollettino Ampelografico 1884-87” testimoniava che all’epoca la si trovava in 23 Comuni della provincia di Rovigo (e in altri 17 una varietà scomparsa, la Calma Turchetta), e molto diffusa era anche nel padovano. Non è da confondere invece con un’altra Turchetta presente nel territorio bellunese. Essendo stata iscritta al Registro nazionale delle varietà di vite, oggi la sua coltivazione è autorizzata in tutto il Veneto. “Il vino era un alimento, quindi tutti qui avevano una vigna di casa per il proprio consu-
La crisi del vino tra anni Settanta e Ottanta, unito all’arrivo di varietà francesi e italiane più moderne, ha portato quasi alla scomparsa delle varietà storiche
STORIE DI VINI, ENOTECHE E BEVITORI
Il “Bollettino Ampelografico 1884-87” testimonia che all’epoca la Turchetta era coltivata in 23 Comuni della provincia di Rovigo
mo. Si coltivava soprattutto Turchetta, un vitigno a bacca rossa, con acidità e tannini elevati, perfetto per l’area polesana perché non teme le nebbie e il caldo umido, né muffe come la botrite”, racconta Vittorio Comini, viticoltore e anima dell’Associazione vini storici polesani, un gruppo di produttori, ristoratori e appassionati che si ritrovano saltuariamente per degustare e promuovere le varietà antiche. Comini ricorda come la Turchetta sia stata ritrovata all’azienda Costa di Rovigo: “Si pensava fosse l’unico clone, poi abbiamo scoperto che ne avevo anch’io”. Di Turchetta ne parlava anche il Marzotto che nel 1925 la considerava una buona varietà, per quanto già allora ormai poco utilizzata. Nel Catalogo Viti si spiega che “è un vitigno di media vigoria e di buona, anche se non abbondante, produzione. È un vitigno
Nella foto Vittorio Comini, in primo piano, insieme a Gianni Romani
È un vitigno che si adatta bene ai terreni argillosi di pianura, purché ben drenati. Molto rustico, poco sensibile alla peronospora ed alle altre crittogame e non è soggetto a marciume che si adatta bene ai terreni argillosi di pianura, purché ben drenati (…) È molto rustico, poco sensibile alla peronospora ed alle altre crittogame e non è soggetto a marciume”. “Il terreno polesano è adatto alla coltivazione dell’uva - continua Comini - e la Turchetta produce un vino di buona qualità, ricco di antociani e perciò di colore, tanto che qualcuno l’ha piantata in Valpolicella per dare maggiore intensità all’Amarone. È anche un’uva bellissima da vedere”. E come sapore? Possiede asprezze che il tempo mitiga, non è quindi un vino da bere subito, ma si dice che non ami nemmeno il legno e i lunghi invecchiamenti. Ma per saperlo con certezza sarà necessario fare molte prove. Intanto, la tendenza è a vinificarlo in purezza, visto che si può commercializzare come Turchetta Igt Veneto. Comini la taglia con una piccola percentuale di cabernet ma
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•La curiosità • AMARONE
STORIE DI VINI, ENOTECHE E BEVITORI
La Turchetta possiede asprezze che il tempo mitiga, non è quindi un vino da bere subito, ma si dice che non ami nemmeno il legno e i lunghi invecchiamenti
quest’anno, per ammorbidirne più in fretta i tannini, ha tenuto un 40% di uve in sovramaturazione in vigna per un mese. Il risultato? Basta andare in cantina, ma bisogna attendere almeno il mese di maggio prima che sia pronta... Non c’è solo però la Turchetta, in Polesine: altre viti autoctone attendono di essere valorizzate in primo luogo con l’autorizzazione all’impianto. “Pensiamo alla Mattarella, un’uva molto particolare e a bacca bianca, che si trova solo tra Baruchella e Trecenta. Sono in corso studi, per ora non si è trovata parentela con nessun’altra uva. C’è poi la rossa Benedina e anche altre”, conclude Comini.
UN VINO PER I CINESI?
Altre viti autoctone, come la Mattarella o la Benedina, attendono di essere valorizzate in primo luogo con l’autorizzazione all’impianto
È bene metterne via qualche bottiglia, di questa annata di Amarone appena uscita e ancora non da tutti imbottigliata. Il 2015 si farà ricordare: ne sono convinti tutti i produttori che a inizio febbraio hanno presentato i loro prodotti nella classica Anteprima, in piazza Bra a Verona. “Da un punto di vista organolettico - spiega Diego Tomasi del Crea (Centro ricerche per la viticoltura) di Conegliano - l’annata presenta parametri sensoriali più interessanti e tipici in tutti i descrittori organolettici rispetto non solo al 2014 ma sostanzialmente anche al 2013, in particolare nelle manifestazioni gustativo/tattili”: ovvero, un maggior numero di aromi e più intensi. Se la qualità fa ben sperare, altrettanto importante è dare un’occhiata al mercato: per l’Amarone va bene quello interno, trainato dalla crescita dell’enoturismo, che fa segnare un 4 per cento in più, stabile è invece l’export, che è pur sempre i due terzi del totale delle vendite (dati 2018 dell’Osservatorio vini della Valpolicella di Nomisma Wine Monitor). Il re della Valpolicella chiude il 2018 con un giro d’affari di 334 milioni di euro ma con un saldo negativo rispetto a un’annata boom come il 2017, dovuto alla frenata sul commercio estero in alcuni Paesi chiave, soprattutto la Germania. Ora la sfida è la Cina perché, a detta del Ministro per l’Agricoltura Centinaio, venuto a inaugurare l’Anteprima, l’Amarone è proprio il prodotto fatto apposta per quel mercato, rosso e strutturato e senza bollicine.
