N. 21 - Marzo - Aprile 2017 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD
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Magazine “Conipiediperterra”
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Numero 21
Direttore responsabile: Mauro Gambin Editore: Speak Out srl di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) - speakout@live.it
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Consumo di suolo, lo stillicidio continua
Hanno collaborato a questo numero: Lara Bettagno Silvano Bizzaro Emanuele Cenghiaro Mattia De Poli Mauro Gambin Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Loredana Pavanello Paolo Rigoni Roberto Soliman Mario Stramazzo Efrem Tassinato Aldo Tonelli Martina Toso
Progetto Grafico:
Think! soluzioni creative Piove di Sacco (PD) think.esclamativo@gmail.com Tel. 049 5842968
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SALUTE E BENESSERE
Ma quanto fa bene la camomilla
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La colomba dall’Arca alla Motta
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Vendita spazi pubblicitari: Speak Out srl speakout@live.it
Stampa: Stampe Violato snc Bagnoli di Sopra (PD) Tel 049 9535267 www.stampeviolato.com info@stampeviolato.com Giornale chiuso in redazione il 28 Marzo 2017 Tiratura: 5000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013 Tutti i diritti sono riservati. Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte. Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori. Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)
La copertina è a cura dei laboratori della Cooperativa Sociale Giovani e Amici di Terrassa Padovana, l’autore è Tobia Capuzzo
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PISCINA COMUNALE DI CASALE DI SCODOSIA 2.0 Da semplice polo natatorio a centro per il benessere e la socializzazione Ogni giorno nuoto libero e corsi per tutte le età, acquagym, acquabike e palestra technogym
Il denominatore comune delle attività proposte dal polo natatorio di via Ussuolo di Casale di Scodosia non è più solo l’acqua, ma il benessere. Alle attività in vasca, dal nuoto libero ai corsi per ogni età con istruttori qualificati FIN, infatti, sono state aggiunte
attività da svolgere in piscina e nella nuova palestra con corsi pensati per la forma fisica, i percorsi terapeutici o l’agonismo. Dalla fine di maggio verrà aperto l’estivo con strutture completamente rinnovate per il relax e il divertimento.
LE VARIE ATTIVITÀ CORSI DEDICATI • Family (genitore-figlio) • Lezioni Private • Corsi Accelerati
SCUOLANUOTO • Anatroccoli • Paperini • Ragazzi • Junior • Adulti I corsi sono seguiti anche con dei test sul battito cardiaco, la massa grassa, la resistenza per accompagnare il corsista nel miglioramento della propria condizione
PROGRAMMI DI: • Dimagrimento • Tonificazione muscolare • Ipertrofia muscolare • Post-riabilitazione • Diabetici • Patologie vascolari/ ipertensione
ACQUAFITNESS • Acquagym • AcquaBike • Treadmill • Due Elementi • Hydromix - Idrobike • Water Body Sculpture • AquaPilates
PALESTRA • Sala pesi • Hip Hop bambini • Pilates • Total body
La novità del momento è l’Acquacircuit, lezioni che impegnano il partecipante su diverse attrezzature: treadmills, bike e jump, ideale per chi cerca di tonificare i propri muscoli e vuole fare fiato!
TUTTO CIÒ CHE C’È DA SAPERE SULLA STRUTTURA � 1 vasca coperta � 1 vasca scoperta � 1 vasca per i bambini e il relax � 1 palestra - sala pesi - Technogym � Bar La piscina è aperta tutti i giorni dalle 7.00 alle 23.00, compresi i festivi, la mattinata parte con il nuoto libero e procede con i vari corsi
RISERVATA AI CORSISTI IN VASCA GRANDE CON LA POSSIBILITÀ DI COMBINARE ALLE LEZIONI IN ACQUA SESSIONI MIRATE IN PALESTRA CON ISTRUTTORI PISCINA COMUNALE DI CASALE DI SCODOSIA - Via Ussulo, 183 - Casale di Scodosia (PD) Tel. 0429 87506 - 327 6671633 - www.piscinecasale.it - info@piscinecasale.it
EDITORIALE di Mattia De Poli
Tra la morte e la vita Una questione irrisolta (e irrisolvibile) che divide l’opinione pubblica
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assegniamoci: di fronte alle grandi questioni esistenziali, come la vita e la morte, l’opinione pubblica è destinata ad essere spaccata come una frattura multipla, perché la sensibilità individuale in questi casi moltiplica le valutazioni e i giudizi. Ma andiamo con ordine. In Italia è aperta la discussione in merito alle leggi che regolamentano il “fine vita”, espressione politicamente corretta che viene utilizzata al posto di eutanasia. Prendiamo due casi saliti alla ribalta delle cronache. Un giovane ventisettenne, divenuto cieco e tetraplegico in seguito ad un incidente stradale, non volendo continuare a vivere in quella condizione, è andato in Svizzera, presso un centro attrezzato, per morire: ha morso un pulsante e così ha assunto un farmaco letale. Un settantenne, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, in Italia ha chiesto e ottenuto di essere sottoposto a “sedazione profonda continua”: in altre parole, è stato indotto a stato di incoscienza e non è stato né alimentato e né idratato fino al sopraggiungere della morte. Perché queste due persone hanno avuto un trattamento diverso? Non è una questione né di età né di reversibilità o irreversibilità della condizione: per entrambi non c’erano prospettive di cura e di miglioramento. Il malato di sla è stato sedato perché - evidentemente - la sua patologia inguaribile era in stato avanzato e il malato era in prossimità della morte: secondo un documento del Comitato nazionale di bioetica, pubblicato il 29 gennaio 2016, queste sono le condizioni che autorizzano i sanitari a procedere alla “sedazione
“Morte e vita” di Gustav Klimt, 1916 Collezione Rudolf Leopold
palliativa profonda continua nell’imminenza della morte”, cioè quando un’équipe medica prevede il sopraggiungere della morte nel tempo di poche ore o pochi giorni. Lo stesso testo insiste sulla differenza fra questa forma di terapia del dolore, che non abbrevia la vita, e l’eutanasia, come atto finalizzato alla morte. Questa è la differenza fra il caso del tetraplegico e il caso del malato di sla. Il quadro normativo è complicato dall’articolo 32 della Costituzione che stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Insomma, la volontà dei pazienti è limitata comunque dalla legge. E allora qualcuno dice - si scriva una legge sull’eutanasia, come ne esistono in molti Paesi europei, considerati modello di civiltà. Il rischio è che una legge sull’eutanasia finisca per creare situazioni controverse come la legge sull’aborto, con l’eventualità di medici obiettori: la donna ha il diritto di interrompere una gravidanza, ma i medici possono rifiutarsi di intervenire. La colpa è della Chiesa - qualcuno potrebbe aggiungere - che condiziona le decisioni dello Stato italiano. Un’influenza della religione sulle decisioni politiche è plausibile, perché i politici che fanno le leggi si basano anche sulle convinzioni personali, ma vale ancora oggi il motto “libera chiesa in libero stato”. Un referendum potrebbe essere ancora una volta un’utile escamotage, ma qualcuno resterà ugualmente scontento e denuncerà il mancato rispetto di un diritto, alla vita o alla morte.
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messaggio pubbliredazionale
UN PROGETTO per mettere in sicurezza la campagna dai Pfas Gli effetti dell’inquinamento potrebbero estendersi attraverso la filiera alimentare, per questo diventa importante approvvigionare la rete irrigua con acqua pulita. Con l’estensione del Leb e la realizzazione di un tratto di canale, l’acqua dell’Adige potrebbe essere immessa in tutto il circuito per l’irrigazione Il tema dei Pfas occupa le prime pagine dei giornali, del resto l’inquinamento provocato dalle sostanze perfluoroalchiliche, usate diffusamente in alcune aziende del Vicentino per rendere impermeabili tessuti o rivestimenti, tra cui il Teflon e il Goretex, riguarda un territorio vastissimo tra le province di Verona, Padova e appunto Vicenza, con conseguenze che sono ancora lontane dall’essere definite con chiarezza. Di certo si tratta di sostanze pericolose per la salute e per questo nelle zone più esposte sono già state messe in pratica azioni restrittive per il prelievo dell’acqua, addirittura dalla rete dell’acquedotto pubblico. Le analisi condotte dall’Arpa hanno messo in evidenza che questo tipo di inquinanti è molto persistente e interessa anche le
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falde freatiche sotterranee, compromettendo anche quei pozzi che di solito vengono usati per l’irrigazione. Insomma un problema mica da poco che ha investito in pieno la Regione Veneto, la quale attraverso un tavolo tecnico ha concentrato le proprie attenzioni sulla rete degli acquedotti, essendo direttamente connessa al consumo pubblico, ma il problema ha un nervo scoperto anche nella rete irrigua, in quanto gli effetti dell’inquinamento potrebbero estendersi dalle aree direttamente interessate a tutto il Paese, proprio attraverso la filiera alimentare. Un rischio che il Consorzio di Bonifica Adige Euganeo ha subito preso in esame, essendo l’area di competenza interamente attraversata dal fiume principalmente responsabile della diffusione dei Pfas, ossia il
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Sources: Esri, HERE, DeLorme, Intermap, increment P Corp., GEBCO, USGS, FAO, NPS, NRCAN, GeoBase, IGN, Kadaster NL, Ordnance Survey, Esri Japan, METI, Esri China (Hong Kong), swisstopo, MapmyIndia, © OpenStreetMap contributors, and the GIS User Community
Nella cartina è evidenziato in rosso il tratto lungo il quale si vorrebbe estendere il Leb: dalla zona di Baldaria, nei pressi di Cologna Veneta, fino a Merlara. L’acqua verrebbe presa dall’Adige e immessa nella rete di canali (in azzurro) attraverso prese e sifoni, approvvigionando l’intera area di acqua sicura per le colture
Consorzio di Bonifica Adige Euganeo www.adigeuganeo.it ESTE Via Augustea, 25 - Tel. 0429 601563 Fax 0429 50054
Fratta Gorzone. Un fiume fondamentale per sgrondo delle acque meteoriche, insistendo su di esso le oltre cinquanta pompe idrovore che servono per tenere asciutto il territorio, ma critico soprattutto perché attraversa tutta la campagna dal Basso Montagnanese alla provincia veneziana dove insistono colture anche di eccellenza. Frequenti sono stati i confronti con i comuni interessati, come pure con la stessa Regione; la Sanità; le associazioni agricole, proficui per mettere a punto un progetto che permetterebbe si approvvigionare tutta quest’area di acqua “sicura” per le campagne, pescata direttamente dall’Adige. Il progetto riguarderebbe la realizzazione di un canale sotterraneo in estensione al Leb, da Cologna Veneta a Merlara, e a Sud un punto di prelievo dell’acqua dall’Adige per l’alimentazione di una rete, in parte già esistente e in parte da eseguire ex novo, alimentata dai vari sifoni e prese, capillarizzata nelle campagne attraverso canalette e condotte in cemento. Costo dell’opera: 20-25 milioni di euro. Se il costo può sembrare proibitivo è invece proprio la materia prima a porre un grosso punto di domanda sulla fattibilità del progetto. L’Adige degli ultimi anni, infatti, non è proprio un fiume in piena, e per questo bisognerà lavorare con le provincie di Trento e Bolzano affinché rilascino più acqua nel corso del grande fiume e si accontentino di regimi più bassi nei tanti laghi che costellano le loro località turistiche. Non sarà un’opera di convincimento facile, ma anche in questo campo il Consorzio di Bonifica Adige Euganeo ha già iniziato a lavorare.
INTERVENTI AL VIA PER LA SICUREZZA DEL TERRITORIO Sono in fase di partenza diversi cantieri, finanziati con contributi regionali, per la messa in sicurezza del territorio dalle criticità idrogeologiche provocate dai recenti episodi alluvionali del 2014 e per l’ammodernamento di parte del sistema idrovoro
UN MILIONE DI EURO PER LA MITIGAZIONE DEL RISCHIO IDRAULICO L’importo complessivo di spesa ammonta ad un milione di euro con il quale verrà approntata l’esecuzione di importanti opere idrauliche volte alla riduzione del rischio idraulico e alla difesa dagli allagamenti di un territorio particolarmente fragile, dove si pratica un’agricoltura di pregio. L’intervento si propone di ripristinare la capacità di deflusso di alcuni tratti di scoli interessati da smottamenti, si tratta circa del 20% dei canali che hanno problemi con i cedimenti di sponda, con l’escavo degli alvei e la successiva ricostruzione della scarpata con pali in legno e pietrame trachitico. Nello stesso importo rientra anche la sistemazione dello scolo Valesella nel comune di Agna, un intervento ormai divenuto indispensabile per risolvere problemi di allagamento che riguardano il centro comunale in occasione di grandi precipitazioni. Stessa cosa per lo scolo “Solco”, il cui ripristino metterà in sicurezza buona parte del centro del comune di Poz-
zonovo. Parte del milione di euro a disposizione servirà anche per potenziare l’impianto idrovoro di Ca’ Giovanelli, sempre a Pozzonovo, con l’istallazione di 4 nuovi motori elettrici, un sistema di automatizzazione delle pompe e il telecomando della paratoia di scarico tra il canale Nevegale e il collettore generale Acque Basse.
400 MILA EURO PER IL RIPRISTINO DELLO SCOLO SABBADINA AD ANGUILLARA VENETA Sono pronti al via anche i lavori rientranti nel progetto “Rinforzo arginale e ripristino lungo lo scolo Sabbadina in Comune di Anguillara Veneta”, dell’importo complessivo di 400.000 euro, grazie ai quali verrà ripristinata la funzionalità del canale Sabbadina, particolarmente danneggiato a seguito alle alluvioni del 2014, con numerosi ed estesi franamenti di sponda, lungo la sua asta, che hanno comportato l’accumulo di molti detriti all’interno dell’alveo parzializzandone così la sezione idraulica. Franamenti che hanno indebolito anche tratti della strada arginale che ne costeggia il corso, creando pericolo al transito degli autoveicoli. L’intervento pertanto prevede l’escavo dell’alveo, il consolidamento delle scarpate e il ripristino della preesistente banchina della carreggiata stradale con materiale stabilizzato, posto in sommità della stessa scarpata. Verranno interessate dai lavori le strade comunali di via Sabbadina e via Balocco, l’arginatura a valle del Ponte denominato “Ponte Rosso” e l’arginatura a monte dell’Idrovora Taglio in Comune di Anguillara Veneta, interessando anche in parte il comune di Boara Pisani.
900 MILA EURO PER L’AMMODERNAMENTO DEGLI IMPIANTI IDROVORI Ammonta a 900 mila euro l’importo a disposizione per ammodernare parte del sistema idrovoro consortile. Nella fattispecie, infatti, si sono rese necessarie una serie di nuove opere di natura elettrica e meccanica in corrispondenza agli impianti idrovori “Cà Giovanelli”; “Grompa”; “Lavacci”, “Mora Livelli”; “Taglio”; “Valgrande”; “Vampadore”, che presentano parti dell’impianto particolarmente datate e non più totalmente efficienti, con grave rischio di malfunzionamento o addirittura di fermo impianto in occasione di eventi di piena che vanno ad investire il relativo bacino idraulico, che comportano periodi di funzionamento particolarmente intense.
Per tenerti informato sull’operatività del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo e sui progetti che riguardano il territorio, iscriviti alla newsletter settimanale, basta entrare nel sito www.adigeuganeo.it, cliccare sul tasto “Contatti” e registrarsi
L’ELZEVIRO di Eliano Morello
CONSUMO DI SUOLO, uno stillicidio che continua nel silenzio dell’indifferenza Nei decenni passati sono stati commessi molti scempi che sono stati giustificati con la crescita demografica e con il cambio di un’economia da prettamente agricola a manifatturiera. Oggi sappiamo che la popolazione non cresce più e che anche il mondo produttivo ha subito un arretramento, eppure le colate di cemento continuano…
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pesso l’opinione pubblica si mobilita quando percepisce di essere in pericolo. Maggiore è l’enfasi che viene data a un potenziale pericolo, maggiore è la reazione del pubblico. Gli argomenti che mandano in fibrillazione i cittadini possono essere molteplici, ma il più importante è senza dubbio la salute. Meno scalpore ha destato, invece, lo scontro generatosi per la costruzione dello stadio della Roma. E cosa c’entra lo stadio? Questa non è certo una rivista sportiva! Tranquilli, ora vi spiego. La creazione del famoso e discusso stadio della Roma ha infatti innescato un pandemonio di critiche, molte provenienti dal mondo politico ma molto meno dal settore agricolo. Vi state ancora chiedendo se stavolta ho sbagliato rivista? Allora andiamo avanti, così capirete meglio. La notizia mi ha infatti dato uno spunto interessante: non si tratta di capire se una società militante nella serie A di calcio abbia o meno il diritto a un proprio stadio, ma su quale terreno questo dovrebbe sorgere! Qui, amici, la materia prima riveste una fondamentale importanza! Se poi il terreno in questione risulta adibito ad uso agricolo, si entra dritti dritti nel cosiddetto “consumo di suolo”. Il concetto di “consumo di suolo” è infatti definito come una variazione da una copertura non artificiale
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(suolo non consumato) a una copertura artificiale di un terreno (suolo consumato). Si intende dunque il passaggio da coperture agricole e naturali a coperture urbane: una tipologia di transizione che altera tutte le funzioni dello spazio iniziale in modo permanente (Pilieri, 2009). Il consumo di suolo va perciò inteso come un fenomeno associato alla perdita di una risorsa ambientale fondamentale, dovuta all’occupazione di superficie originariamente agricola, naturale o seminaturale. Il fenomeno si riferisce a un incremento della copertura artificiale di terreno, legato alle dinamiche insediative, e prevalentemente dovuto alla costruzione di nuovi edifici, capannoni e insediamenti, all’espansione delle città, alla densificazione o alla conversione di terreno entro un’area urbana, all’infrastrutturazione del territorio. Se inizialmente si è trattato di un processo legato per lo più alle dinamiche demografiche, oggi il vero motore del fenomeno è da ricercarsi nella mera speculazione edilizia (che ha subito un brusco arresto a partire dal 2008, anno di avvio della crisi immobiliare). I fattori che favoriscono la presenza di questa proliferazione edificatoria non devono, quindi, essere ricercati esclusivamente nell’aumento demografico, ma piuttosto in un insieme di fenomeni economici, politici e sociali che pos-
L’ELZEVIRO sono essere sintetizzati in: scarsa regolamentazione urbanistica, elevata discrepanza tra la redditività dell’edilizia e quella agricola e aspetti socio-culturali di vario genere. Il consumo di suolo in Italia è, oggi, un tema capace di suscitare grande interesse a causa delle conseguenze e dei costi economici, ambientali e sociali che comporta. Gli effetti causati dall’impermeabilizzazione del suolo sono, infatti, molto vari e interessano la compromissione delle funzioni produttive del terreno (con la conseguente riduzione delle produzioni agricole), l’alterazione del paesaggio, dell’ecosistema, della sfera climatica e dell’assetto idraulico e idrogeologico. Nel 1956 la perdita di suolo agrario era stimata nel 2,8% ma nel 2010 essa è schizzata al 6,9% con un incremento del 166% (fonte ISPRA). Ad aggravare la situazione è la disomogeneità di questa erosione lenta e continua: il consumo è fortemente legato alla morfologia, alle ragioni sociali e a quelle economiche. Ecco spiegato il motivo per cui il consumo è maggiore nelle regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna in testa), ma con una punta importante nel Lazio. Non dimenticate che l’Italia, rispetto agli Stati Uniti che costruiscono molto in altezza, costruisce in lungo e in largo e possibilmente dappertutto (basta leggere i dati sull’abusivismo edilizio). Per completare il ragionamento, solo lo stadio della Roma andrà a occupare una superficie di circa 27 ettari (al netto dei tagli) con circa 700 mila metri cubi edificati. Pensate a quante società di calcio ci sono in Italia e quante avrebbero il diritto di richiedere lo stesso trattamento. Di questo passo non so esattamente dove andremo a finire. La costante cementificazione del suolo non potrà mai permettere una efficace ed efficiente permeabilizzazione (drenaggio) del suolo, con gravi conseguenze: riduzione di suolo agrario (riduzione della funzione produttiva) e alterazione del paesaggio con ripercussioni nella stabilità dei suoli e del clima. Maggiore è la superficie agricola coltivata,
Nel 1956 la perdita di suolo agrario era stimata nel 2,8% ma nel 2010 essa è schizzata al 6,9% con un incremento del 166%
Nelle immagini il consumo di suolo in Italia, nel 1956, in pieno boom economico, e nel 2010, ossia in piena crisi economica
maggiore è la quantità di CO2 sequestrata, maggiore è l’attività delle piante maggiore è la purificazione dell’aria con sequestro di particolato (il famigerato PM10) e ozono (O3). Il suolo ha una grande influenza nella rimozione di queste sostanze, tenuto conto che questi inquinanti atmosferici sono i principali fattori di rischio ambientale (pare che siano responsabili di diverse migliaia di morti l’anno). Il problema della progressiva riduzione di suolo ha comunque una soluzione, anzi precisamente due: la prima è spingere ancora di più le produzioni sulle restanti superfici, la seconda di andare a reperire alimenti da altre parti (del mondo possibilmente). Solo alcune associazioni (Italia Nostra e Legambiente) denunciano spesso questa tendenza suicida ma non mi sembra di notare un profondo interessamento da parte di chi si occupa di agricoltura e pochi sono gli interventi programmati per il recupero ambientale. Nel PSR (Piano di Sviluppo Rurale) del Veneto, per esempio, nessun intervento è rivolto al rimboschimento dei terreni di pianura. Pensate solo a quanti piccoli proprietari terrieri non coltivano nulla per mancanza di convenienza economica. Considerato il grande valore attribuito alla qualità dell’ambiente (aria, acqua e suolo), pochi sono i passi veri che muovono molti amministratori nella direzione della tutela del suolo agricolo. Spesso si vedono opere di impianto di alberi lungo le strade per dimostrare quanto l’ambiente stia a cuore dei legislatori: ma più che altro sembrano operazioni di facciata. E gli agricoltori, dove sono? Fintanto che i redditi agricoli saranno scandalosamente bassi e poco remunerativi, nessuno di loro (o solo pochi) si opporrà a eventuali espropriazioni di terreno per costruire e cementificare i suoli in quanto anche la vendita di terreno è una forma di guadagno. Ma a scapito di chi? Chi ne pagherà le conseguenze?
