JUST A SIMPLE HOUSE Migrazioni e accoglienza sul confine della piana fiorentina
UniversitĂ degli Studi di Firenze Scuola di Architettura Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico A. A. 2018/2019
Relatore: Prof. Iacopo Zetti Correlatore: Maddalena Rossi Correlatore esterno: AndrĂŠa Helou Candidata: Alice Giordano
A Luciana, Luciano, Cocco e Oriano
Indice
Introduzione: In memoria
5
Individui fragili Migrazioni Flussi Il Sistema Accoglienza Migranti in Italia Nei Centri Accoglienza Relazione e alloggio sociale
13 17 27 37 53 67
Territorio La piana Tracce Analisi Sesto Fiorentino
77 81 87 99 111
Sotto al treno Spazio di frontiera Terzo paesaggio Camminare Trama di relazioni
115 119 127 154 197
Progettare la frontiera Costellazione di centralitĂ
205 209
Una casa per tutti Costruzione partecipata Vivere collettivo
215 219 227
Conclusioni: A casa
241 1
“Vivere, è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male.” (Perec, 1989, p. 12)
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IN MEMORIA
5
“E quando infine tutto cambierà, o piuttosto crollerà, quando il movimento inarrestabile avrà spopolato il luogo chiuso per raccogliere ai margini della città la sua popolazione, ciò che sarà rimasto, ciò che rimane, è l’oscuro di questa memoria impossibile, che parla più forte e più lontano delle cronache e dei censimenti.” (Glissant, 2007, p. 89)
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Narrare storie è un bisogno antico, questa non è una storia, è il tentativo di aiutare qualcuno a gettare le fondamenta per (ri)cominciare a scrivere la propria. Sono cresciuta ascoltando, vedendo e leggendo storie, i miei cari mi hanno raccontato aneddoti sui luoghi in cui ho sempre vissuto, episodi che si sono presi un posto nella mia memoria e che mi hanno spinta a lavorare su questa tesi, a studiare questa terra e a cercare una soluzione per le persone che non hanno avuto la mia stessa fortuna: essere nata dalla parte “giusta” del mondo. Sono convinta che la memoria sia una parte fondamentale per l’esistenza, non solo dall’ovvio punto di vista pratico, ma anche e soprattutto, dal punto di vista umano oggigiorno spesso messo da parte. Sono troppo giovane per avere memoria degli avvenimenti della storia recente, ma ho avuto il privilegio di ascoltarli, leggere libri e vedere film che narrano gli orrori avvenuti e mi rendo conto che negli ultimi tempi, troppe persone si sono dimenticate del passato. Scordarsi il passato ha una grave conseguenza: ripetere gli stessi errori. Da qualche anno a questa parte, sui giornali e nei notiziari si sente parlare di barconi carichi di migranti che hanno deciso di affrontare un viaggio estremamente pericoloso per andare alla ricerca di un futuro migliore. Spesso ci scordiamo che queste sono persone: vengono etichettati come delinquenti, ladri di lavoro o approfittatori. Ancora una volta viene dimenticato il passato: gli italiani partiti all’inseguimento del sogno americano furono considerati 9
esattamente allo stesso modo. La storia si ripete. La cosiddetta “emergenza migranti” è effettivamente un problema, le persone arrivano sul nostro territorio e necessitano di una casa, di un lavoro, di cibo e acqua, hanno bisogno di ricominciare, di rifarsi una vita per aiutare la loro famiglia che sta ancora al di là del Mediterraneo. L’orizzonte prospettico a cui tende il lavoro di tesi è quello di creare un sistema per includere i migranti e tutti gli altri individui fragili presenti nella nostra società, aiutarli ad inserirsi all’interno del metabolismo urbano, sociale e lavorativo, diventare cittadini-attori con un futuro, parte integrante della società. Tale obiettivo viene perseguito progettando delle abitazioni, un abitare collettivo per tutti i nuovi cittadini-attivi. Questo nuovo luogo dell’abitare si localizza in un particolare spazio della Piana Fiorentina, nel comune di Sesto Fiorentino, uno spazio carico di tracce territoriali che ne costituiscono la memoria, uno spazio di frontiera, luogo di incontro delle diversità. Si tratta del territorio che la popolazione locale definisce “sotto al treno”, la parte più nuova della città, un quartiere-dormitorio, stretto fra la ferrovia a nord e i campi coltivati a sud, del tutto diverso dall’ambiente ad esso contrapposto, quello “sopra al treno”. Volontà è anche quella di andare a dare vita a questa striscia di terra posta al limite, teatro di accoglienza dal potenziale che non va dimenticato.
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Stato dell’arte
La tesi si divide in due parti: una di ricerca e una successiva di progetto. La prima fase comprende la raccolta di una serie di informazioni riguardanti gli individui fragili, in particolare, si è posta attenzione sui dati riguardanti i migranti che arrivano in Italia ed è stato studiato il sistema di accoglienza, inoltre, sono stati visitati dei centri di accoglienza situati nel territorio fiorentino e sono state effettuate delle interviste ai ragazzi immigrati li presenti. La fase di ricerca include anche lo studio del territorio della Piana Fiorentina, la sua storia e i suoi tratti identificativi; una prima analisi ha reso evidenti delle caratteristiche che hanno guidato gli studi successivi verso una fascia di territorio più ristretta, osservata poi più dettagliatamente. Questa fase del lavoro ha messo in evidenza i pregi, i difetti e le potenzialità di quel tratto di terra sestese compresso fra la ferrovia e i campi coltivati, questo anche grazie ad un processo di comparazione tra suddetto territorio e ciò che lo circonda. Il progetto discende direttamente da questa prima parte di ricerca: l’emergere delle pecche del nostro sistema di accoglienza migranti e di tutte le normative a contorno hanno come conseguenza la volontà di progettare delle abitazioni accessibili a tutti gli individui meno abbienti che fanno parte della nostra società. Le analisi territoriali hanno guidato verso l’individuazione del luogo più adatto per queste abitazioni e hanno portato l’attenzione sulla necessità di riprogettare quella frangia di territorio potenziale luogo di incontro, condivisione ed inclusione.
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INDIVIDUI FRAGILI
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“Occorrono avvenimenti estremamente gravi perché si acconsenta a muoversi: guerre, carestie, epidemie.” (Perec, 1989, p. 85)
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Operazione Mare Nostrum, la Fregata Bergamini della Marina Militare salva un barcone di 500 migranti al largo della Libia. Questa foto ha vinto il World Press Photo 2015 2014-06-07 Š Massimo Sestini 16
Migrazioni
Parlando di migrazioni, la prima immagine che mi viene in mente è quella che si trova nella pagina a fianco; scattata dal fotoreporter Massimo Sestini, la foto rappresenta quello che egli stesso definisce “viaggio della speranza”1, i protagonisti sono coloro che provengono dal sud del mondo, la loro meta di arrivo è l’Europa, le persone che affrontano questo viaggio sono le uniche che prendiamo in considerazione quando parliamo di immigrati2. Quello delle migrazioni è un fenomeno che ha caratterizzato particolarmente la storia contemporanea del Mediterraneo, strumentalizzato da giornali, media, social e politici, se ne sente parlare e se ne parla in continuazione. Questo primo capitolo ha come obiettivo quello di fare un quadro della situazione migrazioni nel nostro paese: dopo aver fornito una definizione generale del fenomeno, si passerà ad esporre i dati che lo riguardano e il funzionamento del sistema di accoglienza migranti; infine, verrà esposto il lavoro di indagine effettuato in alcuni centri di accoglienza per i migranti.
1 Pasolini C., Sestini: “Quella foto l’ho regalata al mondo, il vicesindaco di Trieste non può usarla contro i migranti”, La Repubblica [web], 9 gennaio 2019 2 Ambrosini M. (2017), Migrazioni, EGEA S. p. A., Milano 17
Ai fini della tesi, si ritiene utile fornire delle definizioni chiare per identificare queste persone e il fenomeno di cui sono protagoniste. L’ONU definisce il concetto di immigrato: “una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno.” Sull’Enciclopedia Treccani si possono trovare le seguenti definizioni: Emigrare v. intr. [dal lat. Emigrare]. – Lasciare il territorio di origine, per andare a vivere, temporaneamente o stabilmente, altrove, soprattutto per ragioni di lavoro. Migrante agg. [part. pres. di migrare]. – Che migra, che si sposta verso nuove sedi. Immigrato agg. e s. m. (f. -a) [part. pass. di immigrare]. – Che, o chi, si è trasferito in un altro paese; in senso specifico, riferendosi ai soli spostamenti determinati da dislivelli nelle condizioni economiche dei vari paesi, chi si è stabilito temporaneamente o definitivamente per ragioni di lavoro in un territorio diverso da quello d’origine. Secondo la politologa e sociologa francese Catherine Wihtol de Wenden esistono quattro distinti flussi migratori: uno che va dal Nord al Nord del mondo ed interessa giovani qualificati che si spostano in paesi in cui godranno degli stessi diritti di cui godono nel proprio, in questo caso si parla di mobilità internazionale e ne sono protagonisti circa 50 milioni di persone. La seconda tipologia coinvolge circa 70 milioni di individui che si spostano dal Sud al Sud del mondo, in questo caso, però, non vengono garantiti i diritti, soprattutto per quanto riguarda il ricongiungimento familiare. Le tratte percorse da coloro che si spostano dal Nord verso il Sud del mondo costituiscono la terza tipologia di flussi, un fenomeno in crescita e che nel 20163 coinvolgeva circa 20 milioni di persone che, in genere, non incontrano problemi alla frontiera e alle quali vengono garantiti quasi tutti i diritti che avevano nel paese di origine. L’ultima tipologia di flusso coinvolge i migranti che si spostano sull’asse che va dal Sud al Nord del mondo, rappresenta circa 3 C. Wihtol de Wenden (2016), Current Pattern of Migration Flows. The Challenge of Migratons and Asylum in Europe, in M. Abrosini (a cura di), Europe: no migrant’s land? , Milano, Ispi-Epoké, pp. 13-29 18
70 milioni di soggetti che sono gli stessi che prendiamo in considerazione quando si parla di immigrati. Maurizio Ambrosini in “Migrazioni”, definisce il termine migrazione come ciò che “riguarda gli spostamenti di persone rappresentate come povere, provenienti dall’Esterno dell’Unione Europea e mosse da impellenti necessità economiche.” Unendo le precedenti definizioni, possiamo quindi affermare che oggigiorno e nel linguaggio comune, un immigrato è colui che proviene dall’esterno dell’Unione Europea e/o dal Sud del mondo ed è povero. L’autore fa però notare che “l’idea largamente diffusa di un nesso diretto tra povertà e immigrazioni risulta approssimativa.”4 Si deve quindi, studiare attentamente la situazione sociale e finanziaria di coloro che affrontano queste migrazioni, percorrono le tratte che attraversano continenti, mari e confini. L’autore definisce i confini come “il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa. Questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.” 3 Confine, frontiera e limite sono parole che indicano concetti simili ma dalle diverse sfaccettature, quello della frontiera verrà ripreso successivamente; adesso si reputa utile riportare una piccola parte di uno scritto di Perec: “I Paesi sono separati gli uni dagli altri da frontiere. Oltrepassare una frontiera ha sempre qualcosa di commovente: un limite immaginario, - materializzato da una barriera di legno che tra l’altro non è mai proprio sulla linea che dovrebbe rappresentare, ma a qualche decina o centinaia di metri al di qua o al di là, basta per cambiare tutto, perfino il paesaggio stesso: è la stessa aria, la stessa terra, ma la strada non è più esattamente uguale, la grafia dei cartelli stradali cambia […]” 5 Lo scrittore descrive così il limite di cui parla Ambrosini, la linea che cambia tutto, che induce a spostarsi, a cercare una situazione di vita migliore, a migrare. 4 Ambrosini, 2017, p. 37 5 Perec G. (1989). Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, p. 87 19
Nel testo Migrazioni, l’autore - prendendo come dati di riferimento quelli elaborati dal Centro Studi e Ricerche Idos nel 2016 – dimostra che “le popolazioni povere del mondo hanno un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale.” La popolazione mondiale conta circa 7 miliardi di persone, tra questi, solo il 3,3% è costituito da migranti internazionali (244 milioni di individui) entro i quali si hanno 76 milioni di migranti residenti in Europa e 59 milioni di europei che si sono spostati in un continente diverso. Nel mondo, le popolazioni si spostano soprattutto verso territori limitrofi o rimangono comunque all’interno dello stesso continente, questo perché più il viaggio è lungo più è oneroso. Non si tratta di considerare solo il punto di vista monetario, ma anche quello umano e sociale, si parla di migrazione come processo selettivo: affrontare un viaggio così lungo richiede una particolare visione del mondo in gran parte ancora sconosciuto, intraprendenza, capacità di adattamento, forza di volontà e anche necessità di avere risorse sociali nei paesi di arrivo come familiari, amici, conoscenti che aiutino ad insediarsi. “Gli immigrati dunque, come regola generale, non provengono dai paesi più poveri del mondo. La connessione diretta tra povertà e immigrazione non ha basi statistiche.”6 Come si evince dalla tabella 17, gli extracomunitari residenti in Italia non provengono dai paesi che si trovano alle ultime posizioni della classifica dell’ONU basata sull’indice di sviluppo umano, ma provengono dagli stati che ne occupano i punti intermedi: Romania, Albania, Marocco, Cina e via discorrendo. Tale graduatoria considera vari indici, tra i quali abbiamo reddito, tassi di alfabetizzazione, speranza di vita alla nascita e il numero di posti letto in ospedale in rapporto agli abitanti. Questo ragionamento vale anche per lo status sociale del migrante rispetto alla popolazione del suo paese: quelli che emigrano non sono i più poveri; allo stesso modo, più la meta 6 Ambrosini, 2017, p. 38 7 La tabella 1 riprende i dati di quella presente nel libro di Ambrosini Migrazioni (p. 39) riportante i dati del 2015, confrontandola con le tabelle presenti nei documenti di sintesi dei Dossier statistici immigrazioni di anni più recenti, si può notare che la situazione non ha subito notevoli variazioni. 20
è distante, più vengono selezionati socialmente, i rifugiati sono generalmente istruiti e professionalmente qualificati. “L’emigrazione avviene in molti casi al prezzo di una perdita di status sociale.”8 In linea di massima, il migrante o il rifugiato è una persona che nel paese di provenienza fa parte della classe media, ha ricevuto un’istruzione e ha un determinato lavoro, la migrazione comporta una discesa sociale: molte donne passano dall’essere insegnanti o impiegate a lavorare come assistenti familiari. La perdita di status sociale è direttamente correlata alla perdita di status lavorativo: i migranti sono disposti ad eseguire qualsiasi lavoro, questo li porta ad eseguire le mansioni che vengono rifiutate dai nativi, sono i lavori “delle cinque P”: pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente. Si tratta di mestieri che sono necessari e indispensabili per le economie sviluppate, attività meno suscettibili all’innovazione tecnologica, che non si possono trasferire in paesi in cui il costo del lavoro è minore e la cui esecuzione deve essere effettuata sul posto: industria alberghiera, ristorazione, servizi di pulizia, edilizia, agricoltura, logistica, trasporti, servizi domestici e di assistenza alle persone. Per concludere, si ritiene opportuno mettere in evidenza che quello delle migrazioni non è un fenomeno prettamente Eurocentrico: dei 15 milioni di rifugiati, solo 1.2 milioni vengono ospitati in Europa, il resto è “intrappolata in condizioni drammatiche nei paesi in via di sviluppo”9, in particolare, secondo i dati dell’ONU del 2015, 2.2 milioni di persone si trovano in Turchia, 1.2 milioni in Libano e 630 mila in Giordania.