La coltivazione della Turchetta risalirebbe almeno al periodo successivo alle bonifiche di epoca veneziana. La sua “rusticità” lo rendeva adatto ad essere coltivato nelle terre sabbiose del Polesine
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IN ANTEPRIMA L’ANNATA 2015
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A Z I E N DA A G R I C O L A
Vittorio Comini
Cantina identità del territorio Polesano Oltre ai vitigni classici la produzione si è specializzata sui vini antichi come la Turchetta, la Benedina e la Mattarella
Nella sua cantina di Giacciano con Barucchella Vittorio Comini da decenni, oltre alla produzione di vini tradizionali, si dedica con passione al recupero delle antiche varietà autoctone del territorio. Una produzione di nicchia, appena otto mila bottiglie l’anno, ma dal contenuto quanto mai ricercato sia in termini di varietà che di qualità. Il centro del suo lavoro di vinaiolo, infatti, è rappresentato dal recupero e dalla ricerca di nuove metodologie produttive, per riportarne in vita profumi e sapori che in un panorama enologico sempre più dominato dalla standardizzazione, come quello attuale, avevano perso il loro posto. Nelle bottiglie che riportano l’etichetta Azienda Agricola Vittorio Comini, dunque, convivono il passato e il futuro del vino, insieme al rispetto per la terra e il gusto genuino della tradizione.
Sono tre le etichette ammiraglie dell’Azienda Agricola Vittorio Comini TURCHETTA È il vino polesano per antonomasia. Ottenuto dal semi appassimento delle uve, un 40% deriva dalla surmaturazione dei grappoli, che permette di abbassarne l’acidità naturale e conferire rotondità al vino. Al calice si presenta con colorazione molto intensa, con spiccati sentori di viola, marasca e una giusta nota amara. A maggio saranno pronte le nuove bottiglie.
L’AZIENDA COMINI PRODUCE E COMMERCIALIZZA ANCHE VINO SFUSO: MERLOT, CABERNET, RABOSO VERONESE, TAI, RIESLING E MANZONI BIANCO
MATTARELLA Coltivata in modo esclusivo nei territori di Trecenta e Giacciano con Barucchella da più di un secolo, dà un’uva a bacca bianca con buccia molto spessa. Anche questo vino si ottiene da rifermentazione, la gradazione è piuttosto significativa per un bianco ed è sorprendente sia la freschezza che la mineralità. Con l’arrivo della primavera i vini ottenuti dall'ultima vendemmi saranno pronti da stappare.
BENEDINA Ne esistono appena trecento viti nel territorio del Medio Polesine, ma un tempo era molto diffusa. Forse introdotta dai monaci Benedettini da cui deriverebbe anche il nome. L’uva è a bacca nera e matura piuttosto tardi. Dopo una “mecerazione in rosso classica” e un leggero affinamento si ottiene un vino dal gusto armonico, colore brillante, mediamente alcolico adatto anche ad essere invecchiato. Queste varietà locali si pensavano ormai scomparse e per non perdere questo patrimonio genetico è stata anche costituita l’Associazione Vini Storici Polesani
A Z I E N DA A G R I C O L A
Vittorio Comini via Borgonovo, 1300 Giacciano con Baruchella (RO) tel. 346 2205921 https://vinicomini.jimdo.com vittorio.comini@libero.it
A OGNUNO IL SUO CALICE… di Silvano Bizzaro - Sommelier s.bizzaro@alice.it
SOAVE
L’
Cinque Bottiglie
CHARDONNAY
ROSÈ
BONARDA
NERO D’AVOLA
MERLOT
PINOT NERO
PASSITO
PORTO
CHAMPAGNE PROSECCO
MOSCATO
PER RISCALDARE LA STAGIONE PIÙ FREDDA DELL’ANNO
inverno è entrato nella sua fase più gelida, la colonnina di mercurio registra la sua inclemenza. Tuttavia per gli appassionati del buon bere questa parte dell’anno presenta i suoi vantaggi, in quanto, un bicchiere di vino può essere un buon modo per riscaldare l’atmosfera e accompagnare con convivialità i piatti che sono di tradizione come l’immancabile maiale, in tutte le sua declinazioni, compresi gli “ossi”, gli gnocchi o i dolci del carnevale visto
che con i giorni del calendario ci stiamo avvicinando a questo trionfo di sapori e colori. Ecco dunque le nostre cinque proposte, cercate all’interno dei nostri confini regionali, in quanto le cantine venete sanno offrire prodotti di grande qualità e talvolta noti e apprezzati più fuori casa che nel nostro territorio. Ve li proponiamo attraverso cinque categorie che tengono conto della loro natura e anche del fruitore finale.