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TENUTA CIVRANA
stagione che vai offerta che trovi Un’azienda di 365 ettari e una campagna d’altri tempi, ma anche un’area attrezzata per il birdwatching, fattoria didattica e un agriturismo che prepara il meglio secondo tradizione
Nella fertile campagna di Tenuta Civrana l’agricoltura ha ripreso il suo corso, la bella stagione è appena cominciata, ma gli orti hanno già iniziato a produrre le primizie: asparagi, piselli, radicchi tardivi destinati ad approvvigionare sia il punto vendita aziendale che il rinnovato agriturismo. Prodotti genuini, grazie a coltivazioni non estensive ma che puntano decisamente sulla qualità grazie ad una campagna che continua ad essere coltivata nel rispetto dell’ambiente e lasciando al verde spontaneo uno spazio decisamente importante.
Accanto alle superfici coltivate, che rimandano ad una campagna d’altri tempi, esistono ambienti naturali quali boschi planiziali, siepi e stagni attrezzati con ponti in legno e torri per il birdwatching che rendono Tenuta Civrana un luogo che va ben oltre l’azienda agricola tradizionale e che riesce perfettamente anche nell’intrattenimento. Alle giornate dedicate alla vita in campagna e alle escursioni nelle zone selvatiche dell’azienda, infatti, si accompagnano pranzi e cene a tema con prodotti che seguono la stagionalità e ricette che rispettano le tradizioni.
Pegolotte di Cona (VE), Via della Stazione 10 - Tel. 333 6662584 • Agriturismo 347 2220023
Una Natura
da scoprire e da imparare
La campagna qui conserva una bellezza antica che merita di essere conosciuta insieme ai suoi protagonisti. E l’offerta non manca, dal 2007 l’azienda si è strutturata per essere una fattoria didattica e da allora propone visite guidate, lezioni in classe e laboratori per i ragazzi. Qui le materie sono le più vaste e spaziano dalla conoscenza dei boschi, grazie ad un’area verde di sei ettari attrezzata che riproduce fedelmente l’ambiente palustre prima dell’intervento della bonifica, alla conoscenza della campagna, delle colture e dei mestieri svolti dal contadino. Fiori, erbe, frutti: sono lezioni da seguire con attenzione. Non manca l’incontro con gli animali selvatici (quasi duecento specie di uccelli sono stati censiti qui, alcuni
Le lezioni sono indicate per scuole dell’infanzia, scuole primarie e scuole secondarie di primo grado, con attività calibrate e concordate con i docenti in base alle diverse stagioni, all’età degli studenti o ai progetti delle singole classi
dei quali si possono vedere dalle torrette per il birdwatching) o quelli di bassa corte: capre, oche, asini, cavalli ospitati dalla fattoria. Ma alla Civrana guardare non basta, bisogna anche fare! Nelle grandi aule didattiche appena rimodernate c’è tanto spazio per i laboratori tenuti da esperti istruttori con materiali messi a disposizione direttamente dal bosco e dalla campagna. Momenti di gioco che tuttavia sono fondamentali per l’apprendimento e che possono diventare anche una vera e propria festa. Per i compleanni, infatti, alla tradizionale torta con le candeline si può accompagnare un’animazione speciale, offerta dalla Natura.
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A marzo ogni mato naséa descalzo! LA MEMORIA DI CARTA
di Roberto Soliman
I grandi riprendevano il lavoro nei campi e i bambini i giochi all’aperto, tutti regolarmente scalzi. Eravamo davvero matti?
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sservavo, nelle mattine dei primi di marzo, mio padre vestirsi con camicia a quadri e gilet lasciando appesa al chiodo, sotto scala, la pesante giacca da lavoro. Non metteva ancora il grande fazzoletto giallo-rosso, ripiegato a triangolo e annodato al collo, accessorio estivo asciuga-sudore e anti abbronzatura del collo, dal momento che la brezza mattutina apriva a giornate primaverili asciutte, limpide, invitanti alla vita all’aperto. Prima di partire con la mia biciclettina per la scuola, lo vedevo prendere la strada dei campi, assieme al suo fido bracciante-cugino Ivano, con il badile in spalla per andare a sistemare le “cavezzagne”, raschiando la gramigna attorno agli appezzamenti di frumento, quasi a creare una cornice divisoria tra il prezioso campo di grano e l’erba delle “cavezzagne”. Su quella cornice di nuda terra scorreva l’acqua piovana verso il fosso e, più avanti, cresceva l’erba Camomilla, che veniva pazientemente raccolta, essiccata e conservata per farci fare quelli che, più tardi, l’industria del benessere faranno diventare ”Sogni d’Oro”, mentre noi dovevamo accontentarci di dormire e basta!
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LA MEMORIA DI CARTA Per il contadino andare scalzi era un modo per prendere contatto fisico con la nuda terra, capiva se era già lavorabile con la zappa o con l’aratro, se era secca o umida, fredda o già intiepidita dal sole per seminare il mais Osservavo anche che allontanandosi dalla corte mio padre e Ivano non portavano più le pesanti “sgiàvare” invernali, indossate con le ruvide “pezze da piè”, ma camminavano leggeri tra la “sgòazza”, a “piè dèscalzi”! Era arrivata la primavera! Già ai primi di marzo arrivava la bella stagione, non aspettava l’Equinozio del 21 del mese! Pedalando lungo la strada che mi portava a scuola pensavo che al ritorno, dopo aver raccolto le viole delle rive dei fossi per mia mamma, mi sarei anch’io liberato dalle scarpe per giocare nella grande corte natia. Liberarsi delle rigide “sgiavare” era un sollievo, ma per il contadino andare scalzi già a marzo non era una pazzia, come dice il vecchio adagio, ma oltre ad avere benessere ai piedi prendeva contatto fisico con la nuda terra che aveva passato lo stress del ghiaccio invernale. Così capiva se era già lavorabile con la zappa o con l’aratro, se era secca o umida, fredda o già intiepidita dal sole per seminare il mais, dura o morbida, bagnata o addirittura “sboldra” (inzuppata d’acqua). Marzo e aprile erano mesi di rinnovamento fisico e mentale, e la Pasqua, non a caso, portava la Resurrezione. Anche oggi dovrebbe essere così, ma le stagioni e i mesi sono in confusione climatica, e la Pasqua fatta diventare una delle tante feste tra le feste. La lunga attesa della Pasqua, in corte dove sono nato e ho vissuto in gioventù, era segnata da tappe fisse: i venerdì di magro con polenta e baccalà, che mia nonna riusciva rendere così insipido da assomigliare a una condanna da subire durante la Quaresima, alle “operazioni” che, sempre la nonna, faceva ad inconsapevoli galletti di belle speranze, per farli diventare capponi da sacrificare per il pranzo di Natale, ma anche da regalare al parroco, al dottore, alle figlie sposate, e perché no, pure al “paròn” dei campi. Altra tappa o appuntamento era la “lissia”, il grande bucato, con un gran lavoro di tutta la
Jean Francois Millet - Piantatori di patate (1861)
famiglia, l’azione del carbonato di potassio contenuto nella cenere, e le lenzuola svolazzanti mosse dal venticello primaverile. Ma per fortuna si risvegliava anche la voglia del gioco per noi bambini, e questo tiepido venticello primaverile ci dava lo stimolo per costruirci l’aquilone. L’“aquila” o la “volanda” richiedeva, per la costruzione, precise regole geometriche, materiali leggeri e di nessun costo. La carta velina, possibilmente colorata, era l’unico costo, e bisognava andare fino in cartoleria a prenderla. Te la consegnavano arrotolata e stavi attento a non spiegazzarla, perché altrimenti non volava più bene. Per la colla si mischiava farina bianca e acqua e la si scaldava sulla stufa perché diventasse più appiccicosa. Le “canevère” le
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LA MEMORIA DI CARTA si prendeva dal fosso, per la coda anelli con carta di giornale, e per lo spago dovevi farti prestare dal nonno il “gemo” di “gavéta” avanzato per legare i salami pochi mesi prima e da tenere per il prossimo maiale. Non c’era anno senza maiale! Visti i tentativi mal riusciti di costruzione dell’aquilone, a casa mi hanno mandato a scuola da un esperto, che abitava in fondo ai campi, un luogo dove non ero mai stato. Un pomeriggio, dopo scuola, mi sono preso il necessario e mi son recato da questo giovane che mi ha fatto da “tutor” in questa singolare arte, per ritornare trionfante, a piedi scalzi, a far volare questo aquilone nel prato davanti alla corte. Era così bilanciato che è volato tanto in alto che quasi non lo si vedeva più, mentre mio nonno era preoccupato per la “gavetta” che li dovevo rendere. L’aquilone fa sognare i bambini di tutto il mondo che cercano di carpirne il segreto del volo attraverso il legame che dà il tiro dello spago che varia di intensità durante le sue giravolte; non è la stessa cosa osservare il volo degli uccelli, non hai il contatto fisico! Altri giochi primaverili andavano sempre verso il contatto con la natura, forse come scoperta, però condizionata dalla necessità di auto inventarsi i giochi, costruendoli con le proprie mani utilizzando anche materiale di scarto. Mi riferisco ai pezzi di mattone usati per giocare a “mago” in strada o alle “scaje” di coppo per giocare a “carampàna”. Con il legno si faceva la mazza e il “pìndolo” per giocare a “sci-anco”, archi e frecce, pistole e fucili con l’elastico, fionde e carrettini di legno. Un gioco primaverile che era una scoperta della natura, e forse un riequilibrio inconsapevole dell’ecosistema era l’andare “a gnari”! Alzi la mano chi della mia generazione ante-plastica non ha mai “curiosato” in qualche nido di merli o di quaglie! Tutto questo ha stimolato la nostra manualità, ci ha dato lezioni di scienze, ha favorito la formazione di anticorpi, ci ha dato la possibilità di fare ginnastica alla palestra della vita. Ora sono felicemente pluri-nonno, ma non invidio la mancanza di curiosità e di stimoli dei miei nipoti, la giovane età si! Decine e decine di giochi, i più svariati, ricevuti da genitori, da noi nonni, zii, genitori di amici alle miriadi di feste di compleanno, onomastico, comunioni, e chi più ne ha più ne metta, vengono aperti con sufficienza e poco dopo messi nell’angolo della casa, sempre fornitissimo, ad essi riservato. Così non trovano niente di meglio, appena arriva la primavera, di togliersi le scarpe e correre nel prato calciando un vecchio pallone di plastica. E sembrano pazzi di gioia! Forse è a questa pazzia che si riferisce il proverbio?
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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE del Prof. Adriano Mollica
La camomilla,
UN VERO E PROPRIO MIRACOLO DELLA NATURA Da sempre è usata in medicina primariamente per le sue proprietà ansiolitiche, sedative e spasmolitiche. Ma trova largo impiego anche per curare le irritazioni cutanee e le infiammazioni
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a camomilla appartiene alla famiglia dei fiori comunemente chiamati margherite, è nativa dell’Europa e dell’Asia minore, il suo nome latino è Matricaria recutita. La varietà tedesca è quella più comune, cresce spontanea ovunque ed è una delle piante officinali più usate per via delle sue proprietà curative ben documentate. La pianta è annuale, cresce fino a 30 cm, con foglie pennate simili a quelle delle comuni margherite. I fiori sono profumati, la testa del fiore raggiunge solo 1-1.5 cm di diametro, con un largo disco conico che è coperto da infiorescenze gialle e circondato da infiorescenze bianche.
Anche gli antichi Egizi conoscevano le proprietà di questa pianta tanto che la consideravano un dono del Dio Sole e la usavano per alleviare la febbre e le insolazioni
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ALIMENTAZIONE, SALUTE E TRADIZIONE
ATTIVITÀ FARMACOLOGICHE La camomilla è usata in tutto il mondo, primariamente per le sue proprietà ansiolitiche, sedative e spasmolitiche. Inoltre trova ampio utilizzo per curare le irritazioni cutanee e infiammazioni. I componenti principali dell’estratto di camomilla sono il camazulene, l’apigenina e il bisabolo. La camomilla è generalmente sicura e non tossica, anche se alcuni pazienti hanno mostrato ipersensibilità, peraltro estesa a tutta la famiglia delle Aesteraceae. La camomilla è consumata estensivamente sotto forma di infuso e come ingrediente di tisane, per curare l’ansia, gli incubi, l’insonnia e altri disturbi del sonno, inoltre si è rivelata utile per controllare convulsioni e persino il delirium tremens. L’olio essenziale di camomilla è stato anche testato contro la malaria. In Europa è considerata quasi una panacea, capace di curare ogni male. Il suo uso risale ai tempi degli antichi romani e greci, infatti il nome camomilla deriva dalle due parole greche chamái, "del terreno" e mélon, "mela”, probabilmente per via del suo odore simile a quello di una mela matura. Anche gli antichi Egizi conoscevano le proprietà di questa pianta tanto che la consideravano un dono del Dio Sole e la usavano per alleviare la febbre ed i sintomi delle insolazioni. Storicamente fu impiegata per alleviare dolori alla schiena, nevralgie, reumatismi, problemi cutanei, indigestioni, flatulenza, mal di testa e gotta. Tra le attività farmacologiche riconosciute e testate in laboratorio ricordiamo: ATTIVITÀ SPASMOLITICA L’estratto alcolico di camomilla è uno spasmolitico, l’olio essenziale di camomilla ha attività simile alla papaverina, probabilmente perché al suo interno sono presenti il bisabolo e l’apigenina. L’estratto acquoso della camomilla è in grado di ridurre il tono della muscolatura uterina e risulta utile ad esempio per il trattamento della dismenorrea. ATTIVITÀ ANTIULCERA Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che i fiori di camomilla facilitano la guarigione delle ulcere gastriche causate da stimoli come lo stress, l’alcool e i farmaci da banco quali gli antiinfiammatori non steroidei. Il bisabolo in particolare è il componente responsabile dell’acceleramento nel tempo di guarigione, inoltre ha effetto inibitorio sulla secrezione gastrica acida.
ANSIOLITICO SEDATIVO L’estratto di camomilla ha effetto ansiolitico e sedativo, si pensa con meccanismo simile a quello delle benzodiazepine (noti farmaci ipnoinducenti e ansiolitici). ATTIVITÀ ANTIINFIAMMATORIA E ANTIALLERGICA L’effetto antiinfiammatorio ed antiallergico della camomilla è ben noto, inoltre è stata usata in passato come rimedio contro l’artrite e la febbre reumatica. ATTIVITÀ ANTIMICROBICA, ANTIFUNGINA E ANTIVIRALE L’attività antibatterica e antivirale della camomilla è ben documentata. L’estratto idroalcolico inibisce la crescita del virus dell’Herpes e della Poliomielite. Altri composti trovati nell’olio essenziale sono efficaci contro lo Stafilococco e la Candida. Ad esempio il Bisabolo ha una buona attività antibatterica. Altri componenti dell’olio essenziale sono attivi contro la tubercolosi. In conclusione, la camomilla è considerata un vero e proprio miracolo della natura. Numerosissimi studi riportano che parti differenti della pianta posseggono attività terapeutica e potrebbero avere un grande interesse farmaceutico. Da non dimenticare inoltre il suo uso in cosmetica, per la sua nota proprietà di schiarire i capelli, se usata in impacchi dopo ogni lavaggio. Inoltre numerosissime sono le sue applicazioni in creme, olii per il corpo e prodotti per l’igiene intima.