8 Ambrosini, 2017, p. 43 9 Paba G. (2017), Migrancy. Movimenti di popolazione e costruzione di luoghi, in “Contesti. Città Territori Progetti”, Firenze University Press, Firenze, p. 11 21
Residenti (in migliaia) 1151
% sul totale dei residenti stranieri 11,9
Albania
468
9,3
Marocco
437
8,7
Nazione Romania
Cina
271
5,4
Ucraina
230
4,6
Filippine
166
3,3
India
150
3
Moldava
142
2,8
Bangladesh
119
2,4
Egitto
110
2,2
PerĂš
104
2,1
Pakistan
102
2
Sri Lanka
102
2
Senegal
98
1,9
Polonia
98
1,9
Tabella 1. Fonte: Idos, Dossier statistico immigrazione, 2016 (dati relativi al 2015 22
4
1 4 3
2
Schema delle quattro tipologie di flussi migratori 1. Flussi Nord-Nord 2. Flussi Sud-Sud 3. Flussi Nord-Sud 4. Flussi Sud-Nord 23
“È anche noto come il Mar di Sicilia è diventato un cimitero per un numero difficilmente quantificabile di anonimi disperati che sognavano l’eldorado. […] Nei paesi africani, la percentuale dei giovani che hanno meno di 30 anni supera spesso il 50% della popolazione e il tasso di disoccupazione è molto alto. Anche laddove non vi sono guerre, dittature o carestie, ci sono troppi giovani che vogliono abbandonare una terra che non dà sbocchi lavorativi. Trovare un visto regolare nelle cancellerie occidentali è una scommessa impossibile. Famiglie e parenti svendono o ipotecano i loro averi pur di mandare i figli verso un futuro che credono migliore.” (Turchi, Romanelli, 2013, p. 1)
25
Flussi
L’atto della migrazione è vecchio quanto il mondo. Ritrovamenti archeologici dimostrano che fin dalla preistoria l’uomo si è spostato per andare alla ricerca di condizioni di vita migliori e di fonti di nutrimento utili alla propria sopravvivenza. Il tempo è passato e con lui sono cambiati i modi di vivere, ciò che però è rimasto immutato è il desiderio che ha l’uomo di avere una vita migliore, o, più semplicemente, di una vita degna di questo nome. È proprio il desiderio di una vita migliore che, ancora oggi, spinge l’uomo a spostarsi da un luogo ad un altro, ed è proprio questo che genera i flussi migratori di cui si sente tanto parlare. In senso figurato, il flusso è quel “movimento continuo di persone o cose (anche astratte) che susciti l’immagine dello scorrere.”1 Questo paragrafo tratta lo studio dei flussi che riguardano i migranti, quelle persone che – riprendendo la definizione di Ambrosini – provengono dal Sud del mondo e sono povere. Questo perché, come già accennato, coloro di cui si parla si trovano al centro dei media e dei dibattiti politici, perché sono una realtà presente nel territorio e perché, anche se poveri e provenienti da un altro Paese, sono persone con dei diritti e uno di questi è proprio il diritto al desiderio di una vita migliore. Quello delle migrazioni è un fenomeno in continuo movimento, non solo in senso letterale; raccogliere dati certi sui flussi migratori è piuttosto difficoltoso. Per lo sviluppo di questa tesi, è stato deciso di fare affidamento sui dati raccolti da UNHCR 1 Treccani Enciclopedia Online 27
e presenti sul dossier Viaggi disperati. Rifugiati e migranti in arrivo in Europa e alle sue frontiere. Gennaio-dicembre 2018. Prima di esporre i dati, è necessario dare alcune delucidazioni a proposito dei movimenti di persone che giungono in Italia. Esistono due tipi di flussi migratori: quelli via terra e quelli via mare. Gli immigrati che arrivano via terra, di solito, provengono dal Medio Oriente, risalgono la Penisola Balcanica ed attraversano il confine italiano nord-orientale. Le rotte marittime, più note di quelle terrestri, attraversano il Mar Mediterraneo, sono solcate dai “barconi” o dalle navi delle ONG, trasportano persone generalmente provenienti dalle coste settentrionali dell’Africa e dirette in Italia, Grecia e Spagna. La meta di coloro che approdano sulle coste europee, in alcuni casi, non è però il paese di sbarco, per essi è solo un luogo da cui passare per raggiungere paesi più a nord – ad esempio la Germania – dove spesso hanno qualche conoscente. Entrambe le rotte comportano grandi rischi e costi. La figura di pagina 33 mostra la quantità di morti e dispersi lungo le rotte terrestri, purtroppo il viaggio in mare è ancora più pericoloso; UNHCR stima che nel 2018 siano stati 2275 i morti in mare, una media di 6 morti al giorno. Il lavoro di tesi è stato accompagnato da una serie di visite presso alcuni centri di accoglienza migranti di cui si parlerà meglio in seguito; adesso è utile dire che durante tali esperienze sono stati sottoposti ai rifugiati presenti nel centro dei questionari2 dai quali si evince che questi ragazzi hanno impiegato anche più di un anno per arrivare in Italia, quantità di tempo quasi inconcepibile per noi del Nord del mondo. I motivi di questo perdurare del viaggio sono vari: vi è il fatto che molti ragazzi arrivano dall’Africa centrale e la tratta per arrivare fino al nord del continente è molto lunga, insidiosa e complicata (la figura di pagina 28 riporta queste rotte). Un’altra questione è quella della Libia che dalle Primavere Arabe (2011), è diventata un 2 I questionari riguardanti i viaggi intrapresi dai rifugiati presenti nei centri di accoglienza sono stati scritti e sottoposti da Eni Nurihana, laureanda in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio con la tesi Periplo, i movimenti del Mediterraneo che tratta in maniera approfondita tutto ciò che concerne le rotte dei migranti, il sistema accoglienza e la sua distribuzione sul territorio nazionale. Vista l’affinità di alcuni argomenti, le due tesi si svolgono in collaborazione. 28
paese di migranti, il luogo dove si recano coloro che vogliono attraversare il Mediterraneo ed arrivare in Europa. La Libia è un ostacolo, una terra dei non diritti, il luogo dove molti migranti sono costretti a rimanere in condizioni disumane, torturati e imprigionati a scopo di estorsione. “Prima ancora di salire su una barca per partire dalla costa libica, molti rifugiati e migranti hanno già subito torture o sono stati violentati o sequestrati a scopo di estorsione, e hanno assistito in prima persona alla morte di altre persone. Nel 2018, i rifugiati e i migranti arrivati in Europa dalla Libia, e quelli evacuati in Niger dalla Libia, hanno continuato a riferire di numerose esperienze di violenza e sfruttamento. La maggior parte delle persone arrivate in Europa dalla Libia proveniva da Eritrea, Sudan e Nigeria. Molte delle persone intervistate dall’UNHCR erano state detenute in Libia per un anno o più, spesso a scopo di estorsione o lavori forzati.”3 UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) nel suo dossier del 2019, riporta i dati raccolti durante il 2018, da questi si evince che gli arrivi in Europa attraverso il Mediterraneo hanno subito un significativo decremento nel 2016, anno in cui si contano 363.425 arrivi contro i 1.015.877 del 2015; il numero di arrivi ha continuato poi a diminuire con meno evidenza (172.324 sbarchi nel 2017 e 116.647 nel 2018). Si reputa interessante porre l’attenzione sul numero di persone reinsediate in Europa che ha avuto un andamento crescente dal 2015 a novembre 2018. Per quanto riguarda la penisola italiana si può notare una diminuzione netta di arrivi via mare tra il 2017 e il 2018: si passa, infatti, da 119.400 a 23.400; questo decremento è dovuto alla “decisione dell’Italia di non consentire più lo sbarco nei porti italiani di rifugiati e migranti soccorsi da ONG e navi mercantili al largo delle coste libiche, in quella che è diventata la Zona di ricerca e soccorso libica (Search and Rescue Region/SRR).”4 Decisione le cui conseguenze si sono riversate direttamente sulla vita di coloro che si trovano sui mezzi che salpano dalla costa libica: è stato difatti ridotto il numero di imbarcazioni europee e delle ONG che hanno il compito di svolgere operazioni per 3 UNHCR, 2019, p. 18 4 UNHCR, 2019, p. 9 29
la ricerca e il soccorso al largo della costa libica, comportando la permanenza di migranti e rifugiati su navi fatiscenti e senza risorse di cibo e di acqua per il tempo necessario alla ricerca di un porto sicuro. Un altro fattore che ha comportato la diminuzione di sbarchi in Italia è stato l’accordo sancito dal governo Minniti con le milizie libiche, il quale prevede l’istituzione di “centri di accoglienza” direttamente in Libia (il famoso “aiutiamoli a casa loro!”). Di fatto, più che centri di accoglienza, queste strutture sono dei centri di detenzione, luoghi insalubri e inospitali, teatri di atti di violenza nei confronti delle ragazze e dei ragazzi che vi sono stati “accolti”. Molti dei richiedenti asilo che approdano oggi in Italia, sono rimasti per diverso tempo (addirittura anni) in questi centri prima di riuscire a prendere la via del mare ed arrivare qui in Italia. Visto il funzionamento del sistema di accoglienza migranti in Italia, del quale si parlerà in seguito, si rende necessario fare un quadro sull’andamento delle richieste d’asilo effettuate dal 2010 al 2018 (ultimo anno di cui sono disponibili i dati5). È interessante porre l’attenzione sull’elevato aumento di immigrati provenienti dall’Africa tra il 2010 e il 2011, tale impennata è dovuta alla serie di proteste che hanno caratterizzato gli stati arabi (Siria, Libia, Tunisia, Yemen, Algeria, Iraq, Bahrein Giordania e Gibuti) dal 2011 e che prendono appunto, il nome di Primavere Arabe. Nella tabella 2 è possibile osservare come si passi da 4 284 richieste di asilo da parte di africani nel 2010 a 28 542 domande nel 2011; il fenomeno ha subito un decremento nel 2012 per poi ricominciare a crescere e arrivare al suo massimo nel 2017 con 92 250 richieste di asilo. Come conseguenza della chiusura dei porti da parte dell’Italia si ha una discesa netta nel 2018 in cui sono state effettuate solo 25231 richieste di asilo. L’andamento del numero di richieste di asilo segue quello degli arrivi via mare, ciò dimostra che la maggior parte di coloro che sbarcano in Italia provengono da luoghi di guerra dai quali sono stati costretti a fuggire, l’accettazione della richiesta di asilo comporta il passaggio dallo status di immigrato clandestino a quello di rifugiato politico, di questa figura si parlerà nel paragrafo successivo. 5 I dati sono forniti dalla Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/i-numeri-dellasilo 30
Anno
Asia
Europa
Africa
America Altri
2010
3560
4018
4284
247
Totale
12
12121
2011
7346
1325
28542
134
3
37350
2012
6093
1165
9561
210
323
17352
2013
7969
1140
17156
208
147
26620
2014
17043
2979
42593
330
511
63456
2015
23029
6098
52882
489
1472
83970
2016
29051
4133
88487
1669
260
123600
2017
30288
4900
92250
2659
22
130119
2018
17897
5135
25213
4559
774
53578
Richiedenti asilo 140 000
120 000
100 000
80 000
60 000
40 000
20 000
0 2010 Origine
2011
2012 Africa
2013 Asia
2014
2015
Europa
America
2016
2017 Altri
2018
Anno
Totale
Tabella 2. Numero di richiedenti asilo in Italia dal 2010 al 2018, fonte: Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo Il grafico riporta i dati presenti nella tabella. 31
ITALIA SPAGNA GRECIA Tunis
Algiers Rabat
Lampedusa Malta TUNISIA Medenine
Oudja
'*,")"$
.$0(11( MAROCCO
Bani Walid
ALGERIA
ISOLE CANARIE
Tripoli Cairo
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LIBIA !"#"$
Sabha
OCCIDENTALE
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Tamanrasset
MAURITANIA Arlit
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Nouakchott
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SENEGAL GAMBIA &*",%$3 GUINEA #"))$* BISSAU
EGITTO
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Ghat
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Bamako
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LIBERIA
CIAD
Agadez
1"$+
BURKINA #*05",$3 Niamey FASO 6$)( Ouagadougou
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Dongola
NIGER
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Gao
Aswan
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SUDAN Khartoum
Port Sudan Kassala %0"'0%$ ERITREA
YEMEN
Metema SOMALIA
1()'$3+$4(0"(
COSTA D’AVORIO
%'"(-"$ ETIOPIA
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NIGERIA
)(.$!"$
Rotte per l’Europa attraverso l’Africa. Mappa ripresa dal dossier di UNHCR, Viaggi disperati. Rifugiati e migranti in arrivo in Europa e alle sue frontiere. Gennaio-dicembre 2018 32
PAESI BASSI
POLONIA GERMANIA
BELGIO REPUBBLICA CECA SLOVACCHIA
FRANCIA
AUSTRIA SVIZZERA
UNGHERIA ROMANIA
SLOVENIA CROAZIA BOSNIA ERZEGOVINA
SERBIA
ITALIA
PORTOGALLO
BULGARIA ALBANIA
SPAGNA
GRECIA
49 31
5
8
8
9
12
13
Morti e dispersi lungo le rotte terrestri, gennaio - dicembre 2018. Mappa ripresa dal dossier di UNHCR, Viaggi disperati. Rifugiati e migranti in arrivo in Europa e alle sue frontiere. Gennaio-dicembre 2018. Colonne a partire da sinistra: Investiti da automobile/camion mentre si trovavano a piedi, per condizioni metereologiche avverse, aggressione da gruppi criminali/altro, investiti da un treno mentre si trovavano a piedi, per aver viaggiato nascosti su auto/camion/treno, altro, incidente d’auto/camion, annegamento. 33
“Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. A livello territoriale gli enti locali, con il prezioso supporto delle realtà del terzo settore, garantiscono gli interventi di “accoglienza integrata” che superano la sola distribuzione di vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza, e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socioeconomico.” (Anzalone, Carpaneto, 2019)
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Il Sistema Accoglienza Migranti in Italia
Per parlare del Sistema Accoglienza Migranti italiano è necessario avventurarsi in un dedalo di leggi, norme e decreti che si sono susseguiti negli anni, è un sistema complesso, dinamico e in costante mutamento. Di seguito, si riporta un riassunto dell’avvicendarsi di leggi e norme riguardanti la governance del fenomeno migratorio1. L’Italia, nel giro di poco tempo, è passata da essere un paese di emigranti a essere una terra di immigrati. Le prime copiose immigrazioni dall’Est Europa verso la Penisola si sono verificate a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, tra la fine del 1980 e l’inizio del 1990, anno in cui la situazione è culminata in quella che è chiamata “emergenza albanese”, gestita tramite la Legge Martinelli n. 39 del 28 febbraio 1990 che ha introdotto le “Norme urgenti in materia di asilo politico, d’ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolamentazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello stato”. Questa legge ha introdotto lo strumento del permesso di soggiorno attraverso il quale si è regolato il tempo di permanenza in Italia del migrante. Il fenomeno migratorio ha però continuato a crescere e ha reso necessaria l’emanazione della legge n. 40 del 1998, la Turco– Napolitano il cui scopo è quello di mettere in chiaro le modalità di entrata nel paese; vengono introdotte delle liste di accesso controllato – realizzate tramite un’intesa con il paese di origine – nelle quali il migrante che si sposta per esigenze lavorative si può iscrivere in modo che sia più facilmente reperibile dalle aziende 1 Il riassunto è stato scritto sulla traccia presente nella Tesi di Laurea Magistrale di Carlo Borin, Città, fenomeno migratorio e innovazione sociale nelle politiche urbane, Politecnico di Torino, Luglio 2018 37
italiane. Vengono, inoltre, facilitati i ricongiungimenti familiari per i migranti che posseggono determinate caratteristiche di reddito. Nel 2000 muta il contesto politico e sociale, è l’anno della legge Bossi–Fini che va a modificare la precedente legge introducendo maggiori restrizioni sulle condizioni di asilo e, di conseguenza, sulle richieste. Viene abolito l’obbligo di motivazione di diniego del permesso di soggiorno, in questo modo, per coloro a cui non viene accordato il permesso, non vi è modo di fare ricorso. Con la legge precedente è stata introdotta la figura del garante, ossia di enti locali, associazioni che operano nel settore immigrazione o cittadini che si fanno carico dei costi per l’alloggio e per l’assistenza sanitaria del migrante per tutto il periodo del permesso di soggiorno; con la Bossi–Fini questo meccanismo viene abolito, obbligando, di fatto, il migrante ad avere un lavoro in Italia prima di arrivarci, con il risultato di un aumento della clandestinità. Tra il 2005 e il 2007 l’Italia ha acquisito alcune Direttive Europee aventi la funzione di tutelare alcune tipologie di richiedenti come la Direttiva sui Minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo, viene istituita la Commissione Nazionale per l’Asilo e la “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione”. Nel 2007, i Centri di Identificazione creati nel 2002 sono stati sostituiti, tramite due Direttive, con i Centri di Accoglienza; tali Direttive definiscono le norme minime per la definizione dello status di rifugiato o di protezione. “Sebbene queste ulteriori aggiunte, il clima politico italiano e soprattutto sociale stava prendendo una piega basata su tematiche identitarie di contrapposizione tra quelle europeiste, che fino a quel momento avevano goduto dei maggiori consensi e quelle sub-nazionali, rappresentate da forze politiche più populiste, con visioni sul tema immigrazioni nello specifico stringenti e limitanti, culminata nel 2009 con una campagna elettorale fondata ampiamente sulla paura, sulle stringenti necessità di sicurezza, mettendo ansia e paura, gettando l’opinione pubblica in un clima di agitazione che necessariamente va poi sfogata su un capro espiatorio che generalmente è il diverso.”2 È in questo clima che è stato redatto il “pacchetto sicurezza”, una serie di leggi riguardanti le tematiche della sicurezza 2 Borin, 2018, p. 86 38
nazionale; tali leggi sono state considerate prima non conformi dall’Europa e poi, nel 2011, anticostituzionali. L’adozione delle misure prescritte dal pacchetto sicurezza ha avuto come unico risultato quello di incentivare il migrante a compiere azioni illegali, e, di conseguenza, l’alimentare tutte quelle idee sui migranti affermate durante la campagna elettorale e cioè che lo straniero è un pericolo. La cosiddetta “Emergenza Nord Africa”, culminata nel 2011 e terminata nel 2012 ha comportato l’applicazione dello stato di emergenza umanitaria, la protezione civile ha ricevuto dal governo l’incarico dell’attuazione del programma “Emergenza Nord Africa”. A sua volta, la protezione civile ha delegato la responsabilità della gestione dei flussi agli assessori regionali e alle prefetture locali, senza però delle regole precise. In questa situazione, sono stati siglati contratti di accoglienza a completo vantaggio dei privati che si sono ritrovati soldi statali da poter spendere senza dare conto a nessuno, omettendo l’erogazione di servizi necessari all’integrazione degli immigrati nel nostro paese. Nel 2012 è stato istituito il Tavolo di Coordinamento Nazionale con l’obiettivo di trovare il miglior modo per l’amministrazione del fenomeno; il risultato è stata la redazione di un Piano Nazionale di gestione dei flussi migratori (2014) attraverso il quale sono state fornite le linee guida per l’organizzazione di un’accoglienza integrata e diffusa, concretizzata nella definizione di una serie di nuove strutture ricettive: centri di primo soccorso e assistenza nelle regioni degli sbarchi, redistribuzione dei migranti in strutture regionali per la prima accoglienza, riconoscimento e qualificazione della richiesta formale di protezione e, infine, i centri di seconda accoglienza finalizzati all’integrazione nel territorio tramite gli SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). La nuova struttura è stata confermata nel 2015 tramutando il Piano Nazionale in una legge che ha previsto l’istituzione di quattro tipologie di strutture: 1. Hotspot. Istituiti dall’Agenda Europea sulle Migrazioni del 2015, si trovano in aree strategiche scelte per canalizzare i flussi dei migranti e nelle quali attivare i primi servizi di screening sanitario, campagna informativa, compilazione del foglio di arrivo, individuare le principali vulnerabilità. 2. Sistema di prima accoglienza. I Regional Hubs hanno 39
sostituito gli ex-centri governativi (CARA, CDA, CPSA), sono strutture regionali che ricevono i migranti già registrati che devono fare la domanda di protezione. 3. Sistema di seconda accoglienza. È costituita dal sistema SPRAR, una rete nazionale di enti locali aventi accesso al Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (FNPSA) per realizzare progetti di accoglienza integrata destinata a richiedenti di protezione e rifugiati. In queste strutture vengono forniti agli ospiti degli aiuti per la loro integrazione nella società: corsi di lingua, sostegno psicologico e fisico, corsi di avviamento al lavoro ecc. Peculiarità di questo sistema è la diffusione capillare sul territorio. Purtroppo, vista la dimensione politica del fenomeno, molti sindaci si sono posti d’intralcio a questi progetti. 4. Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). La portata dei flussi migratori ha reso necessaria l’istituzione di queste strutture attivate tramite accordo con le prefetture e nelle quali vengono ospitati coloro che non rientrano negli SPRAR. Nel 2016 si è tentato di risolvere e migliorare il modello SPRAR: è stato modificato il procedimento per l’accesso da parte dei comuni al “Fondo Nazionale per le Politiche ed i servizi dell’asilo”; è stata aumentata la copertura statale dall’80 al 95%. Sono stati previsti dei vantaggi per i comuni che aderiscono allo SPRAR, tra i quali la clausola di salvaguardia, tramite essa, in qualsiasi comune con all’attivo un programma di accoglienza che soddisfi i requisiti minimi, non vengono ulteriormente aperte strutture governative di alcun genere. Questa mossa ha come fine quello di favorire l’avvio del “Piano Nazionale di ripartizione dei richiedenti asilo e rifugiati” che ha lo scopo di coinvolgere il maggior numero possibile di realtà locali in modo da rendere più sostenibile l’integrazione. Nel 2017, attraverso il Decreto Minniti-Orlando, sono stati effettuati vari interventi aventi come principale obiettivo il miglioramento dell’efficienza del sistema, sia per quanto riguarda le richieste che per quello che concerne l’intera filiera del sistema di accoglienza. Questo Decreto prevede “la possibilità da parte dei migranti di compiere lavori socialmente utili, su base completamente volontaria, nati dall’intesa tra prefettura ed enti locali interessati, comprendenti anche particolari lavori ad hoc di utilità sociale a vantaggio della comunità locale. Ciò che traspare quindi è che se un migrante vuole restare se lo 40
deve sostanzialmente guadagnare con il “merito”, tralasciando quindi l’evidente diritto di chi subisce violenze o situazioni di guerra, garantito dal diritto internazionale, diventando un privilegio.”3 Il “Piano Nazionale d’Integrazione dei Titolari di Protezione Internazionale” è stato istituito nel 2017, pone l’attenzione su come il processo dell’integrazione cominci già dalla prima accoglienza, promovendo politiche e programmi per il futuro. Tappa fondamentale per poter parlare dell’attuale funzionamento del sistema di accoglienza, è la Legge 132 di dicembre 2018, il Decreto Salvini su Sicurezza e Immigrazione, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”. Con tale decreto è stata di fatto cancellata la protezione umanitaria che è stata sostituita con due “protezioni speciali”: l’asilo (già previsto dalla Convezione di Ginevra del 1951), e la protezione sussidiaria, istituita dalla Commissione Europea nel 2014, una forma di protezione che risulta “una via di mezzo” tra l’asilo e la protezione umanitaria. La protezione umanitaria rappresentava quasi una certezza per coloro che approdavano sulle nostre coste, in quanto garantiva (quasi sempre) la possibilità di essere accolti e di ricevere il “permesso umanitario” per poter restare in Italia. L’eliminazione di questo status ha avuto come conseguenza il proliferare di immigrati clandestini nel nostro paese. Il grafico di pagina 43 riporta lo sviluppo le tappe fondamentali dell’evoluzione del sistema di accoglienza migranti.