UN GRANDE CLASSICO (ASOLO - TV) PROSECCO ASOLO DOCG SUPERIORE MILLESIMATO EXTRA DRY - CANTINE CIRIOTTO Il classico spumante che non dovrebbe mancare nei pranzi e cene con gli amici La Ciriotto è una prestigiosa cantina nata alla fine degli anni ‘40 in quel di Asolo. In vigneto viene praticato un’agricoltura sostenibile. Nelle operazioni di cantina e nella vinificazione viene usato un bassissimo dosaggio di solforosa. Pluripremiato per la sua eleganza con menzioni nelle guide più prestigiose (Slow Wine, Decanter, Vini Buoni d’Italia), è il classico spumante che non dovrebbe mancare nei pranzi e cene con gli amici assicurandosi lusinghiere pacche sulle spalle per la scelta del vino. Glera 100% dal colore giallo paglierino scarico con riflessi brillanti; il suo perlage è fine e persistente. L’impatto olfattivo è freschissimo e pulito, con immancabili sentori di mela Golden e pera Williams. In quanto figlio dei Colli Asolani questo Prosecco è sopra le righe per potenza minerale, sapidità e persistenza dei profumi.
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In abbinamento non c’è che l’imbarazzo della scelta: dall’aperitivo agli antipasti a base di pesce; ai primi piatti e risotti di pesce; alle portate di pesce ivi comprese le crudità.
Pluripremiato per la sua eleganza con menzioni nelle guide più prestigiose da Slow Wine a Decanter e Vini Buoni d’Italia
A OGNUNO IL SUO CALICE… UNA NOVITÀ (PRAGLIA - PD) DOMUS ABBAS SPUMANTE METODO CLASSICO VSQ EXTRA BRUT - 2015 Bollicine frutto del lavoro certosino dei frati della storica abazia dei Colli Euganei Le bollicine prodotte dalla storica comunità monastica di Praglia seguendo i sacri crismi della vinificazione tradizionale del metodo classico, in quanto rigorosamente a mano: dalla vendemmia al remuage, ossia alla sboccatura dei lieviti accumulati nel collo delle bottiglie durante il loro riposo a testa in giù. Un colpo secco del polso e sotto vetro rimane solo l’oro del vino e la sua bianca spuma. Qui in abazia il vino per l’autoconsumo dei monaci viene prodotto dal 1130, ma da alcuni anni vengono prodotte bottiglie anche per il mercato. Il Domus Abbas Spumante metodo Classico è una di queste, la bottiglia che proponiamo è la seconda annata della cantina, la vendemmia precedente risa-
le al 2013, prodotto per un terzo con Chardonnay, un terzo Garganega e un terzo con Raboso Piave. L’affinamento sui lieviti dura per circa 30 mesi. È un extra brut giallo dorato con note vegetali, floreali di ginestra/geranio; frutta esotica. Equilibrato al gusto con finale minerale e sapido, leggermente amarognolo. Come per tutti gli spumanti metodo classico eleganti e raffinati l’abbinamento è con pesce; finger food raffinati, antipasti, primi piatti e carni bianche.
Prodotto con i sacri crismi della vinificazione del metodo classico, rigorosamente a mano dalla vendemmia al remuage
IL VINO SOCIAL (PESCHIERA DEL GARDA - VR) LUGANA DOC SANTA CRISTINA - CANTINA ZENATO Il Calice amato dai giovani per l’aperitivo e l’happy hour Zenato e Lugana, un legame lunghissimo nel temSpiccate note floreali, fruttate e po divenuto quasi inscindibile. Pensare a questa agrumate, di pronta beva ma anche realtà non può prescindere al correre col pensiero facile da abbinare ad antipasti, al Santa Cristina il primo Lugana ad entrare di dicarni bianche, pesce di lago ritto nell’alta ristorazione come perfetto accompagnamento a piatti di pesce. Ed è proprio di questo vino che vorremmo declamarne le lodi anche per il suo temperamento social che lo rende perfetto per i momenti social della giornata. Ottenuto da uve 100% Trebbiano di Lugana, chiamato anche Turbiana dai veronesi, questo
vino è molto amato dai giovani per le sue spiccate note floreali, fruttate e agrumate, di pronta beva ma anche facile da abbinare ad antipasti, carni bianche, pesce di lago. Le uve di Trebbiano utilizzate per questo fiore all’occhiello della Zenato vini (premiato anche da alcune guide vini), sono quelle del Podere Massoni, vigneto storico per particolare natura ed esposizione del terreno, regala una qualità ed espressione che rendono unico questo vino. Il terreno poggia su un suolo di stampo morenico sulle dolci colline che cingono la zona meridionale del Lago di Garda sul versante veneto.