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STORIA E DINTORNI di Paolo Rigoni
Il paesaggio prima del mais Un estimo dei beni dei nobili e del clero rodigino del 1411 restituisce un ambiente tutt’altro che selvatico. La campagna era già avviata all’orticoltura e alla coltivazione dei cereali, già presente era la vite e le parti incolte erano una sorta di welfare state per gli strati più bassi della società del tempo
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li storici del paesaggio stanno rivedendo alcune valutazioni mutuate dal Positivismo ottocentesco, riguardanti l’economia delle pianure alluvionali e di una terra inselvatichita, ritornata ovunque selvaggia dopo la fine dell’Impero romano. Un contributo importante, nel relegare a palude le nostre terre, lo ha dato anche Venezia: dopo il 1404 quando il Leone di San Marco posò definitivamente le sue zampe sulla terra ferma padovana e più tardi, nel 1509 dopo la guerra della Lega di Cambrai, quando tra gli artigli cade anche il Polesine, il quadro che gli storici del tempo danno del territorio è totalmente desolante, come se Cristo si fosse fermato sul Brenta. Ma del resto tanto più crudo, miserando e cupo fosse stato il paesaggio prima di Venezia, tanto più benefico, dolce e foriero di prosperità sarebbe stato il suo governo. In parte, dunque, sono tangibili elementi della propaganda, ma tuttavia non era del tutto incongruente con la realtà. Altri racconti sulla natura del territorio derivano da cronache più remote, come nel caso del “Mandiburdium protectionis”, l’atto del 1054 col quale Enrico III accorda protezione
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Il Bosco dei Lavacci, noto anche con il nome di «Bacino Valgrande», rappresenta il maggior esempio della foresta esistente prima delle bonifiche. Il Bosco si estende su una striscia di terra che coincide con la golena formata dal fiume Fratta Gorzone e dal canale Masina, e gravita sui territori di Sant’Urbano, Villa Estense e Vescovana. Un crocevia di flora e fauna del territorio
ai beni del vescovo di Adria, cioè alla “Curte quae dicitur Adriana”, dove l’Imperatore specifica che tal protezione vale per borghi e ville “cum aquis, terris, silvis, ripatico, teloneo, salinis” e dal quale si evince, appunto, un territorio di gorghi, boschi, paludi, selve oscure che insidiavano esigui appezzamenti coltivabili, aggrappati ad impaurite e solitarie ville, prossime
STORIA E DINTORNI ai fiumi, tra le quali si stagliavano le numerose torri di guardia per i capitani deputati alla custodia dei passi. In un ambiente così primitivo le leggi si dovevano preoccupare delle liti violente che scoppiavano nelle grandi boscaglie fra i pastori: era facile sconfinare con i greggi di animali nella proprietà di un altro, e allora si può immaginare cosa accadesse fra chi conduceva al pascolo i porci o le pecore. Il senso della proprietà privata non era ben chiaro e quelle persone soprattutto quando si trattava di terre incolte che la natura sembrava offrire libere all’uso di tutti. I confini erano segnati su alberi, indicati da grossi sassi piantati nel terreno o situati lì da tempo senza che nessuno ce li mettesse: era agevole, e pericoloso insieme, spostare tale indicazioni da una parte all’altra, o addirittura togliere di mezzo il segno naturale del confine o strappando dalla terra la pietra. Se era un servo a farlo, poteva incorrere nella pena di morte. Forse anche questa descrizione dei luoghi, serviva all’Imperatore per giustificare la propria “longa manus”. Ma come doveva essere, dunque, il paesaggio nei secoli passati? Sicuramente con l’aprirsi del Medioevo le bonifiche vennero abbandonate e si assistette ad un generale impaludamento, anche per fenomeni di bradisismi negativi, venne a scomparire il reticolo viario ed il graticolato romano. La terra coltivata doveva essere alquanto modesta rispetto agli spazi incolti, la vegetazione avanzava impadronendosi di villaggi un tempo abitati o coprendo ruderi di antichi manufatti, quali i ponti che, materializzandosi improvvisamente agli occhi dei viaggiatori, per la loro ardita costruzione arcuata inducevano a credere che fossero opera demoniaca, perciò detti “Ponti del diavolo. Il progressivo abbandono di un territorio organizzato fu favorito anche dalle nuove popolazioni discese dal Nord durante i primi secoli dell’Alto Medioevo. Queste, infatti, erano portatrici di un diverso modello di sfruttamento del suolo che va sotto il nome di economia dell’incolto: Un ambiente semi selvatico, dunque, costituiva il mondo degli uomini del secolo VI e VII, dove, però, non mancavano le risorse ad una popolazione assai ridotta nel numero: caccia, pesca, allevamento brado, frutti spontanei delle piante erano un notevole mezzo di sostentamento, insieme ad un’agricoltura ancora in via di affermazione. Nel governo longobardo, la cui politica era più dedita al “palazzo” piuttosto che “polis”, l’economia dell’incolto deve essere considerata come una specie di “welfare state”, che garantiva anche alle fasce meno abbienti della società, ossia la maggior parte degli uomini vissuti dalle nostre parti al tempo, di procurarsi il necessario per vivere.
LA GRANDE PROPRIETÀ TERRIERA NEL BASSO MEDIOEVO ERA DIVISA IN DUE PARTI: PARS DOMINICA E PARS MASSARICIA I mansi (i campi) erano affidati a coloni o a servi, obbligati a prestare corvèes al signore (nobile o vescovo o abate) e a consegnargli parte del raccolto. Vi erano terre comuni, per il pascolo, e grandi foreste, in cui i signori potevano abbattere gli alberi e cacciare e in cui i contadini potevano raccogliere la legna secca e a volte cacciare piccoli animali con lacci e trappole. Le attività economiche fondamentali erano: la caccia, l’allevamento degli ovini (allo stato brado), la pastorizia dei suini e l’apicoltura (il miele era usato come dolcificante); più marginale era la coltivazione dei campi. I campi signorili erano coltivati a cereali (orzo, segale, avena, miglio e grano) e a vigneti. Dunque per i secoli più bui del Medioevo è giusto parlare di una terra non organizzata ma non per questo priva di quegli elementi che garantivano alle società di prosperare, seppur nell’ottica dell’arrangiarsi. Il ritorno a forme di governo del territorio si ebbe attorno al Mille, quando in seno alla maturata necessità di una maggiore decentrazione del potere nell’Impero carolingio, le cui frontiere abbondantemente travalicavano i confini nazionali di stati e paesi, iniziò una politica di riordino sotto l’egida dei monasteri e di quelle famiglie che più tardi portarono alla nascita delle signorie. In tal senso, un nome su tutti va ricordato per le nostre latitudini: quello degli Estensi. È in questo periodo che riprendono i lavori di bonifica e di organizzazione delle campagne, spesso grazie all’opera dei monaci Benedettini, facilmente riassumibile nel motto “ora et labora”. Un lavoro importante, tanto che a partire dal XIV secolo gli archivi ci offrono notizie maggiormente certe sulla natura del suolo, del paesaggio agrario e della disponibilità delle risorse. In un estimo dei beni dei nobili e del clero rodigino del 1411, situati nelle ville di Lusia, Ramedello, Costa, Fratta, Gognano, Villamarzana, Arquà, Sarzano, Mardimago, Villadose, Canale, Ceregnano, Buso,
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STORIA E DINTORNI
Calendario (l’aratura), 1000 circa, miniatura, cotton ms. Tiberius B.V., f. 3r., Londra, British Library
Sant’Apollinare, oltre naturalmente che a Rovigo, le proprietà appaiono in gran parte coltivabili con una bassa percentuale boschiva. Certamente si tratta di terreni appartenenti ai nobili e al clero, e perciò maggiormente fertili perché più alti e di più antica emersione, che però ci danno una immagine del territorio, simile a quella dell’Italia padana, ove la bonifica non era riuscita a conquistare tutti i suoli disponibili, perdurando larghe fette vallive sottoposte a inondazioni periodiche. Prendendo in esame l’estimo, pur con il beneficio del dubbio, si desume che il 10% del totale delle terre è composto da valli, parte delle quali è classificata come “vallis piscaricia”. La maggior parte delle valli si trova lungo la direttrice dell’Adige, dell’Adigetto e del Polesine centrale, anche se dobbiamo pensare che data la natura del terreno valli si trovassero in misura diversa anche in altre ville. Il 2% risulta adibito a bosco; è il caso di dire coltivato a bosco perché vi sono compresi le “pezze” occupate dalle “salgarede”, dai saliceti nei cosiddetti “boschi di sponda”. Una terza piccola percentuale, il 5% sul totale dei campi risulta costituita da terre “sablonive”, che rimarranno una costante nel paesaggio dell’Adige. Si tratta di sedimenti di straripamenti e alluvioni oppure residui di corsi d’acqua esauriti che hanno lasciato traccia del proprio alveo. Fra le terre incolte sono da rilevare quelle destinate a prato e pascolo: 235 campi, il 10%, sono prativi, un secondo 10% circa, 213 campi, sono pascolivi, sottolineando che in parecchie possessioni di nobili e di enti ecclesiastici non figurano. Sono possedimenti alquanto piccoli e quindi è da supporre che, se la conformazione de terreno lo consentiva, fossero per evidenti motivi, destinati a grano. La rassegna prosegue con un 1% di “terre guastive” e di “terre basse” che designano terreni sottratti all’agricoltura perché invasi dalle acque e, nel migliore
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dei casi, destinate alla pastorizia. Lo spazio coltivato nel nostro estimo occupa il 55% del totale con 1514 campi, la maggioranza dei quali, vale a dire 1348, vanno sotto la denominazione generica di terre aratorie. Infine, i restanti 130 campi per una percentuale del 12% sul totale sono occupati dalla vite. Se nell’alto Medioevo la vite era coltura specializzata presente in appezzamenti a sé stanti, circondati da fossati e siepi, clausure, per misura difensiva; nel basso Medioevo, si ha diffusione della coltura promiscua con “l’affacciarsi di quel sistema che diverrà poi la piantata padana”, come risulta da numerosi atti, “…una Possessione, che lavora Battista Buia con tre case di canna cum Curtile, Horto, Arra, Pozzo, et Forno cum miara quatro, vel circa de Vigne, et certi pergolati…”. La vite radicava il colono alla terra e ne incentivava l’attaccamento, in un mutuo rapporto d’interesse tra locatore e locatario. I proprietari, laici o ecclesiastici, obbligavano perciò alla coltivazione della vite, a mantenerne intatto il numero fornendo essi stessi le piante. La contrazione dell’incolto, pertanto, non fu drastica, anzi le risorse silvo-pastorali continuarono a coesistere e a svolgere una funzione fondamentale nell’alimentazione ed essere parte integrante del paesaggio anche perché i mezzi a disposizione per le bonifiche non bastavano da soli a ridurne in modo determinante la superficie. E nemmeno c’era la volontà: la “distruzione dell’incolto non ebbe quel carattere generalizzato che troppo spesso le si è voluto dare; al di là di certi limiti i colonizzatori medievali non andarono - non vollero andare; né avrebbero avuto i mezzi per farlo: stiamo attenti per a non scambiare per “medievali” fenomeni di distruzione sistematica dell’incolto che datano periodi assai più vicino a noi”.
STORIA E DINTORNI di Mauro Gambin
DOPO SECOLI RIAFFIORA L’ANTICA TORRE MARCHESANA DI MASI Grazie ad un lavoro di ricerca e raffronto tra indicazioni desunte da documenti e carte storiche è stato possibile individuare i resti dell’antica torre medievale nell’Adige
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volte la storia è lì, l’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma non la vediamo. È anche questo, forse, un effetto provocato dalla progressiva distanza che l’uomo contemporaneo (noi tutti) interpone nei confronti della terra in cui vive. Il non essere più in mezzo allo spazio vero, al quale sempre più si privilegia quello virtuale, e l’aver perso la capacità di interrogarsi sugli elementi del paesaggio, fa sì che le cose, anche quelle importanti, rimangano sepolte più che dal tempo, dall’indifferenza. Se volessimo definire dal punto di vista sensoriale questo disagio, il termine giusto sarebbe forse “spaesamento”, ma la stessa sensazione si prova anche quando il paesag-
Il gonfalone comunale, ricorda l’antica Torre Marchesana
gio diventa scoperta. È capitato anche a me, dopo che per mesi con il mio vicino di casa ci siamo confrontati su carte, documenti e rilievi e alla fine un cumulo di pietre e lacerti di muratura che si trovano in mezzo all’Adige hanno trovato un nome e recuperato un’identità. In verità e stato lui, Giuliano Mantovan, il mio amico e vicino di casa, a dargliela. Io ci avevo lavorato per anni, mettendo da parte ogni documento e ogni vecchia cartina che parlasse di quel tratto di fiume. Più volte, durante i periodi di magra, ho anche sondato lo stesso tratto perché sapevo che un tempo lì sorgeva Rocche Marchesane: un villaggio medievale, un’appendice del mio paese, Masi. Oggi i resti di quell’abitato si trovano proprio in mezzo all’Adige, ma almeno fino alla fine del XVII secolo case e casamenti erano ben piantati sulla sponda padovana. Era forse la parte più interessante del paese di allora: una comunità che viveva in simbiosi con il fiume. Era forse uno scalo, una banchina debitamente protetta da muraglie e palificate che rinforzavano la sponda, Mappa databile all’anno 1525, elaborata da P. Coppo. Viene rappresentato il territorio compreso tra Masi, Piacenza d’Adige, Badia Polesine e Salvaterra. Sono ben visibile le torri deputate al controllo dell’Adige: a destra (nella foto) la Marchesana, in territorio padovano, tra i rami dell’Adige e dell’Adigetto la Torre di Mezzo e sulla sponda opposta dell’Adigetto la Francavilla. [fonte: Itinerario per la terraferma veneta nel 1483 di Marino Sanuto (a cura di Roberto Bruni e Luisa Bellini): ed. CLEUP - Associazione Artistico Culturale Terzo Millennio - Vò (PD)
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STORIA E DINTORNI
ALCUNI ISOLOTTI EMERSI SONO QUANTO RIMANE DELL’ARGINE MEDIEVALE
QUI LA CARTINA INDICA “VESTIGIA DELLA ROCCA”
L’ANTICO ABITATO DI ROCCHE MARCHESANE OGGI SI TROVA INTERAMENTE SOTT’ACQUA
SOTTO IL PELO DELL’ACQUA CI SONO ANCORA LE MURAGLIE E LE PALIFICATE CHE CONTENEVANO L’ARGINE MEDIEVALE
FONDAMENTA DELLA TORRE MARCHESANA
RIMANGONO IN MEZZO AL FIUME LE MURAGLIE CHE UN TEMPO CONTENEVANO L’ARGINE PADOVANO
L’immagine raffronta una cartina del 1677 nella quale è rappresentato l’antico abitato scomparso di Rocche Marchesane, che sorgeva in riva all’Adige insieme alla Torre, e l’attuale corso del fiume. Le antiche muraglie che escono dal pelo dell’acqua sotto al campata centrale del ponte corrispondono al flesso dell’antico argine medievale disegnato nella carta a fianco. Nel punto di piega, proprio sotto l’arcata centrale si scorge una base quadrata con a fianco la muraglia di contenimento della sponda: sono le fondamenta della torre, il punto coincide perfettamente con le indicazioni riportate nel disegno.
un porto. L’ho sempre immaginato un luogo operoso, ed era sicuramente l’accezione che contraddistingueva Masi dal resto del territorio. Qui, infatti, la piccola economia non dipendeva dall’agricoltura o dallo sfruttamento delle terra, come nel resto della Bassa Padovana e del Polesine, ma un tempo la ricchezza al mio paese era portata dal commercio fluviale; dal piccolo artigianato; dall’economia dell’acqua fatta di mulini galleggianti; di poste per la cava della sabbia; dalla produzione di ceramiche; dagli squeri; dal lavoro dei “passadori” e dei “cavalanti”, che permettevano l’attraversamento e la risalita della corrente alle imbarcazioni; dalle osterie che offrivano ricovero ai “piloti”, che conducevano i natanti, e agli scaricatori. Esistono ancora le tracce di questo antico passato, a ridosso dell’argine, tra la vegetazione e le sabbie portate dalla corrente, riemergono resti di muri, lacerti di strade, cumuli di pietrame, un mondo fermo da secoli, ma che permette ancora di immaginarla questa specie di Atlantide fatta scomparire dagli ingegneri veneziani alla metà del 1600. Con il taglio dell’argine dietro al quale stava il paese, vollero imprimere maggiore velocità alle acque per togliere dai rischi le zone a monte, nel Veronese, che durante le piene ne soffrivano l’esuberanza. Almeno così riporta
Bernardino Zendrini nel suo “Memorie storiche dello stato antico e moderno delle lagune di Venezia…” dando testimonianza della fine di questo mondo che per secoli era stato fervido e vitale. Un mondo che aveva preso importanza e nome da una torre, ecco l’oggetto della ricerca mia e di Giuliano Mantovan, che per secoli è stata dimenticata e di cui non si era più riusciti a riconoscere le tracce. Eppure la “Rocca Marchesana”, doveva essere rimasta lì, una carta del 1677 ne indicava ancora le vestigia, segno che quel manufatto doveva essere stato di grande rilevanza visto che la sua alta mole era già scomparsa da più di un secolo quando venne redatta quella tavola. La sua storia era cominciata diversi secoli prima, non si sa con esattezza. Qualche documento la attribuisce al periodo Estense, cioè agli anni attorno al Mille quando la potente famiglia degli Obertenghi pose il corso dell’Adige al centro della propria ascesa sociale, o al periodo Padovano, quando la città del Santo cercava nell’asta del Grande Fiume l’autostrada che desse sbocco commerciale alla propria crescita economica. Nel ricostruire l’importanza dell’area, non va dimenticato, infatti, che al tempo nel sistema fluviale dell’Adige rientrava anche l’odierno Adigetto, anzi forse ne era il ramo principale, e costituiva la via più veloce
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STORIA E DINTORNI
“… Credette bene il magistrato di far eseguire il taglio delle Rocche Marchesane ai Masi sul Padovano, il quale in altro non consisteva, se non nell’aprir certo argine dirimpetto al passo della Badia, in un sito ove altre volte vi era un ponte sul fiume. Il motivo di questo taglio fu, perché essendo quivi il fiume assai ristretto, ne potendo da se allargarsi per le muraglie delle antiche fabbriche che pure stanno sotto acqua, e per conseguenza tenendosi molto alto nelle piene con molto danno delle parti superiori, ed inoltre per vari giri dell’alveo maestro inferiormente al passo predetto della Badia trovandosi l’Adige molto ritardato nel suo corso, si reputò che con il taglio di queste ghiaie, ridotta molta parte dell’acqua a camminare in retta linea, fosse per restar sollevato il fiume…”. Tratto da “MEMORIE STORICHE DELLO STATO ANTICO E MODERNO DELLE LAGUNE DI VENZIA…di Bernardino Zendrini, matematico della repubblica di Venezia
di collegamento tra le terre dell’Imperatore a quelle del Papa, dal Brennero all’Adriatico, mettendo in comunicazione città importanti come Verona, Rovigo, e attraverso i diversivi Ferrara, Mantova, oltre che le cittadine dell’artigianato come Legnago, la stessa Badia Polesine, Lendinara, Cavarzere. Un sistema fluviale che aveva già garantito due secoli di prosperità e immensa ricchezza alla vicina Abazia della Vangadizza e che il 14 novembre del 1298 passò nelle mani di Padova. Qualche giorno prima, il 30 di ottobre nel palazzo Vescovile patavino, vennero sottoscritti accordi che sancirono come il procuratore Alberto, a nome del monastero della Vangadizza, investì Beldemando Beldemandi, in qualità di procuratore del comune di Padova, praticamente di tutti i diritti di pedaggio sui due rami dell’Adige, mentre il giorno 15 di novembre vennero consegnate le fortificazioni nell’area. Il documento parla di torri: cinque sulla sponda dell’Adigetto, verso Badia, nella zona chiamata Francavilla; una posizionata all’incile tra Adige e Adigetto, in una zona chiamata Pizzone in cui c’era il passo e il porto, detta appunto Torre di Mezzo; e una sulla riva padovana del fiume. Inequivocabil-
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mente la Marchesana che dunque al tempo esisteva già ed era già attiva nella sua funzione di “casello autostradale” per la riscossione del pedaggio fluviale, il “tolloneo”. Un complicato sistema di catene tese sotto il pelo dell’acqua tra una torre e l’altra, creava uno sbarramento oltre al quale, per andare, era opportuno pagare. Ma la torre non era solo questo, con il vicino castello di Castelbaldo, fatto costruire proprio in quegli anni dal Comune di Padova, rappresentava un potente baluardo difensivo contro le mire della vicina Verona, che anch’essa nell’Adige aveva i propri interessi, e Ferrara dove gli Estensi non avevano mai totalmente deposto il desiderio di rientrare in possesso dei loro antichi territori. E del resto questo complesso di strutture sull’Adige, composto dal porto del Pizzone, dal mercato della Francavilla, per secoli in mano alla potente fraglia dei commercianti veronesi, il villaggio-banchina fluviale di Rocche Marchesane e le torri doveva costituire un’area di interesse e dunque necessitante di difese. L’area dovette rimanere di interesse anche dopo che il territorio passò di mano dai Carraresi alla Repubblica di Venezia, visto che anche Marin Sanudo, nel suo “Itinerario per la terra
STORIA E DINTORNI ferma” del 1483 la volle vedere. “Oggi, 6, martedì, ho visto i borghi - scrive - abbiamo caricato i nostri bagagli su un burchiello per Legnago, lontano otto miglia e noi tutti, a cavallo, ci siamo avviati verso Badia, a due miglia; sino alla Torre Marchesana ci ha accompagnato il podestà di Castelbaldo… ho visto anche la Villa, molto viva, di Masi: bellissima Villa del padovano”. Ma è soprattutto sulla Torre Marchesana che il Sanudo si sofferma con il suo racconto: “…dicta torre è situata sopra l’Adige dalla parte del padovano e guarda di fronte la fortezza [la rocca] di Badia, che è detta Torre di Mezzo; qui è il porto da dove si passa al di là del fiume e si affitta per 110 ducati all’anno con l’osteria. Un tempo era [proprietà] del marchese, ma è stata da noi conquistata durante la guerra attuale; si affittava, ut illi dicunt [come dicono alcuni], a 120 ducati all’anno; è un luogo ben stretto. Questa fortezza è circondata da due argini e, benché non sia particolarmente ampia, tamen [tuttavia] è molto ben difesa posta com’è nel mezzo di una palude, la torre ha inoltre due cortine ovvero rivellini di muro; il castellano è Antonio di Vielmin con la paga di 48 lire e 6 soldi che riceve dalla Camera di Padova, ha tre sottoposti. Tutto è perfettamente in ordine comprese le mura ed i ripari di legno; all’interno della muraglia vi sono poi costruiti dei grossi ripari per le bombarde; avendo così il controllo della torre, si può dire che il luogo è inespugnabile. È grossissima, il muro ha lo spessore di quattro piedi, le scale di pietra poggiano su ampi volti, anche i piani della torre non sono solai di legno ma poderosi volti in mattoni, a maggior rinforzo della Torre, in modo che questa è la Torre più forte della Lombardia, dall’alto si vede bene la sua forma a stella. [...].” Forte, potente, inespugnabile…ma il suo tramonto sarebbe stato di lì a poco, solo quarant’anni dopo e quel sistema di fortificazioni che era costato un occhio della testa ai padovani, non valeva più nulla: giusto il costo delle pietre. Nel 1528 la torre venne smantellata e con i suoi mattoni venne irrobustita la vicina fortezza di Legnago, posta nei pressi dei confini dello Stato Veneto con il milanese ed il modenese. Come detto non venne, “smontata” del tutto, una carta del 1677 riportava ancora il punto esatto in cui si trovavano le sue vestigia, ma il definitivo colpo di grazia probabilmente arrivò con il taglio delle Rocche Marchesane alla fine del XVII secolo, in quanto venne aperto un canale proprio nel cuore del piccolo villaggio, facendo inabissare l’intera area nella corrente del fiume. Per questo ritrovarla non è stato facile. Tuttavia gli elementi messi insieme da Giuliano Mantovan oggi sono inequivocabili, raccolgono indicazioni desunte da documenti, incrociano punti indi-
cati su mappe, contengono oggettive osservazioni su rilevamenti “in loco” e sono stati raccolti in un libro pronto per essere dato alle stampe.