3 Borin, 2018, pp. 92-93 41
1990, Emergenza Albanese 1998
Legge Martinelli Introdotto il permesso di soggiorno Legge Turco-Napolitano Introdotta la figura del garante
Legge Bossi-Fini Abolito l’obbligo di motivazione del 2000 diniego del permesso di soggiorno Abolita la figura del garante Aumento della clandestinità Direttive Europee I centri accoglienza sostituiscono i 2007 centri di identificazione Norme minime per la definizione di status di rifugiato o di protezione 2009
Pacchetto sicurezza Incentivazione della criminalità
Status di emergenza umanitaria 2011, Emergenza Nord Africa Contratti di accoglienza a vantaggio dei privati Piano Nazionale di gestione dei flussi migratori Descrizione di linee guida per 2014 l’accoglienza integrata e diffusa Istituzione di nuove strutture ricettive Il Piano diventa legge 2015 Istituiti hotspots, regional SPRAR e CAS 2016
hubs,
Piano Nazionaledi ripartizione dei richiedenti asilo e rifugiati
Decreto Minniti-Orlando Il migrante può svolgere dei lavori socialmente utili 2017 Piano Nazionale di integrazione dei Titolari di Protezione Internazionale L’integrazione comincia dalla prima accoglienza Decreto Salvini su sicurezza e immigrazione Cancellata la protezione umanitaria e 2018 sostituita con due protezioni speciali: asilo e protezione sussidiaria Aumento dei clandestini 43
La filiera del sistema di accoglienza, oggi4 , non si discosta molto da quella legiferata nel 2015, essa si sviluppa, infatti, su due piani, quello della prima accoglienza e quello della seconda accoglienza. L’accesso al sistema di accoglienza avviene nel momento in cui il migrante approda illegalmente in Italia, a questo punto viene accolto in uno degli Hotspot dove vengono effettuate tutte le operazioni utili all’identificazione della persona e tutte le verifiche sulla sua salute. Nell’Hotspot, dopo questa trafila di verifiche, il migrante può effettuare la domanda di asilo diventando così un “richiedente asilo”, gli viene fornito un permesso di soggiorno che si rinnova di 6 mesi in 6 mesi, e viene trasferito in un centro di prima accoglienza (Hub regionale) nel quale si stanzia fino a quando non viene trovato un CAS in cui farlo alloggiare. Il richiedente asilo vive quindi, in una specie di limbo fino a quando non viene ricevuto da una Commissione Territoriale che ascolta la sua storia e alla quale egli deve spiegare per quale motivo non può tornare nel suo paese di origine. La Commissione può dare 3 responsi diversi: il diniego (il migrante deve quindi tornare nel suo paese di origine), lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria. Nel momento il cui al richiedente viene riconosciuta una di queste forme di protezione, diventa, appunto, un titolare di protezione internazionale. I migranti che non vengono ritenuti idonei alla richiesta di asilo vengono trasferiti nei Centri di Permanenza e Rimpatrio dove possono trattenersi per un massimo di 180 giorni prima di tornare nel loro paese di origine. I CPR sono 7 e si trovano a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Torino, Roma e Trapani. Gli Hotspot sono collocati in punti strategici del territorio nazionale, quelli dove approda la maggior parte dei flussi; a maggio 2019 risultano 4 e si trovano a Lampedusa (100 posti), Pozzallo (300 posti), Messina (250 posti) e Taranto (400 posti). I Centri di prima accoglienza sono, invece, delle strutture gestite a livello regionale, sono 12 e sono situati in 7 regioni: Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Calabria, Puglia e Sicilia. I CAS (Centri di accoglienza straordinaria) insieme ad altre 4 Ci si riferisce al periodo in cui si sono svolte le ricerche per scrivere il paragrafo, settembre 2019. 44
strutture, sono degli ambienti che hanno come minimo comun denominatore il fatto di essere stati istituiti per gestire il fenomeno migratorio come un qualcosa di emergenziale e per sopperire alla mancanza di posti disponibili nelle strutture per la seconda accoglienza; per questo motivo, generalmente, si trovano in edifici capaci di accogliere un elevato numero di persone. I CAS, al contrario della loro denominazione, svolgono una funzione che è ormai diventata ordinaria, accogliendo il 75% delle presenze. I CAS sono gestiti direttamente dal Ministero Degli Interni e dalle prefetture territorialmente competenti che hanno il compito di assegnare la gestione delle strutture ad enti che possono essere sia profit che no profit, tramite gare di appalto. Il migrante a cui viene riconosciuto lo status di protezione internazionale entra a far parte del programma SIPROMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) - quello che prima prendeva il nome di SPRAR – e viene trasferito in un centro di seconda accoglienza. Il programma consiste in un progetto di 6 mesi (prolungabile di altri 6 mesi) incentrato sull’autonomia e l’inclusione sociale e lavorativa del migrante; prevede una serie di servizi molto meno limitati rispetto a quelli dei CAS, tra i quali abbiamo vitto e alloggio, stage e tirocini, supporto psicologico, mediazione linguistica e culturale, possibilità di prendere la patente, corsi di italiano, orientamento sociale, supporto legale e corsi di formazione. Alcune faccende, come le pulizie e la preparazione dei pasti, vengono eseguite in autogestione dagli ospiti. Il fine di questo programma è quello di aiutare la persona a crearsi un proprio percorso nel paese che lo ha accolto, fornendo, inoltre, sostegno per la ricerca di una casa. Come accennato in precedenza, la rete SIPROIMI esiste e si sviluppa grazie ai comuni che mettono a disposizione del programma delle strutture – principalmente appartamenti dove i richiedenti asilo possono andare a vivere; esistono anche altri tipi di strutture, centri di piccole, medie e grandi dimensioni che possono accogliere rispettivamente fino a 15, fino a 30 o più di 30 persone. Altri servizi che vengono forniti da questo sistema sono quelli utili all’inserimento sociale dell’immigrato: iscrizione alla residenza anagrafica del comune, ottenimento del codice fiscale, iscrizione 45
al servizio sanitario nazionale, inserimento a scuola di tutti i minori, insomma, tutti quei servizi che fanno del migrante un immigrato. È proprio su questo punto della filiera dell’accoglienza – quello finale – che si concentra questa tesi di laurea: il migrante, al quale è stato riconosciuto uno status di protezione umanitaria o sussidiaria, allo scadere dei 6 (o 12 mesi) si ritrova fuori dal sistema di accoglienza; a volte, i più fortunati hanno un lavoro, ma non hanno le risorse finanziarie per potersi permettere un alloggio. L’obiettivo di questa tesi, come verrà spiegato meglio in seguito, è quello di andare a progettare delle case che potranno essere messe a disposizione di coloro che sono usciti dal centro di seconda accoglienza e si ritrovano senza un posto in cui vivere – ovviamente saranno abitazioni per tutti coloro che avranno bisogno o, più semplicemente, vorranno viverci. Questi alloggi si trovano in un punto particolare – se vogliamo, strategico della Piana Fiorentina, in una posizione che permette a queste persone di entrare all’interno del metabolismo cittadino, di divenire parte della società. In letteratura esistono molti scritti che dimostrano che quando si dice che “gli immigrati ci rubano il lavoro!”, si dice – sostanzialmente- una fesseria; tra le varie fonti a sostegno della precedente affermazione si ritiene utile riportare le seguenti citazioni: “Si crede, difatti, che un sistema economico sia un’entità statica e che esista un numero fisso di opportunità lavorative: di conseguenza, molti pensano che un posto di lavoro occupato da un migrante si traduca in un posto sottratto ad un nativo. Non vi è nulla di più fallace di questo ragionamento automatico. […]. L’arrivo di nuove persone disposte a lavorare modifica non solo il mercato del lavoro, ma anche il sistema produttivo nel suo complesso. […] l’immigrazione, generalmente, innesca l’afflusso di altri fattori della produzione (nuovi capitali, nuove imprese) in quanto le aree in crescita demografica presentano vantaggi produttivi importanti.”5
5 Coniglio N. D. (2019), Aiutateci a casa nostra. Perché l’Italia ha bisogno degli immigrati, Editori Laterza, Bari-Roma, p. 11 46
“Se pensiamo che il problema dell’immigrazione sia l’abuso, da parte dei migranti, dei sistemi di protezione sociale, la soluzione è promuovere una reale integrazione sociale e lavorativa dei nuovi arrivati; favorire l’integrazione di una persona vuol dire infatti, in primo luogo, favorire la sua indipendenza economica e, in secondo luogo, la sua capacità di contribuire invece che attingere alla spesa pubblica. Politiche di integrazione sociale, formazione linguistica e politiche attive di inserimento lavorativo possono funzionare in modo efficace.”6 Riassumendo, il fine della tesi è quello di progettare delle abitazioni che saranno messe a disposizione – anche - dei migranti, persone la cui presenza, lavoro e “status di legalità” gioverà non solo a loro stesse ma anche alla società nella quale saranno incluse. Perché quello in cui si trovano appena uscite dal sistema di accoglienza è un circolo vizioso, che non gli permette di avere una residenza senza un lavoro, o dei servizi, come quello sanitario, che non possono ottenere senza una casa.
6 Coniglio, 2019, p. 83 47
Approdo
Hotspot
Ritorno nel paese di origine
Centro di permanenza e rimpatrio
Hub regionale
CAS Diniego Commissione territoriale
Status di rifugiato Protezione sussidiaria
Titolare di protezione internazionale
SIPROIMI
La filiera del sistema accoglienza migranti 49
SECONDA ACCOGLIENZA
PRIMA ACCOGLIENZA
Richiedente asilo
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Nei Centri Accoglienza
Il paragrafo precedente ha messo in luce l’aggrovigliato sistema di accoglienza migranti nel nostro paese; sgrovigliare – per quanto possibile – questa matassa, ci ha fatto rendere conto che, per i fini di questa tesi, sarebbe stato necessario fare un ulteriore passo. Per questo motivo, come già accennato in precedenza, si è deciso di andare a visitare alcuni centri accoglienza: il CAS di Sesto Fiorentino, il CAS e lo SPRAR di Fiesole, un CAS di Firenze e uno SPRAR di Rosignano (Livorno). Localizzare i centri presenti sul territorio non è semplice, per ragioni di sicurezza, la loro ubicazione non viene resa pubblica; per visitarli è stato necessario mettersi in contatto con le varie associazioni che li gestiscono. Ciò che accomuna le strutture visitate – ad eccezione dello SPRAR di Fiesole – è che i soggetti ospitati sono tutti maschi maggiorenni, fatto già reso evidente dalle statistiche sugli approdi: nel 2018 le donne sbarcate in Italia sono state il 10% del totale, i minori il 18%1. I motivi di questa netta minoranza sono vari, tra questi, ci preme sottolineare il fatto che, secondo la normativa, i minori non accompagnati che arrivano nel nostro paese, devono essere ospitati all’interno delle apposite strutture fino al raggiungimento della maggiore età per poi essere rispediti nel paese di provenienza, questo rende di fatto inutile avventurarsi in un viaggio altamente pericoloso. Lo SPRAR fiesolano è l’unico, fra quelli visitati, ad ospitare delle famiglie con donne e bambini nati in Italia.
1 UNHCR, 2019, p. 8 53
Il CAS di Sesto Fiorentino si trova in una struttura comunale (prima era adibito a palestra), nella fascia territoriale che sarà oggetto di studio nei capitoli seguenti; ospita circa 50 ragazzi, tutti provenienti dal continente africano o dal Medio Oriente. Gli ospiti sono stati sistemati in camerate che arrivano a contenere anche 16 posti letto, mangiano in una mensa comune e il cibo viene cucinato da una ditta esterna. Il CAS fiorentino si trova in un edificio a più piani, in cui si svolgono varie attività e che è ben inserito all’interno del contesto urbano, ospita meno persone rispetto a quello di Sesto Fiorentino ma le modalità di gestione sono le stesse. Lo SPRAR di Rosignano ha messo in atto un modello di accoglienza diffusa: le persone sono ospitate in vari appartamenti sparsi sul territorio. Il Centro di accoglienza straordinaria di Fiesole, del CAS ha solo il nome2: è una piccola struttura che ospita circa 10 persone che vivono in autogestione, modalità che – a regola – caratterizzerebbero gli SPRAR, ulteriore conferma del fatto che il sistema accoglienza italiano è un gran guazzabuglio. Altra dimostrazione dell’ambiguità su cui verte l’intera filiera è rappresentata dall’altro centro accoglienza presente sul territorio fiesolano, si tratta di uno SPRAR di grandi dimensioni – ospita circa 50 persone – situato fuori dal contesto urbano. Lui è Surah, ha 21 anni, viene dal Gambia, il suo viaggio per arrivare fino in Italia è durato un anno e vive qui da 3, adesso abita nello SPRAR che si trova nei boschi di Fiesole, ha iniziato percorso lavorativo presso un magazzino a Calenzano, frequenta la scuola serale per informatici e dopo gli piacerebbe studiare filosofia. Surah è uno dei tanti ragazzi conosciuti durante le visite ai centri accoglienza, in queste occasioni è stato chiesto agli ospiti di rispondere alle domande del questionario di pagina 58. L’intervista si focalizza sulla vita che il soggetto svolgeva prima 2 Prima dell’entrata in vigore del decreto sicurezza (2018), esisteva una categoria dei CAS (quelli di piccole dimensioni) il cui programma era assimilabile a quello degli SPRAR: l’obiettivo era quello di aiutare le persone ad integrarsi nella società. Con le nuove norme, molte associazioni si vedono impossibilitate a partecipare ai bandi indetti dalle prefetture per la gestione dei CAS, a causa degli elevati costi di gestione dei centri di dimensioni ridotte. 54
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di migrare, e su quella così tanto desiderata da spingerlo ad imbarcarsi nel suo lungo viaggio; le prime domande, infatti, si concentrano sul passato, vengono chieste informazioni sulla città – o sul villaggio – di provenienza, si indaga sul tipo di abitazione e sul numero di persone che ci vivevano. Per progettare i luoghi di vita è necessario conoscere le radici dei nuovi insediati, ma anche i loro progetti futuri, viene infatti chiesto che impiego svolgevano nella loro vecchia città e quale lavoro hanno – o vorrebbero avere – qui in Italia. Nella seconda parte, si richiede di dare un punteggio da 0 a 5 a diverse voci che indicano quanto sia importante per l’intervistato la vicinanza della propria casa a determinati punti focali della vita urbana: i parchi pubblici, il luogo di lavoro, il centro cittadino e i mezzi di trasporto pubblico. Infine, si è tentato di mettere in pratica quello che potremmo definire un esercizio lynchiano: viene dunque richiesto di disegnare la casa in cui vorrebbero vivere. Come vedremo in seguito, si reputa di fondamentale importanza garantire ai nuovi cittadini la libertà di vivere nella casa che più gli aggrada. Durante le visite sono stati compilati 27 questionari, un numero esiguo per poter fornire dei dati statistici concreti; non tutti i ragazzi incontrati si sono resi disponibili per rispondere alle domande. L’età media dei soggetti intervistati è di 26 anni ed è compresa tra i 21 e i 36 anni, la maggior parte di loro proviene dal Pakistan (7), il resto arriva principalmente dal Senegal (5), dal Gambia (5), o dalla Nigeria (4). Si tratta di persone nate e cresciute in luoghi con culture diverse dalla nostra, la maggior parte di loro viveva in grandi case con un elevato numero di familiari e parenti acquisiti (rispetto ai nostri standard), i dati raccolti indicano una media di 8 persone in ogni casa. La prima parte dei questionari è stata un’ulteriore conferma di quanto scritto nel capitolo Migrazioni: coloro che approdano in Italia non sono i più poveri, i ragazzi intervistati, infatti, nel loro paese svolgevano lavori qualificati tra i quali abbiamo un graphic designer, un disegnatore di tappeti, un macellaio, un elettricista, un giardiniere, un ristoratore, un operatore sociosanitario, un meccanico, un sarto, un benzinaio, un responsabile delle relazioni pubbliche per un’azienda, 5 agricoltori, 2 poliziotti, e 4 studenti, solo uno era disoccupato. Anche quando è stato 56
chiesto loro che lavoro vorrebbero fare qui in Italia si è avuta la conferma di ciò che è stato detto precedentemente: a queste persone generalmente, non interessano lavori altamente qualificati, difatti 3 vorrebbero fare l’agricoltore, altrettanti lavorare come cuoco o pizzaiolo, uno vorrebbe fare il pellettiere, alcuni vorrebbero continuare a fare il lavoro che svolgevano prima di migrare (giardiniere, grapghic designer). Le domande che riguardano la vicinanza della casa a dei punti urbani strategici hanno confermato l’idea già enunciata: per gli intervistati è importante vivere vicino al luogo di lavoro, ma anche nei pressi del centro cittadino e dei parchi pubblici, luoghi di socialità ed inclusione. L’ultima parte dell’intervista – in cui si richiede all’intervistato di disegnare la casa in cui vorrebbe vivere – è quella più interessante: una delle risposte è quella che dà il titolo a questa tesi, Just a simple house, nessuna pretesa, un semplice desiderio. Gli altri disegni (o risposte scritte) descrivono principalmente case in cui poter vivere con la propria famiglia. Nelle pagine seguenti sono riportati alcuni dei disegni; quella di pagina 51 è la risposta di Khan, 27 anni, dall’Afghanistan.