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A OGNUNO IL SUO CALICE… LA RARITÀ (CONA - VE) TURCHETTA CANTINA DI CONA Un vino che arriva dal passato del Veneto Un vino che ci riporta al passato della nostra regione, era un tempo molto diffuso sia nella provincia di Padova che nella zona del Polesane, cioè la provincia di Rovigo. Attualmente in via di estinzione, pochi produttori della bassa padovana e del Polesine stanno cercando di recuperarla, anche grazie alle qualità viticole ed enologiche, che lo rendono particolarmente interessante anche per la produzione di vini rossi di grande spessore. La Cantina di Cona, nel basso veneziano (territorio DOC Corti Bene-
dettine Padovano), Un tempo molto diffuso annovera alcuni sia nella provincia di viticoltori del rodi- Padova che nella zona gino (Pettorazza) del Polesane è oggetto che coltivano uva di un recupero da parte Turchetta conferita di molte cantine nella cantina. Anche l’Azienda Nevio Scala (l’indimenticabile allenatore del Parma dei miracoli anni ‘90) si sta adoperando per il recupero di questo vitigno in versione biologica. Valutato ai massimi livelli per intensità polifenolica, che conferisce il caratteristico colore violaceo, è spiccato anche nei sentori di viola, marasca e note vegetali con retrogusto lievemente amarognolo e speziato. Ottimo come monovitigno strutturato ma idoneo a tagli con altri rossi importanti aumentandone la complessità organolettica. Da abbinarsi a carni rosse e formaggi stagionati locali.
LA PROMESSA (BARBARANO VICENTINO - VI) “CIO BACARO”, PIALLI AZIENDA AGRICOLA La miglior espressione del Tai rosso 100% È ancora una promessa, ma è già il simbolo della cantina: il Tai rosso affinato sempre con uso sapiente dall’azienda, che da anni pratica con rigore il biologico. I pochi ettari di proprietà dislocati tra Mossano e Barbrano su terreni misti a base argilla, limo e calcare danno vini di tutto rispetto. La vendemmia 2015 secondo l’Assoenologi è stata straordinaria dal punto di vista climatico, una di quelle annate da ricordare soprattutto per i vini rossi evoluti o le riserve. Questo ne è un esempio. Recensito anche nella guida Slow Wine del 2018, questo vino rappresenta la miglior espressione del Tai rosso 100% a conduzione agronomica biologica con affinamento in legno in botti di rovere francese per
Vino elegante ma che dimostra anche grande carattere, ricco, pieno, difficile da dimenticare una volta degustato 56
18 mesi, e successivo affinamento in bottiglia per almeno altri 12 mesi. Vino elegante ma che dimostra anche grande carattere, ricco, pieno, difficile da dimenticare una volta degustato. Da abbinarsi a piatti importanti di carni rosse, selvaggina, formaggi stagionati.
messaggio pubbliredazionale
CANTINA COLLI EUGANEI: “PRONTI I NOSTRI ROSSI” Vini giovani o maturi, leggeri o strutturati destinati alle tavole di tutto il mondo o ad alimentare il calore della buona compagnia Alla Cantina Colli Euganei di Vo’ il ciclo iniziato lo scorso autunno con la vendemmia si è concluso con l’imbottigliamento dei vini rossi. Un intero anno è finito sotto vetro e, complice una stagione particolarmente generosa, 10.500 litri sono stati etichettati con la denominazione DOC e quasi 20.000 con l’IGT, solo per parlare dei vini ottenuti da uve a bacca rossa. Vini che oltre ad essere l’espressione più autentica e genuina delle alture euganee, se non per il semplice fatto che la maggior parte della produzione delle colline padovane si concentra qui, rappresentano una selezione pensata e realizzata per accontentare davvero tutti i palati. Vini giovani (venduti anche sfusi) o maturi, leggeri o strutturati... ideali per accompagnare i piatti importanti della cucina invernale e semplicemente per alimentare il calore della buona compagnia.
VINI AFFINATI Questi vini sono prodotti con uve provenienti da aziende selezionate nella zona DOC Colli Euganei aderenti al Progetto Qualità attivato da Cantina Colli Euganei nel 1998 con l’obbiettivo di produrre bottiglie di prestigio
VINI VENDEMMIA 2018
CABERNET DOC
Di colore rosso rubino con riflessi violacei ha i toni tipicamente erbacei classici del cabernet
MERLOT DOC
Un vino di buona intensità, al palato risulta morbido, armonico, molto piacevole
ROSSO DOC
Color rosso rubino con riflessi granati, profumo persistente, al palato: secco, armonico, vellutato
MERLOT RIALTO DOC
Fresco e dinamico al sorso, con tannino composto, gradevole la persistenza fruttata
CABERNET SAUVIGNONN PALAZZO DEL PRINCIPE DOC Matura per 12 mesi in botti da 20 hl per aumentare la propria morbidezza e sentori di frutta matura
NOTTE DI GALILEO DOC
Sosta in barriques di rovere pregiato per 15-18 mesi, acquisendo profumi e morbidezza. Un’ulteriore permanenza in bottiglia ne completa la maturazione
cantina colli euganei s.c.a. via marconi, 314 - vo’ euganeo (pd) tel. 049 9940011 - fax 049 9940497 - www.cantinacollieuganei.it - info@cantinavo.it
IL PERSONAGGIO di Mauro Gambin
Cicolani
IL PARTIGIANO VERO E NELLA PELLICOLA DI ROSSELLINI Il Polesine non viene mai messo in analogia con la seconda guerra mondiale, eppure fu strategicamente importante per le attività dell’Intelligence alleata ed ebbe i suoi eroi