Nei periodi magra con le acque chiare è possibile distinguere la muraglia e le palificate dell’antico argine dietro al quale sorgeva l’abitato di Rocche Marchesane. Ora si trovano più o meno al centro dell’attuale corso
La fine della Torre
Una missiva inviata al Doge in data 17 dicembre 1528 riporta la proposta del podestà di Legnago, in cui si palesa l’opportunità di demolire le rocche per recuperare il materiale da impiegare nella costruzione della fortezza di Legnago. “… et al ritorno a la Badia visti là do roche, che sono in dicto loco di la Badia, quale sono supra l’Adese, una da una banda et l’altra da l’altra banda, affitade per le Raxon Vechie una a mesier Piero da Canal et l’altra a uno Piero da Gazo da la Badia, et anche ho visto la forteza di Castelbaldo, la qual similiter è sopra l’aqua, et mi pare che sariano molto a proposito a farle disfar tutte per adoperarle per queste fabriche, perché non costeriano le piere, pagando ogni spesa, più de marcheti 20 el miaro condutte su l’opera, et dovendole comprar costeriano più del lire 7 de pizoli et miaro, ultra che per la propinquità loro a questo loco mi par che non stariano ben ivi quando che questo loco fosse forte”
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Tracce della nostra storia nei territori di Masi, Castelbaldo e Badia Polesine
Un progetto di promozione turistico culturale promosso dall’Associazione Culturale Joker di Masi e dall’Associazione Culturale Leonardo da Vinci di Rovigo, sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo nell’ambito del Bando Culturalmente 2016 Una lacrima che solca il viso della nostra terra: questo è l’Adexe, ovvero l’Adige: il grande fiume che geograficamente “divide” la provincia di Padova da quella di Rovigo, “divide” per modo di dire (cioè in termini geografici) in realtà l’Adige unisce... lo ha sempre fatto. Come nel caso di tre comuni: Castelbaldo, Masi e Badia Polesine, che pur trovandosi su sponde opposte (i primi due padovani, Badia è rodigina) hanno una storia e un passato importante condiviso, proprio grazie alla presenza del Fiume. Un rilievo e un interesse che sono andati tuttavia scomparendo, man mano che il
fiume e la sua economia, fatta di affari e scambi sull’acqua quando il suo corso era un’autostrada navigabile, ha perso di importanza. Tuttavia la cultura dell’Adige è rimasta, per la vita di tutti i giorni la sua acqua e stata una risorsa, almeno fino a quando il benessere o l’inquinamento non hanno reso superato l’andare al fiume per macinare il grano, per lavare i panni, per la pesca. Ma è in questo che risiede l’identità di questi luoghi, un’identità che il progetto “TERE DE L’ADEXE - Tracce della nostra storia” intende valorizzare sia facendo conoscere la vita del passato, ma anche scrivendo le
PROGRAMMA • 25 aprile ore 10.00: Festa della Liberazione - momento commemorativo a Masi in piazza Libertà • 2 8 aprile ore 21.00: Corpi in scadenza - Involucri alla ricerca della felicità. Spettacolo ideato e diretto da Camilla Bottin a cura l’Associazione Althedame presso la Sala Consiliare del Municipio di Masi • 06 maggio ore 21.00: Concerto di Primavera a cura degli insegnati ed allievi della Scuola di musica Al Centro Santa Rita presso l’Oratorio Sant’Antonio di Badia Polesine in Via degli Estensi • 1 2 maggio ore 21.00: Spettacolo Jonathan Livingston - Performance musicale del gruppo dell’IIS Primo Levi di Badia Polesine presso il Teatro Politeama di Badia Polesine • 2 0 maggio ore 21.00: Carini ma un po’ nevrotici - Performance teatrale ispirata alla commedia di Aldo Nicolaj a cura della compagnia Teatro in Folle presso la Sala Parrocchiale di Masi in via Este PROMOSSO DA
pagine del futuro, portando questi luoghi al centro dell’attenzione. Un programma, che coinvolge un gran numero di associazioni del territorio, ha messo insieme un’offerta di proposte (alcune delle quali si sono già concluse, come “Pagine della nostra storia”: cinque laboratori svolti come attività extra scolastiche nelle scuole locali sugli artisti Fausto Zonaro e Inos Corradin e sulla Resistenza), spaziando dai corsi di lettura espressiva, canto e danza, a fino a veri e propri spettacoli che verranno proposti nei tre comuni interessati dal progetto fino a giugno.
• 04 giugno ore 18.00: Badia della Vangadizza, cerchi concentrici - Performance teatrale con il coinvolgimento del pubblico a cura dell’Associazione Zagreo presso il Chiostro dell’Abbazia della Vangadizza di Badia Polesine, • 10 giugno ore 21.00: Aiutiamoli a vivere - Incontro con l’associazione Olga Onlus e il gruppo giovani Oltre il Confine in piazza Resistenza a Castelbaldo • 17 giugno ore 20.00: Fine anno live show - saggio finale dell’anno accademico di Upsound Music District. • 13 luglio P.zza Libertà di Masi, dal pomeriggio: presentazione dei momenti salienti del progetto e saggi finali dei corsi di teatro, scrittura creativa, canto e danza. • 16 luglio infine, a Castelbaldo, inaugurazione della mostra fotografica a cura di Monica Melato sul territorio di Masi, Calstebaldo e Badia Polesine
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I giorni del Radicchio di Chioggia Igp Chioggia Capitale del Radicchio un intero week end nel padiglioni dell’Ortomercato di Brondolo, dedicato al Principe Rosso, alla sua storia, ai suoi valori in cucina e ovviamente al suo territorio Il 24, 25 e 26 marzo all’Ortomercato di Brondolo si è tenuta, con il sostegno della Camera di Commercio di Venezia Rovigo Delta Lagunare, la quarta edizione di Chioggia Capitale del Radicchio, la manifestazione interamente dedicata al Radicchio di Chioggia Igp e al suo territorio di produzione. Sono state molte le iniziative che hanno dato corpo e spessore alla tre giorni, ma la manifestazione è servita soprattutto per far conoscere la storia, i valori nutrizionali e la duttilità in cucina di questo straordinario prodotto che della città di Chioggia ha fatto una capitale: del radicchio per l’appunto, in quanto il 60% della produzione nazionale dei radicchi è veneta e all’interno di questo primato il radicchio di Chioggia è il maggiore per superficie coltivata e quantità di produzione. Dunque è una vera e propria immagine di questa parte del littorale adriatico, anche se il suo territorio di produzione, della varietà tardivo, in realtà comprende dieci comuni a cavallo tra la provincia di Venezia, Padova e di Rovigo. Ma è a Chioggia che è iniziato tutto, negli anni ‘30 del Novecento i primi ortolani hanno messo a dimora le prime piantine di un radicchio rosso generico, probabilmente del “variegato di Castelfranco”, dalle
quali generazione dopo generazione è stato selezionato l’attuale prodotto: originale nella forma, nel colore, nel gusto e nella qualità. Perché il segreto sta nel seme, e nel caso del radicchio di Chioggia questo valore è ancora nelle mani degli ortolani, non in quelli delle multinazionali come accade per molti prodotti dell’agroalimentare. Qualità, infatti vuol dire certo eccellenza nel sapore, ma significa anche tracciabilità nella produzione e salute per il consumatore. Un tema, quest’ultimo, che ha fatto da “leitmotiv” della tre giorni, con interventi e presentazioni a cura del professor Paolo Sambo, che ne ha curato le analisi per conto dell’Università di Padova, per metterne in evidenza i valori antiossidanti del Radicchio Rosso di Chioggia Igp, la funzione anti-tumorale, e l’attitudine di ridurre l’insorgenza dell’obesità e del diabete, oltre che le proprietà antivirali. Insomma un farmaco naturale, ma anche molto buono, come hanno potuto constatare i tanti che hanno approfittato della cucina della locale Pro Loco per assaggiare i piatti in degustazione, che hanno combinato il Rosso Principe con le altre eccellenze del territorio.
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IL RADICCHIO DI CHIOGGIA IGP Il Principe Rosso Durante la tre giorni è stato presentato lo “speciale” Il Radicchio di Chioggia Igp, Il Principe Rosso la monografia dedicata al prodotto immagine di Chioggia e il suo territorio. La pubblicazione, infatti, oltre a tutto quello che c’è da sapere del rosso prodotto è anche una presentazione del territorio di produzione: dai miti, alla storia, dalle valenze paesaggistiche alle ricette per impiegarlo al meglio in cucina.
Il radicchio di Chioggia Igp ha il cespo tondeggiante e compatto, con foglie di colore rosso più o meno intenso con nervature centrali e secondarie bianche, sapore gradevolmente amarognolo e consistenza croccante. Si distingue per l’elevato contenuto di antiossidanti, mediamente superiori del 65% e del 60% rispetto ai contenuti medi di pomodoro e lattuga, e dell’acido clorogenico che svolge un’importante azione antibatterica e antiossidante. Nelle sue foglie è inoltre presente l’acido cicorico che ha funzione anti-tumorale, riduce l’insorgenza di obesità e diabete e possiede proprietà antivirali. Ma il radicchio di Chioggia Igp contiene anche proprietà antinfiammatorie, vaso protettive e coleretiche (con stimolo delle secrezioni biliari), con i conseguenti effetti depurativi ed epatoprotettivi, e ha anche effetti positivi per la memoria. Caratteristiche uniche che derivano in gran parte dall’area di produzione, caratterizzata da un terreno particolarmente sabbioso e per la vicinanza del mare. Gli orti in cui si coltiva il Radicchio di Chioggia, il più sapido di tutti i radicchi coltivati nel mondo, infatti, hanno origine dai materiali che il Po, l’Adige, il Brenta e i loro affluenti hanno portato dalle Alpi fino all’Adriatico, un miscuglio di rocce arenarie, formazioni moreniche, terreni alluvionali, sabbie e dune fossili. Il resto della sua qualità ce l’ha messo l’uomo attraverso cento anni di selezioni che ancora continuano e una passione per la terra che pareggia quella per il mare. Dal 2008 l’unicità di questo prodotto è protetta dal riconoscimento europeo dell’Indicazione Geografica Protetta sia per quanto riguarda la varietà “tardivo” che per la varietà “precoce”.
Messaggio a cura del Consorzio di tutela del Radicchio di Chioggia Igp www.radicchiodichioggiaigp.it - consorzio@radicchiodichioggiaigp.it
PANORAMA GASTRONOMICO di Lara Bettagno
Bisi di Lumignano, PRODUZIONE DELL’ÉLITE
Sulle “masiere” che dai crinali assolati affacciano sulla sottostante Riviera, dal Medioevo vengono coltivati dei piselli famosi per la loro precocità e dolcezza. Un prodotto di eccellenza oggi protetto dal marchio De.Co.
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l doge Pierpaolo Strigheta stava sulle spine. Era il giorno di San Marco, il 25 aprile, la festa più importante dell’anno alla quale erano stati invitati i più alti dignitari dello stato e gli ambasciatori dei paesi con i quali Venezia aveva rapporti politici e commerciali. Praticamente, mezzo mondo. “Alora, Zanetto esordì il Doge nei confronti del suo servo, per fare lo smargiasso e vantarsi del banchetto che era stato imbandito per la cerimonia - cossa ti me disi de sti risi e bisi? Te sfido a trovarghe dei difeti. Avanti, tasta sta bontà…”. “Ecelensa ilustrissima - rispose Zanetto - col vostro permesso non ho bisogno di assaggiarla
per poter dichiarare con massima onestà, che questa roba è una porcheria, e vi spiego perché. I piselli sono del tipo a buccia dura, il riso è troppo cotto. Se volete mangiarla, male non vi fa, ma resta una porcheria”. Evidentemente nella preparazione non erano stati impiegati i bisi di Lumignano, la cui caratteristica è proprio la precocità e la dolcezza. E mal gliene venne al Doge, che dal giorno dopo tutto il mondo seppe di quali schifezze Venezia propinava ai suoi alleati. Il banchetto, infatti era una vetrina, nel quale i piselli erano un “must”, un modo per mostrare quali risorse disponeva la Dominante, capace di approvvigionarsi
Da sempre utilizzati nell’ambito della medicina popolare, ai baccelli freschi e verdi vengono accreditate proprietà cardiotoniche, vascolari, rimineralizzanti e antiasteniche, anche grazie all’elevato contenuto in minerali e vitamine. Nonostante la cottura ne alteri in minima parte le proprietà, questi legumi, anche surgelati o inscatolati, conservano le loro proprietà nutrizionali relativamente integre. I piselli contengono
numerose proteine: ferro, zinco, folato, vitamine del gruppo B, vitamina C, caroteni e fibra, e sono poveri di grassi. Il patrimonio nutritivo dei piselli si conserva a patto di cuocerli brevemente, in poca acqua, a pentola coperta, e di conservare il brodo per minestre o risotti. Particolarmente sazianti e dotati di un leggero effetto diuretico, i piselli sono un contorno ideale per le diete disintossicanti di primavera e d’estate.
Il buono che fa bene
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PANORAMA GASTRONOMICO di teneri legumi quando ancora non era stagione. Al tempo i nostrani arrivavano da Sant’Erasmo, Cavallino, Estuario e forse tra quelli foresti, lungo il Bacchiglione, arrivavano anche i “bisi” dei Colli Berici. La loro coltivazione sulle dolci alture vicentine di Lumignano, frazione di Longare, del resto, è attestata fin dal Medioevo, quando i Benedettini iniziarono a conferire una vocazione agricola ai pendii meglio esposti al sole con la realizzazione di terrazzamenti, detti “masiere”. Qui, sulle coste a solatio, che si affacciano sulla Riviera Berica, pare venisse coltivata una varietà chiamata “bisi verdoni”, le cui caratteristiche erano già quelle odierne anche se in epoca contemporanea sono state introdotte nuove varietà, affiancando alle produzioni precoci anche le tardive, in modo da avere disponibilità di prodotto durante tutto il periodo primaverile/estivo. Per decenni i piselli sono stati una fonte di reddito cospicua per le famiglie. Negli anni '39-'40 tre sere la settimana durante il mese di aprile e maggio si teneva il mercato nella corte antistante la “Trattoria ai Bisi da Conforto”. I compratori provenivano soprattutto da Bassano del Grappa. Da qualche anno, i piselli di Lumignano sono garantiti con il marchio della De.Co. (Denominazione Comunale) e la loro coltivazione sottoposta ad un rigido disciplinare che oltre ad identificare come area di
produzione esclusivamente i fondi che rientrano nei confini della frazione di Lumigano, bandisce in modo perentorio le produzioni ottenute da organismi geneticamente modificati (OGM). Le uniche varietà ammesse, infatti, sono la Principe Senatore; l’Espresso Generoso e la Serpentin che devono essere interrate nel periodo che va dal 15 dicembre al 15 gennaio, per quanto riguarda la prima semina, o dal 15 gennaio al 15 febbraio, per quanto riguarda la seconda. Anche per la loro coltivazione vengono privilegiati i sistemi naturali di un tempo, le concimazioni avvengono prevalentemente facendo ricorso al letame e anche i trattamenti si limitano ad interventi a base di zolfo per contrastare l’oidio. La raccolta avviene nei mesi di aprile e maggio, quando lo stato di maturazione consente ai baccelli di sopportare indenne il trasporto fino al consumatore, in modo da corrispondere in pieno alle esigenze di mercato e di destinazione. Tutta la produzione di Lumignano rappresenta una vera élite, a stretto consumo del territorio tanto che per essere degustati o si approfitta dell’annuale “sagra” che si tiene a maggio, oppure si deve ricorrere ai ristoranti dove trovano impego in ricette tradizionali come le “tajadele coi bisi”, “piselli e pancetta” o l’immancabile “risi e bisi”.