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Nome: _______________________________________________ Quanti anni hai? _______________________________________ Da dove vieni? ________________________________________ Vivevi in: - Un villaggio - Una piccola città - Una grande città Come è la casa in cui vivevi? _____________________________ _____________________________________________________ Con quante persone vivevi? / How many people did you live with? _______________________________________________ _____________________________________________________ Che lavoro facevi nella tua vecchia città? _________________ Che lavoro fai o vorresti fare in Italia? ____________________ Assegna un punteggio da 0 a 5 / Assign a score from 0 to 5: Vicinanza della tua casa a parchi pubblici ___ Vicinanza della tua casa al tuo luogo di lavoro ___ Vicinanza della tua casa al centro della città ___ Vicinanza della tua casa ai mezzi di trasporto pubblici ___ Disegna la casa in cui vorresti vivere
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Faizan Ahmad, 30 anni, dal Pakistan
George, 31 anni dalla Nigeria 59
Mollah, 27 anni, dal Bangladesh
Musa, 34 anni, dalla Nigeria 60
Nihar Bad Shah, 27 anni, dal Pakistan
Oumar, 22 anni, dal Mali 61
Sibajo, 27 anni, dal Senegal
Surah, 21 anni, dal Gambia 62
Waleed, 28 anni, dal Pakistan
Walud, 25 anni, dal Pakistan 63
“La Relazione non viene dall’estraneità, ma dalla conoscenza condivisa.” (Glissant, 2007, p. 26)
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Relazione e alloggio sociale
La citazione della pagina precedente è ripresa dal libro Poetica della Relazione di Éduard Glissant - poeta e saggista di origine creola – che tratta, appunto, il tema della Relazione. Lo scrittore inizia il ciclo del suo discorso parlando delle migrazioni, più precisamente delle deportazioni degli africani verso le Americhe, affermando che di queste esperienze, “ciò che lascia impietriti […] è senz’altro l’ignoto, affrontato senza preparazione né sfida.”1Dai viaggi delle navi negriere, dagli approdi e dalla convivenza nelle isole del Nuovo Mondo, discende la deterritorializzazione delle lingue africane e la creolizzazione delle terre ad ovest dell’Oceano Atlantico. L’inizio del viaggio viene descritto come un abisso, come la condivisione dell’ignoto-assoluto che, una volta approdati sulle nuove terre, diventa conoscenza, ed è proprio dalla condivisione di essa che si genera la Relazione. Nelle Antille avviene l’incontro tra i diversi popoli, gli allogeni, i deportati dall’Africa, e gli autoctoni, la cui Relazione vive all’interno dei sistemi chiusi delle piantagioni, i crogioli della lingua creola, manifesto di sopravvivenza, illusione e memoria. Paradossalmente, nel sistema chiuso della piantagione si è forgiata la lingua creola, fatta di quelle che l’autore definisce “parole barocche, ispirate a tutte le parole possibili”. Leggendo il libro di Glissant, ci si è resi conto che il ciclo argomentato dall’autore viaggia pressoché in parallelo a quello di questa tesi, o meglio, è quello che questa tesi – in parte – auspica: l’incipit di entrambi è rappresentato dalle migrazioni (deportazioni nel caso dell’autore creolo), seguito da un abisso, 1 Glissant È. (2007). Poetica della Relazione, Quodlibet, Macerata, p. 23 67
il mare – il Mediterraneo o l’Atlantico – e da un approdo in nuove terre. È a questo punto che i due filoni si discostano, i deportati africani di cui parla Glissant sono diventati schiavi nelle piantagioni, i migranti del Mediterraneo diventano dei rifugiati. Il desiderio di questa tesi è però quello di progettare un luogo dove si parli una lingua barocca, un punto di incontro tra le diverse culture in cui praticare quella che Glissant definisce opacità. “L’opaco non è l’oscuro, ma può essere accettato come tale. È il non riducibile, che è la più vivace delle garanzie di partecipazione e di confluenza. Eccoci lontano dalle opacità del Mito o del Tragico, la cui oscurità provocava esclusione, e la cui trasparenza tendeva a “comprendere”. Vi è in questo verbo – comprendere – il movimento delle mani che prendono ciò che le circonda e lo riportano a sé. Gesto di chiusura, se non di appropriazione. Preferiamogli il gesto del con-dividere, che finalmente apre sulla totalità.”2 Come Glissant, si rivendica il diritto all’opacità: non è necessario comprendere l’altro, non lo si deve omologare a noi stessi, si deve accettare le differenze e condividerle, si accetta l’esistenza dell’altro nel nostro sistema. “[…] e non si tratta più né di esplorazioni né di scoperte né di conquiste di territorio, ma di condivisione degli immaginari, in virtù della quale oggi diviniamo che le nostre identità non si appellano più all’identico, ma si riferiscono forse, anche qui per la prima volta, a un accordo di differenze.”3 Fino ad ora si è parlato di migranti e di come la casa sia un bene per loro fondamentale, ma anche, e soprattutto, un diritto. Quello della casa è un diritto universalmente riconosciuto; l’articolo 47 della Costituzione Italiana recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.” 2 Glissant, 2007, p. 203 3 Glissant, 2007, p. 11 68
Si parla, quindi, di agevolazioni fiscali utili al possesso di un’abitazione. Anche la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU, in particolare l’articolo 25, riconosce il diritto alla casa e ad un tenore di vita adeguato: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.” Il buon senso – ma anche la letteratura che verrà citata in seguito – porta chi scrive a sottolineare il fatto che questa tesi nasce sì con la volontà di “aiutare” i migranti, ma anche con il desiderio di progettare un “approdo sicuro” per tutti coloro che non possono accedere autonomamente ad un’abitazione: i soggetti fragili. Si tratta di mettere in atto quella che Turchi e Romanelli definiscono “strategia di sistema”4, questa non si può attuare tramite le regole del Diritto, che risulta uno strumento insufficiente, ma attraverso quella che i due autori chiamano Mediazione: “La Mediazione si rappresenta come strumento in grado di potersi inserire laddove ci siano interazioni tra i membri della Comunità Umana, a prescindere da quelle che possono essere le questioni di provenienza geografica, linguistica o religiosa. infatti, la mediazione culturale si inserisce come strumento che fa da collante (e quindi ‘da ponte’) tra aspetti che contraddistinguono i membri della comunità migrante e i membri della comunità che si trova ‘ad accoglierla’, strettamente connessi a questioni di natura geografica, di costumi ed abitudini, di lingua e religione. Dunque, mette a disposizione reciprocamente tutta una serie di strumenti per ‘conoscersi’, per rendere gli uni agli altri meno misteriosi, meno estranei (usiamo, infatti, il termine ‘stranieri’).”5 La Mediazione mette quindi a fuoco le singole opacità, permette loro di attuare la condivisione; se le diverse opacità 4 Turchi G. P., Romanelli M. (2013), Flussi migratori, comunità e coesione sociale. Nuove sfide per la mediazione, FrancoAngeli, Milano, p. 120 5 Turchi, Romanelli, 2013, p. 121 69
non entrano in contatto, non si generano le regole della condivisione, ma permane lo stato di cecità fatto di oscurità, caratteristiche sulle quali basare le differenze, l’emarginazione e l’esclusione, potenziali elementi fondatori di ghetti, muri e separazioni territoriali. La Mediazione comunitaria mette in relazione tutti gli individui della società, si rivolge all’intera comunità, “[…] genera occasioni per i membri della stessa di poter tracciare una traiettoria verso la coesione sociale. Ossia, la Mediazione diventa lo strumento che oltre a gestire quello che accade nel presente, riesca anche a gettare le basi per il domani.”6 Può essere usata da ogni individuo per progettare la società futura in cui ognuno è attore e parte integrante della comunità a cui appartiene. Il fine ultimo della Mediazione è quindi quello di aiutare i vecchi e i nuovi abitanti della città a disegnare quello che Giancarlo Paba definisce un “mosaico di culture e di stili di vita”7 in cui le opacità si guardano e le differenze si affiancano come le tessere di un mosaico, senza però fondersi le une con le altre. Il desiderio è quello di far diventare parte di questo mosaico tutti coloro “affetti” da esclusione abitativa, dai migranti a quelle persone e famiglie che sono “socialmente integrate” ma economicamente svantaggiate. Si tratta di famiglie a basso reddito, anziani soli, studenti, famiglie monogenitoriali o giovani coppie che non possono permettersi una casa “classica” (nel senso inteso da Glissant, quello opposto alla lingua barocca). Come già detto in precedenza, l’accesso ad un’abitazione è fondamentale per i migranti che, pur di averne una, sono costretti a scendere a compromessi che spesso esulano dalla legalità o dagli standard; frequentemente si trovano ad accettare condizioni di sovraffollamento e/o di “inserimento subordinato”8, sovrapprezzo (10-30%) rispetto agli autoctoni e discriminazioni di ogni genere. L’esclusione abitativa non settoriale “fa riferimento a situazioni 6 Turchi, Romanelli, 2013, pp. 123 7 Paba G. (1998). I cantieri sociali per la costruzione della città, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità, Dunod, Milano, p. 90 8 Bertoni M., Cantini A. (2008), Autocostruzione associata ed assistita in Italia. Progettazione e processo edilizio di un modello di housing sociale, Editrice Dedalo, Roma, p. 25 70
in cui l’esclusione abitativa assume dimensioni non strutturali e si riferisce a famiglie/persone “socialmente integrate”, che tuttavia trovano difficoltà di accesso all’abitazione negli attuali mercati: risentono della crisi economica e l’integrazione lavorativa riveste per queste persone una importanza centrale nella soluzione del problema.”9 Questi “esclusi” sono generalmente famiglie che non sono classificabili come povere, ma che sono comunque svantaggiate dal punto di vista economico: sono persone che non sono socialmente povere (spesso hanno un titolo di studio), non lo sono nemmeno per le classifiche stilate dalle amministrazioni, ma non hanno comunque abbastanza soldi per poter comprare una casa, ricadendo dunque nel disagio o nella marginalità abitativa. La privazione di una casa dignitosa è ciò che innesca il sentimento di non appartenenza ad un certo luogo; una cura per questa ferita della società è rappresentata dall’”alloggio sociale” che Cecodhas – Comite Europeen de Coordination de l’Habutat Social definisce come “l’alloggio il cui accesso è controllato dall’esistenza di regole che favoriscano le famiglie che hanno difficoltà a trovare sistemazioni abitative accettabili nel libero mercato.” La questione dell’alloggio sociale è gestita e regolamentata da quelle politiche che fanno parte del welfare sociale: “Alla base c’è l’idea di integrare le politiche abitative pubbliche, in cui il problema principale è ridotto a una questione quantitativa di produzione di alloggi, con logiche di self-reliance antiassistenziale, instaurando un carattere concentrativo tra utente e istituzione e consentendo a nuove esperienze di farsi istituzioni e modelli sociali stabili, sostenibili e quindi replicabili. Fino ad ora le manifestazioni di questo fenomeno sono partite da persone che hanno smesso di “chiedere” per intraprendere la strada dell’organizzarsi in proprio, del darsi da fare da sé per quello di cui si ha bisogno, molto spesso senza alcun antagonismo con le Istituzioni e lo Stato. La crescente assunzione di responsabilità delle comunità locali sul welfare è il così detto “welfare attivo.”10 Tale sistema si basa su iniziative dal basso, in cui i diversi soggetti sono posti sullo stesso piano, non esistono più soggetti forti o 9 Bertoni, Cantini, 2008, p. 27 10 Bertoni, Cantini, 2008, p. 47 71
deboli, ma è la comunità a cercare e trovare una soluzione per – in questo caso – il proprio alloggio. Si parla, quindi di housing sociale, con questo termine “in generale si intende l’insieme di tutte le modalità per riuscire a fornire alloggi e servizi con forte connotazione sociale a coloro che non riescono a soddisfare il proprio bisogno abitativo sul mercato, per ragioni economiche o per assenza di un’offerta adeguata, cercando di rafforzare la loro condizione.”11 Il desiderio è quindi quello di offrire la possibilità a chiunque ne abbia bisogno di avere una casa tramite lo strumento del social housing, dell’abitare – e del costruire – collettivo. In conclusione, visto il fenomeno migratorio di cui l’Italia è stata protagonista negli ultimi anni, visti gli effettivi problemi che la filiera del sistema di accoglienza presenta, visti i disagi abitativi che affliggono non solo i rifugiati ma anche la popolazione autoctona, l’orizzonte a cui guarda questo lavoro di tesi è quello di una città, di un mosaico in cui le opacità possano toccarsi, convivere e condividere, in cui il diritto alla casa sia goduto da tutti.
11 Definizione Fondazione Housing Sociale 72
“[…] essenziale è tuttavia innamorarsi del luogo che stiamo studiando.” (Poli, 1999, p. 25)
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TERRITORIO
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“La piana è racchiusa su tutti i suoi lati da rilievi. Da un lato colline e dall’altro montagne. […] Il monte Morello è il punto centrale della piana fiorentina, ha un rapporto “frontale” con il territorio di pianura e con la città. L’anfiteatro del monte si apre in una grande insenatura e le sue morbide pendici degradano in un dolce “mare” collinare che entra in contatto, senza soluzione di continuità, con la piana.” (Poli, 1999, p. 45)
79
La piana
Quelle scritte alle pagine 75 e 79 sono due citazioni estratte dal libro della professoressa Poli La piana fiorentina. Una biografia territoriale narrata dalle colline di Castello1 ; la prima riflette lo stato d’animo con cui è stato affrontato il lavoro di tesi: si studia, si analizza, si ridisegna il territorio che per molti – compreso chi scrive – significa casa. La seconda frase descrive perfettamente questa terra, una valle che scivola giù dalle pendici di Monte Morello e si cristallizza nella piana, dove, nel corso dei secoli, sono state fondate e si sono sviluppate tre città: Firenze, Prato e Pistoia. Questi capoluoghi toscani si estendono senza soluzione di continuità uno di seguito all’altro, si toccano, confinano, si relazionano; in realtà non è sempre stato così, la “fusione” risale a tempi recenti, quando negli anni ’50, Firenze si trasforma molto velocemente e si espande “a macchia d’olio secondo le direttrici in uscita dalla città. L’edificazione caotica e sregolata circonda il centro storico, e si estende in forma tentacolare verso la piana.”2 Questa esplosione annienta il “paesaggio fiorentino”, opera d’arte che per conformarsi ha impiegato più di sette secoli e che, in circa quarant’anni, è stata trasformata “in una squallida e omologata periferia.”3 Protagonisti dell’espansione sono stati i comuni limitrofi a Firenze, che si sono espansi oltre il vecchio tessuto urbano, sovrapponendosi alle antiche tracce agricole, generando zone periferiche problematiche. Il disegno di pagina 83 rappresenta questa “esplosione”, oltre all’ampliamento dei 1 Poli P. (1999), La Piana Fiorentina. Una biografia territoriale narrata dalle colline di Castello, Alinea Editrice, Firenze 2 Poli, 1999, p. 26 3 Poli, 1999, p. 26 81
vari centri, si possono osservare le altre “ferite” del territorio: le aree produttive che insistono su grandi macrolotti disseminati nella valle o in corrispondenza delle uscite autostradali; il polo scientifico di Sesto Fiorentino, una serie di padiglioni universitari che determinano “una incisiva occupazione della parte centrale della piana.”4 L’aeroporto Amerigo Vespucci – Peretola – circondato da rilievi montani, autostrada e centri abitati, situato in una zona molto delicata dal punto di vista idrico; le operazioni di decollo e atterraggio risultano pericolose, l’inquinamento acustico è elevato e reca disturbo alle abitazioni vicine. L’autostrada taglia di netto il sistema agrario, interrompe le tessiture, cancella tracce storiche che si sono susseguite nei secoli, attira intorno alle uscite e agli svincoli grandi zone industriali del tutto estranee all’antico tessuto. Tappa fondamentale della storia di questo territorio risale agli anni ’30, si tratta della “Bonifica integrale” della piana di Sesto Fiorentino, il progetto è stato redatto dall’ingegner De Horatis che “separa le acque alte da quelle basse, elimina quasi interamente i ristagni d’acqua e rende la piana utilizzabile per essere infrastrutturata con autostrade, ferrovie e industrie.”5 Risalente più o meno allo stesso periodo è l’incremento della produzione industriale presso Fiat, Pignogne e La Galileo, ciò comporta una forte affluenza di persone da tutta la regione e la conseguente creazione di insediamenti periferici a nord-ovest e a sud-ovest di Firenze. “L’universale bassezza della piana non viene più minuziosamente interpretata, ma inizia ad eccitare la fantasia autoreferenziale di progettisti insensibili che tracciano segni incuranti delle delicate tessiture storiche, interrompendo il dialogo con le strutture del passato.”6 La piana è circondata su tutti i suoi lati da rilievi, punto di riferimento a nord è Monte Morello i cui fianchi scendono ripidamente a valle e che è ricoperto da boschi e presenta forme morbide che risultano in netto contrasto con la Calvana, ad ovest, dalle forme più aspre. Per terminare il quadro sulla 4 Poli, 1999, p. 27 5 Poli, 1999, p. 31 6 Paba G. (1992), La piana di Firenze. Un progetto di ricostruzione ambientale e sociale, in Magnaghi A. e Paloscia R. (a cura di), Per una trasformazione ecologica degli insediamenti, Franco Angeli, Milano 82
morfologia ambientale, si accenna alle valli fluviali: Arno e Ombrone attraversano tutta la piana, Terzolle e Rimaggio scendono dai rilievi circostanti e si gettano direttamente in Arno; Bisenzio, Marina e Mugnone scavano valli incassate tra i rilievi. Tutte le acque in uscita dalla piana si immettono nella Gonfolina.
L’esplosione dei centri e delle attività di Firenze nella piana. I cerchi concentrici rappresentano i piccoli insediamenti che si ingrossano, i quadrati che si affastellano vicino alle infrastrutture viarie rappresentano gli insediamenti terziari, industriali e di grande distribuzione, il grande rettangolo rappresenza l’aeroporto e infine le linee puntinate rappresentano le autostrade che attraversano la piana. Poli, 1999, p.29 83
“L’aspetto palustre che caratterizza la piana in epoca storica permane per lungo tempo nella tessitura del paesaggio e negli stessi manufatti: posizione dei centri, della viabilitĂ , dei tracciati ferroviari, della localizzazione stessa di Firenze, delle trame agricole che ricalcano la partizione centuriale.â€? (Poli, 1999, p. 47)
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Tracce
La piana porta su di sé tutti i segni della storia, tracce che si susseguono e si sovrappongono già a partire dalla preistoria, ma quelle più rilevanti risalgono agli Etruschi, i primi ad insediarsi e a sfruttare le potenzialità del territorio. Ancora oggi nella piana sono presenti reperti storici risalenti a quest’epoca come le tombe de La Mula e La Montagnola, e quelle a pozzetto di Palastreto. La società etrusca è organizzata intorno a piccole città stato autonome e autosufficienti, collegate per garantire le varie relazioni commerciali tramite percorsi che si confanno alla natura del terreno. La piana si è rivelata un posto ottimale per la civiltà etrusca, fondata sia su un’amplia attività commerciale (a Quinto si trovava il fondaco della viabilità principale), che sull’attività agro-silvo-pastorale che si appoggiava agli ecosistemi della collina, della pianura e del padule. “Gli etruschi sono, infatti, la prima civiltà ad imprimere nel territorio dei segni permanenti, che condizionano tutte le successive fasi. […] L’insediamento etrusco nella piana privilegia la fascia collinare intermedia situando gli insediamenti su dei poggi controcrinale alla confluenza dei torrenti.”1 Le tracce della colonizzazione romana vanno a sovrapporsi a quelle disegnate dagli etruschi, si sommano, scendono nella piana, dialogano con il paesaggio circostante, lo interpretano e lo capiscono. Il territorio viene organizzato militarmente, la centuriazione lascia un segno indelebile sul territorio, ne traccia 1 Poli, 1999, pp. 66, 68 87
la geometria che ha resistito fino ad oggi ed è ancora evidente nel tratto fra Castello e Prato. Attraverso questo meccanismo il terreno viene diviso equamente in varie particelle , inoltre era utilizzato come strumento di bonifica del terreno tramite il drenaggio delle acque. I segni della centuriazione urbana sono ancora visibili nel centro storico di Firenze, l’accampamento romano aveva il suo fulcro – il foro – nell’attuale Piazza della Repubblica, le strade seguivano gli assi cardinali (nord-sud, est-ovest), quelle principali, il cardo massimo e il decumano massimo, adesso sono conosciute come via Roma-via Calimala e via StrozziBorgo Albizi. Diversamente, la centuriazione territoriale seguiva l’ordinamento terrestre, orientandosi perpendicolarmente ai rilievi nell’intento di condurre le acque al fiume. Differentemente da quella etrusca, la civilizzazione romana si è insediata prevalentemente nella parte pianeggiate del territorio realizzando infrastrutture e opere di bonifica, lasciando quasi del tutto intatto il bosco. Dopo la caduta dell’Impero Romano, il territorio continua ad essere modificato seguendo il filone già messo in pratica dal sistema delle ville romane: i latifondi privati si ampliano all’interno della rigida maglia romana. Si assiste al fenomeno dell’incastellamento, vengono erette torri difensive nei punti strategici di tutto il territorio toscano. Nel periodo altomedievale si assiste a quella che Daniela Poli definisce come “la scoperta del vuoto”2, l’uomo sfrutta ciò che le zone incolte naturalmente producono. Di questo periodo, restano le tracce in alcuni toponimi ancora oggi in uso: nella lingua longobarda, la parola “Osmannoro” definisce “un luogo ampio, vasto e ventoso, così come doveva apparire allora la pianura nuovamente ricoperta di acqua stagnante.”3 In quest’epoca si assiste, infatti, al ritorno all’assetto naturale del territorio, le antiche tracce vi permangono e riemergono. La pianura viene abbandonata, gli uomini si spostano sulle colline, su Monte Morello vengono eretti insediamenti fortificati, pievi e casali che basano la propria sussistenza sull’utilizzo delle risorse boschive. Il nuovo elemento ordinatore è quello 2 Poli, 1999, p. 76 3 Poli, 1999, p. 77 88
costituito dal sistema delle pievi che vengono posizionate sul reticolo degli antichi insediamenti romani, alcune di queste, come Santo Stefano in Pane (nell’attuale Rifredi), San Martino (Sesto Fiorentino) e la pieve di Calenzano esistono ancora oggi. Il periodo comunale – dall’anno Mille – è caratterizzato dalla ripresa economica e dall’incremento demografico; i boschi collinari vengono tagliati e sostituiti da poderi. “nei primi decenni del XIV secolo la ricostruzione del territorio attraverso le formazioni urbane del territorio è conclusa, e nei secoli successivi continuerà soltanto il perfezionamento dello sfruttamento agricolo attraverso le bonifiche [...].”4 Come si evince dalla figura a pagina 94, è in questo periodo che vengono definiti gli assetti urbani della piana, “le strutture sociali, economiche, urbanistiche e paesistiche trovano quella conformazione che nei periodi successivi verrà semplicemente adeguata, ristrutturata, trasformata.”5 La peste del Trecento comporta un importante crollo demografico; i borghesi fiorentini spostano la loro attenzione verso le strutture altomedievali presenti nelle campagne fiorentine, la borghesia inizia così a svolgere una serie di operazioni di recupero di questi vecchi manufatti. Due casi emblematici sono le ville di Castello: Villa della Petraia è stata originariamente torre di controllo e poi casa da signore, Villa Reale nasce come villa romana, diventa casale e, successivamente, casa da signore. È nel periodo della Signoria Medicea che queste ville acquistano un ruolo fondamentale sia per il loro potenziale rappresentativo, sia come elementi ordinatori del paesaggio: diventano “il fondale scenico”6 del collegamento prospettico che unisce monte e piana. Le operazioni di riassetto riprendono le tracce etrusche e romane, le assecondano, le migliorano, le combinano. Le ville medicee diventano l’anello di giunzione fra il sistema di centuriazione nella piana e la strutturazione etrusca alto-collinare, “Da Careggi fino alla villa del Neto di Settimello si 4 Di Pietro G. (1968), Gli insediamenti e gli assetti territoriali medievali in Toscana – Ipotesi di una classificazione, in Di Pietro G., Fanelli G., Città murate e sviluppo contemporaneo, Edizioni CISCU, Lucca, p. 37 5 Poli, 1999, p. 90 6 Poli, 1999, p. 113 89
dispiegò un ricco orlo collinare incastonato di splendide ville: una struttura a pettine si impostò sulla via Sestese, e salì verso la pendice collinare di Monte Morello.”7 Con Cosimo I, vengono rettificate le strade, ricostruiti i ponti e vengono costruiti due nuovi canali, il Macinante e il Fosso Reale; si riprende l‘opera di bonifica della pianura reinterpretando la maglia centuriale rivelatasi troppo rigida e quindi inefficiente, vengono dunque, realizzati dei tagli obliqui che, seguendo la naturale pendenza del terreno, favoriscono il deflusso delle acque. Durante il periodo lorenese viene portato a termine il disegno territoriale iniziato nell’epoca comunale, rendendolo esplicito ed evidente, viene definito il paesaggio plano-collinare ancora oggi visibile. È in questo periodo che viene impressa sul territorio la prima moderna traccia infrastrutturale, quella della ferrovia, in particolare la Leopolda (costruita tra il 1844 e il 1848) che collega Firenze a Empoli, Pisa e Livorno, e la ferrovia Maria Antonia (1845-51) che va da Firenze a Pistoia. Le due nuove strade ferrate attirano intorno a sé i primi impianti industriali e pongono fine al commercio via Arno. La ferrovia FirenzePistoia taglia di netto la piana, la scinde in due parti, quella a nord ricca sia paesaggisticamente – il pettine di Monte Morello - che industrialmente (nel ‘700 viene fondata la manifattura di Doccia), e quella a sud, territorio agricolo denso di tracce. Ancora oggi Firenze rappresenta un polo attrattivo per tutta la regione a causa della presenza di attività e servizi rari, questo modello è stato definito nel periodo in cui la città è stata capitale d’Italia (1865-1871); il piano Poggi disegna intorno al centro cittadino un tessuto di strade e piazze geometriche che delimitano i quartieri e prevede l’abbattimento delle mura della città. In questi anni si sarebbero dovuti creare i presupposti per continuare l’opera di territorializzazione lorenese, ciò non è mai avvenuto: il territorio è stato utilizzato semplicemente come un supporto corredato di infrastrutture in corrispondenza delle quali andare a costruire le nuove industrie. A partire dalla metà del secolo scorso, la piana è stata caratterizzata da un proliferare continuo e sregolato di grandi 7 Poli, 1999, p. 114 90
corpi di fabbrica industriali: negli anni ’50 e ’60, la tendenza popolare è quella di accentramento e concentrazione delle attività nelle grandi città, causando così lo spopolamento dello spazio rurale e dei centri minori. Nei due decenni seguenti, questa tendenza si è invertita: popolazione e attività si distribuiscono verso aree meno urbanizzate e industrializzate; questi avvicendamenti sono quelli che hanno disegnato il paesaggio dell’industria diffusa.