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a più di dieci giorni avevano condiviso solo il freddo e l’umidità del Delta del Po, qualche pezzo di pane secco e pochi bocconi d’anguilla marinata. Non parlavano nemmeno la stessa lingua, ma stavano dalla stessa parte: la guerra li aveva spinti lì, a cercare riparo, a nascondersi dai tedeschi, a fuggire da una sicura morte. A Giovanni Siviero, detto Cicolani, pescatore e bracconiere di Scardovari nelle valli venete del Po, e al suo compagno Roberto Mantovani, emiliano di Goro, la Wermacht non avrebbe perdonato l’aiuto prestato ai militari alleati e ai soldati americani quell’atterraggio di fortuna, che li aveva scampati alla morte, non garantiva che la vita sarebbe stata salva ancora per molto. Eppure la storia ebbe il suo lieto fine. Nel pur crudele scenario della seconda guerra mondiale e in una terra che quasi non centrava con i teatri in cui è stata combattuta, il coraggio e il valore sono stati uguali a
Giovanni Siviero salvò la vita al tenente americano dell’Air Force, Richard “Hank” Sciaroni, e ai suoi uomini precipitati con l’areo alla Sacca del Canarin 58
Nella locandina del film di Roberto Rossellini, Paisà, il nome di Cicolani compare alla fine della lista degli interpreti. Il film ebbe un grande successo, vinse il Nastro d’Argento nel ‘47 per il miglior soggetto, la migliore regia e la migliore colonna sonora
quelli dei luoghi più conosciuti. Poi, che il Delta del Po non centrasse con il grande conflitto non è neanche tanto vero. Come dimostra lo storico Claudio Vallarini nel suo libro fresco di stampa, “È cessata la pioggia”, in cui ha messo insieme tutti i pezzi di una storia dimenticata e riannodato i fili con un passato mai del tutto conosciuto, il Delta di Rovigo è stato un luogo cruciale nei rapporti intercorsi tra Forze Alleate e Resistenza dopo l’8 settembre ‘43. Soprattutto l’intelligence qui ha trovato uomini fidati e una terra preparata a reagire. Del resto la storia di Cicolani non sarebbe stata possibile se il Delta del Po non fosse stato un centro importante per gli esiti del conflitto. Quando si pensa ai mari della guerra si pensa alle spiaggie della Normandia, alla Baia di Pearl Harbor ma anche le onde dell’Adriatico si sono tinte di sangue, certo di figure silenziose, di gregari, di persone rimaste senza nome, ma non nel caso di Cicolani perché la storia non l’ha dimenticato. Insieme a Roberto Mantovani e al figlio di questo, salvò la vita al tenente americano dell’Air Force, Richard “Hank” Sciaroni, e ai suoi uomini precipitati con l’areo nella Sacca del Canarin. Il B-24 Liberator era decollato il 20 ottobre 1944, da una base aerea degli Alleati nel sud Italia
IL PERSONAGGIO per eseguire un bombardamento in Germania. Il velivolo colpito dal fuoco antiaereo, cominciò a perdere carburante sulla via del ritorno. Con i motori ormai sul punto di fermarsi Sciaroni, che era il navigatore, diresse l’atterraggio verso una spiaggia di sabbia nei pressi di Scardovari di Porto Tolle, alla foce del fiume Po, territorio che gli Alleati non avevano ancora liberato dai nazisti e fascisti italiani. I 10 uomini di equipaggio vennero divisi dallo stesso Sciaroni in tre gruppi, la speranza del tenente era che almeno uno potesse scampare alle strette maglie dei rastrellamenti, che i tedeschi avevano imparato a tendere anche in una terra fortemente disomogenea coma il Delta. Sciaroni portò con se i sergenti Leonard Meton, Olin Houghton e Al Doerward, mentre degli altri gruppi non si seppe più niente fino alla fine della guerra. La fortuna assistette proprio lui e la fortuna portava un nome simile al suo, diffuso in questa parte del Veneto e per questo soppiantato da un soprannome: Cicolani. Un nome che chissà da dove veniva, se aveva implicazioni patronimiche o se era un suono che apparteneva a questa terra. Perché Cicolani era indubbiamente impastato di terra e acqua: pescatore sfuggente come le maree, bracconiere, capace di svanire di evaporare, ma con un’anima di legno grosso e duro piantato nel fango come un approdo a cui legare gli ormeggi e i canapi di una lotta. Questa gente da secoli era abituata alla Resistenza, per non morire. E nel Delta ai primi di novembre si moriva di freddo, nell’impossibilità di accendere fuochi per non farsi
scoprire dai tedeschi. In quelle quasi due settimane in cui il gruppetto di americani era rimasto nascosto insieme agli italiani in mezzo alla palude, il freddo era diventato il terzo compagno, non meno indifferente dei tedeschi ai patimenti che causava alle mani, alle schiene alle articolazioni. Cicolani si era messo i piedi del tenente sotto alle ascelle per scaldargliele, ma la temperatura attanagliava lo stesso e del resto era impensabile passare così tutto l’inverno. Il primo novembre ‘44 il gruppo si decise di rubare una barca,
Quando si pensa ai mari della guerra si pensa alle spiaggie della Normandia, alla Baia di Pearl Harbor ma anche le onde dell’Adriatico si sono tinte di sangue la trovarono in un porticciolo, aveva una vela al terzo e lo scafo piatto lungo appena qualche metro. Con quella puntarono a Sud, Sciaroni aveva una bussola rudimentale, Siviero una forza indomita con la quale muovere la “nave”. Remava in piedi Cicolani, voga alla veneta del resto: l’unica che conosceva, l’unica efficace per muoversi in una laguna in cui era necessario continuamente valutare se ci fosse sufficiente fondale nell’incontro di canali, ghebi, palùi e barene. A due remi, “ala valesana”, Cicolani dava colpi come se battesse le ali, colpi secchi, che lasciavano segni ritmici nell’acqua e piccoli spruzzi che si confondevano con quelli mossi delle onde.