Le pendici dei colli attorno a Lumignano sono caratterizzate da grotte e anfratti, detti covoli. Da sempre hanno offerto ripari ai primi colonizzatori dell’area, ma in epoca medievale divennero anche luoghi del romitorio. Il più suggestivo e famoso è l'eremo di San Cassiano, una costruzione che risale al XVII secolo e fu eretta incorporando una chiesa di mille anni più antica dove sono ancora visibili delle sepolture scavate nella roccia. La tradizione vuole che qui, nel XII secolo, abbia trovato rifugio per qualche tempo Adelaide, regina d'Italia, sfuggita alla prigionia impostale da Berengario, quando nel 1137 il re Lotario II, suo sposo, venne assassinato. E inoltre si narra che, finché visse, la regina riconoscente inviò doni ai penitenti che qui si ritiravano a pregare
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il benessere dei nostri animali diventa la vostra qualità In via Sabbionara a Merlara, a pochi chilometri da Montagnana, alleviamo animali di bassa corte come un tempo: liberi di razzolare a terra e alimentati con i cereali prodotti in azienda. Il nostro sistema di allevamento si basa sul benessere dell’animale in quanto la genuinità e la salute delle loro carni si traduce in quella qualità che poi ritroviamo nel piatto. Conosciamo i nostri “polli”, rispettiamo i loro cicli di accrescimento, li alimentiamo con cereali sicuri (no Ogm) e ve li offriamo lavorati e preparati secondo tradizione
I tempi per la crescita sono quelli previsti dalla natura, un nostro pollo ci impiega 100-120 giorni per diventare maturo, quello industriale dopo 40 giorni è già sul banco della macelleria
Le specie allevate • Pollo ruspante di razza preferibilmente label collo nudo • Galline Ruspanti • Cappone ruspante* • Faraone ruspanti • Anatre • Anatre germano oche • Oche di razza padovana e bianca pesante * I nostri animali vengono allevati anche con il metodo Latte&Miele, ossia aggiungendo negli ultimi due mesi di vita al normale becchime latte in polvere e miele “Millefiori” dei Colli Euganei. Le carni ne acquistano in sapore e morbidezza
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Involtini di pollo: carne di petto, pancetta di maiale con ripieno di carne di pollo macinata due volte, sale, pepe, prezzemolo e pan grattato
Polpette del Cortile: carne macinata di pollo e faraona, sale, prezzemolo e impanate con pangrattato
Arrosto di pollo: Petto di pollo ripieno di carne di pollo e faraona macinata e insaporito con rosmarino
Girelle con zucchine: le zucchine vengono farcite con l’impasto delle polpette e infilate in uno stecchino con la nostra salsiccia
Trecciolina, spiedino e salsiccia: la trecciolina e preparata con petto di pollo e pancetta, lo spiedino con petto di pollo, salsiccia di pollo e pancetta, la nostra salsiccia viene preparata con carne di pollo, il 2% di pancetta di maiale, sale, pepe, aglio. Niente coloranti o conservanti
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Corte Bonicella,
agriturismo, B&B e fattoria didattica Un luogo ideale per pranzi e cene in cui è possibile uscire dai soliti schemi e ritrovare il piacere di piatti tradizionali, ma rivisitati secondo il gusto moderno
La pastorizia è l’arte che la famiglia Morandi si tramanda di generazione in generazione e che oggi continua ad essere il centro di un’offerta che spazia dalla vendita di carni fresche, pecora, agnello, agnellone e castrati, all’ospitalità in agriturismo con fattoria didattica. Corte Bonicella, infatti, è luogo ideale per pranzi e cene in cui è possibile uscire dai soliti schemi e ritrovare il piacere di antichi sapori, preparati con ricette tradizionali, ma dal gusto moderno. Autentiche specialità sono gli insaccati e gli stagionati come il salame, la passita, il lonzino, il fiocco e il prosciutto di pecora, venduti anche sottovuoto per ricette veloci e facili da preparare a casa, e tipicamente legati alla ricorrenza pasquale sono gli arrosti, le costolette di agnello o gli arrosticini qui serviti con una salsa menta che ne esalta profumi e sapori. Da provare e riprovare è il formaggio, ovviamente pecorino fresco o stagionato nella baita dell’alpeggio in abbinamento alle marmellate, sempre prodotte dalla casa.
Gli arrosticini sono una delle specialità della casa, serviti con una salsa menta sono quanto ti più tradizionale si lega alla Pasqua
ALLEVAMENTO VENETO OVINI Via Porcaro, 1 - 35022 Anguillara Veneta (PD) • Tel. 347 0326458 • info@veneto-ovini.com • www.veneto-ovini.com
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La linea di insaccati è uno dei fiori all’occhiello della produzione di casa, la bresaola di pecora è stata insignita dell’ambito premio Golosario
INGREDIENTI: • Un cosciotto o una spalla di agnello • Lardo o pancetta • Vino bianco • Timo, rosmarino, sale olio d’oliva PROCEDIMENTO: Picchettare la carne di agnello con il lardo (o della pancetta) e le erbe aromatiche. Rosolare, a fuoco vivace, in olio d’oliva su entrambi i lati, il trancio di carne e sfumare con del vino bianco. La carne non va marinata in quanto trattandosi di prodotto freschissimo non si corre il rischio di imbattersi in alcun sapore sgradevole. Di solito le carni di agnello presentano odori molesti in quanto essendo carni bianche molto delicate si deteriorano facilmente durante i lunghi trasporti dalle aree di produzione. Per questo è preferibile consumare sempre carni allevate nella zona. Finire la cottura al forno, ad una temperatura attorno ai 175 g° (tempo e temperatura dipendono dalle dimensioni del cosciotto o della spalla) fino a quando le carni si staccano dall’osso.
CORTE BONICELLA Via Cavarzere, 28 - Pegolotte di Cona (VE) • Tel. 0426 59298 • Cell. 349 3680371 • info@cortebonicella.it • www.cortebonicella.it
LA FORMA DEL LATTE
Arriva la primavera, di Michele Grassi
È TEMPO DI FORMAGGI DA LATTE OVINO Durante le prime settimane della bella stagione nascono agnelli e capretti ed possibile riprendere la mungitura per la produzione casearia
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l nostro Paese è conosciuto nel mondo per i tanti prodotti dell’agro alimentare che identificano i territori, tanto diversi tra loro, sia dal punto di vista climatico che morfologico. Si potrebbe pensare proprio il contrario, ovvero che il territorio identifica il prodotto, ma non è così, almeno per il formaggio, che è, senza ombra di dubbio, il più rappresentativo, perché conserva e sprigiona, nei suoi più svariati aspetti organolettici, tutte le caratteristiche intrinseche del luogo di origine. Aspetti che nascono dalle condizioni degli animali che producono il latte e soprattutto dal genere e dalla razza che, spesso, lascia la sua impronta genetica nel formaggio. Non è sempre facile capire, dall’assaggio, se il formaggio deriva da latte di vacca o di pecora oppure di altro animale, ma certamente, dopo averlo lasciato maturare, le sue caratteristiche chimiche e fi-
La mungitura manuale delle pecore
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siche muteranno al punto che il consumatore sarà in grado di comprendere meglio le sensazioni animali derivanti dal latte, soprattutto se lavorato crudo, utilizzato per la trasformazione. Per quanto riguarda i formaggi da latte ovino diviene automatico pensare al formaggio del pastore, pensiero che riconduce alle greggi, presenti in ogni luogo della pianura e della montagna. È il popolo animale transumante che dà vita e vivacizza le nostre terre fonte di ispirazione dei più grandi poeti, sia nella letteratura antica sia in quella moderna, come Giacomo Leopardi, “Odi greggi belar...” nel Passero solitario, o nelle strofe di una poesia di Ettore Bogno, dal titolo È nato Gesù, “Il gregge stanco ansando riposava sotto le stelle nella notte fonda. Dormivano i pastori.” Sono molti anche gli aforismi che inducono a pensare ad alcuni aspetti filosofici e sociali della condizione
LA FORMA DEL LATTE
Il 60% del latte ovino italiano viene prodotto in Sardegna
umana. Arthur Schopenhauer, riferendosi ai giudici, ai governanti, condottieri, funzionari, preti, medici, e ad altre figure sociali, afferma che “Il grande gregge del genere umano ha sempre e dovunque necessariamente bisogno di capi, guide e consiglieri...” Valori intellettuali che naturalmente non hanno nulla a che fare con il formaggio, ma, guarda caso si riferiscono, e a volte inneggiano, ai territori delle pecore vaganti. Interessante diventa anche l’aspetto religioso, ho già scritto della presenza dei pastori alla grotta di Betlemme, per il significato etimologico della Pesach, detta anche Pasqua ebraica, ovvero transumanza. Transumanza, esodo, che vide le genti del popolo ebraico, con le proprie greggi, uscire dall’Egitto da uomini liberi. Il passo che porta le greggi ai pascoli stanziali di pianura è breve ma non lo è quello che porterà le pecore, nei prossimi mesi, ai territori più impegnativi della montagna, dove solo i piccoli animali posso transitare senza grandi difficoltà. Dai territori montani provengono numerosi e importanti pecorini, molto spesso con la lavorazione del latte direttamente al pascolo, formaggi che rappresentano soprattutto le tipicità del
centro-sud italiano dove le tecniche di trasformazione tradizionali vedono, per la coagulazione del latte, l’utilizzo di caglio prodotto in azienda, ricavato dall’abomaso dell’agnello o tutt’al più del capretto. Dal latino la parola pecorinus caratterizza il frutto della pastorizia, simbolo dell’Italia pastorale che transu-
A caratterizzare i formaggi di pecora è il territorio, l’ambiente in cui le pecore pascolano, il clima, l’alimentazione sempre diversa. Ciò comporta un fattore molto importante, non esistono formaggi a latte ovino crudo uguali. Le caratteristiche organolettiche sono sempre diverse
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LA FORMA DEL LATTE ma, soprattutto stagionalmente verso piccoli o grandi territori, e fissa il nome del formaggio oggetto della trasformazione del latte. Se i formaggi derivati da latte vaccino o caprino vengono denominati spesso con riferimenti ai territori di origine, come ad esempio il Monte Veronese che identifica un territorio, così come per l’Asiago, il Montasio, il Piave, per i formaggi da latte ovino viene sempre anteposto al territorio di origine la parola pecorino, parola che identifica molti formaggi Dop e un numero imprecisabile di tradizionali. La grande maggioranza del popolo ovino italiano si trova in Sardegna dove viene lavorato, e trasformato in formaggio, ben il 60% del latte italiano. Frutto della pastorizia che diventa rappresentativa anche in tutto il territorio nazionale per la presenza di pastori provenienti appunto dalla Sardegna, con le loro pecore di razza, pensate, sarda. Un ripopolamento di ovini importante soprattutto in centro Italia, e la conseguente trasformazione casearia che, proprio per l’interscambio culturale degli addetti ai lavori, provvede alla produzione di formaggi sempre più interessanti. A caratterizzare i formaggi di pecora è il territorio, l’ambiente in cui le pecore pascolano, il clima, l’alimentazione sempre diversa. Ciò comporta un fattore molto importante, non esistono formaggi a latte ovino crudo uguali. Le caratteristiche organolettiche sono sempre diverse. Nella lista delle produzioni agro alimentari tradizionali, Pat, del Veneto i formaggi di pecora sono pochi ma molto significativi, il Pecorino dei Berici, il Pecorino fresco di malga che risulta essere un formaggio rarissimo sicuramente a rischio di estinzione, e la Caciotta misto pecora tipica, che si produce in alcuni comuni della provincia di Venezia con latte proveniente anche dalle provincie limitrofe. Nel territorio padovano
Il Pecorino dei Berici è un formaggio grasso, di breve, media stagionatura, a pasta semidura o dura. È un tipico Pecorino a pasta cruda prodotto dai pochissimi allevamenti stanziali del territorio.
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Il Pecorino dei Berici MATURAZIONE/STAGIONATURA Si consuma dopo 60 giorni
CARATTERISTICHE DEL FORMAGGIO La crosta è sottile, abbastanza dura, di colore paglierino. La pasta è morbida, abbastanza elastica, di colore bianco. L’occhiatura è assente TIPOLOGIA DI FORMAGGIO AL CONSUMO Formaggio grasso, di breve, media stagionatura, a pasta semidura o dura INTENSITÀ AROMATICA E SENSAZIONI Media NOTE In passato veniva utilizzato, al posto del caglio, un coagulante vegetale ricavato dal Gallium verum L. Oggi invece si usa il caglio naturale TERRITORIO DI PRODUZIONE Provincia di Vicenza, comuni di Mossano e Montegalda sono presenti diverse realtà pastorali ben organizzate, i pastori trasferiscono stagionalmente le pecore sulle cime prealpine e alpine, capaci di offrire al consumatore formaggi di qualità che derivano da tecniche di trasformazione tradizionali apprese in secoli di pastorizia transumante. È alla fine dell’inverno e all’inizio della primavera che avvengono le nascite degli agnelli, inizia la prima mungitura e la trasformazione casearia, proprio in coincidenza con la Quare sima e la Pasqua. Il Signore disse a Mosè: “questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa”. E la tradizione dell’agnello pasquale non è mutata nei secoli così come il consumo dei primi pecorini dell’anno, magari ancora freschi.
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SCACCO Mozzarelle, salumi e carne di bufala a chilometri zero Dal ’96 l’azienda di Arzerello prepara nel suo caseificio una produzione di eccellenza alla quale affianca la vendita di carne di bufala: wurstel, bresaola e ovviamente tutti i migliori tagli di carne
L’azienda Scacco alleva circa 400 capi di bufale, tra femmine, maschi e vitelli, per una produzione di latte che si aggira tra i 400-500 litri al giorno, destinati alla trasformazione. Principalmente mozzarelle, ma, durante il periodo invernale, anche ricotte, scamorze, caciotte e tra i prodotti da consumare freschissimi non manca lo yogurt e il gelato. Prodotti di straordinaria eccellenza in quanto per l’allevamento degli animali vengono selezionate le materie prime direttamente dall’azienda. Dal banco di vendita non mancano mai tutti i tagli anatomici del bufalo e i lavorati sempre di bufalo come: wurstel, mortadella e bresaola.
ACQUISTI CON VISITA I prodotti dell’azienda Scacco possono essere acquistati direttamente allo spaccio aziendale di via Porto, di Arzerello. Il punto vendita è aperto tutti i giorni dalle 8.00 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.30, domenica mattina compresa. Chi di solito compra si ferma anche per una visita: l’allevamento è uno dei più grandi del Nord Est e l’azienda occupa edifici rurali di pregio in uno degli angoli più verdi e suggestivi del territorio.
Soc. Agr. SCACCO di Scacco Giuseppe & Figli Via Porto 47/B - 35028 Arzerello di Piove di Sacco (PD) Tel. 049 9775788 - agricolascacco@alice.it
INGIROPIEDANDO di Martina Toso
Montagnana e il Crudo Dolce:
UNA STORIA SECOLARE TRA LE MURA Nello statuto cittadino del 1366 già si parlava di prosciutto, oggi è un’eccellenza a cui ogni anno viene dedicata una festa
Montagnana ha radici profonde e ripercorrendo la sua storia a ritroso si arriva all’età neolitica, nel lontano IV secolo a.C. Un nome che deriva da Motta Aeniana per testimoniare la posizione di dominanza che questo antichissimo manso aveva, e ha, sulla campagna circostante e che le è valso il ruolo di fortezza a difesa del territorio
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INGIROPIEDANDO
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ittà murata, capitale del prosciutto crudo, punto strategico tra Aquileia e Bologna in epoca romana: Montagnana ha radici profonde e ripercorrendo la sua storia a ritroso si arriva all’età neolitica, nel lontano IV secolo a.C. Un nome che deriva da Motta Aeniana per testimoniare la posizione di dominanza che questo antichissimo manso aveva, e ha, sulla campagna circostante e che le è valso il ruolo di fortezza a difesa del territorio. Ma la città è stata molto altro nei secoli trascorsi dalla sua fondazione e ancora oggi, attraversando una delle porte sulle mura, si viene catapultati in un’atmosfera che profuma di tradizione, dove il tempo sembra cristallizzato e dove rivivono storie di genti e di vite passate. E tra queste storie, una in particolare risale al periodo medioevale, a quando cioè l’allevamento dei suini era il sostentamento principale per la pancia... e per le tasche. Già nel 1366 nello statuto cittadino furono stabiliti i termini di allevamento e di vendita del maiale all’interno delle mura e nel 1634 veniva venduto l’affettato ricavato dal suino: a tutti gli effetti l’antenato del prosciutto crudo. Un prodotto che nel 1996 ha ricevuto la denominazione Prosciutto Veneto Berico-Euganeo DOP e il marchio inconfondibile del leone di San Marco. Montagnana è la sede del Consorzio e il luogo centrale per la produzione, che è comunque circoscritta alle province confinanti di Padova, Vicenza e Verona. Un’area incorniciata dai Colli Berici da un lato e dai Colli Euganei dall’altro, a fare da custodi per il pregiato prodotto. Rosa, dolce e profumato: il crudo di Montagnana viene lasciato a
Montagnana è la sede del Consorzio e il luogo centrale per la produzione, che è comunque circoscritta alle province confinanti di Padova, Vicenza e Verona
Rosa, dolce e profumato: il crudo di Montagnana viene lasciato a riposo tre mesi, poi lavato, asciugato e stuccato con grasso di maiale e farina di cereali
riposo tre mesi, poi lavato, asciugato e stuccato con grasso di maiale e farina di cereali. Il processo più lungo è quello della stagionatura che può arrivare anche a 20 mesi. Ma se oggi esiste un disciplinare specifico, un tempo era la Fiera di Montagnana, il 25 novembre giorno di S. Caterina, a segnare l’inizio delle contrattazioni tra salumieri che volevano accaparrarsi le carni migliori, da lavorare e massaggiare poi con abilissime ed esperte mani. E oggi, perché sia davvero Berico-Euganeo DOP, il Prosciutto deve avere una forma naturale semi-pressata, senza piedino e una legatura a mezzo corda nella parte superiore del gambo e rigorosamente deve provenire da suini italiani, allevati nel centro-nord.
La Festa del Prosciutto
Ogni anno Montagnana si veste a festa per onorare il suo crudo dolce. L’edizione di quest’anno andrà in scena dal 19 al 28 maggio e tra le tante iniziative un’Isola del Gusto nel cuore del centro storico con 8 stand dei prosciuttifici del Consorzio di Tutela del Prosciutto Veneto Berico-Euganeo DOP.
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Semplicemente il meglio a tavola Lo storico ristorante della località Bornio di Lusia è la patria di gourmet e buon gustai che ai sapori della tradizione abbinano la fantasia dell’innovazione Quando la Trattoria Al Ponte ha aperto i battenti nel lontano 1840, il Polesine, come il resto d’Italia, era ancora austriaco. Di certo, da allora, di acqua - sotto al ponte - ne sia passata parecchia, ma la guida Luciano, Enrico, Silvia del rinomato locale è e Giuliana oggi sono loro gli epigoni di una lunga lista di rimasta la stessa: la Rizzato alla guida della trattoria famiglia Rizzato che, generazione dopo generazione, ha perpetrato un certo modo di fare ristorazione e un certo modo di fare ospitalità. Evidentemente si tratta di una vocazione che risiede nel DNA, ma in parte è anche figlia di questa parte della provincia di Rovigo dove la tradizione in cucina ha sempre insegnato ad usare quello che c’è, secondo stagione e secondo quanto di più peculiare questa fertile
terra bagnata dall’Adige può offrire. E mai come qui questi dettami hanno trovato applicazione, perché la storia insegna sempre qualcosa, soprattutto quando la storia la si porta addosso senza rassegnarsi ad essa e anzi da questa ci si proietta nel futuro. Ed è in questo corridoio temporale che la Trattoria Al Ponte è davvero insuperabile, perché in cucina ancora si preparano anguille e pescegatti, veri cavalli di battaglia del menù, ma anche ricette fantasiose e innovative giocate tutte attorno alla qualità delle materie prime. Qui il primo menù vegetariano porta la data del 1987, e lo citiamo non è tanto per aggiungere un’altra pagina di storia, ma piuttosto per far capire quanto in anticipo accadono le cose. Del resto dalla cucina del giovane Enrico, epigono
Trattoria al Ponte Srl - Via Bertolda 27 - 45020 Lusia (RO) Tel. 0425 669890 - Fax 0425 650161
di una lunga catena di Rizzato chef, passano tutte le verdure che questa terra di orti produce ad ogni stagione: piselli, carciofi, morbide lattughe (ovviamente Lusia Igp), asparagi che vengono raccolti la mattina presto e per pranzo sono già nei piatti di servizio. Ma lo stesso scrupolo viene esteso anche agli altri prodotti nel menù: le paste all’uovo sono rigorosamente fatte in casa, le trafilate sono quelle prodotte da un pastificio locale, per le carni ci si affida ad allevatori locali e per le rosse bovine è previsto un preciso calendario di frollatura che non sta mai al di sotto dei 20-30 giorni, per avere la matematica certezza di portare in tavola gusto e morbidezza. Anche i dolci escono dagli stampi e dalle cocotte di famiglia, il pane molto spesso e la “pinza”, che altrove diventa “schissotto”, e poi c’è la cortesia, il consiglio giusto, il racconto: perché i piatti che hanno una storia o un futuro vanno rivelati.