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L’immagine reticolare della piana in epoca etrusca. Le linee continue indicano le connessioni stradali fra i centri; la linea tratto-punto indica l’idrovia dell’Arno; la linea tratto-tre punti-tratto individua le relazioni amministrativo/religiose che legano i centri della piana; i diversi spessori delle linee indicano il diverso grado di importanza della connessione. I cerchi indicano i centri; i loro diversi spessori indicano il ruolo funzionale che hanno all’interno del sistema/piana. Poli, 1999, p.64 92
L’immagine reticolare della piana in epoca romana. Le linee continue indicano le connessioni stradali fra i centri; la linea tratto-punto indica l’idrovia dell’Arno; la linea tratto-tre punti-tratto individua le relazioni amministrativo/religiose che legano i centri della piana; i diversi spessori delle linee indicano il diverso grado di importanza della connessione. I cerchi indicano i centri; i loro diversi spessori indicano il ruolo funzionale che hanno all’interno del sistema/piana. Poli, 1999, p.71 93
L’immagine reticolare della piana in epoca bassomedievale. Le linee continue indicano le connessioni stradali fra i centri; la linea trattopunto indica l’idrovia dell’Arno; le linee tratteggiate indicano le relazioni amministrative, i diversi spessori delle linee indicano il diverso grado di importanza della connessione.I due cerchi molto grandi indicano le due citta (Firenze e Prato), gli altri cerchi, a seconda delle dimensioni, indicano strutture amministrative diverse. Poli, 1999, p.90 94
L’immagine reticolare della piana in epoca rinascimentale. Le linee continue indicano le connessioni stradali fra i centri; la linea trattopunto indica l’idrovia dell’Arno; le linee tratteggiate indicano le relazioni amministrative, i diversi spessori delle linee indicano il diverso grado di importanza della connessione.I due cerchi molto grandi indicano le due citta (Firenze e Prato), gli altri cerchi, a seconda delle dimensioni, indicano strutture amministrative diverse. Poli, 1999, p. 104 95
L’immagine reticolare della piana in epoca lorense. Le linee continue indicano le co ferrovia; le linee tratteggiate indicano le relazioni amministrative, i diversi spessori molto grandi indicano le due citta (Firenze e Prato), gli altri cerchi, a seconda delle
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onnessioni stradali fra i centri; la linea continua con trattini perpendicolari indica la delle linee indicano il diverso grado di importanza della connessione.I due cerchi e dimensioni, indicano strutture amministrative diverse. Poli, 1999, p.90 97
Analisi
Vivere nel territorio che si analizza è senza dubbio un vantaggio: camminare in quei luoghi, attraversarli, permette di notarne pregi e difetti; quello della piana fiorentina è, come abbiamo visto prima, un paesaggio complesso, dalle diverse sfaccettature, un mosaico di eventi urbani. Percorrere questi luoghi ha permesso di captare la presenza di svariate zone vuote, senza funzione, in disuso, indecise, difficili da classificare, insieme formano quello che Gilles Clément definisce “Frammento indeciso del giardino planetario, il Terzo paesaggio è costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo.”1 Sono spazi che si trovano ai margini, diversi nella forma, ma che costituiscono un territorio di rifugio per la diversità, “Diversità si riferisce al numero di specie viventi distinte tra gli animali, i vegetali e gli esseri semplici (batteri, virus ecc.), essendo il numero umano compreso in una sola e unica specie la cui diversità si esprime attraverso variazioni etniche e culturali.”2 Questo è stato il punto di partenza per l’analisi territoriale, si è andati, infatti, ad osservare il territorio e a mappare tutte quelle aree catalogabili come Terzo paesaggio, aree residue, incolte, non sfruttate. Ogni area è stata poi classificata in funzione di alcune caratteristiche divise in tre categorie: rapporto con la città, rapporto con gli spazi verdi, accessibilità dell’area, ognuna di queste è costituita da diverse voci. La classificazione è stata fatta attribuendo un punteggio da 0 a 5 ad ogni voce (vedi tabella p. 105), questi sono poi stati sommati ottenendo 1 Clément G. (2005), Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet srl, Macerata, p.11 2 Clément, 2005, p.14 99
il valore totale di ogni categoria. La “rappresentazione” del punteggio di ogni area è stata ottenuta nel seguente modo: ad ogni categoria è stato attribuito un colore primario digitale (blu per il rapporto con la città, verde per il rapporto con gli spazi verdi e rosso per l’accessibilità), il punteggio di ogni categoria è stato poi ricalcolato in funzione della scala RGB tramite una semplice proporzione che considera: il punteggio massimo attribuibile ad ogni categoria, il punteggio realmente ottenuto e il valore massimo nella scala RGB, ossia 255. In questo modo, se un’area ottenesse il punteggio massimo in tutte le categorie risulterebbe bianca, se avesse valore pari a 0, sarebbe nera. I punteggi sono stati quindi attribuiti considerando 0 come condizione peggiore e 5 come condizione ottimale; ad esempio, per la voce “inclusione nel tessuto urbano” si è attribuito 5 alle aree completamente immerse nello spazio antropico, 0 a quelle circondate dall’ambiente naturale. Per la “distanza da fonti di inquinamento” si è attribuito 0 alle aree situate in contesti industriali o confinanti con infrastrutture o strade particolarmente inquinate, 5 a quelle immerse nel verde. Per quanto riguarda la voce “pista ciclabile”, il punteggio è stato attribuito non solo in funzione della vicinanza ad esse, ma anche a seconda del livello di traffico della strada e della possibilità di inserirvene una. L’individuazione e classificazione delle aree del Terzo paesaggio ha fatto emergere un particolare ed interessante disegno sulla superficie del territorio preso in esame che ha permesso di procedere con la tipizzazione di seguito esposta. L’evoluzione delle tracce insediative sul territorio e i relativi spazi di risulta, insieme ai campi coltivati e alle aree naturali, ha prodotto tre tipologie di città: la Città solida, la Città di mezzo e la Città di frontiera. La Città solida si identifica nel nucleo più compatto del tessuto urbano, caratterizzato da un’espansione che nel corso del tempo è andata ad occupare sempre più territorio, senza però creare distacchi netti ed evidenti dalle costruzioni precedenti. È la città carica di tracce resistenti, un palinsesto fatto di memoria da preservare, un insieme di ricordi “[…] come potenzialità per la generazione di nuovi ordini della differenza, come stimolo al ricordo della storia degli spazi pubblici e del riconoscimento della 100
loro importanza nella costruzione del senso di appartenenza culturale, del rispetto della diversità, della vita delle comunità e del loro rapporto con i luoghi.”3 La Città solida corrisponde, quindi, alla Cosmopolis di Leonie Sandercock: “[…] sia gli individui sia le comunità hanno bisogno di individuare un qualche modo per legarsi alle più ampie narrative urbane. Alcuni pianificatori urbani oggi lavorano con artisti, antropologi, architetti del paesaggio, archeologi e comunità per fare proprio questo, nella storia pubblica e nell’arte pubblica, nelle rappresentazioni delle comunità e nei progetti del paesaggio urbano: tutti cercano un approccio alle nostre memorie urbane che sia socialmente culturalmente più inclusivo.”4 In pratica, Cosmopolis si concretizza in quel proliferare di sedimenti che si generano a partire dai nuclei storici e densi di Firenze, Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio, Calenzano e Prato, i suoi bordi sono netti in corrispondenza delle infrastrutture ferroviarie e stradali e, al contrario, risultano più frastagliati verso nord, quando risalgono i pendii di Monte Morello innestandosi tra oliveti e boschi. La Città di mezzo è il risultato del consumo sregolato di suolo: il tessuto urbano ha rotto e valicato i confini della città solida e si è espanso nello spazio rurale circostante senza seguire delle regole o dei piani prestabiliti, la sua forma rimane inconclusa, potenzialmente infinita, come le funzioni degli edifici che la compongono. “[…] possiamo quindi definire la città intermedia come un oggetto di natura processuale ancora in transizione, pervasivo e frammentato secondo dinamiche di densità incostanti e intermittenti, ovvero spazio intermedio per eccellenza, che accoglie, fra le sue pieghe, una pluralità di spazi interclusi.”5 Nel nostro contesto, la Città di mezzo è quella che si aggrappa alla Cosmopolis per espandersi verso i campi coltivati e le infrastrutture, intervalla il paesaggio urbano a quello agrario 3 Perrone C. (2010), DiverCity. Conoscenza, pianificazione, città delle differenze, FrancoAngeli, Milano, p.87 4 Sandercock L. (2004), Verso Cosmopolis. Città multiculturali e pianificazione urbana, Dedalo, Bari, p. 337 5 Rossi M., Zetti I. (2018), In mezzo alle cose. Città e spazi interclusi, Dida Press, Firenze, p.58 101
della Piana e accoglie prevalentemente industrie e capannoni per il commercio tra i quali si inframmezzano aree di terreno residuali, è il teatro del Terzo paesaggio. L’analisi del territorio oggetto di tesi e le varie ricerche effettuate hanno portato alla declinazione di una terza tipologia di città: la Città di frontiera. La bibliografia ha fornito una serie di scritti utili a definirne le caratteristiche: la frontiera si trova sul bordo della città, “Stephen Jay Gould attira la nostra attenzione su una distinzione importante tra le ecologie naturali dei due tipi di margine: il bordo e il confine. I bordi sono margini porosi, i confini no. Il confine è un margine dove una cosa finisce […]. Invece il bordo è un margine dove interagiscono gruppi diversi; per esempio, il punto dove il bagnasciuga di un lago incontra la terraferma è una zona di scambi attivi dove certi organismi ne trovano altri e li alimentano.”6 La frontiera è quindi “il luogo dove, rimuovendo le differenze delle diverse culture, queste si incontrano; la soglia attraverso la quale, se si vuole e se ne sente la necessità, si può entrare in contatto con esse.”7 Questo bordo è quello “…spazio intermedio, spesso, aggrovigliato da relazioni interculturali tanto conflittuali, quanto dialoganti, frontiera di mondi culturali paralleli, che diventa esso stesso sintesi culturale e che rende possibile la coesistenza e l’esistenza delle diverse culture, secondo rapporti di mutuo sostentamento e arricchimento.”8 La Città di frontiera, per la sua natura di bordo, occupa quelle lingue di terra dallo sviluppo prevalentemente longitudinale, poste al margine della Città solida, caratterizzate da funzioni miste (commerciali, industriali e residenziali), costellate da aree verdi, agricole e in disuso, potenzialmente sfruttabili come “luoghi di fecondazione reciproca tra culture.”9
6 Sennet R. (2018), Costruire e abitare. Etica per la città, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, p. 245 7 Zanini P. (1997), Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano, pp. 158-159 8 Perrone, 2010, p. 100 9 Balducci E. (1992), “La dialettica tra identità e alterità”, Testimonianze, Firenze, n. 334, febbraio 102
Le analisi appena esposte e lo studio della memoria precedentemente narrato hanno indirizzato il lavoro di tesi su una particolare area della piana fiorentina: il tratto di terra compresso a nord e a sud dalle due principali infrastrutture lineari, la ferrovia e l’autostrada, e delimitato ad est e ad ovest da Peretola e dall’area industriale fra Sesto Fiorentino e Calenzano. Questa particolare città di frontiera verrà analizzata, spiegata, disegnata nel capitolo Sotto al treno; adesso si passerà ad illustrare le altre analisi effettuate sulla piccola scala. Nel paragrafo Tracce si è parlato di tutti quei segni che caratterizzano la piana, memorie di epoche diverse che hanno contribuito a plasmarne l’aspetto. Osservare questo territorio dall’alto ha permesso di individuarne i caratteri che lo contraddistinguono, una serie di livelli e tracciati di diversa natura che si sovrappongono e si innestano per formare il disegno che tutti noi oggi conosciamo. Le aree verdi, sempre esistite, formano una superficie che accoglie tutti i segni lasciati dall’uomo; i boschi di Monte Morello a nord-est e la piana a sud; tra gli alberi e i sentieri del primo scorrono piccoli fiumi e torrenti che, una volta scesi a valle, assumono quell’aspetto regolare che ci riporta ai tempi della centuriazione. Il verde fa da cornice al disegno antropico: i poli cittadini si espandono gli uni verso gli altri, si toccano e si uniscono; Sesto Fiorentino, Calenzano e Campi Bisenzio formano gli anelli centrali della catena che collega Firenze e Prato. Infine, incastonate nel territorio, le due grandi infrastrutture lineari: l’autostrada e la ferrovia. L’A11 – in direzione nordovest-sud-est – tronca in due parti la piana; l’Autostrada del Sole, arrivando allo svincolo – al limite ovest della piana – cambia la sua direzione e si allinea con il segno impresso dalla colonizzazione romana. La ferrovia Firenze-Pistoia attraversa i centri abitati, scinde Sesto in due. La strada ferrata che arriva da sud delimita il lato orientale della piana. Dunque, da questo palinsesto emergono con forza due direzioni principali, le più antiche: quelle della centuriazione, ricalcate dalla ferrovia, dai fiumi e dall’A1. Nota stridente in questo paesaggio è quella della Firenze Mare, orientata in modo indipendente e in contrasto con ciò che la circonda. 103
L’analisi funzionale del disegno antropico ha ribadito il fenomeno esposto nelle pagine 82-83: i nuclei più antichi sono costituiti da edifici aventi funzione prevalentemente residenziale e commerciale, alla città solida e alle infrastrutture si aggrappa la città di mezzo, con edifici industriali, produttivi e commerciali per la grande distribuzione. La nuova caserma dei carabinieri, Peretola, l’Osmannoro, l’Ipercoop di Sesto Fiorentino, la Ginori, la discarica e l’assembramento industriale tra Calenzano, Campi e Prato attirano l’attenzione, sono in netta contrapposizione con il contesto che li circonda. La stessa analisi è stata poi eseguita ad una scala ridotta, si è andati a concentrare l’attenzione sull’area di frontiera di Sesto Fiorentino e sul suo intorno. Il centro storico è costituito da edifici a funzione mista, quella abitativa e quella commerciale, materializzando l’espressione “uscio e bottega”; spostandosi verso l’esterno, la funzione diventa prettamente residenziale. Nella città solida spicca la fabbrica della Ginori, simbolo dell’industria ceramica sestese. Sulla frontiera la scala dell’edificato si fa più grande, gli edifici residenziali sono nella stragrande maggioranza condomini, il resto sono industrie o edifici commerciali di estese dimensioni. La superficie agricola della piana è segnata dalla presenza di edifici nello svincolo autostradale o nei suoi pressi, qui troviamo anche San Giovanni Battista, la Chiesa dell’Autostrada di Michelucci. Di fianco a Peretola, spiccano gli edifici del Polo Scientifico che sembra quasi “buttato li”.
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Rapporto con la cittĂ Inclusione nel tessuto urbano Vicinanza a luoghi identitari Vicinanza a servizi culturali Vicinanza a servizi sportivi Vicinanza a luoghi di lavoro
Rapporto con gli spazi verdi BiodiversitĂ Orti urbani Parchi pubblici Distanza fonti di inquinamento
AccessibilitĂ dell'area Autobus Pista ciclabile Vicinanza a strade trafficate Morfologia del suolo
Tabella 3. Categorie in funzione delle quali sono state classificate le aree del Terzo paesaggio: servizi ecosistemici. 105
Tracciati p 106
principali 107
“La spiegazione della denominazione del paese è facile: si deve alla pietra miliare, la Sesta, dalla porta detta in seguito “a Faenza”. Il più antico toponimo della zona riguarda Padule e risale al 19 luglio 774. Al 775 è il ricordo di Colonnata. Nel 990 per la prima volta appare il nome Sesto quando “la Pieve di San Martino a Sesto è apertamente dichiarata” (Vannucchi, 1967, p. 12)
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Sesto Fiorentino
La storia di Sesto va di pari passo con quella della piana. Le più antiche tracce presenti sul territorio sestese risalgono ai tempi della società etrusca, si tratta delle tombe situate nel territorio di Quinto. Dopo 7 secoli, la centuriazione romana è andata a segnare il territorio pianeggiante a sud delle pendici di Monte Morello, strade come via del Termine, via dei Giunchi e via del Rimaggio ricalcano i segni delle centurie e “si intersecano ad angolo retto con strade e viottoli di campagna, argini e fossati.”1 L’area bonificata non viene, però, sottoposta a manutenzione, questo comporta la creazione di un ambiente paludoso e insalubre, e il conseguente abbandono del territorio. È grazie ai lavori di bonifica messi in atto dalla Repubblica Fiorentina che le condizioni del luogo migliorano, permettendo la crescita della popolazione. Durante l’alto Medioevo, le case che si sviluppano attorno alla Pieve di San Martino formano il villaggio che prende il nome di Sesto. Sei sono le miglia di distanza tra la Sesta pietra miliare e Firenze, misurate “lungo il percorso pedomontano della strada consolare Cassia”.2 La storia di questa città è strettamente collegata a quella di Firenze: nell’Alto Medioevo diventa parte del feudo dei Vescovi Fiorentini, diviene sede di una delle Leghe del Contado, la sua architettura risente dell’influenza del periodo rinascimentale. Ancora oggi, dal tessuto urbano emergono nuclei di antica 1 Mannini M. (1999), Alle origini di Sesto Fiorentino, in Lorenzo Fanti (a cura di), La Piana di Sesto Fiorentino. Valenze e prospettive, Idest s. r. l., Campi Bisenzio, p.57 2 Mannini, 1999, p.57 111
formazione, un particolare esempio è quello del popolo di Padule, inglobato, ormai, nella sregolata urbanizzazione che caratterizza lo spazio sotto al treno. Le vicende storiche sestesi vanno di pari passo a quelle esposte nel capitolo Tracce: nel 1700 Sesto conosce un grande impulso economico e industriale grazie alla fondazione delle Manifatture di Doccia. La costruzione delle fabbriche, situate alle pendici di Monte Morello, sul “territorio etrusco”, comporta un riassetto urbano di questa parte della città: viene, infatti, tracciato un viale prospettico che – come accade per le ville del pettine di Morello – collega visivamente l’impianto industriale alla strada principale, quella che collega Sesto a Firenze e continua verso Prato. Con l’installazione dell’infrastruttura ferroviaria che collega Firenze a Prato, il territorio sestese è stato diviso in due parti chiamate “sopra al treno” e “sotto al treno”; la prima è caratterizzata da un tessuto urbano più antico, la seconda è stata protagonista dell’espansione urbana della seconda metà del XX secolo. Le due parti sono distinte anche dalle tracce storiche che vi si sovrappongono: al di sopra emergono i segni della territorializzazione etrusca e delle epoche seguenti, l’altra traccia più evidente è probabilmente quella del pettine di Morello; quello sotto al treno è lo spazio segnato dalla centuriazione romana. Nel prossimo capitolo verranno esposte le analisi storiche effettuate sul territorio della piana fiorentina; la periodizzazione dei sedimi edilizi disegna chiaramente le tendenze territorializzanti che hanno caratterizzato Sesto Fiorentino e la piana dalla metà del 1800 in poi: il territorio sotto al treno è stato investito da una continua edificazione di industrie, capannoni e grandi edifici residenziali; al di sopra della ferrovia, invece, i nuovi sedimi sono tendenzialmente minuti e di funzione civile. La territorializzazione attuata dagli anni ’50 in poi segna in modo ancora più netto le differenze tra lo spazio sopra al treno e quello al di sotto.