Alcuni frammenti tratti dal film Paisà di Rossellini
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IL PERSONAGGIO del 1944 alla primavera del 1945. Così senza divisa e senza medaglie Cicolani è diventato un eroe della guerra. Per una strana legge del contrappasso, dalla clandestinità del bracconaggio era passato a quella della guerra, emancipando la sua anima. Al tenente americano dell’Air Force, Richard “Hank” Sciaroni, dopo settant’anni tornò in mente l’impresa di Siviero e Mantovani e per questo è stata ricordata nel 2014 alla camera dei Rappresentati dall’onorevole Anna G. Eshoo, in occasione del conferimento della Stella di Bronzo a Sciaroni. Purtroppo Cicolani era già scom-
Nell’immagine il modello di aereo B-24 del tutto identico a quello del tenente Sciaroni che il 20 ottobre 1944 fu costretto ad un atterraggio di fortuna su una spiaggia di Porto Tolle
Usciti dalla laguna presero il mare aperto e nel tardo pomeriggio del giorno dopo, Cicolani e Mantovani, avevano fatto fare più di cinquanta miglia agli americani. Navigando sotto costa raggiunsero Cesenatico, città sicura controllata dalle forze alleate, dove i soldati vennero portati in ospedale. Siviero e i due Mantovani vennero invece mandati a Falconara dove esisteva una base avanzata dell’OSS (Office of Strategic Services, un’organizzazione paramilitare americana) che inviava agenti oltre il Fronte tedesco. I due pescatori con quell’impresa avevano dato prova del loro coraggio e della loro affidabilità e dunque di essere uomini da coinvolgere in quella guerra segreta, nascosta che fu la Resistenza. Accettarono di offrire supporto logistico alle operazioni clandestine che gli alleati stavano predisponendo tra Romagna e Po. Al suo ritorno in Polesine, la Missione Siviero supportò grazie anche ad un potente e veloce mezzo messogli a disposizione - diversi sbarchi e recuperi di materiali, incursori, informatori ed ex prigionieri di guerra alleati, ovvero la più complessa serie di operazioni effettuate via mare nella provincia di Rovigo e verosimilmente nell’intera regione veneta dall’autunno
Alcuni pescatori del Delta in una foto degli anni ‘40
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Una delle immagini emblematiche di Paisà del regista Rossellini. Il film è diviso in sei episodi e l’ultimo è ambientato a Porto Tolle nell’inverno del 1944 per raccontare la guerra condotta dai partigiani fra le paludi del Polesine. Non mancano le violente rappresaglie dei nazi-fascisti contro anche i civili inermi. Saranno le ultime barbarie prima che le forze alleate portino alla conclusione della guerra
parso da più di quarant’anni, ma resterà per sempre nella storia grazie ad un film diventato icona del cinema Italiano. Roberto Rossellini, infatti, nel sesto episodio di Paisà, al pescatore di Scardovari fece interpretare se stesso, nel ruolo di partigiano. Il Neorealismo, del resto, prevedeva che gli uomini e le donne da principali protagonisti della vita vera diventassero protagonisti anche in quella di celluloide, per un bisogno di verità che ha reso grande il nostro cinema nel mondo. Il Film Paisà, infatti, è tra le 100 pellicole che han- Questo articolo è stato scritto con no cambiato la memoria le informazioni tratte dal volume “È cessata la pioggia” di Claudio collettiva del Paese. Vallarini, edizioni La Lucertola Badia polesine 2018
LA MEMORIA DI CARTA di Roberto Soliman
XE COÀ L’INVERNO, E L’INFERNO! La vita nei campi, durante i mesi più freddi dell’anno, era indirizzata da consuetudini, regole e formule proverbiali, vere saggezze per alleggerire la vita grama del contadino. L’inverno del resto era un vero inferno e non solo perché come conseguenza quotidiana portava ai “diavoli”, i geloni, ma perché era un periodo di vere ristrettezze e di patimenti
“X
e coà l’inverno, e l’inferno!”, scandiva mia mamma all’arrivo della fredda nebbia che attaccandosi agli alberi formava un crine ghiacciato, appesantendo e curvando i rami dei “salgàri” fino a terra! Era la “sisàra” o “calivèrna”, la Galaverna in lingua, che ora non vediamo più ma che durava giorni e giorni, dipingendo di bianche righe multiformi il paesaggio che si limitava visivamente alla tua corte, racchiusa e ovattata dalla nebbia! La notte che seguiva, lunghissima, fredda e buia, ti rubava molta parte della tua voglia di vivere di bambino. Al mattino gli uomini della casa erano già in stalla quando mi alzavo dal letto spostando faticosamente la notevole coltre di coperte, poi mi recavo velocemente in cucina, l’unica stanza riscaldata, per lavarmi gli occhi, fare colazione, vestirmi pesantemente per andare a scuola con la mia biciclettina. Uscendo dalla corte vedevo mio padre scaricare, dalla slitta trainata dalla sua fida “vàca Roma”, il letame fumante nella concimaia, e mi salutava con un gesto che credo manifestasse un desiderio, in cuor suo, di una vita migliore per me, che non abbiamo fatto in tempo a costruire insieme!