La Trattoria è attrezzata e dispone di un bellissimo spazio esterno per ospitare feste e cerimonie
Insomma le materie prime sono sempre il meglio del meglio che c’è, e a queste premesse di affilia la filosofia dello chef, secondo il quale: “un buon prodotto va toccato il minimo possibile, per lasciarlo nel suo gusto più genuino, tuttalpiù è negli abbinamenti e nelle tecniche di cottura che il cuoco deve essere in grado di enfatizzarne le proprietà nutrizionali e le caratteristiche legate al gusto”. La carta dei vini è appropriata a tanta poesia, la proposta locale è affidata alle migliori etichette dei Colli Euganei ma non mancano grandi bottiglie nazionali ed internazionali, per un conto totale che supera le cinquecento referenze. info@trattorialponte.it - www.trattorialponte.it
IL PANORAMA GASTRONOMICO di Mario Stramazzo
La Colomba
DA SIMBOLO DELLA SALVEZZA AL MARCHIO DALLA MOTTA
Se l’immagine del candido pennuto rientra nell’iconografia cristiana fin dal tempo delle catacombe, la sua versione “da tavola” è molto più recente e risale al 1933 quando Dino Villani, pubblicitario della nota azienda dolciaria milanese, si inventò un dolce che potesse avere lo stesso successo del panettone o del pandoro a Natale
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ero che nella cristianità la colomba è simbolo di pace e salvezza, fin dai tempi in cui i protocristiani mutuarono il racconto biblico sul Diluvio Universale; molto meno vero, di contro, che il dolce di Pasqua con questo nome, abbia le sue origini in tempi così antichi. Pur se, in un’altra secolare narrazione, San Colombano, dopo aver rifiutato il banchetto fatto preparare in suo onore dalla regina Teodolinda, ritenuto troppo sontuoso nei giorni di quaresima, benedì comunque la tavola imbandita, trasformando la carne in colombe bianche che si alzarono in volo, mentre il pane, assunse la forma di colomba. Da qui l’iconografia che lega l’immagine della colomba al santo, raffigurandola sulla sua spalla, ma non certo sulle scatole che fanno da packaging al noto dolce pasquale che conosciamo ai nostri giorni. O meglio in quel non lontanissimo 1933 che ne vide la nascita per mano del direttore pubblicitario della Motta, Dino Villani. Disegnatore prima della M maiuscola dell’azienda pasticcera lombarda, che diffuse il panettone in
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mezzo mondo, e dopo, vero inventore del dolce di Pasqua dalla caratteristica forma di colomba. Una ghiottoneria che da quel momento in avanti ha tentato i palati di centinaia di milioni di consumatori con le sue sinuose e succulente forme di procace colomba, risultanti dalla cottura di un impasto dolciario a base di farina, burro, uova, zucchero e buccia d’arancia candita e, originariamente, ricoperto da una glassa di zucchero a simboleggiare lo stesso candore della bianca e pennuta portatrice di pace. Non come avvenne poi nella maggior parte delle preparazioni simil-artigianali e industriali dove il candido rivestimento fu sostituito da una comunque non disdicevole glassa di mandorle e da mandorle intere. Forse, ed è questa la convinzione di qualche esperto di marketing occulto, per evocare i sentori di una primavera, ormai nel suo esplodere, che si palesa proprio in prossimiSan Colombano, dopo aver rifiutato il banchetto fatto preparare in suo onore dalla regina Teodolinda, ritenuto troppo sontuoso nei giorni di quaresima, benedì comunque la tavola imbandita, trasformando la carne in colombe bianche che si alzarono in volo, mentre il pane, assunse la forma di colomba
IL PANORAMA GASTRONOMICO
Le prime immagini pubblicitarie della Motta, dedicate alla “colomba pasquale”
La colomba, come dolce pasquale, nasce nel 1933 ad opera del direttore pubblicitario della Motta, Dino Villani, al quale era stato chiesto di inventare un dolce che avesse lo stesso successo del panettone o del pandoro tà della festa di Pasqua con le fioriture dei mandorli e degli altri alberi da frutto. Segni inequivocabili della rinascita e proscenio ideale per la comparsa delle tradizionali colombe e le immancabili uova di cioccolato, di cui già ci siamo occupati da queste pagine, la scorsa Pasqua. Una Festa vissuta come momento salvifico dal mondo cristiano ed ebraico che viene celebrata con il massimo della gioia, anche a tavola. Nonostante l’attuale imperare delle mode light o delle più diverse convinzioni sui nuovi stili alimentari che più si presterebbero per superare in salute ben oltre l’umana aspettativa di vita. Quasi a voler trasformare gli uomini in esseri immortali dimenticando che non è cosa di questa terra o che al massimo, la concessione è quella di lasciare un proprio perenne ricordo. Come, per l’appunto, è successo per l’inventore della colomba pasquale Dino Villani che da grande eclettico del mondo della pubblicità, del marketing e gran conoscitore dei gusti e dei desideri delle persone, (sua perfino l’invenzione di “5000 lire per un sorriso” che divenne poi il concorso Miss Italia) è pure riuscito far diventare la sua golosa invenzione un dolce inserito tra l’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (P.A.T.) del Ministero dell’Agricoltura ben molto dopo la sua morte. Prova provata di come l’eccellenza creativa gastronomica non è prerogativa degli attuali fenomeni mediatici televisivi con la C di chef scritta in maiuscolo, ma risale più indietro nel tempo. Quando, non ancora
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entrati nel futuro digitalizzato, storia e fede avevano ancora un loro peso e in un’azienda dolciaria milanese, dopo essersi fatta la domanda su cosa vendere fra un Natale e l’altro, gli addetti commerciali si diedero la risposta. Un prodotto che fosse moderno ma allo stesso tempo rispettoso di una simbologia secolare, finanche religiosa, che fu identificata nella Pasqua e nella colomba che annunciò a Noè che tutto poteva ricominciare.
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IL PANORAMA GASTRONOMICO
LA COLOMBA Difficoltà: alta
Preparazione: 20 minuti
PER IL PRIMO IMPASTO • 300 g farina Manitoba • 90 g zucchero • 80 g burro • 15 g lievito di birra • 4 tuorli • 150gr acqua
Un tempo la glassa era solo di zucchero bianco, a simboleggiare il candore della colomba cristiana, poi vennero aggiunte le mandorle per ricordare anche l’arrivo della primavera
PER LA GLASSA • 50 g mandorle pelate • 50 g zuccheroa velo • 1 cucchiaino glucosio • 1 albume • mandorle non pelate • granella di zucchero
Cottura: 45 minuti
PER IL SECONDO IMPASTO • 200 g arancia candita • 170 g farina Manitoba • 100 g zucchero • 90 g burro • 50 g acqua • 4 tuorli • 1 cucchiaino miele • 2bustine vanillina • 1 scorza di arancia grattugiata • 5 g sale
PREPARAZIONE Si comcincia con lo sciogliere 15 g di lievito di birra in mezzo bicchiere scarso (50 ml) d’acqua tiepida, con una puntina di zucchero e attendendo 15 minuti che inizi l’attività. Poi impastate con 60 g di farina manitoba e lasciate lievitare per 1 ora in ambiente di cucina (21 °C). Dopodiché impiegate questo panetto come lievito e impastate molto bene tutti gli ingredienti e lasciate lievitare per circa 8 ore. Trascorso tale periodo aggiungete gli ingredienti del secondo impasto. Impastate a lungo e mettete nella forma a colomba ben imburrata e infarinata se usate una teglia classica da colomba, altrimenti vanno bene anche le teglie di carta usa e getta e lasciatela lievitare fino a che non avrà raggiunto il bordo dello stampo. Prima di infornare aggiungere la glassa che si ottiene frullando 50 g di mandorle pelate con 50 g di zucchero a velo e un cucchiaino di glucosio. Aggiungete albume fino ad ottenere una crema scorrevole con la quale velare la colomba lievitata, spargete qualche mandorla non pelata, coprite di granella di zucchero e infornate. La cottura ideale va fatta per 45 minuti a 180°. Lasciatela nel forno spento un po’ prima di sformarla. Meglio ancora se la fate raffreddare capovolgendola.
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Caseificio AI PRÀ
Dai campi, alla stalla, al caseificio, in pochi metri tutta la genuinità della produzione artigianale e la qualità del latte appena munto!
TRA I FRESCHI Caciotta sono la specialità della casa e l’offerta è pensata per accontentare tutti i gusti, in quanto vengono aromatizzate ed insaporite con vari prodotti di stagione Toselle, eccellenti anche grigliate Stracchino, Mozzarelle, Ricotta, Provoloni e Caciocavallo
TRA GLI STAGIONATI Nostrano, che qui viene affinato con il miele di castagno o in barrique di legno riempite di fieno “Vecchio” con dieci mesi di stagionatura Ai Prà dal sapore di latte appena munto, si scioglie in bocca liberando una nota dolce e lievemente acidula
“Filiera cortissima significa massimo controllo sulla produzione e altissima qualità”
I LATTICINI Yogurt densi e cremosi in diversi gusti come l’arancio con lo zenzero, il pistacchio, la liquirizia, ottenuti sempre con l’impiego di purea di frutta fresca Panna cotta Budini e Creme, ideali per aprire la giornata con una colazione sana e gustosa
MASERÀ DI PADOVA
Bertipaglia
CASALSERUGO POLVERARA
A4
CORNEGLIANA CARRARA SAN GIORGIO
Azienda Agricola
AI PRÀ DUE CARRARE
GORGO CARTURA
BOVOLENTA
Azienda Agricola Ai Prà via Pratiarcati, 9 – 35020 Maserà di Padova (PD) +39 339 3278420
www.aziendaagricolacaseificio.padova.it
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Azienda Agricola Ai Prà
LA RECENSIONE di Renato Malaman
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PERCHÈ
Recensione
“DITavolozza ” SAPORI UNA
Renato Malaman, noto enogastronomo padovano, visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. Esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta
GENUINI
Il ristorante di Torreglia propone una tradizione di territorio alleggerita. Paolo Putti e Fabio Dal Santo sanno scegliere materie prime originali
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ttenti a quei due! Dall’assaggio che induce in tentazione non si scappa davanti a Fabio Dal Santo e Paolo Putti. Quando si varca la soglia del ristorante “La Tavolozza” di Torreglia la degustazione è un quasi un rito di iniziazione, perché uno dei punti di forza del locale è proprio la selezione di materie prime. Si tratta di microproduzioni artigianali, trovate grazie al fiuto e all’esperienza dei due navigati ristoratori. La sopressa prodotta da un norcino di Borso del Grappa è un must da anni alla Tavolozza, come pure il Monte Veronese “ubriaco” (stagionato nel vino) proveniente da Roncà, sui Monti Lessini. La Tavolozza fa parte dell’associazione “Le Tavole Tauriliane” di Torreglia, un gruppo dinamico di ristoratori che negli ultimi anni si è segnalato per l’organizzazione di riuscite manifestazioni, prima fra tutte l’itinerante “Notte Bianca e Rossa”. Il ristorante è ospitato in un bell’edificio tradizionale, con portico e ampio parco. Nella bella stagione si mangia fuori. La visita. D’obbligo iniziare con la mortadella (Presidio Slow Food) accompagnata alla giardiniera prodotta in casa. La qualità è immediatamente percepibile. Quindi un assaggio della famosa sopressa, tagliata a coltello e accompagnata da polen-
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La sopressa artigianale del Grappa è un must
LA RECENSIONE Fegato alla Veneziana un amarcord riuscito
ta, come dio comanda. Con questi salumi si gioca in casa, zero sorprese. Vince la qualità della materia prima. Stuzzicava il carpaccio di ricciola, e pure gli spinaci di Pernumia (dichiarato in menu, sono le primizie di serra: dolcissimi) fritti con salsa tartara… ma sarà per la prossima volta. Va riscontrato che il menu ruota secondo le stagioni, ma una parte saggiamente rimane fissa. Per i fidelizzati. Ah, la carta dei vini: per gli abbinamenti ci si può affidare a Paolo Putti. Tanti vini dei Colli Euganei, celebrati e non. Ma anche tante etichette di altri territori dal buon rapporto qualità -prezzo dal nome non roboante ma vanto di aziendine emergenti. L’estro quasi cocciuto di Fabio Dal Santo si evidenzia bene nei primi: lasagnetta croccante con porri e Asiago Fresco Dop. Piacevole il gioco di consistenze, ma soprattutto il profumo dedicato del porro che alleggerisce il piatto. Gli amanti della tradizione trovano conforto nei bigoli al torchio con ragù d’anitra. Sono proprio alla vecchia maniera. Quelli che amano il genere sfizioso possono spingersi sugli spaghetti di montagna all’amatriciana di seppie. In primavera consigliabile il risotto alle erbe. Per secondo: fegato di vitello alla Veneziana, un amarcord riuscito. La tradizione locale orienta verso il piccione al forno, ma si sa che il pennuto non a tutti è gradito. Il ventaglio di carni è ampio. C’è pure l’agnello. Le cotture sono leggere: fuoco lento e bassa temperatura, per salvare il buono e le proprietà della materia prima. Nella proposta pesce permane un buon ricordo del baccalà alla Vicentina e dei calamari fritti. Dolci? Con la sfoglia alle mandorle non si sbaglia mai. Nel complesso un’esperienza piacevole. La Tavolozza dà l’impressione di non andare mai fuori giri, di preferire piatti “collaudati”, dai solidi fondamentali in fatto di tecnica, ma in genera anche semplici da preparare. Molto utilizzati i prodotti a km 0. Cucina espressa, a costo di allungare i tempi di attesa in sala… Di livello anche la scelta di distillati e di cioccolato per l’intenditore che vuol finire in bellezza. Conto Il giornalista Renato Malaman con Paolo sui 35-40 euro. Meritati. Putti (a sinistra) e Fabio Dal Santo
La Pagella
di Con i piedi per terra
⊲ Uso delle materie prime del territorio
⊲ Piatti in menù che seguono la stagionalità ⊲ Rielaborazione dei piatti della tradizione secondo fantasia e creatività ⊲ Accoglienza ⊲ Abbinamento vini ⊲ Rapporto qualità-prezzo
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Minerali, sapidi, longevi: sui Colli Euganei il più grande banco d’assaggio di vini da suolo vulcanico Castello di Lispida, Monticelli di Monselice (PD) 6 Maggio 14.00 - 22.30 - 7 Maggio 11.00 - 20.00
(4 volte l’estensione dell’Italia) e che offre prodotEsiste un fil rouge che unisce i vini nati su suoli ti dalle caratteristiche uniche. Di questo e altro si vulcanici. Vitigni diversi, differenti latitudini ma parlerà nel corso di Vulcanei, tappa 2017 di Volcacaratteristiche comuni che si declinano in mineranic Wines, ospitata al Castello di Lispida, uno dei lità, sapidità e longevità, un mix che ha fatto dei luoghi simbolo del vino italiano, furono proprio volcanic wines un punto di riferimento per gli api Conti Corinaldi, in questa passionati di tutti i continenti. Più di 50 produttori per oltre 200 vini, splendida tenuta, a dare i naCon l’Italia che, come spesso accompagnati dai migliori prodotti dop tali ai primi bordolesi italiaaccade nel settore enologico, e igp del territorio, tasting guidati di vino ni, piantando viti di merlot e conferma un ruolo di leadere olio, Jazz d’autore al tramonto cabernet destinate alla produship grazie a una biodiversie per vivere appieno gli Euganei alcuni zione di vino. tà che non conosce eguali e “assaggi” di thermal experiences Una due giorni che propoche spazia da nord a sud, da ne un viaggio attraverso l’Italia dei vulcani, dalBianchi in grado di evolvere negli anni a Rossi che la Sicilia al Veneto, per andare poi oltre confine a uniscono struttura e freschezza. scoprire i vini della Stiria e della Slovenia, ospiti Un fenomeno, quello delle colture su suoli vulcad’eccezione di quest’anno. nici, che riguarda 124 milioni di ettari nel mondo
www.vulcanei .wine | info@vulcanei.wine D.O.C.
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Città di Monselice
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Un menù che cambia ogni giorno in relazione al meglio che offre la stagione Lo storico ristorante di Montagnana appartiene all’Alleanza Slow Food, in cucina solo il meglio e in sala ospitalità e buon gusto Erbe ed erbette, la stagione trabocca di bruscandoli, carletti, radicchio di campo, germogli di pungitopo, rosole, asparagi di monte: prodotti di stagione e squisiti a patto che la mano di chi li prepara sia delicata, perché serve sensibilità per rispettarne i sapori ed esaltarne i profumi. Al ristorante San Benedetto di Montagnana i prodotti della natura sono un vero e proprio cavallo di battaglia della cucina, che avvalora ed impreziosisce il menù primaverile che porta alla Pasqua. La tradizione del resto esige i sui riti e anche la stagione. Così le tenere erbe spontanee trovano abbinamento con gli altri prodotti di eccellenza della dispensa, tra i quali ne figurano molti del presidio Slow Food come: il Monte Veronese, il Botiro di Primiero di malga, la Gallina Padovana, i Carciofi di Menfi, per piatti che seguono il calendario, come il carpaccio di manzo ai bruscandoli e uova di quaglia, oppure la tradizione come il capretto alle erbe, o il vitello in piena attinenza all’ortodossia pasquale. Dalla carta non mancano mai le paste fatte in casa, vera esaltazione delle primizie, le carni selezionate nel territorio e non manca neanche il pesce, ovviamente solo quello di stagione, perché è la cura nella scelta delle materie prime che qui fa la differenza, ovviamente insieme alla maestria ai fornelli e all’antica arte dell’ospitalità, che deve sempre andare a pari passo del buon gusto. Tel. 0429 800999 - Fax 04295 38909 - info@hostariasanbenedetto.it - www. hostariasanbenedetto.it Seguici su Facebook e Twitter
A OGNUNO IL SUO CALICE… di Emanuele Cenghiaro
Cinque vini e cinque proposte SOAVE
CHARDONNAY
ROSÈ
BONARDA
NERO D’AVOLA
MERLOT
PINOT NERO
PASSITO
PORTO
CHAMPAGNE PROSECCO
MOSCATO
Andar per il Veneto, tra etichette e cantine per incontrare luoghi e storie diverse, ma che portano tutte un tappo
P
arliamo di vini: sono molti, eppure sulle tavole si bevono sempre gli stessi. Perché non provare ogni tanto qualche cosa di nuovo, oggi che le proposte non mancano di certo? Le cantine infatti cercano non solo di migliorare, ma anche di differenziarsi inseguendo nuove idee, azzardando mix inediti o recuperando vitigni rari e quasi perduti. Ecco qualche proposta di vini da bere in diversi momenti e di
varie fasce di prezzo, scelti spaziando tra le diverse province venete. Per questa volta abbiamo pensato a una Celebrità (i vini di cui avete forse sentito parlare e una volta vi piacerebbe assaggiare), una Riscoperta (vini da uve di un tempo o che non si facevano più da tempo), una Novità (curiosità), una Tradizione (andiamo sul sicuro!) e per finire una proposta per i Giovani (ma in realtà adatta a tutti).