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SOTTO AL TRENO
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“Ma la cittĂ non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano della scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.â€? (Calvino, 2016, p. 11)
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Spazio di frontiera
L’analisi delle Tre città ha indotto questo studio a concentrarsi sulla città di frontiera racchiusa all’interno della piana; i sestesi chiamano questo spazio “sotto al treno”. Ancorandosi agli argomenti precedentemente affrontati, risulta evidente che questo spazio di frontiera, bordo poroso posto al margine, ricco di aree del Terzo paesaggio, luogo di incontro delle diversità, materializzi il territorio sul quale disegnare il mosaico delle opacità. Ancora una volta, il territorio è stato analizzato partendo dalla sua memoria, si sono quindi effettuate due indagini storiche: la periodizzazione dei sedimi edilizi e il disegno dei palinsesti. Il primo studio guarda il contesto storico ad una grande scala, consiste nel mappare i manufatti a seconda dell’anno in cui compaiono nelle foto aeree scattate nei vari decenni. Ne risulta una mappa che mostra l’espansione tentacolare dei nuclei storici verso la piana nel corso del tempo: si possono facilmente distinguere i centri di Firenze e Prato, e anche un piccolo assembramento di case a Sesto Fiorentino, nel tratto centrale dell’attuale Via Gramsci; questa mappatura è stata realizzata tramite le carte del catasto storico regionale risalenti al 1850 circa. Le successive espansioni sono state rappresentate prendendo in considerazione le mappe del 1954 e del ‘78, la città si estende all’esterno dei nuclei storici, ma vi rimane aggrappata, segue il disegno urbano precedentemente impostato. Visibili a partire dal 1954 sul territorio sestese, sono due grandi industrie ancora oggi esistenti: la nuova fabbrica della Ginori, sopra al treno, 119
nei pressi della stazione, e il Cartonificio Fiorentino, situato sotto al treno, in posizione diametralmente opposta rispetto alla prima. Successivamente il territorio è stato interessato da un proliferare di estesi corpi industriali, questi, costruiti prevalentemente all’Osmannoro, Calenzano e Campi, risultano visibili nelle ortofoto del 1978. Si può quindi dire che la Città di mezzo inizia ad essere edificata negli anni ’60-’70, da quel momento continua a crescere e ad espandersi andando a colmare i vuoti che dividevano i nuclei storici, raggiungendo il punto di saturazione nel primo decennio del 2000; la foto aerea del 2012 mostra come Sesto, Calenzano e Campi si sviluppino una di fianco all’altra senza soluzione di continuità. Puntando lo sguardo sul territorio sestese, risulta evidente il diverso disegno urbano nelle due parti della città divise dal treno: sopra, un’edificazione minuta e regolare, facilmente identificabile come civile, sotto, un consumo sregolato di suolo messo in atto tramite la costruzione di grandi edifici residenziali, industriali e universitari (il polo scientifico). Questa mappa dimostra come il territorio costituisca “l’unità di misura dei fenomeni umani.”1 Sono gli abitanti, nel corso degli anni, a fare, progettare, disegnare, costruire, demolire e colorare il territorio, lo rendono un palinsesto. “Il territorio, sovraccarico com’è di tracce e di letture passate, assomiglia piuttosto ad un palinsesto.”2 “Palinsèsto s. m. [dal lat. palimpsestus, gr. παλίμψηστος «raschiato di nuovo», comp. di πάλιν «di nuovo» e ψάω «raschiare»]. – Manoscritto antico, su papiro o, più frequentemente, su pergamena, il cui testo originario è stato cancellato mediante lavaggio e raschiatura e sostituito con altro d isposto nello stesso senso (in genere nelle interlinee del primo), o in senso trasversale al primo; tale consuetudine, documentata già in età classica e diffusasi più largamente, soprattutto per la rarità della pergamena, in età medievale nei grandi centri scrittorî (per es., a Bobbio), è stata causa della perdita di opere di grande valore, anche se la lettura, almeno parziale, della scrittura sottostante 1 Corboz A. (1985), Il territorio come palinsesto, in “Casabella”, n. 516, p. 23 2 Corboz, 1985, p. 27 120
dei palinsesti è stata resa possibile in passato mediante particolari reagenti chimici, e facilitata oggi dal ricorso ai raggi ultravioletti, metodo più efficace e innocuo.”3 Consapevoli della quantità di segni e tracce racchiusi nel territorio sotto al treno, si è andati a studiare questo spazio come un palinsesto, una pergamena dove il disegno è stato scritto, cancellato e sovrascritto più volte. In pratica, questa operazione è stata effettuata tramite il ricalco di alcune ortofoto che abbiamo a disposizione (1954, 1978, 1996 e 2013): oltre a tutti gli edifici presenti sulla frontiera e sul territorio limitrofo, si sono considerati i segni del territorio rurale e agricolo della piana. Sono state ridisegnate tutte le scoline dei campi coltivati presenti nel 1954; ancora una volta, emerge il disegno dell’antica centuriazione romana, assecondato dalle strade e dalla suddivisione delle aree agricole. Nel 1954, l’area a sud della ferrovia era, con buona approssimazione, tutta campagna, la sua superficie, poi, è stata mangiata, inglobata e coperta dal tessuto urbano. Nella mappa, le aree più scure rappresentano gli spazi incontaminati che ancora oggi resistono all’edificazione, quelle più chiare sono coperte dai sedimi edilizi che risultano più scuri se sono presenti da più tempo. Ai lati est ed ovest, risaltano gli spazi occupati dall’aeroporto e dallo svincolo autostradale; l’area a ovest e a nord-ovest di Peretola è più chiara perché le foto aree non riportano l’immagine di quella parte di terreno che quindi non è stato possibile mappare. Leggere i processi di formazione del territorio consente di individuare l’identità del luogo, questa è necessaria per produrre i nuovi atti territorializzanti che andranno ad arricchire il palinsesto sul quale agiscono. Guardare alla storia permette di conoscere quelle “buone pratiche riproduttive che forniscono regole (costruttive, insediative, ambientali, relazionali) per proseguire l’opera di territorializzazione secondo criteri e forme innovative […].”4
3 Treccani Enciclopedia Online 4 Magnaghi A. (2000), Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri Editore, Torino 121
Palinsesto di Archimede. Sui fogli di pergamena, si trovano le antiche opere di Archimede sovrascritte da preghiere. 122
Frammento del palinsesto di frontiera. sono ben visibili la Fabbrica Ginori e il Cartonificio Fiorentino. 123
“In quanto territorio d’accoglienza di una diversità bandita da ogni altro luogo, il Terzo paesaggio include altri spazi, oltre ai residui determinati dalla pianificazione, alle sodaglie agricole e ai siti industriali abbandonati; bisogna aggiungervi i terreni incolti, gli spazi inaccessibili, le riserve etc., tutti i luoghi esenti dall’intervento umano.” (Clément, 2005, p. 69)
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Terzo paesaggio
L’analisi delle aree intercluse e il disegno delle Tre città della piana sono state utili per individuare lo spazio di frontiera sestese sul quale si sussegue una serie di aree in disuso, senza funzione, abbandonate. L’analisi successiva è andata a mettere a fuoco tutti i frammenti del Terzo paesaggio: oltre all’attribuzione del punteggio per i servizi ecosistemici (vedi paragrafo Analisi), se ne sono studiati i margini e la localizzazione. “1. La rappresentazione del Terzo paesaggio dipende dalla possibilità di stabilirne i limiti geografici. 2. I limiti diventano visibili alle frontiere tra i residui e i territori sottoposti a sfruttamento […].”1 Sono state classificate tre tipologie di margine: permeabile, semipermeabile e impermeabile; il primo tipo non è costituito da barriere, può materializzarsi in un semplice cambio di pavimentazione o in un gradino, l’accesso a quest’area non è impedito da niente. Un margine semipermeabile è costituito da un elemento che segna il terreno e che può essere valicato - come ad esempio un fosso non troppo largo, facilmente oltrepassabile – oppure, divide l’area in disuso da un lotto privato al quale possono accedere solo gli autorizzati, si tratta più che altro di un “limite giuridico”. Se il confine è costituito da elementi naturali o artificiali che impediscono il passaggio ma non la vista, si parla comunque di confine semipermeabile. L’ultima tipologia separa il Terzo paesaggio dal suo intorno tramite vere e proprie barriere – muri – che oltre a impedire 1 Clément, 2005, p. 49 127
il passaggio, bloccano anche lo sguardo; se l’area presa in esame è circondata da altre zone inaccessibili, il suo margine è classificato come impermeabile. L’analisi è stata riportata nelle pagine seguenti, per agevolarne la rappresentazione, la frontiera è stata divisa in più sezioni, per ognuna di queste viene riportato il disegno tecnico e l’ortofoto per permettere di comprenderne al meglio la natura. Per ogni area vengono inoltre indicati: localizzazione, tipologia, uso del suolo – ricavato dalla mappa UCS 2016 disponibile sul sito della Regione Toscana – e superficie. Sono state individuate quattro categorie di spazi: 1. Residuo: si tratta di quelle aree che restano, che avanzano, che non sono state considerate dalla pianificazione territoriale, hanno una superficie estesa e confinano con funzioni progettate. 2. Abbandono: sono le aree che un tempo avevano una funzione, ora sono semplicemente abbandonate, non utilizzate, lasciate a sé stesse. 3. Sospensione: comprende le aree che si trovano nel limbo della pianificazione, senza funzione, inglobate nel tessuto urbano ma contemporaneamente estranee al loro intorno. 4. Resistenza: comprende tutte quelle superfici circondate e compresse dal territorio pianificato, resistono alle trasformazioni. Il triangolo rappresenta l’incidenza di ogni categoria di servizio ecosistemico, più il triangolo colorato è esteso, più il punteggio dell’area è alto.
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Legenda
Margine permeabile Margine semipermeabile Margine impermeabile
Triangolo dei servizi ecosistemici
Accessibilità dell’area
Rapporto con gli spazi verdi
Rapporto con la cittĂ
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AREA 01 Localizzazione: Tra Via Berlinguer e la ferrovia Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.590 ha AREA 02 Localizzazione: Via Berlinguer Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.820 ha AREA 03 Localizzazione: Viale Togliatti Tipologia: resistenza Margini: semipermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.250 ha AREA 04 Localizzazione: Viale Togliatti Tipologia: resistenza Margini: semipermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.888 ha AREA 05 Localizzazione: Viale Togliatti Tipologia: resistenza Margini: semipermeabili Uso del suolo: area verde urbana Superficie: 0.305 ha AREA 06 Localizzazione: Via Olmi Tipologia: spazio residuo Margini: impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 1.079 ha 132
AREA 07 Localizzazione: Via Olmi Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.124 ha AREA 08 Localizzazione: Via Olmi Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.048 ha AREA 09 Localizzazione: Via di Focognano Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.211 ha AREA 10 Localizzazione: Via di Focognano Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: prato staible Superficie: 0.116 ha AREA 11 Localizzazione: Via del Risorgimento Tipologia: abbandono Margini: impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.460 ha
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AREA 12 Localizzazione: Via Sarri Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 1.212 ha AREA 13 Localizzazione: Via Pozzi Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.391 ha AREA 14 Localizzazione: Via Buozzi Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili e impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 1.328 ha
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AREA 15 Localizzazione: Via della Querciola Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: area verde urbana Superficie: 1.185 ha AREA 16 Localizzazione: Viale Ariosto Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 1.265 ha AREA 17 Localizzazione: Viale Ariosto Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: area verde urbana Superficie: 1.348 ha AREA 18 Localizzazione: Via del Sordello Tipologia: resistenza Margini: impermeabili Uso del suolo: area verde urbana Superficie: 1.623 ha AREA 19 Localizzazione: Via Scardassieri Tipologia: sospensione Margini: impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 2.385 ha AREA 20 Localizzazione: Via Battilana Tipologia: spazio residuo Margini: impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.526 ha 142
AREA 21 Localizzazione: Via Battilana Tipologia: spazio residuo Margini: impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.806 ha AREA 22 Localizzazione: Via Scardassieri Tipologia: spazio residuo Margini: permeabili e impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.196 ha
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AREA 23 Localizzazione: Via Lazzerini Tipologia: spazio residuo Margini: impermeabili Uso del suolo: area verde urbana Superficie: 0.533 ha AREA 24 Localizzazione: Viale della Pace Tipologia: spazio residuo Margini: permeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.359 ha AREA 25 Localizzazione: Viale dei Mille Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.521 ha AREA 26 Localizzazione: Viale dei Mille Tipologia: spazio residuo Margini: semipermeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.359 ha AREA 27 Localizzazione: Via Pasolini Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.478 ha AREA 28 Localizzazione: Via Pasolini Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: prato stabile Superficie: 0.411 ha 148
AREA 29 Localizzazione: Viale della Pace Tipologia: spazio residuo Margini: permeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 0.169 ha AREA 30 Localizzazione: Via Pasolini Tipologia: sospensione Margini: impermeabili Uso del suolo: seminativo Superficie: 2.717 ha AREA 31 Localizzazione: Via Pasolini Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: prati stabili Superficie: 2.179 ha AREA 32 Localizzazione: Viale della Pace Tipologia: spazio residuo Margini: permeabili Uso del suolo: area verde urbana Superficie: 0.643 ha AREA 33 Localizzazione: Via Pasolini Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: prati stabili Superficie: 0.893 ha AREA 34 Localizzazione: Via Pasolini Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: prati stabili Superficie: 1.767 ha 149
AREA 35 Localizzazione: Via Pasolini Tipologia: sospensione Margini: permeabili Uso del suolo: prati stabili Superficie: 1.957 ha
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Gli spazi residui sono spazi vuoti che “divengono le figure generatrici del nuovo ordine territoriale e urbano. Il disegno dei “vuoti” […] reinterpretati come sistema di ecosistemi ordina e restituisce forma e proporzioni virtuose al disegno dei “pieni” (lo spazio costruito, le città, le infrastrutture, ecc.).”1 Basandosi su ciò che Magnaghi afferma ne Il progetto locale, è stato realizzato il disegno dei vuoti urbani: oltre a quelle del Terzo paesaggio, si sono individuate tutte le aree verdi presenti su questa fascia di margine; così facendo, si è andati a disegnare una cintura verde comprendente anche parchi giochi, aree agricole e spazi verdi urbani, elementi che già rappresentano dei potenziali poli attrattivi. In questo modo, si è andati a restituire “forza progettuale e morfogenetica agli spazi aperti – utile alla – costruzione di scenari strategici di trasformazione [...]”.2
1 Magnaghi, 2000, p. 188-189 2 Magnaghi, 2000, p. 190 151
“Con il termine “percorso” si indicano allo stesso tempo l’atto dell’attraversamento (il percorso come azione del camminare) la linea che attraversa lo spazio (il percorso come oggetto architettonico) e il racconto dello spazio attraversato (il percorso come struttura narrativa).” (Careri, 2006, pp. 7-8)
Camminare
La conoscenza del luogo si fa soprattutto sul campo, nello spazio, nella città. Studiare la frontiera ha condotto chi scrive a vedere questo bordo sotto un diverso punto di vista, non è solo uno spazio che si attraversa, è un limite bidimensionale ricco di elementi e di storia. “[…]il camminare si rivela utile all’architettura come strumento conoscitivo e progettuale, come mezzo per riconoscere all’interno del caos delle periferie una geografia e come mezzo attraverso cui inventare nuove modalità per intervenire negli spazi pubblici metropolitani, per investigarli, per renderli visibili.”1 Si è deciso di andare ad investigare ulteriormente lo spazio sotto al treno: l’analisi del camminare è consistita, appunto, nel vagare nel territorio della piana. Il percorso è iniziato dalle colline sopra Castello, un ambiente immerso nella natura rurale, li si è circondati da terrazzamenti, oliveti e boschi. Dalla Castellina è possibile vedere la parte orientale del territorio; la natura, gli alberi e il cielo inquadrano lo spazio urbano della piana, fanno da cornice ad elementi che risaltano nel panorama, come il Tribunale e l’aeroporto. Le pendici di Monte Morello avanzano sul territorio pianeggiante creando delle rientranze all’interno delle quali si estende la città. Continuando il cammino sulle strade pedomontane, immerse tra gli oliveti, si è arrivati a Querceto alto, da qui lo sguardo si perde su tutta la piana, le colline fanno da sfondo al nucleo storico di Firenze e al tessuto urbano che da li si estende verso Sesto e Calenzano; la “torre” della Ginori svetta in mezzo agli 1 Careri, 2006, pp. 8-9 154
altri edifici, il Parco della piana si inframmezza all’edificato. Scesi a valle, si è giunti al Parco del Neto, da li si è passati sotto al treno, sia materialmente – attraversando il sottopassaggio – che metaforicamente arrivando nello spazio di frontiera; a questo punto, il percorso fotografico si è concentrato sul rapporto sopra al treno/sotto al treno. Si è camminato seguendo la “traiettoria” principale che passa da viale Togliatti, viale Ariosto e via Pasolini, si sono catturate le immagini che si manifestano ai lati di queste strade. Di seguito si trova il “cammino fotografico”: la mappa indica il percorso effettuato e i punti da cui si sono scattate le fotografie ad ognuna delle quali è stato attribuito un numero riscontrabile sul disegno.
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otografico 157
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SOPRA SOTTO AL TRENO
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Trama di relazioni
Lo studio dei palinsesti – “accumulo storico di caratteri territorializzanti”1 – è andato di pari passo con quella che Magnaghi definisce “descrizione identitaria dei luoghi”2, i milieu che Giuseppe Dematteis delinea come “un insieme permanente (“dotazione”) di caratteri socioculturali sedimentatisi in una certa area geografica attraverso l’evoluzione storica di rapporti intersoggettivi, a loro volta in relazione con le modalità di utilizzo degli ecosistemi naturali locali.”3 La mappa dei palinsesti sulla frontiera mostra una crescita urbana sregolata; sopra al treno, al contrario, il tessuto insediativo si è evoluto in maniera regolare, generando un insieme denso e ben pianificato. A nord, la città si arrampica sui fianchi di Monte Morello, si spinge verso i terrazzamenti e i boschi, ambiente urbano, rurale e naturale coesistono in armonia, i confini tra di essi si dissolvono tra gli alberi e i filari; il disegno ricalca quello dell’insediamento etrusco. Sotto al treno il bordo è netto, la frontiera è delimitata da canali e strade a grande percorrenza che separano l’area di studio dai campi coltivati, siamo nel mondo della centuriazione romana. Il milieu sestese si pone in parallelo a questo sistema binario: sopra al treno la città vissuta è suddivisa in quartieri, ognuno dei quali gira attorno a dei poli – le chiese, i negozi di piccola distribuzione, i parchi pubblici, gli impianti sportivi – al di sotto, 1 Magnaghi, 2000, p. 75 2 Magnaghi, 2000, p. 89 3 Dematteis G. (1995), Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Angeli, Milano, p. 101 197
il sistema è unitario, esiste un solo polo, una sola centralità, il parco della Zambra, non sufficiente per una zona così estesa. Quinto, Camporella, Colonnata, Querceto, il Campo Sportivo, Chiesa Nuova, il Neto, il Tondo, il centro, sono alcune delle centralità che – sopra al treno – formano una “trama di relazioni”, tutte separate ma, allo stesso tempo, concatenate. I toponimi di questi quartieri derivano tutti da una peculiarità del luogo, da una caratteristica che lo contraddistingue dal resto della città; Giulio Vannucchi nello Stradario storicoamministrativo di Sesto Fiorentino, descrive l’origine dei nomi delle centralità: “Campo Sportivo – dal Campo Sportivo Comunale Castellina – dalla contigua località di Catello da cui essa forse prende il nome Centro – perché questa zona è ritenuta oggi la parte centrale di Sesto Cercina – dall’antichissimo toponimo da personale etrusco “Hersina” Chiesa Nuova – dalla costruzione nel popolo di S. Martino a Sesto della nuova chiesa di S. Maria Immacolata, avvenuta intorno al 1930 Colonnata – dall’antico toponimo “colonata” cioè colonia romana di notevole importanza Neto – da “alneto” cioè ontaneto, località che una volta doveva essere ricca di tali alberi che crescono in luogo umico e dove l’acqua corre come è appunto in questo caso Osmannoro – fino a circa un secolo fa detto “Ormannoro”, forse per l’antica famiglia degli Ormannori che in detto luogo aveva possessi consistenti Padule – dall’antico toponimo a ricordo della località acquitrinosa in tempi ormai molto lontani e ricordata nel 774 Panicaglia – toponimo che ci dice come questa località anticamente allignassero quelle pianticelle chiamate dal volgo “panico” Pantano – dalla località paludosa, ricordata fino al XII secolo Querceto – dalla località antichissima così chiamata perché una volta ricoperta da estesi boschi di “querce” e ricordata sino dal IX sec. Quinto – dall’omonima località peraltro antichissima e che trovasi al quinto miglio da Firenze 198
Rimaggio – dall’idronomo di origine latina significante “Rio maggiore” cioè il corso che ha maggiore portata di acqua Stazione FF. SS. Perché in detta zona trovasi la stazione delle ferrovie dello Stato Tondo – dall’ippodromo che esisteva nello scorso secolo Zambra – dal pre-latino “Zamera.”4 Da questa serie di dualità che caratterizzano il territorio sestese discende il progetto urbano per la frontiera, una trama di relazioni, una costellazione di centralità che verrà esposta nel prossimo capitolo.