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Erano inverni, quelli passati, veramente da inferno, anche se il fuoco degli inferi era sostituito nell’immaginario della gente della bassa dal suo estremo opposto: il ghiaccio! Ma in questo ambiente bisognava pur vivere e, per i grandi, fare quei lavori che le brevi e fredde giornate permettevano! Uno dei primi lavori, all’approssimarsi del freddo, era il proteggere la pompa dell’acqua e “el zèlese”: l’aia in mattoni dove si seccava il grano e il mais, ma anche i fagioli e la melica per fare le scope, aia ovunque presente nelle corti
Nella stalla si accatastavano le provviste: mele cotogne, pere “Passa Crassana”, e il radicchio prelevato dall’orto con le proprie radici e trapiantato nella sabbia umida, sistemata in apposite cassette. Il caldo umido della stalla, ricco di vapori concimanti, faceva crescere ulteriormente il vegetale, che si imbiancava per il buio, diventando una squisitezza
LA MEMORIA DI CARTA contadine, a ridosso delle povere abitazioni e orientata verso il sole. La pompa dell’acqua potabile veniva chiusa con un sarcofago di legno, dentro il quale si infilava paglia fino a riempire lo spazio tra la pompa in ghisa e questo contenitore, dal quale fuoriusciva solo il tubo per lo zampillo e il manico di manovra. Anche l’aia in mattoni veniva protetta dal gelo perché questo nemico non li facesse crepare, sfaldandoli. E si usava materiale presente nelle corti, a km 0 e riutilizzabile al 100%: il letame! Veniva steso con uno spessore di 10 cm su tutta la superfice del “zèlese”, lasciando scoperto un piccolo tratto per poter entrare e uscire di casa senza calpestarlo, ed era poi raccolto a fine inverno e distribuito nei campi! Era un isolante naturale con il quale si sigillavano anche gli infissi della stalla per mantenerla calda e accogliente per i filò serali e il bagno settimanale nel mastello. A proposito del letame nel “zèlese”, anche vicino a casa mia, nella corte dei Papa, avevano coperto così il “zèlese”; però in quella casa abitavano due famiglie in continuo disaccordo e pronte a farsi qualsiasi genere di dispetti. Un giorno uno dei due capifamiglia, tornando dal lavoro nei campi, non ha più trovato la porta d’entrata della sua misera abitazione. Ha cercato, aiutato dalla moglie, dappertutto, ma niente! Ormai convinto di dover passare la notte al freddo, ha notato il letame del “zèlese” in parte scomposto. Facendosi largo con le “sgiàvare” tra lo stallatico ha intravvisto la sua porta coperta e… “concimata” a dovere! I dispetti naturalmente hanno avuto un’escalation da giudice conciliatore! Altro lavoro di prevenzione contro l’imminente freddo riguardava l’immagazzinare provviste alimentari; i generi di uso costante erano farina gialla e salumi, ma si mettevano al riparo dal gelo, nella stalla, mele cotogne, pere “Passa Crassana”, e il radicchio prele-
La cucina era l’unico ambiente caldo della casa. Nel camino ardevano poche stoppie, ma erano sufficienti a portare un po’ di tepore nei rigidi inverni del passato
Per proteggere l’aia in mattoni dal ghiaccio si usava il letame. Veniva steso per uno spessore di 10 cm lasciando scoperto solo uno stretto sentiero che permetteva l’accesso alla casa
vato dall’orto con le proprie radici e trapiantato nella sabbia umida, sistemata in apposite cassette. Il caldo umido della stalla, ricco di vapori concimanti, faceva crescere ulteriormente il vegetale, che si imbiancava per il buio, diventando una squisitezza che ora la Comunità Europea, che autorizza cose assurde, probabilmente vieterebbe al solo nominare: stalla! I lavori nei campi o nella corte proseguivano, o venivano sospesi, senza le indicazioni del “Meteo. it”, ma basandosi su sensori ottici ed epidermici. La stalla però non aveva mai “cassa integrazione”, semmai diventava caldo rifugio per i titolari della corte, in giornate invivibili all’aperto, dove potevano sistemare manici di forche e badili, fare “fora le strope”, staccando dal ramo principale, e unendoli in fasci, i rami e rametti del salice da vimini (“el stròparo”), con i quali si legavano le “fassìne” e le viti al palo e alla “pèrtega” di sostegno, inoltre si intrecciavano questi rami elastici per fare ceste, “còrghi” o “crìole” (contenitori usati anche come incubatoio e primo alloggio per i pulcini). Con il freddo acuto gli “operai agricoli” venivano messi in “disocupaziòn”, in genere da Santa Lucia fino alla Befana o a fine gennaio, ma non restavano inoperosi: alcuni si dedicavano ad uccidere i maiali nelle varie
Nelle giornate rese invivibili all’aperto dal freddo gli impegni si limitavano alla sistemazione dei manici di forche e badili, di preparare le strope, per legare le vigne o le immancabili fascine, il vero combustibile per il riscaldamento di un tempo