LA CELEBRITÀ VIGNALTA GEMOLA, tre bicchieri dalla guida Gambero Rosso tra i vini “riscoperti” Quella di Vignalta è forse oggi la cantina di punta dei Colli Euganei e alcuni dei suoi vini - Venda, Sirio, Marrano ad esempio - sono noti a molti addetti ai lavori. Al vertice della produzione, vi è però il Gemola, un Colli Euganei Rosso Doc spesso premiato e la cui annata 2004, ad esempio, ha di recente ottenuto i tre bicchieri dalla guida Gambero Rosso tra i vini “riscoperti” (ovvero riassaggiati dopo anni). È prodotto principalmente da uve Merlot (70%) e per la restante parte Cabernet Franc, coltivate nel monte che gli dà il nome a circa 150 metri di altitudine. Beneficia del perfetto
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clima e suolo collinare, di un’accurata lavorazione in vigna e di una resa di soli 60 quintali per ettaro. In cantina affina due anni in botti di rovere e poi altri 12 in bottiglia. Raggiunge i 14,5% Vol e viene consigliato di servirlo a 18-19 °C. Cosa abbinare a un vino di questo genere? Qualcosa della stessa struttura, come carni brasate. Oppure va semplicemente degustato centellinandolo, con gli amici, nelle ultime e ancora fresche serate di primavera.
È prodotto principalmente da uve Merlot (70%) e per la restante parte Cabernet Franc, coltivate sul monte che gli dà il nome a circa 150 metri di altitudine
A OGNUNO IL SUO CALICE… LA RISCOPERTA VANDUJA ROSSO IGT VIGNETI DELLE DOLOMITI, il piacere di fare vino in una terra difficile come il Bellunese L’azienda agricola di Marco e Valentina De Bacco si sta facendo conoscere non solo per essere una delle poche a fare vino in Valbelluna (Seren del Grappa), ma anche per la scelta di valorizzare vitigni “di una volta”, più o meno autoctoni ma comunque un tempo utilizzati nell’areale. Ecco quindi uve ormai dimenticate come Pavana, Gata e Bianchetta Fonzasina che danno origine a vini che prendono il nome dai pionieri dell’azienda, come Bepi Vanduja e Piero Saca. Vigneti difficili per le condizioni geografiche e climatiche, terreni alti e sassosi, scoscesi; vini creati in modo personale, come è giusto che sia con tale materia prima. Tra tutti vogliamo citare il Vanduja Rosso Igt Vigneti delle Dolomiti da 12,5% Vol. prodotto da uve Pavana
e Trevisana Nera con resa inferiore ai 50 quintali per ettaro. Grappoli selezionati manualmente e portati in cantina in cassetta. Due mesi di acciaio e due in barrique. Complesso, austero, erbaceo ma morbido: non per tutti, ma da assaggiare magari accompagnato al classico pane e salame (quello bellunese). Ma perché non provare anche il Saca, spumante da uve Bianchetta?
Vigneti difficili per le condizioni geografiche e climatiche, terreni alti e sassosi, scoscesi; vini creati in modo personale, come è giusto che sia
LA NOVITÀ (VERONA) LESSINI DURELLO DOC MARCATO EXTRA BRUT AR, un millesimato che aspetta 10 anni prima di far saltare il tappo Bollicine? Perché no. Però quelle dello spumante metodo classico per eccellenza del Veneto, il Durello. La novità è che il marchio per eccellenza del Duello, Marcato, è ora di proprietà dell’azienda Gianni Tessari, che lo manterrà in vita per la linea di spumanti a base di uva Durella, la varietà autoctona coltivata tra le province di Verona e Vicenza, caratterizzata da una spiccata acidità e buccia spessa e ricca di tannini. Un’uva perfetta per farne uno spumante come piace oggi, complesso come deve essere un metodo classico ma fresco anche dopo anni. Punta di diamante della gamma è il Lessini Durello DOC Marcato Extra Brut AR, un millesimato che aspetta ben 120 mesi (ovvero 10 anni!), di cui al-
meno un centinaio sui lieviti, nelle cave sotterranee della cantina prima di essere messo in commercio. L’anno scorso è uscita l’annata 2006. La gamma comprende anche versioni più “giovani”, come il 36 e il 60 mesi, e una linea di spumanti tra cui ci sono pure un rosè e un inedito Durello in versione dolce. Sono vini che raggiungono al massimo i 12% Vol. e vanno bevuti a una temperatura di 6-8 °C. Con cosa abbinarli? Quelli più “stagionati”, visto anche il costo (attorno ai 30 euro in enoteca), vanno senz’altro con piatti di pesce pregiato e crostacei: sono un’alternativa valida e tutta veneta a Franciacorta e Champagne.
La gamma comprende anche versioni più “giovani”, come il 36 e il 60 mesi, e una linea di spumanti tra cui ci sono pure un rosè e un inedito Durello in versione dolce 51
A OGNUNO IL SUO CALICE… LA TRADIZIONE (VICENZA) DAL MASO, MONTEMITORIO TAI ROSSO COLLI BERICI DOC: un’etichetta due premi al concorso francese Grenache du monde 2017 Non possiamo più chiamarlo Tocai, ma solo Tai. Ma è buono comunque! Il Tai Rosso dell’azienda Dal Maso di Montebello Vicentino, con uve coltivate sui Colli Berici, è una garanzia. Tanto da essere stato premiato, in due tipologie, in febbraio alla quinta edizione del concorso francese Grenache du monde 2017 (perché il Tocai è un clone della Grenache). Si tratta in primis del Montemitorio Tai Rosso Colli Berici Doc (quello presentato al concorso era l’annata 2015), prodotto con uve 100% Tocai allevate a Lonigo e Alonte: è di un bel rosso rubino e fa 13% Vol. e matura 12 mesi in vasche di acciaio e cemento, e altri tre in bottiglia prima della commercializzazione. Si può lasciare invecchiare, ma non troppo. Da abbinare a primi piatti elaborati, ma
soprattutto a secondi di carne rossa e, volendo, selvaggina. Servire a 12°C. Della stessa azienda c’è anche il più impegnativo Colpizzarda Tai Rosso Colli Berici DOC, circa 14% Vol., 14 mesi di barrique e sei di bottiglia.
Prodotto con uve 100% Tocai allevate a Lonigo e Alonte: è di un bel rosso rubino, fa 13% Vol. Matura 12 mesi in vasche di acciaio e cemento, altri tre in bottiglia
VINO PER I GIOVANI (VERONA) SCAIA GARGANEGA E CHARDONNAY, perché dalla Valpolicella non viene solo l’Amarone Dalla Valpolicella non viene solo l’Amarone. Una delle aziende di maggiore crescita, la Tenuta Sant’Antonio dei fratelli Castagnedi, con sede a San Briccio di Mezzane di Sotto, ha riscontrato un grande successo con una linea di vini chiamata Scaia. Si tratta di prodotti che reinterpretano la tradizione con una certa libertà e puntano a un mercato ampio. Dei quattro che compongono la linea propongo lo Scaia Garganega e Chardonnay, con uve provenienti dalla zona di Colognola ai Colli, Mezzane e Illasi, fresco e dalla piacevole acidità e una gradazione attorno ai 12,50% Vol. Va bevuto giovane (massimo un paio d’anni) a una temperatura attorno ai 10 °C ed è ricco di profumi di frutta
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bianca e esotica. Perfetto come aperitivo alternativo alle bollicine, e per accompagnare piatti delicati. Della gamma Scaia fanno parte il Rosato (uve Rondinella) e i rossi Corvina (uve Corvina) e Paradiso (stesse uve dell’Amarone con una piccola parte di Cabernet Sauvignon).
Perfetto come aperitivo alternativo alle bollicine, e per accompagnare piatti delicati
C'era una volta la Gatta…
“Da anni tra le vigne del Pigozzo ospitiamo antiche varietà. Da poco la Turchetta occupa uno spazio importante. Se siete curiosi ve la faremo incontrare” Francesca Salvan Scopri di più su www.salvan.it/vini/turchetta
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TORTELL AIO MATTO
È ARRIVATO IL “PERIODO VERDE” La produzione è “su misura”, ogni richiesta viene esaudita sia per i ristoranti che per le botteghe, con forniture già in porzioni e paste ripiene pastorizzate e in ATM per gestire meglio le scadenze, e per le famiglie, perché qui ogni ricetta trova l’entusiasmo per il gusto della tradizione e la certezza del prodotto fresco La pasta viene preparata quotidianamente con le migliori farine e semole, uova fresche e l’arte dell’impastare, la creatività sta nel ripieno per il quale ci si affida alla stagione ed è così che i nuovi ripieni già tengono conto dell’arrivo della primavera, attestandosi su primizie come le “erbe spontanee”, con cui vengono farcite caramelle e tortelloni, o gli asparagi che insieme alle mandorle tostate sono il tenero boccone per cappellacci e ravioli. Ma dall’assortimento non mancano i ripieni classici come “ricotta e spi-
DOVE TROVARCI
Tutti i prodotti possono essere acquistati presso il punto vendita di via I Maggio, 57 a Boara Piasani, tutte le mattine dalle 8.30 alle 12.30 e dal giovedì al sabato anche al pomeriggio con orario 16.30-19.30e presto anche on-line visitando il sito: www.iltortellaiomatto.it Aperto anche la domenica dalle 9.00 alle 12.30, Il laboratorio è sempre operativo per ordini e prenotazioni, i mattarelli si fermano solo il lunedì
naci”, i ricercati come “tacchino e prugne” o le specialità con gamberi, baccalà, branzino per i quali non servono grandi condimenti: il sapore è già all’interno. Anche le paste trafilate o laminate vengono sistematicamente aggiornate negli aromi o nelle colorazioni, sempre naturali, o nell’accompagnamento dei sughi preparati sempre “dalla casa”, senza glutammati o conservanti, per accompagnarsi in un matrimonio sincero con l’elasticità e la rugosità della sfoglia rigorosamente tirata a mano.
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TORTELL AIO MATTO
IL TORTELLAIO MATTO Sas via I Maggio, 57 - Boara Pisani - Cell. 345 1060541 www.iltortellaiomatto.it - info@iltortellaiomatto.it - Seguici su Facebook e Twitter per tutte le novità
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SUL LUNGOMARE DI SOTTOMARINA,
a due passi dalla spiaggia un angolo di sapore La bella stagione risveglia desideri che conducono verso il mare, verso brezze saline, sapori nuovi, giornate all’aperto magari in riva ad una città d’acqua, avvolti nella sua millenaria storia. In questo caso il posto giusto sarebbe Chioggia e la sua lunga spiaggia dove affaccia la terrazza del ristorante pizzeria Minerva. Qui lo chef Armido Boscolo e la sua famiglia, ristoratori di conclamata tradizione e di grande esperienza, maturata in molti anni di lavoro, è interprete di quell’intelligente predilezione di portare in tavola soltanto la qualità e tutte quelle eccellenze che rappresentano per storia e tradizione il territorio. Dunque il pesce è il vero must della casa, preparato secon-
do le rigide regole dell’ortodossia chioggiotta, ma anche rivisto secondo un gusto e un’originalità che fanno parte anch’esse della tradizione locale. Altro elemento da non trascurare è la stagionalità, perché il mare funziona come un orto e le cose migliori le offre seguendo le pagine del calendario, ma non mancano le specialità di carne e per chi avesse meno esigenze la carta delle pizze è in grado di assecondare qualsiasi gusto, trovando anch’essa intelligenti sinergie con i prodotti locali. Un ruolo importante nell’offerta del celebrato ristorante hanno i vini, la cantina e fornitissima e in grado di trovare il giusto compendio con i sapori della cucina.
La cucina e la sala sono attrezzate per banchetti e cerimonie I tavoli affacciano direttamente sul mare. Il ristorante è aperto tutti i giorni dalle 12.00 alle 14.30 e dalle 18.30 alle 24.00. Il lunedì i mestoli riposano Lungomare Adriatico - Lato Nord, 30015 - Sottomarina Mob. 339 6684500 - Tel. 041 4965367 ristorante.minerva@libero.it - www.ristorantepizzeriaminerva.it - Seguici su Facebbok e Twitter
DIVINO PARLAR
“Le due Rose” di Silvano Bizzaro - Sommelier s.bizzaro@alice.it
L’ULTIMO NATO IN CASA IL MURALE
“Lo scorso mese di febbraio ho degustato per la prima volta il Rosato Veneto IGT Frizzante Biologico “LE DUE ROSE” (vendemmia 2016), dell’Azienda Agricola Biologica, IL Murale, a Calaone di Baone”
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ella cantina de Il Murale c’è una novità, si tratta di un rosato al quale Cristian, il vignaiolo e cantiniere, ha dato il nome di Due Rose, ma in questo caso non centrano niente le beghe tra i Lancaster e gli York per la successione alla corona inglese, che la medievale guerra delle due rose ricorda, i due boccioli richiamati nell’etichetta sono in realtà le due figlie: Ilaria e Giulia. C’è del sentimento, dunque, in questa nuova bottiglia, ma c’è anche di più: innanzi tutto il 90% di Merlot e un 10% di Raboso Piave, vendemmiati nella prima quindicina dello scorso settembre. La vinificazione è stata in bianco per entrambe, seppur separata. Per circa dieci ore sono state a contatto con le bucce, poi i mosti sono stati immessi in vasche vinarie termo-controllate da ottobre fino ai primi di gennaio. Successivamente è stata aggiunta anidride solforosa, al dosaggio di 0,20 mcg/lt; alla quale è seguito l’assemblaggio e spumantizzazione
in autoclave. Imbottigliamento è avvenuto lo scorso febbraio, con 4 atm. di sovrapressione, e poi è seguita la commercializzazione. Purtroppo sono state prodotte solo 1.500 bottiglie e dunque le scorte non dureranno a lungo anche se, pur essendo di annata e di pronta beva, potrebbe durare molto più a lungo, vista la buona tenuta del Merlot della scorsa vendemmia, arrivando a mantenere inalterate le proprie caratteristiche fino a buona parte dell’anno prossimo.
Verrà presentato come degustazione al grande pubblico in occasione del prossimo Calici di Stelle (Agosto 2017)
La Scheda di Con i piedi per terra ⊲ ANALISI VISIVA
Color petalo di rosa tenue, trasparente e brillante
⊲ ANALISI OLFATTIVA
Non molto complesso con un sottile sentore di frutta rossa, fragolina di bosco
⊲ ANALISI GUSTATIVA
Freschezza e grande bevibilità, pulizia del palato; armonico con buon equilibrio tra gli elementi di morbidezza vs durezza
⊲ RETROGUSTO
Sufficientemente persistente
⊲ ABBINAMENTO con
Antipasti a base di salumi e di carni bianche, primi piatti leggeri
i piatti del territorio
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Pasqua con il Colli Euganei Fior d’Arancio Passito, l’ultimo nato de La Mincana
Nella Cantina della famiglia Dal Martello, altri quattro vini hanno incontrato la bottiglia e sono pronti per accompagnare i piatti della tradizione
Le uve sono state vendemmiate nel 2015 e poste in cassettine di legno A marzo di quest’anno è stato completato l’imbottigliamento
CABERNET – Doc Colli Euganei
I VINI DELLA TRADIZIONE, sempre attuali per pranzi e picnic Hanno trascorso l’inverno in cantina e ora sono pronti per accompagnare pranzi e cene all’insegna della genuinità e della tradizione
MERLOT – Doc Colli Euganei
ZEROUNO – Doc Colli Euganei rosso
STRADELLA – Doc Colli Euganei Merlot
LE GRAN RISERVE, vendemmia 2015 per vini di struttura I vini importanti per sottolineare i piatti pieni di sapore
I grappoli hanno riposato per cinque mesi e mezzo, nei vecchi granai ben ventilati hanno trovato un appassimento naturale
La Mincana - Via Mincana, 52 - 35020 Due Carrare (PD) - Tel. 049 525559 - Fax 049 525499 www.lamincana.it - info@lamincana.it
WIGWAM COMMUNITY di Efrem Tassinato
Pasqua,
PASSEGGIATA E PICNIC TRA GLI ULIVI DEI COLLI EUGANEI Un percorso ad anello che tocca il Monte Gemola, il Rusta per raggiungere la località Minelle di Valnogaredo, alle pendici del Monte Bracale
U
na passeggiata primaverile con pic-nic, ottimamente praticabile nei weekend di aprile e maggio, tra vigneti e ulivi è la proposta della Wigwam Local Community del territorio collinare tutelata dal Parco Regionale dei Colli Euganei. Durata, dalle tre alle quattro ore, dipende da lena e scelta d’andatura. Il consiglio ovviamente è di farla con calma, per osservare intorno il rigoglio della primavera che prorompe, gli scorci su filari di viti e scampoli d’uliveti, panorami dall’orizzonte sui colli, ed ancor più lontano verso la pianura che raggiunge prima l’Adige, poi il fiume Po con sfondo gli Appennini. Quando il tempo è limpido. Un percorso ad anello che in parte ripropone l’itinerario dei Monte Rusta e Gemola descritto nel sito dei Sentieri dei Colli Euganei, ma che qui un pochino adatto per agganciare la bella località Minelle di Valnogaredo di Cinto Euganeo alle pendici del Monte Bracale con i suoi uliveti. Il percorso, dove anche lasciare l’auto, può iniziare
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dalle Aziende Agritesa o Le Volpi, oppure dal sentiero che si inerpica sul lato sinistro della strada provinciale che collega la piccola frazione di Faedo con il centro di Fontanafredda (nel comune di Cinto Euganeo), all'altezza dell'incrocio con via Pestrini. Si sale per circa mezzo chilometro su una comoda mulattiera lastricata in pietra di trachite, tra alte querce e castagni. Dopo aver incontrato una cabina elettrica dismessa, si abbandona la stradina per imboccare sulla sinistra un sentiero più stretto che conduce alle antiche cave ora abbandonate. Imboccando la stradella sulla sinistra, si sale al piazzale sovrastante le cave, da dove si gode di una bellissima vista sul borgo di Fontanafredda e sui monti che lo circondano. Lasciato il piazzale si prosegue la salita lungo una comoda via che,
Sui resti di un antico monastero sorge Villa Beatrice d'Este oggi adibita a Museo Naturalistico del Parco Regionale dei Colli Euganei
WIGWAM COMMUNITY
INIZIO SENTIERO
Monumento ai Caduti
Chiesa di S. Lucia
Villa Beatrice d'Este
compiendo 12 tornanti, conduce verso la sommità del monte. La cima del monte Rusta si raggiunge percorrendo un ulteriore breve tratto di sentiero, ma la deviazione è consigliabile solo nella stagione invernale quando la mancanza di foglie consente di godere sprazzi di panorami tra la folta vegetazione. Nello spiazzo sommitale si trova un piccolo monumento religioso dedicato ai Caduti in Russia e, nelle vicinanze, si può intravedere una bassa fila di macerie che orla la sommità del colle: questo è tutto ciò che resta del castello medievale del monte Rusta. Da qui si scende fino alla Fattoria Le Volpi con vigneti ad uve Serprino, Moscato giallo, Merlot, Pinot e bei uliveti dove poco distante, sulla sommità del Monte Gemola sui resti di un antico monastero sorge Villa Beatrice d'Este oggi adibita a Museo Naturalistico del Parco Regionale dei Colli Euganei. Da qui si prende a sinistra verso il piccolo borgo di Cornoleda (toponimo che ricorda una flora costituita da cornioli) e quindi verso la Chiesetta rurale di Santa Lucia e alla chiusura dell’anello su Via Pestrini.