4 Vannucchi Giulio (1967), Stradario storico-amministrativo di Sesto Fiorentino, Sesto Miglio Club, Sesto Fiorentino, pp. 13-15 199
Rapporto verde-urbano, sistema pedomontano 200
Rapporto verde-urbano, sistema centuriale 201
“Si tratta di attivare un processo di pianificazione in cui il territorio non è più considerato come un foglio bianco […], ma come un luogo denso di storia, di segni, di valori da trasformare in risorse per la produzione di ricchezza durevole e da trasmettere arricchito alle generazioni future.” (Magnaghi, 2000, p. 137)
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PROGETTARE LA FRONTIERA
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“Lo spazio pubblico, caratterizzato da convivialità, religiosità, politica, prodotto dallo sviluppo della società locale, connette e integra le attività di vicinato al sistema dei servizi rari diffusi e connessi a rete che costituiscono le nuove centralità e i nuovi luoghi dello scambio delle identità collettive urbane.” (Magnaghi, 2000, p. 252
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Costellazione di centralità
Ci troviamo sotto al treno, nella città di frontiera, territorio sul quale si susseguono, si intrecciano, si incontrano e si scontrano edificato e spazi vuoti. La ferrovia separa due realtà molto differenti: al di sopra, una trama di relazioni instauratasi nel corso del tempo, ogni quartiere rappresenta una centralità che gira attorno ad un polo attrattivo (uno spazio di verde pubblico, una strada con negozi, una piazza ecc.), al di sotto, una striscia di terra continua accoglie prevalentemente edifici di grandi dimensioni, introversi, che non si relazionano con il loro intorno. La città di frontiera è porosa, è costellata da vuoti, Espuelas scrive “[…] il vuoto è considerato come la discontinuità attraverso un mezzo omogeneo. […] in ambito urbano […] è diversificato, aperto e collettivo. Si tratta dello spazio pubblico concepito come vuoto urbano nel quale si producono movimento e variazione, dove vengono esplicitati il passare del tempo e dell’azione umana.”1 Per questo studio, come si è visto nel capitolo precedente, si è andati ad individuare tutte quelle aree vuote che si configurano come frammenti del Terzo paesaggio, potenziali catalizzatori di centralità. Il progetto urbano consiste proprio in questo: assegnare un ruolo ad ognuna di queste aree in disuso e renderle dei poli attrattivi per formare una costellazione di centralità anche nella zona di frontiera.
1 Espuelas F. (2004), Il Vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura, Christian Marinotti Edizioni, Milano, p. 43 209
Il disegno dei vuoti urbani ha posto le basi per la strategia progettuale attuabile tramite 5 azioni: 1. Nessun intervento: le aree che hanno già una funzione definita non necessitano di alcuna modifica, sono spazi verdi già gestiti e con una funzione ben precisa. 2. Terzo paesaggio: le aree in disuso sono quelle più ricche di biodiversità che ha potuto svilupparsi nel corso del tempo in maniera autonoma; volontà progettuale è quella di preservare questa situazione, permettere a questi spazi verdi di arricchirsi di fauna e flora senza l’intervento dell’uomo, sono “intoccabili” sia per l’amministrazione che per i privati. 3. Rigenerazione funzionale: si tratta di andare ad attribuire una funzione alle aree del Terzo paesaggio, in modo da renderle nuovamente in grado di essere utili e generare ricchezza sia materiale che non. 4. Giardino urbano: comprende gli spazi che verranno trasformati in giardini pubblici, luoghi di incontro, di gioco e dello stare insieme. 5. Nuova edificazione: su queste aree verranno progettati i luoghi dell’accoglienza e del vivere collettivo – il progetto verrà esposto nel prossimo capitolo. La strategia ha fornito uno schema sul quale basarsi per il progetto degli spazi verdi che sono stati suddivisi in 4 categorie: vegetazione spontanea, uso agricolo, prato e giardino urbano. La prima categoria comprende tutte quelle aree che fanno parte del giardino del Terzo paesaggio, incubatrici di biodiversità. Le aree più a sud, quelle a ridosso della Perfetti Ricasoli sono prevalentemente costituite da campi coltivati, sono funzionalmente connesse agli spazi “al di sotto” della strada. Sui prati la vegetazione può svilupparsi in maniera controllata, richiedono poca manutenzione e sono accessibili a chiunque. I giardini urbani costituiscono i poli verdi delle centralità, nelle zone sprovviste di aree attrezzate, sono stati progettati dei piccoli interventi: installazione di strade pavimentate, panchine e attrezzature per il gioco, oltre alla piantumazione di alberi per creare zone d’ombra.
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Il progetto urbano ha il fine di rendere lo spazio di frontiera un teatro dell’accoglienza, una città aperta, nel senso sennettiano del termine: una città dai confini porosi, in cui i cittadini si possono mescolare, perché, come scrisse Aristotele “una città è composta da tipi diversi di uomini; le persone simili non possono dare vita ad una città.”2
2 Aristotele (IV sec. a. C.), Politica 211
“Partecipare alla progettazione delle proprie case era costruire un destino comune in uno spazio condiviso.� (Paba, 1998, p. 94)
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UNA CASA PER TUTTI
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“[…] gli architetti contemporanei dovrebbero fare di tutto perché l’architettura dei prossimi anni sia sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa.” (De Carlo, 2013, p. 39)
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Costruzione partecipata
Nel paragrafo Relazione e alloggio sociale si è detto della volontà di progettare un luogo in cui parlare la lingua “barocca”, dove attuare le pratiche di opacità e di condivisione, nel quale convivere tramite un accordo delle differenze e che sia un approdo sicuro per i soggetti fragili. Le analisi svolte sul territorio della piana fiorentina hanno permesso di individuare la città di frontiera, il margine sul quale avvengono gli incontri tra le differenze, un bordo poroso, spazio di accoglienza sul quale disegnare un mosaico di culture e stili di vita. L’individuazione degli spazi residui ha condotto al progetto di una “catena verde” i cui anelli sono quegli spazi che rappresentano dei poli attrattivi per la comunità, luoghi dello stare insieme, generatori di una costellazione di centralità. Tra i frammenti del Terzo paesaggio, sono state individuate due aree contigue – quelle che nell’analisi sono indicate come le aree numero 16 e 17 – sulle quali andare a progettare i luoghi del vivere collettivo. I due lotti si trovano in una posizione strategica all’interno dell’area di frontiera: localizzati vicino alla stazione ferroviaria, affacciano sia su una strada abbastanza trafficata percorsa da mezzi pubblici e dotata di pista ciclabile, che su strade più tranquille, utilizzate solo da coloro che si recano ai condomini vicini. Si è già detto che l’obiettivo a cui la tesi guarda è quello di progettare un luogo del vivere per i soggetti fragili e per gli esclusi, attraverso l’ideazione di un alloggio sociale e di spazi per il vivere collettivo. Spesso, l’alloggio sociale viene generato tramite iniziative dal basso, cioè, grazie alla volontà dei futuri abitanti di progettarlo e costruirlo; è in questo frangete che la progettazione partecipata e l’autocostruzione si incontrano. 219
Di seguito si vanno ad esporre un caso emblematico di progettazione partecipata per poi andare a parlare dell’autocostruzione. Molti architetti e urbanisti – tra i tanti vedi Paba e De Carlo – affermano che la partecipazione della popolazione alla progettazione di case e città sia fondamentale. L’architetto genovese, ne L’architettura della partecipazione, parla delle rivolte urbane scoppiate negli Stati Uniti per contrastare l’imposizione dall’alto di interventi urbani (siamo negli anni ’70) e che vedono “schiere di nuovi tecnici che mettono la loro competenza al servizio delle comunità e contro il potere. – continua affermando – In questo contesto si è formato l’advocacy planning, come forma di intervento urbanistico di base, la cui dimensione è l’unità di vicinato generalmente costituita da minoranze povere e segregate che vengono assistite da gruppi di specialisti volontari, competenti di varie discipline attenti alla trasformazione e gestione del territorio. […] tendenze più radicali che operano sempre più con la comunità invece che per la comunità.”1 Secondo De Carlo l’urbanista deve essere colui che “stimola e coordina un processo di partecipazione popolare attraverso il quale la classe popolare assume un ruolo autentico e determinante nel decidere l’uso e la configurazione del territorio.”2 Il più famoso esempio di progettazione partecipata attuata da De Carlo è sicuramente quella del Viallaggio Matteotti a Terni, un quartiere residenziale per gli operari delle Acciaierie della città umbra. Dopo aver ricevuto l’incarico di risanare e ampliare il quartiere costruito in epoca fascista ridotto ormai in pessime condizioni, l’architetto organizza una mostra in cui espone ai cittadini dei progetti già eseguiti, queste rappresentano delle occasioni di confronto tra i possibili futuri utenti e i conduttori dell’operazione. Il passo successivo è quello di andare ad interpretare i bisogni reali sui quali basarsi per il progetto di intervento sul quartiere e per quello delle abitazioni. Una volta scelti definitivamente i futuri utenti, è stata nuovamente stilata una classifica dei bisogni che ha permesso di modificare il 1 De Carlo G. (2013), L’architettura della partecipazione, Quodlibet, Macerata, pp. 82-83 2 De Carlo, 2013, p. 88 220
progetto delle abitazioni a seconda delle varie utenze. A livello pratico, ciò che ha reso possibile la variazione delle cellule abitative nel corso della costruzione del Villaggio, è stata la sua composizione architettonica: il progetto è costituito da una griglia che forma un reticolo spaziale all’interno del quale inserire le abitazioni e gli spazi esterni. A conclusione dell’esperienza, De Carlo scrive “Cominciando dal gruppo di famiglie operaie per le quali sono stati costruiti gli alloggi, debbo dire che la loro partecipazione è stata fondamentale e ha avuto una decisiva incidenza sul progetto. Questa incidenza non la si rileva negli elementi linguistici – che restano, come è ovvio, dell’architetto – ma nel supporto sul quale è stata articolata l’organizzazione dello spazio. Se non si fosse avuto con loro un dialogo costante, alcuni spunti dettati da bisogni reali o da inclinazioni culturali [...] non sarebbero emerse.”3 “[...] forti e diffuse sono le pratiche sociali auto-organizzate che, nella totale mancanza o nell’inefficacia ormai consolidata delle politiche pubbliche, affermano il diritto di conquistare o autoprodurre il proprio ambiente di vita, come diritto di ogni persona alla sopravvivenza, da qualunque parte del mondo provenga e ovunque voglia dirigere il proprio progetto di vita.”4 Giancarlo Paba riassume così in maniera molto efficace il concetto dell’autocostruzione: nasce dall’iniziativa dal basso, dal desiderio degli “esclusi” di costruirsi, appunto, uno dei beni primari per eccellenza, la casa, realizzandola in base alle proprie esigenze e bisogni. In Italia, “Due milioni di alloggi costruiti solo nel corso degli anni ’70 [...] È il boom dell’autocostruzione.”5 L’autocostruzione, che si colloca nello “spazio legale” di tutte quelle azioni ed energie che alimentano l’abusivismo, viene inserita nelle pratiche permesse dal Piano. Si possono individuare due tipi di autocostruzione: il primo filone è accomunato dalla “rivendicazione, da parte degli abitanti, del diritto a una gestione diretta e autonoma 3 De Carlo, 2013, p. 116 4 Paba G. (2011), Architettura e povertà, in Marcetti C, Paba G., Pecoriello A. L., Solimano N. (a cura di), Housing Frontline. Inclusione sociale e processi di autocostruzione e autorecupero, Firenze University Press, Firenze 5 Ciuffini F. (1982), L’ultimo boom, “Urbanistica Informazioni” nn. 6364, dossier pp. 104, 105 221
della risposta al bisogno di casa, in uno scenario di crisi del mercato degli alloggi economici e di difficoltà da parte del settore pubblico di fronte a tale emergenza.”6 Nei fatti, questo atteggiamento si traduce in una serie di progetti minoritari, non incisivi sulla politica nazionale. “Nel secondo filone incontriamo una famiglia di esperti di tecnologie costruttive, generalmente vicini ai contesti produttivi dei paesi occidentali più avanzati, che si propongono di offrire un sostegno tecnico-manualistico all’autocostruzione, secondo modelli e supporti industrializzati anche molto flessibili, comunque codificati e normati in termini di costi, di criteri di montaggio e di qualità prestazionali.”7 La collaborazione fra progettisti e futuri fruitori comporta la scissione del sistema costruttivo: da una parte quello strutturale messo a punto dal professionista, la struttura permanente, dall’altra, tutto ciò che va intorno allo scheletro, a discrezione dell’utente che può così soddisfare le proprie esigenze. Massimiliano Bertoni e Andrea Cantini nel loro libro Autocostruzione associata ed assistita in Italia, forniscono le definizioni di tutti i termini che ruotano attorno a questo mondo; nel contesto di questa tesi, si reputa utile riportare alcune di queste definizioni. Autocostruzione parziale: “Gli autocostruttori realizzano gran parte del lavoro (chiusure esterne, coperture, e opere interne dell’alloggio) delegando la parte più impegnativa, rischiosa o di maggiore responsabilità ad un’impresa esterna (scavi, piano interrato, struttura, reti della sistemazione esterna).”8 Autocostruzione associata: è generalmente promossa da gruppi di utenti riuniti in cooperativa, forma di associazione che fornisce un adeguato supporto organizzativo-burocratico. Autocostruzione assistita: “Un gruppo di varia natura si impegna a fornire al gruppo di autocostruttori tutti, od in parte, quei supporti organizzativo-burocratici [...].” 9 Autocostruzione agevolata: prevede l’impiego di risorse private con l’ausilio di agevolazioni da parte dei soggetti pubblici. Autocostruzione pubblica: il progetto è interamente finanziato 6 Zanfi F. (2008), Città latenti. Un progetto per l’Italia abusiva, Bruno Mondadori, Milano, p.36 7 Zanfi, 2008, p. 37 8 Bertoni, Cantini, 2008, p. 76 9 Bertoni, Cantini, 2008, p. 79 222
da risorse pubbliche. Autocostruzione multietnica: “Questo è il caso in cui non c’è omogeneità socioculturale e solo parzialmente linguistica tra i componenti del gruppo cooperativo. Il gruppo è eterogeneo per provenienza e formazione culturale; gli autocostruttori hanno in comune unicamente le difficoltà di accedere al mercato della casa.”10 La progettazione partecipata e l’autocostruzione assistita viaggiano quindi in parallelo, entrambe si basano sulla collaborazione di figure professionali con persone di altre categorie. Le due esperienze possono essere messe in pratica in maniera congiunta realizzando quella che chiameremo costruzione partecipata: si tratta di mettere in atto una collaborazione tra figure professionali – ma anche studenti – che possano aiutare i soggetti fragili a costruirsi un alloggio. L’idea è quella di creare i presupposti per una collaborazione tra nuovi cittadini ed esperti del settore: architetti, ingegneri, tecnici, ma anche, e soprattutto, studenti – solitamente rinchiusi nella “gabbia d’oro” universitaria – che necessitano di “mettere le mani in pasta” e fare esperienza sul campo. Si deve instaurare un rapporto di fiducia, ascolto e collaborazione tra tutte le figure coinvolte, i progetti devono essere disegnati durante un confronto tra tutti gli attori. Si reputa che questa sia la soluzione ottimale per un gruppo eterogeneo di persone accomunate dal desiderio di avere una casa in cui vivere. Le interviste di cui si è parlato nel capitolo Nei centri accoglienza sono state utili per rendersi conto della realtà abitativa da cui provengono i migranti: in che tipo di casa abitavano prima dello sradicamento e con quante persone. Purtroppo, non è stato possibile mettere in atto una vera e propria esperienza di progettazione partecipata, ma si è cercato di simularla tramite i questionari. In questo modo “la povera gente diventa l’architetto dei propri spazi.”11 Nel prossimo paragrafo si andranno a descrivere i progetti per un vivere collettivo da realizzarsi tramite il metodo della costruzione partecipata. 10 Bertoni, Cantini, 2008, p. 80 11 Sennett, 2018, p. 253 223
“Cerco un’architettura che tutti, in modo diverso, possano comprendere e usare, che torni a essere primo riferimento concreto del coesistere umano nello spazio fisico e sociale; un’architettura che non si può ignorare, al punto che ciascuno deve finire con il progettare, che nessuno può fare a meno di progettare.” (De Carlo, 2000)
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Vivere collettivo
Con “luoghi del vivere collettivo” si intendono tutti quegli spazi in cui mettere in atto il diritto alla differenza, città babeliche di condivisione di opacità; “vivere” perché non sono solo i luoghi dell’abitare, ma anche quelli del lavoro, dello stare insieme, della cultura e del tempo libero. Sui due frammenti del Terzo paesaggio che la strategia progettuale individua come “Nuovo intervento”, si sono andate a disegnare due tipologie architettoniche: un centro polifunzionale e gli ambienti per l’abitare, tutti pensati per essere generati tramite costruzione partecipata. La giacitura del nuovo intervento si allinea con le antiche tracce centuriali, ne ribadisce la memoria, riprende l’inclinazione degli edifici residenziali che lo circondano, disegna delle fasce che corrono da un’area all’altra – interrompendosi in corrispondenza di via Tassoni – e che corrispondono a diversi livelli di privacy, abbiamo quindi, la fascia pubblica, quella comune e quella privata. Il centro polifunzionale è il luogo della condivisione, dello stare insieme, del tempo libero e del lavoro, la sua forma riprende il disegno del sistema insediativo caratteristico dell’isolato sopra al treno costituito da un bordo rettangolare con al centro uno spazio a cielo aperto dove si collocano i giardini delle abitazioni che formano il contorno. Il centro è un luogo pubblico, il suo bordo è stato quindi pensato per essere poroso, per permettere il passaggio di persone dall’esterno all’interno e viceversa; per ottenere la massima libertà nello spostarsi da un’area all’altra e per non interrompere la continuità tra le due aree, il bordo che affaccia su via Tassoni è stato eliso, rendendo così il limite tra 227
spazio esterno e corte interna inesistente. Il centro polifunzionale è stato progettato per essere realizzato in autocostruzione parziale: la maglia di pilastri e travi in cemento armato che ne costituiscono lo scheletro, la copertura e i servizi (posti negli angoli) devono essere pensati e costruiti da tecnici specializzati; una volta realizzato questo telaio, al suo interno potranno essere inserite le varie funzioni. Il lato ovest è quello pubblico per eccellenza, li si trova il bar/ ristorante, un ampio ambiente conviviale che unisce lo spazio prospicente con la corte interna. Il braccio nord, corrispondente alla fascia pubblica, è dinamico: al suo interno le funzioni possono variare a seconda delle esigenze, la sua posizione è ottimale per ospitare negozi e attività redditizie varie, le dimensioni degli ambienti possono essere modificate spostando i pannelli prefabbricati che le delimitano. Nel contesto di questa tesi, basandosi anche sulle interviste, si sono disegnate quattro possibili attività: uno spazio per il libro-scambio, un calzolaio dove vengono anche lavorate le pelli, un negozio di ortofrutta e un fioraio. Quella del libro-scambio è un’attività importante per i destinatari di questo progetto: diventa un’occasione di confronto e relazione fra i migranti – che devono imparare una nuova lingua – e la comunità; consiste in una “libreria libera” dove tutti possono portare e prendere i libri. Il fioraio e l’ortolano possono esporre la merce all’esterno, utilizzare il grande prato che li separa dalla strada e intrattenere i propri clienti nella corte. Il centro polifunzionale incarna il polo attrattivo di questa nuova centralità. Il braccio sud è lo spazio più interessante dell’edificio, è il laboratorio: fucina della costruzione partecipata, è l’ambiente nel quale i tecnici e i soggetti fragili collaborano per progettare e realizzare gli elementi di completamento della struttura del centro e delle abitazioni; l’edificazione del laboratorio è quindi propedeutica a quella delle case. Le interviste hanno permesso di intravedere il mondo dal quale provengono i migranti: molti di loro sono abituati a vivere con la loro grande famiglia; ma è stata anche utile per capire in che tipo di casa vorrebbero abitare ora che sono in Italia. Visto che, come abbiamo già detto, i soggetti fragili sono costituiti da diverse categorie, si è pensato che le case debbano essere il più adattabili possibile alle esigenze dei vari attori. 228