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LA MEMORIA DI CARTA
Uno dei momenti più attesi dell’inverno era l’uccisione del maiale. La disponibilità di carne era una garanzia fondamentale per il superamento dell’inverno e una riserva di proteine che doveva durare fino alla primavera, quando la ripresa del lavoro nei campi richiedeva grandi energie
corti dove venivano chiamati, o a raccattare legna anche di straforo, oppure si iscrivevano all’Ufficio di Collocamento (c’era in ogni paese e funzionava!), per essere chiamati al “cantiere” a sgombrare la neve, a scavare fossi comunali e a sistemare le strade in terra battuta. Le strade comunali avevano già allora la pista ciclopedonale, realizzata con le “motte”: ogni 5-6 metri si scavava una piccola buca a un metro dal ciglio stradale, e la terra la si ammucchiava subito prima della propria buca. In quello stretto corridoio passavano i pedoni e le biciclette, mentre nell’altra parte della strada passavano i carri lasciando profonde “caroàre” nel terreno molle dall’umidità, e quindi impercorribile dai ciclo-pedoni. Nei giorni meno freddi di dicembre e gennaio si potavano le vigne, ma con la luna calante, sostituendo i pali di sostegno ormai vecchi, si faceva la “smàia” agli alberi capitozzati, si pulivano con il badile fossi e scoline dal momento che lì dentro il ghiaccio non arrivava, gettandone il terriccio sulla sponda per riformare la banchina che aveva ceduto con le piogge. Questa pratica dei privati, assieme al lavoro del “cantiere” comunale, assicurava lo spurgo dell’acqua piovana primaverile verso le “degore” consortili, senza che l’acqua ristagnasse nei campi e nelle strade come succede ai giorni nostri! Ora molti fossi interni sono stati occlusi e altri ridimensionati nella sezione, come pure quelli comunali. Questo è successo da quando siamo diventati proprietari dei terreni, mentre nella condizione di affittuari o mezzadri trattavamo meglio la terra altrui! Chissà perché? A gennaio, con l’aiuto della terra ghiacciata che sopportava il peso dei carri, si scaricava il letame a mucchi nei campi, per distribuirlo zolla a zolla, con la forca, dopo il disgelo, e poi si provvedeva all’aratura per le semine primaverili. L’aiuto dei proverbi meteorologici iniziava già il 2 dicembre, Santa Bibiana che prometteva l’andamento di quel giorno per “40 dì e una settimana”! Finalmente le giornate incominciavano lentamente ad allungarsi dopo il solstizio d’inverno e la lunga notte tra il 20-
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21 dicembre, anche se un detto recitava che a Santa Lucia (13 dicembre) “è la notte più lunga che ci sia”. Dipende dal fatto che questo proverbio meteorologico è nato prima della riforma del calendario attuale, il gregoriano del 1582, e la festività di Santa Lucia cadeva otto giorni dopo l’attuale ricorrenza, il 21 appunto! Alle origini del cristianesimo la festa di Santa Lucia aveva sostituito, con il Natale, i riti pagani del sole, che cadevano proprio dal solstizio d’inverno. Poi, all’epifania, si poteva dire: “da la vecèta ‘na pechèta” (una piccola impronta, un breve allungamento del giorno). Al 2 gennaio si festeggiava San Bovo, protettore della stalla, andando in chiesa per benedire il sale da spandere sul foraggio e quel giorno non si uccideva il maiale: San Bovo lo avrebbe impedito! Un santo più vicino a noi e più accondiscendente era Sant’Antonio Abate (17 gennaio), protettore di tutti gli animali del cortile e festeggiato con un’abbondante cena a base di “saltainbrònze”, il salame appena fatto con la carne meno pregiata del maiale. Il 20 gennaio arrivava “San Bastiàn, con la viola in man”, fiore primaverile che qualcuno vedeva nella speranza dell’arrivo del caldo sole, che “forse” sarebbe finalmente arrivato il 2 febbraio (“da la candelora de l’inverno sèmo fora, ma se piove o tira vento de l’inverno sèmo dentro” ), ma certamente con il carnevale che, tra crostoli e favéte, veniva festeggiato con la cantilena: “Doman doman xe festa/ se magna la minestra/ se beve col bocàle/ eviva Carnevale!” Salvo doversi pentire di aver fatto una moderata festa all’indomani, andando a prendere “Le Ceneri”, mangiando di magro, e avviandosi al periodo di penitenza della Quaresima! Uno dei termini dell’inverno era la Candelora, il 2 febbraio, per questa data l’auspicio era che il freddo fosse già finito infatti la cantilena recitava: “da la candelora de l’inverno sèmo fora, ma se piove o tira vento de l’inverno sèmo dentro”
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