GLI INDIRIZZI WIGWAM CHEQUE: Società Agricola Agritesa - Olio EVO Brecà via Minelle - 35030 Valnogaredo di Cinto Euganeo (PD) Tel. 049 9705796 - info@agritesa.it - FB: Brecà Olio, miele, possibilità di sosta per pic nic (Wigwam Cheque 10%) Azienda Agricola Agrituristica Le Volpi Via Gemola, 14 - 35030 Baone (PD) Tel. 0429 59019 - info@levolpi.it - www.levolpi.it Olio, vini, ristorazione, pernottamento (Wigwam Cheque 10%) Trattoria Dal Santo da Fufi Via Roma, 3 - 35030 Cinto Euganeo (PD) Loc. Fontanafredda Tel. 0429 94061 - diego.dalsanto@gmail.com Piatti tipici: asino in umido, trippe, gnocchi, sopressa, pane schissotto B&B Bottega delle Emozioni Via Vallongo, 3 - 35043 Monselice (PD) - Tel. 335 5641206 lorenzo@borregadelleemozioni.it - www.bottegadelleemozioni.it Alloggio B&B (Wigwam Cheque 10%) Hotel Terme Dolomiti Via C. Colombo, 16 - 35031 Abano Terme (PD) - Tel. 049 8669550 dolomiti@termedolomiti.it - www.termedolomiti.it Camere, spa, ristorazione (Wigwam Cheque 10%)
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AZIENDA FONTOLAN LA SALUTE INIZIA CON IL SAPERE COSA MANGI “Tutto quello che fa parte della nostra alimentazione proviene dalla terra, rispettarla significa mangiare bene e soprattutto mangiare prodotti che ci fanno bene” Il ciclo di produzione chiuso, ossia dalla produzione del foraggio e dei cereali per l’alimentazione degli animali alla vendita diretta delle carni, garantisce la massima tracciabilità e trasparenza in tutte le fasi della lavorazione. È questo il valore aggiunto che l’Azienda Agricola Fontolan offre insieme all’altissima qualità dei propri prodotti ottenuti nel rispetto dei cicli di coltivazione e allevamento e nella massima attenzione alle lavorazioni. Al bancone cortesia ed esperienza non mancano mai, come non mancano i buoni consigli per valorizzare in cucina la carne
“La carne si scottona ai cereali venduta nel punto vendita, è tenera, dalla grana fine e con pochissimo grasso di copertura”
L’azienda aderisce al disciplinare di Unicarve per l’allevamento a cereali. Benessere degli animali, pulizia e filiera sicura sono attestati dal marchio “Carne di qualità”
AZIENDA AGRICOLA FONTOLAN Via Argine Sx, 61 - 35024 Bovolenta (PD) Tel 049 5347142 info@aziendaagricolafontolan.it www.aziendaagricolafontolan.it ORARI D’APERTURA: VENERDÌ 15.30 - 19.30 SABATO 9.00 - 12.15 e 15.30 - 19.30
Per le giornate all’aria aperta, tra gite e pic-nic, la linea di salumi Fontolan è l’ideale perché coniuga al sapore genuino il meglio della tradizione. Salami, pancette, capocolli, prosciutti e il celebrato lardo sono realizzati al naturale, senza aggiunta di conservanti e coloranti AZIENDA AGRICOLA
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BEAUTIFUL DAY Villa Momi's è il luogo ideale per matrimoni, cresime ed ogni altro tipo di ricorrenza. Per gli sposi e i loro invitati è riservata un'ospitalità particolare, con aree e intrattenimenti privati. Villa Momi's permette anche cene e pranzi di lavoro, con la massima tranquillità e distensione per i propri colloqui d'affari. Alla sera i locali sono destinati anche a chi desidera un po' di intimità, con un armonia che solo il lume di candela riesce a creare
Struttura completamente rinnovata, capace di soddisfare una clientela esigente. È situato in una zona tranquilla, a soli due passi dal centro cittadino e a 300 metri dal Ristorante Villa Momi's. CAVARZERE (VE) via Piave, 10 - Tel. 0426 310938 - Fax 0426 310732 - info@hotelmomis.it
Cavarzere (VE) Loc. Santa Maria, 3/B - Tel. 0426 53538 - Chiuso il Lunedì - www.villamomis.it -
ARTERRA di Loredana Pavanello
FRA IL BELLO E IL NATURALE SPUNTI PER
una pasquetta d ’arte L’Abbazia di Carceri, Villa Vescovi, villa Pisani Bolognesi Scalabrin tre gioielli della Bassa Padovana incastonati nel verde e incorniciati da programmi che esaltano la bella stagione
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uore sacro dell’intera tradizione cristiana, la Pasqua è un momento estremamente solenne, di grande intensità spirituale: quello che più di ogni altro celebra il concetto di “passaggio”, quale metaforico viaggio da una condizione esistenziale ad un’altra. Lo dichiara esplicitamente il nome, che deriva dalla parola ebraica “pesah” - “passare oltre” appunto, in memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, funzionalmente riassorbita dalla liturgia cristiana per commemorare un altro fondamentale
passaggio: quello dalla vita alla morte, esemplato sulla resurrezione del Figlio di Dio. Nella sfera quotidiana il concetto non è affatto sfuggito, se è vero che il famoso adagio popolare “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi” intende suggerire l’opportunità di stare in casa durante il Natale, in confortevole serenità tra i familiari, approfittando invece del bel tempo pasquale per uscire e appunto spostarsi altrove. Al viaggio, ancora, fanno riferimento gli usi e le tradizioni legate al Lunedì dell’Angelo, più comunemente noto come Pasquetta, che coincide con il giorno successivo alla Pasqua. In questo giorno, infatti, si tende a trascorrere il tempo con una scampagnata fra amici o parenti o comunque con attività all’aperto: una tradizione le cui origini sembrano affondare nella volontà di ricordare la tradizione dei discepoli diretti ad Emmaus, ai quali Cristo apparve
In alto e qui a fianco: Abbazia di Carceri Fondata prima dell’anno mille l’abbazia di Carceri fu per alcuni secoli protagonista delle vicende storiche e culturali del nord d’Italia. Oggi rappresenta un grande complesso, ricco di testimonianze architettoniche e artistiche stratificatesi nel tempo, un punto di riferimento per la storia e la cultura del territorio padovano
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ARTERRA nello stesso giorno della Resurrezione. Nelle terre della “Bassa” non mancano certo luoghi suggestivi da destinare a questa speciale giornata: basti pensare al rasserenante contesto dell’Abbazia di Santa Maria a Carceri, solo per citare un esempio. Qui da molti anni - si è giunti ormai alla ventisettesima edizione -, si organizza a Pasquetta una festa “in cornice”: la “Festa in Abbazia”, con tanto di visite guidate al complesso monastico e al Museo della Civiltà Contadina, custodito al primo piano del chiostro rinascimentale. Luogo di pace, posto nel verde della campagna, l’antico complesso monastico merita senz’altro di essere vissuto e apprezzato quale monumento denso di storia, arte e cultura: il sito è infatti stato segnato dalla presenza dei monaci agostiniani, i Canonici Portuensi giunti intorno all’anno mille nell’abitato chiamato allora Gazzo, nel mezzo di acque paludose e terreni boschivi. Compito dei monaci, in sintonia con quanto fatto in generale nella bassa padovana dai benedettini sin dal X secolo, fu quello di donare una nuova fisionomia al territorio, bonificandolo, costruendo argini e strade ed avviando rigogliose coltivazioni: seguirono
In questa pagina: Villa Vescovi Edificata nel Cinquecento da Giovanni Maria Falconetto con la collaborazione dell’umanista Alvise Cornaro, la Villa rappresenta una delle più preziose testimonianze della romanità nel Veneto. Il suo interno custodisce uno straordinario ciclo di affreschi del fiammingo Lambert Sustris
infatti anni di crescita economica, che permisero la costruzione e l’arricchimento del grande monastero, offrendo lavoro agli abitanti del territorio ed ospitalità a poveri e pellegrini diretti a Roma. Se la pratica di raccolta spiritualità e contemplazione trovava forma nell’armonioso chiostro romanico, in marmo rosso di Verona tuttora perfettamente conservato, quella altrettanto fondamentale dell’accoglienza aveva come punto di riferimento gli spazi sobri e regolari della Foresteria, ampliati con l’arrivo dei monaci Camaldolesi
nel 1407. Presenti fino al XVII secolo - quando poi l’abbazia fu messa all’asta (1690) per finanziare la guerra di Candia contro i turchi ed acquistata dai conti Carminati, che ne ebbero possesso fino al 1951, anno in cui fu donata alla parrocchia di Carceri - i Camaldolesi continuarono la grandiosa opera dei Portuensi, su scala ancora maggiore. Alla loro attività vanno ricondotte ulteriori campagne di bonifica, e la ridefinizione degli spazi abbaziali, dotandoli di ben quattro chiostri, di cui rimane solo il grande chiostro cinquecentesco,
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ARTERRA
Villa Pisani. Il parco è stato creato nell’Ottocento per volontà della contessa Evelina van Millingen Pisani. Si tratta di un magnifico giardino formale, a metà fra gusto vittoriano e tradizione italiana, caratterizzato da una singolare struttura a ventaglio pensata per essere vista dall’alto, oltreché dalla non meno suggestiva decorazione scultorea realizzata da Valentino Panciera, detto Besarel, esponente di spicco del revival neo-barocco del secondo Ottocento veneto
ma anche una grande Biblioteca, sede di una vera e propria Accademia di Studi, ricca di preziosi volumi oggi sparsi altrove ed affrescata in stile manierista con uno splendido ciclo dedicato a profeti dell’Antico Testamento e figure legate all’ordine monastico. Camminate fra campi e argini, o fra il verde dei Colli Euganei - bel tempo permettendo (!) - non mancano mai, contestualmente all’apertura di luoghi o manifestazioni ad hoc; numerosi sono i gruppi che al tradizionale pic-nic all’aperto associano la visita a qualche monumento di rilievo o luogo d’arte: la “Pasquetta in villa” è, ad esempio, negli ultimi anni un evento vissuto con progressivo interesse e partecipazione. Il dettaglio non è sfuggito al FAI (Fondo Ambiente Italiano), attivo anche quest’anno a Luvigliano di Torreglia, dove a Villa dei Vescovi sarà possibile assaporare - insieme al menù di prodotti locali e al verde del parco - la bellezza della sontuosa architettura edificata fra 1535 e 1542 come villeggiatura estiva per i vescovi padovani, su progetto di Giovanni Maria Falconetto: un progetto poi arricchito negli anni e ridefinito dagli interventi di Giulio Romano, erede “morale” di Raffaello, alla cui ideazione è stato attribuito il bugnato al piano terreno; altre integrazioni sono invece da ricondurre ad Andrea da Valle, l’architetto della basilica di Santa Giustina a Padova e della Certosa di Vigodarzere, fino a quelle di Vincenzo Scamozzi, il migliore allievo del Palladio. Nella villa è inoltre possibile ammirare il raffinato ciclo decorativo ad affresco, che tanto ricorda, per il respiro in chiave manierista, il ciclo di Carceri, assegnato alla scuola di Giuseppe Porta il Salviati, anche se nella villa la mano è di un altro artista: Lambert Sustris, pittore olandese che giunse a Padova nel 1541, già abbeverato alla fonte
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del classicismo raffaellesco, ammorbidito però dalla calda luce dei veneziani come Tiziano e Tintoretto. Dal fresco dei colli si può scendere alla pianura, ed inoltrarsi ancora - almeno idealmente - verso l’Adige, per fermarsi a Vescovana: anche qui nel lunedì di Pasquetta saranno aperte le porte di villa Pisani Bolognesi Scalabrin, antica corte medievale trasformata in fastosa dimora rinascimentale, vissuta poi in età romantica come raffinato salotto intellettuale. Si potrà così approfittare della manifestazione in corso (24 marzo-25 aprile), “Giardinity”: un appuntamento ideato nel 2013, che viene proposto due volte all’anno, in primavera e autunno, con lo scopo di far conoscere al pubblico il parco creato nell’Ottocento per volontà della contessa Evelina van Millingen Pisani: un magnifico giardino formale, a metà fra gusto vittoriano e tradizione italiana, caratterizzato da una singolare struttura a ventaglio pensata per essere vista dall’alto, oltreché dalla non meno suggestiva decorazione scultorea realizzata da Valentino Panciera, detto Besarel, esponente di spicco del revival neo-barocco del secondo Ottocento veneto. Il complesso riflette così l’armonica fusione tra il concetto di “naturale”, proprio della tradizione anglosassone cui la committente era legata, e la presenza di un forte impianto architettonico, nel pieno segno della tradizione italiana, e dunque in rispetto della secolare storia della nobile famiglia Pisani. Non mancano certo nel panorama locale spunti per un’escursione di primavera (e non), che è forse bello tradurre in vive occasioni per riflettere e godere appieno della bellezza di un patrimonio naturale ed artistico davvero “a portata di mano”.
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AMICI CON LE ALI di Aldo Tonelli
IL GRANDE VOLO
delle Gru
Un viaggio di migliaia di chilometri seguendo le rotte che suggerisce l’istinto. Dall’Africa oltrepassano le Alpi per nidificare nel Centro e Nord Europa, in particolare Svezia e Finlandia. Torneranno nei nostri cieli in autunno
I
l 2017, tra febbraio e marzo, sarà ricordato come uno dei più ricchi per il passaggio di migliaia di grandi uccelli, in vocianti stormi formati da centinaia di esemplari, transitati nei cieli anche della nostra regione, specialmente lungo la costa e il vicino entroterra. Non erano oche, come molti sbagliano nell’identificarle, ma Gru cenerine o eurasiatiche, unica rappresentante di questo genere nidificante in Nord Europa. Uno spettacolo affascinante per chi ha avuto la fortuna di assistervi. Volano per migliaia di chilometri seguendo le rotte che suggerisce l’istinto e hanno iniziato la loro avventura circa un mese prima volando dall’Africa per poi risalire la penisola e quindi in volo sulle Alpi. Attraversano i cieli europei per nidificare in centro e Nord Europa, in particolare Svezia e Finlandia. Torneranno nei nostri cieli in autunno, alcune si fermeranno anche a svernare nel nostro Paese ma la maggioranza raggiungerà l’Africa. Dall’aspetto inconfondibile, il piumaggio grigio campeggia su zampe lunghissime e fa da contrasto a una buffa coda arricciata ver-
so il basso. L’adulto presenta una caratteristica macchia rossa sul capo, il becco è circondato da piume nere che si allungano verso il collo bianco mentre il giovane ha la testa e parte del collo bruni. Al di fuori del periodo riproduttivo, si muove quasi esclusivamente in stormi con la tipica formazione a V, con testa e collo protesi in avanti, a differenza degli aironi che volano con il collo incurvato a S, ed emettono in continuazione il tipico verso “kri-kru”. Si posa sulle aree umide o nei campi per riposarsi o rifocillarsi dove si ciba prevalentemente di vegetali come cereali, tuberi e ghiande mentre nei luoghi di riproduzione, distese paludose e acquitrini, si nutre di anfibi, insetti e pesci. Da sempre ammirata e descritta da Aristotele che la citava nei suoi scritti naturalistici, in Italia il Boccaccio la nomina nel Decamerone, nella famosa terza novella di “Chichibìo e la gru”. Un modo di dire è “Le gru di Ibico” per chi è punito inaspettatamente per un proprio errore e deriva dal filosofo greco antico Zenobio, il quale narra di Ibico che mentre veniva ucciso da alcuni briganti invocò come testi-
Ad Hiroshima gli origami a forma di gru sono usate al posto dei fiori per onorare tutti i luoghi della memoria legati alla catastrofe della bomba atomica 66
AMICI CON LE ALI L’aspetto è inconfondibile: il piumaggio grigio campeggia su zampe lunghissime e fa da contrasto a una buffa coda arricciata verso il basso moni, vedendole, delle gru che volavano sopra di lui. Passato del tempo quei briganti, scorgendo nel teatro alcune gru che volavano, dicevano tra di loro “Le gru di Ibico”. E in seguito a questo vennero catturati e furono puniti. Anche il poeta greco antico Esiodo le cita: “Fa’ poi attenzione, quando tu oda il verso della gru, che ogni anno strepita dall’alto delle nubi: essa reca il segnale dell’aratura, e dell’inverno piovoso indica la stagione: e morde il cuore all’uomo senza buoi”. E infatti un proverbio siciliano dice “Quannu passa la groi, punci lu voi” - Quando passa la gru, sollecita il bue. Dall’alchimista tedesco Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim (1486-1535) abbiamo “La gru, così detta dalla voce antica gruere che significa andare d’accordo, indica sempre alcunché di conveniente e ci preserva dalle imboscate di chi ci è nemico” e questo ci porta al nostro nome dialettale Grua mentre il giovane viene detto Gruato. In origami, l’arte giapponese di piegare la carta, la forma della gru viene usata per augurare ogni bene agli ammalati e a chi deve affrontare una dura prova. Narra un’antica leggenda giapponese che la gru possa vivere 1000 anni: regalare una gru significa quindi augurare 1000 anni
Gru in sosta in un campo di stoppie
di vita e un’offerta di mille gru rafforza ulteriormente il concetto. Alla tradizione della piegatura delle mille gru è legato un fatto risalente alla seconda guerra mondiale. Sadako Sasaki era una bambina di due anni che abitava a poca distanza dove esplose la prima bomba atomica e che rimase miracolosamente illesa. Crebbe sana ma la bomba non aveva smesso di
Gru giovane e adulto
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AMICI CON LE ALI
L’Airone cenerino in volo tiene il collo ripiegato mentre la Gru lo tiene teso
uccidere: nel febbraio del 1955 si ammalò di leucemia a causa degli effetti delle radiazioni. La sua migliore amica, Chizuko Hamamoto, le parlò della leggenda secondo cui chi fosse riuscito a creare mille gru con la tecnica dell’origami avrebbe potuto esprimere un desiderio e realizzò per lei la prima. Sadako continuò nella speranza non solo di poter guarire ma credeva che così avrebbe curato tutte le vittime del mondo ed avrebbe portato loro la pace. Una versione della storia, vuole che Sadako fosse riuscita a completare 1000 gru, prima di morire nell’ottobre del 1955; secondo un’altra, sarebbe riuscita a completarne solo 644, mentre le restanti 356 sarebbero state aggiunte dai suoi amici. Da quel giorno migliaia e migliaia di gru di carta prendono continuamente forma dalle mani dei bambini e di tutti gli abi-
tanti di Hiroshima, e vanno a costituire composizioni di ogni tipo che vengono utilizzate al posto dei fiori per onorare tutti i luoghi della memoria: una miriade di piccole gru vengono spedite alla città di Hiroshima anche da tutto il mondo. In ricordo di tale atto di speranza nel Parco della Pace della città si trova un monumento, dedicato a tutti i bambini vittime della bomba atomica, raffigurante Sadako mentre tende una gru d’oro verso il cielo. Ai piedi della statua, una targa reca incisa la frase: “Questo è il tuo pianto. La nostra preghiera. Pace nel mondo”. È possibile, per i visitatori, come ricordo di Sadako e come simbolo di pace, lasciare una gru di carta in una grande urna, unitamente ad un messaggio. La storia di Sadako è stata narrata nel romanzo “Il grande sole di Hiroshima”.
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