Richard Sennett, definisce “gusci” tutte quelle strutture che “creano forme le cui possibilità non si esauriscono in nessuna delle soluzioni concepite all’inizio. Il guscio crea anche la porosità tra gli edifici, poiché strutturalmente ci sono poche barriere prestabilite.”1 La struttura a guscio si è rivelata, quindi ottimale per questo progetto; referenza primaria per questa metodologia progettuale è stata quella dell’architetto cileno Alejandro Aravena a Quinta Monroy, un “progetto di costruzione di forme incomplete. Invece di fornire un’abitazione bell’e pronta, la sua linea conduttrice era quella di progettare per metà una bella casa che i suoi abitanti avrebbero potuto completare con il loro lavoro.”2 Come ha fatto Aravena, si è progettata la tipologia abitativa partendo da un nucleo essenziale che deve essere costruito da soggetti specializzati; i futuri abitanti potranno poi pensare al contorno per questo guscio, in modo da soddisfare il più possibile le proprie esigenze. La versatilità necessaria ad ogni cellula abitativa ha condotto verso la progettazione di case singole inserite all’interno delle “fasce di privacy” che corrono tra le due aree di progetto; sotto questo punto di vista, essenziale è stato studiare il progetto INA Casa a Tuscolano di Adalberto Libera (1950-60). “Il “graduale percorso di avvicinamento alla città” ha lo stesso valore del graduale “percorso di avvicinamento alla casa”: entrambe le forme di lettura sono la diretta espressione dell’interesse nei confronti dei bisogni dell’abitante. Così come la dimensione intima dell’Unità di abitazione, unita alla chiara gerarchia dei suoi spazi interni, restituisce una forma-urbana tutta volta al controllo dei rapporti sociali e di buon vicinato: distinguere la propria casa e la propria contrada, scriveva Libera, è la condizione che permette di aver cura, in collaborazione, della propria unità abitativa.”3 Le fasce private su cui insistono le case si interpongono allo spazio pubblico a ridosso delle strade, e sono separate da un passaggio semi-pubblico che collega il parcheggio riservato agli abitanti con la corte interna del centro polifunzionale, è uno spazio ibrido che crea occasioni di ritrovo per gli abitanti. 1 Sennett, 2018, p. 256 2 Sennett, 2018, p. 254 3 Fassio A. (a cura di), (2004), Adalberto Libera nel dopoguerra, Carlo Delfino Editore, Sassari, p. 243 229
Il progetto mette quindi su carta l’idea di abitare collettivo che Fravega riassume con le seguenti parole: “La casa è il luogo attraverso il quale si colloca un confine, ancorché poroso e mobile, tra la sfera privata e quella pubblica. Ovvero si configura come la risultante dell’incrocio di una pluralità di soglie attraverso le quali si articolano i punti di contatto, le connessioni e le sovrapposizioni tra tre diversi tipi di spazio: lo spazio privato, quello pubblico e quello comune. (Boccagni e Brighenti, 2015) Lo spazio “domestico” può dunque estendersi oltre il perimetro dell’abitazione arrivando ad includere spazi di natura diversa, come spazi liminali “in between”, o “di transizione”, come possono essere giardini pubblici, spazi condominiali o luoghi di ritrovo. (Mandich, 2011; Cancellieri, 2013) E in cui le relazioni con parenti, amici e conoscenti si dispiegano creando condivisione e comunità.”4 Per permettere la massima versatilità di ogni casa, si è pensato ad un progetto che si sviluppa per fasi, ognuna di queste può essere realizzata indipendentemente dagli abitanti che possono usufruire del laboratorio del centro vicino. Durante la fase 0, viene costruito il guscio: la struttura portante (costituita da una griglia di pilastri e travi in cemento armato), la copertura, le scale, i servizi igienici e gli agganci per la rete idrica ed elettrica della cucina; questa cellula base forma il nucleo centrale dell’abitazione. La particella 0 è inoltre costituita da un cortile – che riprende quello che Libera nel suo progetto a Tuscolano chiama “stanza a cielo aperto” – e da uno spazio verde che successivamente, se ve ne sarà l’esigenza, potrà essere edificato. Chi scrive ha previsto che nella fase 1 verrà completato il piano terra inserendovi la cucina e una camera da letto; in questo modo, la casa potrà essere abitata da giovani coppie o anziani soli. Se la giovane coppia dovesse avere un bambino, si passerà alla fase 2: gli abitanti potranno trasformare parte della terrazza del primo piano in una camera da letto semplicemente spostando alcuni infissi ed installando dei pannelli perimetrali. Via via che il numero degli inquilini aumenta, il primo piano potrà essere modificato per inserirvi ulteriori camere da letto e, per ottenere più spazi comuni al piano terra – salotto e sala da 4 Fravega E.,L’abitare migrante. Aspetti teorici e prospettive di ricerca, in “Mondi migranti” 1/2018, pp. 199-223 230
pranzo – i muri perimetrali potranno espandersi sullo spiazzo verde limitrofo alla casa, andando così ad ampliare anche la stanza a cielo aperto. I due riferimenti progettuali citati precedentemente sono stati dei preziosi spunti di riflessione sul tema dell’abitare e della casa. La collaborazione tra architetto e inquilini messa in atto da Aravena concretizza la definizione di abitare che dà Enrico Fravega: “[...] l’abitare ha le stesse proprietà geometriche di un punto, ovvero è il luogo in cui passano infinite rette; rette che ci ricongiungono al passato, alle persone che ci sono vicine e a quelle che abitano lontano, ai posti dai quali veniamo e a quelli dove andremo, ai luoghi dove troviamo pace, lavoro, serenità, così come ingiustizia, oppressione e miseria. Essendo anche il modo in cui diamo forma alle nostre relazioni.”5 L’architetto cileno, dando alla committenza la possibilità di costruire autonomamente parte della casa, le fornisce un’occasione di disegnare tramite la memoria del passato e i desideri del futuro. Il Conjunto habitacional Violeta Parra – progettato dal gruppo Elemental guidato da Aravena – sostituisce l’agglomerato abusivo Quinta Monroy sviluppatasi nella città di Iquique a partire dagli anni ’60. Nel 2001 il governo avvia il programma di Vivienda Social Dinamica Sin Dueda a favore delle classi più disagiate, Elemental riceve l’incarico di progettare il nuovo insediamento per le famiglie che vivono a Quinta Monroy. Il budget a disposizione è di 10.000$ per ogni nucleo familiare (9700$ sono forniti da sovvenzioni fiscali e 300$ provengono dai risparmi di ogni famiglia), la somma totale andrà a coprire le spese per l’acquisto del terreno, delle infrastrutture e il compenso per i progettisti. I 10.000$ si rivelano sufficienti per la costruzione di soli 30 m2, il resto della casa dovrà quindi essere costruita dai futuri inquilini. Il compito degli architetti è quello di progettare ogni alloggio in modo che questo risponda ad una serie di requisiti che gli consentano di acquistare valore con il passare del tempo, diventando così un investimento per il governo e non un costo sociale. Il progetto architettonico si basa essenzialmente su due tipologie di nuclei base: quello degli appartamenti a piano terra e quello dei duplex. Le abitazioni a piano terra sono costituite da un blocco iniziale di 6x6 m2 – si tratta di un openspace 5 Fravega, 2018 231
all’interno del quale sono stati installati bagno e cucina – i blocchi sono distanti 6 m l’uno dall’altro, ogni famiglia ha a disposizione la metà di questo vuoto per ampliare la propria casa. Il blocco iniziale degli appartamenti duplex (posizionati sul blocco del piano terra) è costituito da una “torre” di dimensioni 3x6x5 m3 contenente bagno, cucina e scale, è circondato su 3 lati da pannelli strutturali, il quarto lato è costituito da pannelli in legno facilmente rimovibili nel momento in cui verrà effettuato l’ampliamento. Se da una parte Aravena fornisce uno strumento per disegnare la propria casa, dall’altra, il pensiero che Adalberto Libera mette in pratica nel quartiere Tuscolano concretizza l’idea di abitare mediterraneo e collettivo: l’architetto progetta un luogo che unisce la scala cittadina e quella domestica mettendo così in relazione il luogo e i suoi abitanti.6 Libera rintraccia in questo complesso – costituito da un preciso numero di abitazioni (l’architetto definisce un massimo di 800-1000 abitanti) – la dimensione ottimale per l’instaurazione di un equilibrio che permetta la creazione di una collettività evitando “al complesso l’aspetto deprimente dell’incontrollata ripetizione anonima.”7 Il quartiere Tuscolano progettato da Libera comprende due tipologie di edifici: quello pluripiano e quello dell’unità di abitazione orizzontale, il primo si trova al centro dello spazio verde centrale al quartiere, luogo collettivo, pubblico, le case basse circondano l’area centrale, la loro disposizione genera degli ambienti aperti di dominio privato e comune. Le case sono organizzate a gruppi di 4, grazie alla loro pianta ad elle, Libera ha potuto dotare ognuna di esse di un patio destinato “ad orto e giardino ma, soprattutto, a spazio «per stare all’aperto». Per climi e stagioni adeguate lo spazio all’aperto, intimamente legato all’alloggio, può essere considerato come la prima stanza della casa”.8 Si tratta quindi di una stanza privata a cielo aperto. L’accesso ad ogni abitazione è garantito da uno spazio comune, le “stradine” che l’architetto concepisce come luoghi d’incontro 6 http://www.archidiap.com/opera/unita-di-abitazione-orizzontale/ 7 Unità d’abitazione orizzontale nel quartiere Tuscolano a Roma, in “Casabella” n. 207-1955, p. 30 8 Piano incremento occupazione operaia, case per lavoratori. 2. Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica. Progetti tipo, Danesi, Roma, 1950, p. 42 232
e dello stare insieme, spazi in cui, appunto, si generano relazioni. “Gli spazi esterni, dal patio, alla strada, al cortile, al portico, all’ingresso, sono tutti pensati in funzione della vita che fluisce dalla collettività urbana al nucleo familiare e da questo a quella.”9 Gli abitanti vivono, quindi in tre scenari: quello privato della propria casa e del proprio giardino, quello comune e d’incontro degli spazi di collegamento tra le abitazioni e quello pubblico del grande spazio verde; Libera realizza così le scenografie del vivere collettivo.
9 Unità d’abitazione orizzontale nel quartiere Tuscolano a Roma, in “Casabella” n. 207-1955, p. 30 233
“At Elemental we replaced the reductive logic with a principle of synthesis. We said: if the money can only pay for around forty square meters, instead of thinking of tht size as a small house, why don’t we consider it as half of a good one? [...]We thought the best thing was to do the half that a family was unlikely to do well on its own.” (Aravena, Iacobelli, 2012, p. 17)
235
Conjunto habitacional Violeta Parra, piante tipo, partendo dall’alto: pianta piano terra, pianta piano primo (piano primo del duplex) e pianta piano secondo (secondo piano del duplex). 236
Elemental - Alejandro Aravena, Quinta Monroy, Iquique, Cile, 2004 © CRISTÓBAL PALMA 237
A. Libera, Planimetria definitiva del quartiere costruito, 1955. (Da V. Quilici, Adalberto Libera. L’architettura come ideale, Roma, 1981)
A. Libera, planimetria di un blocco abitativo realizzato 1955. (Da Casabella n.207/1955). 238
Vista del quartiere appena terminato di costruire, 1955. (Da Casabella n.207/1955).
77
Patio e “stradina� con luogo di sosta (Da Domus n. 318/1956). 239
A CASA
241
L’incipit di questa tesi è stato dato dai viaggi dello sradicamento, rotte percorse da persone coraggiose che hanno messo in gioco tutto quello che hanno – che spesso non è molto – per raggiungere un posto che gli offrisse una vita migliore. Purtroppo, il sistema di accoglienza italiano non è una macchina ben funzionante, entrare all’interno della filiera di accoglienza significa essere inseriti in un limbo, uscirne, spesso, rappresenta un pericolo: il migrante si trova senza una casa, un tetto sotto il quale rifugiarsi. La diretta conseguenza di questa falla nel sistema è stata la volontà di trovare un luogo adatto in cui progettare gli ambienti del vivere collettivo, gli spazi della convivenza tra migranti, società e soggetti fragili; dove mettere in gioco le opacità di ogni attore, un’ambiente di condivisione delle differenze. La piana fiorentina è un luogo denso di storia, un territorio disegnato da segni che si sovrappongono, tracce dei palinsesti che furono; la ferrovia scinde Sesto Fiorentino in due parti che si contrappongono sotto molti aspetti. La parte sotto al treno è stata identificata come frontiera, luogo di incontro delle differenze; lavorare sul bordo ha permesso di far diventare il tracciato ferroviario non più una linea di separazione, ma un asse di simmetria delle due parti di città, entrambe disegnate da una costellazione di centralità. Tappa fondamentale del lavoro è stata la serie di incontri effettuati in alcuni centri accoglienza con in migranti, occasioni per iniziare ad intravedere le mille opacità che hanno permesso la delineazione del progetto architettonico: il disegno del vivere collettivo ha tracciato le caratteristiche di due tipologie di ambienti da realizzare in costruzione partecipata. Il centro polifunzionale è stato pensato come luogo di lavoro e condivisione di idee, le case sono il luogo in cui in cui vivere, in cui sapere che andrà tutto bene. 243
TAVOLE
245
SPAZI RESIDUI Legenda Terzo paesaggio Accessibilità
Rapporto con la città
Rapporto con il verde
246
0
2000 1000
247
5000
TRE CITTÀ Legenda Città solida Città di mezzo Città di frontiera
248
0
2000 1000
249
5000
ANALISI DELLE FUNZIONI Legenda Edificio civile/ amministrativo Edificio industriale/ commerciale/capannone Edificio di culto Casello/stazione Centrale elettrica Stalla/fienile/ allevamento Serra stabile Impianto di distribuzione Discarica Aeroporto Boschi di latifoglie Boschi di conifere Boschi misti Aree verdi urbane Oliveti Vigneti Frutteti Seminativi Colture temporanee Prati stabili
250
0
2000 1000
251
5000
ANALISI DELLE FUNZIONI Legenda Edificio civile Edificio industriale Edificio commerciale Edificio commerciale e residenziale Sanitario Forze dell’ordine Distributore carburante Trasporti Sportivo Ristorante Struttura alberghiera Attività ricreative Edificio scolastico Villa Medicea Ufficio amministrativo Edificio di culto Ufficio Edificio abbandonato Baracca
252
0
1000 500
253
2000
PERIODIZZAZIONE SEDIMI EDILIZI Legenda Strade presenti nel 1850 Edifici presenti dal 1850 Edifici presenti dal 1954 Edifici presenti dal 1978 Edifici presenti dal 1988 Edifici presenti dal 1996 Edifici presenti dal 2002 Edifici presenti dal 2012
254
0
2000 1000
255
5000
PALINSESTI Legenda Sedimi presenti dal 1954 Sedimi presenti dal 1978 Sedimi presenti dal 1996 Sedimi presenti dal 2013 Spazi vuoti nel 1954 Spazi vuoti nel 1978 Spazi vuoti nel 1996 Spazi vuoti nel 2013 Archi viari Archi ferroviari Fiumi
256
0
500 250
257
1000
CENTRALITÀ Stato attuale Legenda Centralità attuali Area di frontiera
01
Giardino urbano Prato Uso agricolo Aree boschive Oliveto Tracce sistema pedomontano Tracce centuriazione 01 Fabbrica Ginori 02 Piazza Ghiberti 03 Stazione Ferroviaria 04 Piazza San Francesco 05 Il Tondo 06 Piazza del Comune 07 L’Oliveta 08 Biblioteca comunale 09 Villa Gerini 10 Parco L’anello 11 Giardini Scatola Nera 12 Ragnaia 13 Parco degli Etruschi 14 Villa Solaria 15 Parco di Quinto
258
02 08 04 09
07
05
10
03 06
13
11
14
12
15
0
500 250
259
1000
CENTRALITÀ Progetto Legenda
16
Centralità di progetto Centralità attuali
17
Polo attrattivo Giardino urbano Polo attrattivo Prato
18
16 Giardino via Berlinguer 17 Parco campo da baseball 18 Parco viale Togliatti 19 Centro polifunzionale
19
20 Giardini San Lorenzo 21 Giardini Zambra 22 Parco Ipercoop 23 Parco Via Pasolini
260
20
21
22
23 0
500 250
261
1000
VUOTI URBANI Legenda Terzo paesaggio Uso agricolo Prato Giardino urbano Vuoto generatore di ordine urbano e territoriale
262
0
200 100
263
500
PROGETTO URBANO Legenda Vegetazione spontanea Uso agricolo Prato Giardino urbano
Strategia progettuale
Nessun intervento Terzo paesaggio Rigenerazione funzionale Giardino urbano Nuova edificazione
264
0
200 100
265
500
VIVERE COLLETTIVO
266
0
100 200
20
267
VIVERE COLLETTIVO
268
269
CENTRO POLIFUNZIONALE
270
271
CENTRO POLIFUNZIONALE
272
CENTRO POLIFUNZIONALE
0
5
2,5
273
25
10
LABORATORIO DI AUTOCOSTRUZIONE
274
275
ABITARE COLLETTIVO
276
277
ABITARE COLLETTIVO
278
279
280
281
282
283
284
285
286
287
288
289
290
291
292
293
294
295
296
297
298
299
“Può darsi che ci rivedremo tra cent’anni in questo stesso posto. Me lo auguro. Ve lo auguro.” (Camilleri, 2019)
301
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RINGRAZIAMENTI
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Eccoci alla parte più difficile da scrivere, sono tante le persone che voglio ringraziare e tanti i pensieri che vorrei riportare in poche parole. Questo lavoro mi ha dato l’opportunità di conoscere persone che sono straordinariamente e semplicemente questo: persone. Grazie, ragazzi, per la vostra disponibilità, per avermi raccontato di una piccola parte del vostro passato e per avermi mostrato i vostri desideri per il futuro. Grazie al professor Iacopo Zetti, alla professoressa Maddalena Rossi e all’architetto Andrea Helou, che mi hanno accompagnata lungo questo percorso, con i quali ho condiviso idee e pensieri e che mi hanno aiutata a plasmarli, elaborarli e a trasformarli in un qualcosa che nella mia mente – e penso anche nella loro – è diventato sempre più concreto e reale. Grazie, grazie, grazie. Grazie ai miei genitori, grazie per avermi sempre sostenuta e per avermi costantemente incoraggiata ad impegnarmi sempre di più. Grazie per tutti i sacrifici che avete fatto per permettermi di arrivare fino a questo traguardo. Vi ringrazio per tantissime cose, ma soprattutto vi ringrazio per tutte le volte in cui siete rimasti svegli fino a tardi per aiutarmi a finire i plastici degli esami, l’architettura non fa dormire neanche i genitori. Un enorme grazie va alle persone con le quali sono cresciuta: i miei nonni. È soprattutto grazie a loro se ho scelto questo tema per la mia tesi, i loro racconti mi hanno insegnato cosa è giusto 310
e cosa è sbagliato. Grazie per i pomeriggi nel parco con nonna Marisa, grazie per le mattinate nel campo con nonno Beppe, e grazie di tutto a nonna Luciana e ai suoi fratelli. Amici, grazie anche a voi. Grazie a chi mi sopporta e supporta da una vita, da qualche anno o anche solo da poco. Grazie agli amici vicini anche se lontani. Grazie per tutto quello che abbiamo condiviso insieme, che sia un pacchetto di gommine, un dolce, un esame, un film o un viaggio. Grazie Piade per essere stati la certezza di questi anni, la parte più bella dell’università. Grazie a tutti perché mi fate stare bene. Vi amo 3000.
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